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Text from www.gutenberg.org • Speech-enabled by Readspeaker proReader • Photocredit: Wikipedia

Our library of Italian classics can become a very useful reading exercise for you as we provide the Babylon Translator Box on the left. Just enter the Italian word into the first box and - hey presto - the English translation pops up to reveal the meaning of the word you didn't know. However, as you proceed in your reading you will find it awkward to go back each time to the Babylon box, so here's a smart solution: open two instances of the page you are reading in your browser using the first page to read the Italian classic and the second one to have the Babylon dictionary always readily available!

EDMONDO DE AMICIS
Ricordi di Londra (1874)

EDMONDO DE AMICIS
Ricordi di Londra

Questi Ricordi di Edmondo De Amicis furono pubblicati nella Nuova Illustrazione Universale che incominciò quest'anno a Milano le sue pubblicazioni. Piacquero tanto per l'esattezza e freschezza delle descrizioni per le impressioni rese con quel calore e colore che l'autore della Vita Militare dà a tutti i suoi scritti che da ogni parte ci veniva la domanda di farne un volume a parte. Questo desiderio era pure il nostro; ma ci fu da vincere la modestia dell'autore il quale finì col cedere alle nostre istanze al patto espresso che si avvertisse il lettore come coteste pagine fossero destinate a giornale e scritte per giornale e non vogliono perciò essere giudicate come libro. Ecco dato l'avviso: ma siamo certi che al lettore parrà che anche questa volta al De Amicis è venuto fatto senza volerlo un bellissimo libro. Non è dal numero delle pagine che si apprezza il valor letterario.

 

GLI EDITORI.


Pioveva il mare era agitato il bastimento ballava come una barchetta; a una mezz'ora appena da Dieppe provai per la prima volta in vita mia i sintomi del mal di mare. C'erano a bordo molte signore la maggior parte inglesi che sgranocchiavano allegramente cacio e prosciutto senza neppur mostrare d'accorgersi di quel tremendo ballottìo che sconvolgeva le viscere a me e ad altri qualcuno dei quali s'era già lasciato sfuggire dalla bocca più che dei lamenti. Ebbene è proprio vero che il mal di mare rende l'uomo superiore a tutte le vanità umane. Se una mezz'ora prima m'avessero detto:—Guarda; qui c'è tanto denaro da stare a Londra un mese invece di quindici giorni come ci starai tu; e poi da fare un giro in Scozia e poi una scappata in Irlanda; questo denaro è tuo se tu pigli davanti a questo signore un atteggiamento che ti renda ridicolo;—confesso la mia vanità l'avrei rifiutato. Una mezz'ora dopo invece stavo con un infinito disprezzo di me medesimo sopra due sacchi sucidi un piede a oriente ed uno a occidente il cappello cilindrico schiacciato sur un orecchio un calzone tirato su che metteva in bella mostra un palmo di mutanda incatramata e la testa dondolante con un abbandono così svenevole che avrei potuto servir di modello per una brutta statua del Languore. Ah è un gran male malsano il mal di mare bisogna dir col Fucini. Per maggior tormento avevo accanto un francese buffone partito con me da Parigi che mi dava la baia ripetendo ad ogni mio gemito:—Mais vous n'êtes pas malade mon cher monsieur: vous languissez d'amour pour cette charmante demoiselle que voilà —e indicava una signora che io non avevo la forza di guardare; e la gente intorno rideva. Donne! Amore! Se la più bella creatura di questa terra m'avesse detto in quel momento come la duchessa Giosiana al saltimbanco Gymplaine:—T'amo t'accetto vieni —non mi sarei voltato per veder com'era fatta. Quello stesso pensiero:—Questa sera vedrò Londra —che la mattina mi eccitava tanto allora mi dava un senso di noia insopportabile.—E dire che son venuto qui —pensavo in quel vaneggiamento —per mia elezione per divertirmi! Ah insensato! E pensare che dovrò per forza ripassare il mare! Ah è impossibile non me la sento più ci lascerei la vita.... Resterò in Inghilterra.... cercherò un mezzo di vivere a Londra... farò il commesso di bottega.... il maestro d'italiano... purchè io non vegga più mare! Morire quando giunga la mia ora sta bene; ma mai più questo supplizio!

Poche ore dopo desinavo nella stazione della strada ferrata di Brighton e avevo rinunziato al proposito di morire in Inghilterra.

Quando partii per Londra cominciava a farsi notte mi rincantucciai nel vagone e mi misi ad assaporare quel grande pensiero che di là a poche ore sarei stato a Londra.—Londra!—Mi ripetevo questo nome me lo facevo sonare nella mente con compiacenza come si fa sonare sul tavolo una moneta d'oro.—Londra!—Provavo non so che gusto a dire a me stesso come se non l'avessi saputo prima che era una città spropositata un mare magno una babilonia un caos una cosa favolosa.—È la più grande città della terra! pensavo —e in questo v'è qualcosa di assoluto che in nessun'altra città si ritrova perchè se ve n'ha delle altre più belle di quale si può dire:—È la più bella?—È un piacere nuovo quello di veder qualche cosa che in un certo senso occupi incontrastabilmente il supremo grado nel mondo; qualche cosa di là da cui non si può spingere il pensiero senza entrar nel regno dei sogni; qualche cosa dinanzi a cui potete dire:—Nessun uomo ha visto mai nulla di più grande!—E poi mi rallegravo pensando che andavo a Londra solo senza conoscerci nessuno senza lettere di raccomandazione come ci si deve andare per potersi sentir smarriti in quell'oceano per provarci quel sentimento quasi di paura che infondono i grandi spazi ignoti per essere schiacciati per ricevere in una parola l'impressione schietta ed intera che quella città immensa deve produrre nell'animo d'uno straniero. E quanto a questo avevo anco il vantaggio di non sapere una saetta d'inglese di esser corto a quattrini di non avere che una valigetta che spirava miseria e infine tutto quello che ci vuole per sentirsi piccino e meschino in una grande città sconosciuta. Pensando a tutto questo mi davo una fregatina alle mani e dicevo:—Londra son pronto!

Era notte fitta quando entrai nella città. V'entrai senza accorgermene e mi meravigliai quando mi fu fatto cenno di scendere. Scendo mi trovo sotto l'immensa tettoia della stazione di Londonbridge in mezzo a un visibilio di carrozze e di lumi. Salgo nella carrozza più vicina e porgo al carrozziere un pezzetto di carta con su scritto il nome e la strada dell'albergo che m'avevan consigliato a Parigi. Il carrozziere legge fa segno che ha capito e non si muove. Gli accenno che salga a cassetta e parta; ed egli duro. Mi metto a inveirgli contro in francese; non capisce una maledetta e appoggiandosi pacatamente allo sportello comincia a filarmi una lunga chiaccherata in inglese.—Ora sto fresco!—dico io —o come fare?—Incrocio le braccia e lo guardo; egli incrocia le braccia e mi guarda; e stiamo così guardandoci qualche momento. Infine perdo la pazienza salto giù gli urlo all'orecchio:—Mulo!—e me ne vado da me. Capii dopo che non m'aveva voluto condurre all'albergo perchè era troppo lontano. Me ne vado da me! ma come? ma dove? Confesso che in quel momento mi sentii scoraggiato. Quella immensità della stazione di cui non trovavo l'uscita il non sapere dove sarei andato a battere del capo quel primo incontro sfortunato che mi pareva un cattivo augurio il peso della valigia che m'impediva il passo l'umidità che mi sentivo addosso la notte la confusione mi diedero un sentimento improvviso di tristezza e di sgomento. Dopo aver errato un po' a casaccio infilai una porta e mi trovai fuori. Mi parve d'essere caduto nel caos. Uno strepito di carrozze che non vedevo un fischiar di treni di strada ferrata che non capivo dove passassero una confusione di lumi sopra e sotto da tutte le parti e a tutte le altezze una nebbia che non mi lasciava raccapezzare nè forme nè distanze e un va e vieni di gente che pareva che fuggissero: tale fu il primo spettacolo che mi si offerse. Ciondolando zoppicando percorsi un tratto di strada come uno stupido colla testa non so dove; poi non potendo più reggere la valigia la posi in terra e mi fermai. Fortuna volle che alzando gli occhi vedessi un fanale colorito con su scritto: On parle français.—Era un albergo tirai un gran respiro ripresi il mio fardello ed entrai timidamente coll'aria del villan quando s'inurba. Una signora di cattivo umore ch'era la padrona udite le mie prime parole chiamò il cameriere al quale domandai se c'era una camera. Il cameriere facendo ad ogni parola francese una contrazione che pareva uno sforzo di vomito e guardandomi da capo a piedi con quell'aria tra di protezione e di diffidenza che è propria della sua schiatta mi rispose che la camera c'era; ma.... Ma—soggiunse—la facciamo pagare cinque shilling —e mi guardò un'altra volta da capo a piedi con aria sospettosa. Veramente il mio vestiario era tale da scusare quella diffidenza. Nondimeno mi sentii invaso d'uno sdegno da milionario gettai sulla tavola una lira sterlina e facendo un gesto che in quel punto mi parve degno d'un verso di Dante dissi:—Pagatevi e andiamo!—M'accompagnarono nella camera. Mi buttai subito in letto; ma per molto tempo non riuscii a chiuder occhio tale era il rumore che mi giungeva all'orecchio. Era un rumore sordo e monotono come se flottasse il mare ai piedi della casa; e in mezzo a questo brontolìo uno scoppiar di clamori acuti che pareva giungessero da grandissime lontananze e mi facevano pensare a mille cose strane come se fossero suoni di parole sfuggite alla immensa città che s'addormentava lamenti dei suoi sobborghi sterminati imprecazioni di quella formidabile City affranta dalla fatica accenti di accusa e di giustificazione come si odono nel gran muggito del mare in tempesta. A poco a poco i rumori più alti cessarono non udii più che il brontolìo monotono; poi di tratto in tratto riudii i rumori di prima —una città come Londra stenta a prendere sonno;—poi cessarono daccapo; finalmente m'addormentai e feci i più stravaganti sogni del mondo.

La mattina assai prima del levar del sole uscii e mi diressi verso il Tamigi. Ero a pochi passi dal ponte-di-Londra nel cuore della City. Si vedeva pochissima gente regnava un gran silenzio il cielo era grigio faceva freddo una nebbia leggera velava tutte le cose senza nasconderle. Andai verso il ponte a passi rapidi sapendo che di là si godeva il più gran colpo d'occhio di Londra.

Arrivato in mezzo al ponte guardai intorno provai un istantaneo senso di freddo dal capo alle piante e rimasi immobile.

Subito dopo mi balenò dinanzi l'immagine di Parigi vista dal Ponte Nuovo e mi parve straordinariamente piccina.

Poi mi appoggiai alle spallette e dissi coll'accento di chi vuol mettere un po' d'ordine nella sua testa:—Vediamo.

Sotto il Tamigi larghissimo; da un lato bastimenti a perdita d'occhio dall'altro una successione di ponti giganteschi; lungo le due rive vicino al ponte case robuste e nere come vecchie fortezze affollate disordinatamente e pendenti a filo sull'acqua. Un po' più oltre grandi moli di edifizi d'aspetto sinistro smisurate tettoie a vôlta di stazioni di strada ferrata lunghe linee diritte come d'enormi bastioni; e di là da questi una confusione di contorni spezzati e di forme vaghe via via digradanti in leggere sfumature cineree fino a non presentar più che un grandioso disordine di profili nebbiosi di comignoli di camini di torri di cupole di campanili; e più oltre ancora prospettive misteriose quasi di altre città lontane che s'indovinano più che non si vedano da una linea dentellata leggerissima che si disegna sull'orizzonte grigio. Su tutti gli edifizi vicini poi sui ponti sulle rive un color cupo d'officina un'aria di città logora un aspetto di forza e di fatica un non so che di viscoso e di lugubre come d'una città desolata da un incendio;—uno spettacolo immenso e triste.

Che strani giochi ci fa il cervello! Dinanzi a questi spettacoli che ci dovrebbero almeno per la prima volta assorbire tutti interi noi scappiamo col pensiero tutt'a un tratto mille miglia lontano dietro alla più futile minuzia che non ha nessunissima relazione con quello che vediamo e a cui sdegneremmo di pensare nella nostra vita ordinaria. Io vedevo Londra per la prima volta e pensavo a un volume dalle opere del Voltaire che avevo imprestato e non riavuto prima di partire da Torino.

Poi scordai il libro e mi vennero a galla nella testa come sempre succede in una città sconosciuta mille immagini disparate di persone e di cose che per l'addietro solevo rappresentarmi in quella città come sopra un fondo di quadro: certi negozianti panciuti dei romanzi del Dickens la regina Elisabetta una famiglia inglese vista un giorno davanti alle porte del Ghiberti a Firenze un gesto che fece una volta mio padre dicendo:—Quanto darei per veder Londra!—e il ritratto dell'attore Garrik che avevo visto in un giornale illustrato.

Poi daccapo una distrazione inesplicabile come quella di accorgermi che avevo la barba lunga e di dimandarmi dove avrei fatto colazione.

Poi un senso vivissimo di stupore di trovarmi là come se ci fossi piovuto dal cielo; e dopo un minuto tutt'a un tratto una glaciale indifferenza come se ci fossi sempre stato; e poi daccapo la meraviglia fresca del primo momento. Proprio vero come dice Sant'Agostino che quasi non mette conto di viaggiare tanto è più meraviglioso quello che segue nella nostra testa di tutto quello che si può vedere di fuori!

Passai il ponte giunsi sulla piazzetta che si apre sulla riva sinistra mi affacciai ad una delle strade che conducono verso la cattedrale di San Paolo:—erano deserte; voltai a destra e mi trovai dopo due o tre giravolte nel mercato dei pesci in una strada stretta umida nera piena di carri e di gente da poterci appena passare; andai oltre in mezzo a un così acuto odore di aringa che in capo a pochi minuti avrei potuto far colezione fregandomi il pane sui panni; giunsi alla Torre famosa la Bastiglia di Londra; le girai intorno guardando con sospetto le sue mura sinistre: ed entrai frettolosamente nella città dei docks col proposito di farvi un largo giro per non averci più da tornare. Strade lunghe tortuose fiancheggiate da muri altissimi di color fosco senza porte e senza finestre come mura di prigioni; gruppi di centinaia di operai immobili alle cantonate; altri gruppi che sparivano in silenzio nei vicoli oscuri: per una mezz'ora non vidi altro. Andavo innanzi per quelle strade monotone come per i meandri d'una fortezza antica annoiato e melanconico senza sapere dove sarei riuscito. A un certo punto dopo un lungo girare mi accorsi che tornavo indietro; e dovetti far nuovi e lunghi giri per mettermi sulla buona strada. M'ero lasciato addietro il dock di Santa Caterina mi pareva d'esser vicino all'estremità del dock di Londra e m'ero proposto di andare fino al dock delle Indie. Avevo infilato una strada di cui non vedovo la fine chiusa a destra dalle mura dei docks a sinistra da piccole case in mezzo alle quali si allungavano altre strade strette e lunghissime fiancheggiate da torri di officine da muri di magazzini da mucchi di casaccie affumicate; e via via che andavo innanzi non che mi paresse d'allontanarmi da Londra mi pareva d'avvicinarmi al centro. Ma pieno di fiducia nelle mie gambe e incoraggito dall'esperienza di Parigi dove con grande meraviglia dei miei amici avevo sempre fatto di meno della carrozza continuavo a camminare senza paura. Giunse però un momento che mi parve non sarebbe stato inutile sapere dov'ero. Passando accanto a un gruppo d'operai ne udii uno che parlava francese; mi fermai e gli domandai se quello lì accanto era il dock delle Indie.

Per tutta risposta mi ripetè la domanda.—Quello lì il dock delle Indie?—e mi guardò coll'aria di dirmi ch'ero matto.

—Ma è o non è?

—Ma caro signor mio —mi rispose ridendo —si vede che lei non ha un'idea di cos'è la città di Londra. Questo è il London-dock.

—Ancora il London-dock! Ma se è mezz'ora che son passato dinanzi alla porta!

—E con questo? Non sa lei che il solo scompartimento dei tabacchi del London-dock è lungo un miglio inglese?

—Ma allora quanto c'è per arrivare al dock delle Indie?

—Ci vuole andare in battello o per strada ferrata?

—Ci voglio andare a piedi.

Mi guardò i piedi.

—Io non so....—rispose—ma m'immagino che siano quattro o cinque miglia.

—E che c'è per queste quattro o cinque miglia?

—Ci son case docks magazzeni officine opifici.

—Senza interruzione?

—Senza interruzione.

—E dal dock delle Indie dove si va?

—Dal dock delle Indie si va all'Outer dock.

—E quanto c'è di strada per arrivare all'Outer dock?

—Ci sono presso a poco altre cinque miglia.

—Sempre in mezzo alle case e agli opifici?

—Sempre fra case e opifici.

—Dall'Outer dock dove si va?

—Dall'Outer dock si va fino in faccia a Greenwich.

—E c'è?

—Due o tre miglia.

—Sempre nell'abitato?

—Sempre nell'abitato.

—E da Greenwich dove si va?

—Da Greenwich si va all'East India Import dock.

—Ed è distante da Greenwich?

—Circa otto miglia.

—Sempre fra case e opifici?

—Sempre fra case e opifici.

—E poi?

—E poi si continua.

—E dove finisce?

—Chi lo sa!

Questa volta mi guardai i piedi anch'io. Presi commiato dall'operaio e mogio mogio ritornai sui miei passi dicendo tra me: Oh povero illuso! E tu colle tue gambe credevi di venir a Londra a far delle bravate!

Riattraversai il mercato dei pesci ripassai davanti il ponte di Londra e m'avviai verso il centro della città.

Quando arrivai in Fleet-street il grande movimento era già cominciato.

Allora vidi Londra.

 

II.

Sui due marciapiedi della strada la gente era fitta come all'uscita d'un teatro e non si vedevan crocchi nè brigatelle nè alcuno che gridasse e gesticolasse; andavan tutti in fretta e in silenzio ciascuno approfittando d'ogni piccolo spiraglio che si facesse nella calca per cacciarsi innanzi a chi lo precedeva; e urtandosi gli uni e gli altri senza voltarsi. Nel mezzo della strada passava una fila lunghissima di grandi omnibus variopinti come carri da carnevale con una specie di gradinata di sedili sul davanti che si allarga di sotto in su e porta così in aria la gente in forma di ventaglio i più bassi quasi a terra i più alti che arrivan col capo al primo piano delle case e sporgono fuori come se fossero sospesi. Fra l'uno e l'altro omnibus e dalle due parti una confusione indescrivibile di carri di carrozze di cabs di barrocci di calessi di carrette di carrozzoni coperti d'annunzi di trabicoli d'ogni forma a tre a cinque fino a otto di fronte i cavalli degli uni col muso contro la parte posteriore degli altri i mozzi delle ruote che si toccano; e un continuo scansarsi a furia di serpeggiamenti e un formarsi e disfarsi a stento di gruppi intricati di decine di veicoli da far temere ad ogni momento che scricchiolino e si spezzino tutti insieme come una sola gran macchina scomposta da un urto violento. Tra carro e carro lungo i marciapiedi facchini carichi ragazzi con carrettine a mano lunghe file di uomini con cartelloni d'annunzi appesi al collo affaccendati a salvarsi la vita. A ogni cantonata quel torrente immenso d'uomini e di cose trabocca in larghi canali riceve affluenti si spande e ristagna in piazze e cortili filtra nei vicoli e nei chiassuoli in torti rigagnoli che si perdono fra le case. Mentre vado innanzi così trascinato dalla corrente sento un fischio acuto sopra il mio capo; alzo gli occhi e vedo passare un treno di strada ferrata sovra un alto ponte che accavalcia la strada. Quel treno è appena passato odo un altro fischio da un'altra parte; e vedo trasvolare un altro treno sopra i comignoli delle case laterali. Nello stesso momento dalla parte opposta esce un nuvolo di fumo da una larga apertura della terra: è un terzo treno della strada ferrata sotterranea che passando un istante all'aperto fischia un saluto alla luce. Arrivo all'imboccatura di una larga strada: vedo in lontananza il Tamigi i ponti; su quei ponti altri treni che si seguono e s'incontrano; sotto gli archi battelli a vapore che passano inchinando i tubi come grandi alberi curvati dal vento lunghe file di barconi rimorchiati da piroscafi; sciami di zattere e di barchette; e lungo le spallette dei ponti processioni di gente che spariscono sulla riva opposta. Andando innanzi altre strade di cui non si vede la fine fiancheggiate da edifizii enormi corse da altri torrenti di gente. E da per tutto un fracasso di ponti di ferro tremanti sotto il peso di lunghissimi treni fischi sbuffi di fumi soffi affannosi sopra il mio capo sotto i miei piedi vicino e lontano per terra per aria e per acqua; una gara una furia di cose che partono e di cose che arrivano una continuità di fughe d'incontri e d'inseguimenti accompagnati da uno strepito di schiocchi di cigolii di scalpitii di rimbombi; lo sparpagliamento di una grande battaglia e l'ordine d'una smisurata officina; e poi l'oscurità del cielo la tetraggine degli edifizi il silenzio della folla la gravità dei volti che dà allo spettacolo non so che aspetto misterioso e doloroso come se quell'immenso moto fosse una necessità fatale e quell'immenso lavoro una dannazione. Stanco e sbalordito mi cacciai in una birreria e tirando un gran respiro:—Ma che mondo è questo?—mi dimandai;—ma come si può vivere in questa maniera?

Poco dopo mi rimisi in cammino e arrivai sulla piazza di Trafalgar ch'è nel centro del quartiere più frequentato dai forestieri. Mi piacque l'altissima colonna che sostien ritta nella nebbia la statua del bravo Nelson e ammirai i quattro enormi leoni che le fanno corona; ma lo square forse perchè lo paragonai alla piazza della Concordia di Parigi mi riuscì al disotto di quello che m'aspettavo. Là è il punto d'incontro di tutti gli omnibus di Londra occidentale e ognuno può immaginare che trambusto. Basti dire che mi venne da ridere pensando a ciò che nel corso a Roma in via Toledo a Napoli e in certe strade di Genova noi chiamiamo un gran movimento e che appetto a quello non è che il tranquillo via vai di un villaggio in un giorno di festa. Infilai la gran strada di Whitehall o andai a riuscire sulla piazza del palazzo del Parlamento e di qui mi diressi sul ponte di Westminster.

Il colpo d'occhio che si gode di là è il più bello di Londra e rivende tutte le vedute dei ponti della Senna. Da una parte si vede il grande e delicato palazzo gotico del Parlamento incoronato d'innumerevoli torricine e decorato di mille statue di regine e di re di là dal quale s'alzano le torri della gloriosa Abbazia di Westminster il Panteon dell'Inghilterra; sull'altra sponda gli otto graziosi edifizi dell'Ospedale di San Giacomo dipinti di vivi colori; a monte del fiume un orizzonte aperto ed allegro. In quel punto par di essere in un'altra Londra; v'è non so quale maestà serena di città meridionale. Il Tamigi percorso da pochi piroscafi e da poche barche passa in silenzio dinanzi al monumento che rappresenta la gloria e la potenza dell'Inghilterra come un esercito infinito che sfili dinanzi al suo principe; e da quell'ampiezza chiara e queta si vede in fondo lontano come traverso a un velo gli edifizi neri e confusi i ponti che formicolano di gente e il fumo denso della vecchia Londra che s'agita e lavora.

Osservai per la prima volta stando su quel ponte che a Londra quando c'è un po' di mota per le strade moltissimi anche signori si rimboccano i calzoni come i contadini; e che altri moltissimi portano dei vistosi mazzetti di fiori all'occhiello. E confesso che non potevo trattenermi dal ridere vedendo come vidi spesso un viso straordinariamente grave il mazzetto e la rimboccatura sur una sola persona.

Ritornato sulla sinistra del Tamigi girai per le strade principali colla mia brava pianta in mano senza aver bisogno di chieder nulla a nessuno.

L'aspetto generale delle strade di Londra non si può propriamente dire quale sia. Nessuna città presenta una così disordinata varietà di forme una così capricciosa mescolanza di bello di brutto di magnifico di povero di triste di strano di grande di uggioso. Vi pare come una città nel suo complesso nuova per voi ma composta di tante altre città già vedute alle quali abbian dato una tinta comune per nasconderne l'origine diversa. Le architetture di tutti i paesi e di tutti i tempi vi sono raccolte sovrapposte intrecciate. In una stessa strada si alternano l'araba la bizantina la gotica e la greco-romana e i varii ordini inglesi; uno stesso edifizio ha finestre ad arco acuto e peristilio greco colonnette moresche e cariatidi del rinascimento tetto d'un pagode indiano e mura di un tempio egizio. Ad ogni cantonata si vede qualcosa che trasporta la immaginazione a mille miglia lontano dal luogo dove uno si trova. In un punto è una reminiscenza confusa di Venezia altrove è un'aria vaga di Roma qui balena alla mente Siviglia là vien pensato a Colonia un po' più oltre sembra d'essere in una strada di Parigi. Tutte quelle forme che si son viste altrove così annerite come si ritrovan là dal fumo e dalla nebbia paiono divenute più austere paiono come intristite del trovarsi lontano dal loro paese nativo uggite da quell'atmosfera densa da quello strepito dallo spettacolo di quella vita faticosa. Di più quella profusione eccessiva di colonne di frontoni di torricine di ricaschi di rilievi d'ornamenti di forme monumentali riesce ostentata e stanca. Tutta quell'arte ha l'aria d'una cosa importata e che stia là a disagio. È un ricolmo uno spreco di ricchezza e di lusso uno sforzo di parere. Si vede la città opulenta che s'è comprata la bellezza a peso d'oro; si sente un po' la mercantessa rifatta e rinfronzolita.

A queste strade fiancheggiate da palazzi principeschi fanno contrasto altre strade lunghissime fiancheggiate da innumerevoli case tutte d'un colore tutte d'un'altezza tutte d'una forma col tetto nascosto dietro i muri in modo che paiono scoperchiate senza terrazzini senza persiane nude come muraglie di bastioni; in alcune strade nere come la gola del camino colle porte e le finestre contornate di righinette bianche che dan loro l'aspetto di enormi catafalchi; in altre parti d'un rosso cupo d'un giallastro viscoso da parer case fatte di fango e di filiggine; e si va innanzi fra questi colori e queste mura per miglia e miglia senza incontrar un sol edifizio che rompa quella uniformità malinconica una sola casa che rammenti la città ricca e magnifica.

Ma per contro la ricchezza e la magnificenza dei quartieri signorili sbalordiscono. A ogni passo vi trovate dinanzi a un palazzo immenso straricco di bassorilievi e di ornati e pensate che sia un palazzo reale; è invece una stazione della strada ferrata un albergo una casa di commercio. Strade intere sono fiancheggiate dalle due parti da questi splendidi colossi ciascuno dei quali visto dall'estremità opposta di quello accanto sembra già molto lontano e mostra vagamente la sua nera mole a traverso la nebbia come una enorme rupe tagliata a picco. Il grandioso che in altre città è sparpagliato e bisogna cercarlo là vi circonda; e quello che in altre città vi par tale portato là coll'immaginazione si perde nell'immenso. Attraversate dei quartieri monumentali passate da una città di palazzi silenziosa come se fosse disabitata in una città di officine nella quale udite mille rumori senza vedere nessuno; e da questa in un vasto sobborgo dove formicola un popolo immenso e non si ode quasi strepito; e uscendo da questo sobborgo rientrate in una città di palazzi. Non errate per una città viaggiate per un paese.

Chi può dire le mille impressioni sfuggevoli che si provano girando soli per una città come Londra? La meraviglia si fa sentire come a scatti; ma tra scatto e scatto per lo più non si prova che noia e stanchezza. Dieci volte all'ora uno si domanda:—Ma forse che mi diverto io? E non è altro che questo il piacere che si prova viaggiando?—A volte vi assale un timore improvviso di cader malati nel mezzo della strada d'esser toccati chi sa da chi portati chi sa dove. In certi punti si trovano analogie misteriose di luoghi di circostanze di persone da parervi d'esser stato un'altra volta in quel punto stesso a quell'ora medesima con quella stessa luce di sole e quel medesimo odore dell'aria in un tempo remoto. A momenti vi piglia un'allegria senza cagione un amore subitaneo del paese dove siete che vi fa guardar tutti quei che passano con un occhio benevolo come se fossero tutti amici. In altri momenti un'occhiata sospettosa una risposta sgarbata d'uno sconosciuto vi cangia l'animo vi fa veder tutto nero vi rende il paese odioso. Il suono lamentevole di un organetto in certe strade cupe e popolose vi fa pensare confusamente agl'infiniti misteri di miserie e di delitti che si nascondono in quegli immensi formicai umani; e vi fa desiderare ardentemente di esser fuori di là all'aria aperta in una villa solitaria che avrete visto di sfuggita dieci anni prima dal finestrino d'una diligenza.

A una cert'ora trovandomi vicino a una stazione volli fare una corsa per la strada ferrata sotterranea. Scendo due o tre scale e mi trovo tutt'a un tratto sbalzato dal giorno alla notte: lumi gente strepito treni che giungono e che spariscono nel buio. Giunge il mio si ferma gente si precipita giù gente salta nei vagoni; mentre domando dove sono le seconde classi il treno è partito.—Ma che maniera è questa?—dico a un'impiegato.—Non si confonda —mi risponde —eccone un altro. Là i treni non si succedono s'inseguono. L'altro treno giunge salgo e via come una saetta. Allora comincia uno spettacolo nuovo. Si corre fra le fondamenta della città nell'ignoto. Prima ci si sprofonda nel buio fitto poi si vede per un momento la luce fioca del giorno poi daccapo nell'oscurità rotta qua e là da bagliori strani; poi in mezzo ai mille lumi d'una stazione che appare e scompare in un punto; treni che passano e non si vedono; una fermata improvvisa le mille faccie d'una folla che aspetta illuminate come dal riflesso d'un incendio; e poi via daccapo in mezzo a un rumore assordante di sportelli sbattuti di campanelli di soffi di macchine; altre oscurità altri treni altri barlumi di giorno altre stazioni illuminate altre folle che passano che giungono che si allontanano fin che s'arriva all'ultima stazione; mi precipito il treno dispare sono spinto in una porta son mezzo portato su per una scala mi ritrovo alla luce del giorno... Ma dove? Che città è questa? come uscirò di qui? Adagino; andiamo un po' in una birreria a studiare la pianta.

Dopo un profondo studio riuscii a trovar la via d'andare al British Museum di tutti i musei di Londra quello che mi stimolava di più la curiosità. Attraversai in fretta le immense sale della scultura le sale egiziane le sale assire e mi arrestai nella sala dei manoscritti a considerare il contratto di pigione di Shakspeare e il contratto di vendita del Paradiso perduto e gli altri innumerevoli autografi dei più grandi artisti e dei più gran monarchi del mondo. Ma di tutti questi autografi due soli mi colpirono profondamente e non ne potei staccar gli occhi per un pezzo. Son due piccoli fogli sull'uno dei quali è scritta una somma e sull'altro tracciati alcuni circoletti parte disposti in linea retta nel mezzo parte ammucchiati in un angolo; e così la somma come i circoli paiono fatti in fretta da una mano un po' agitata. Questi due fogli di carta sono sicuramente fra i moltissimi del museo quelli sui quali fu scritto e disegnato in un momento più solenne. Chi avesse potuto veder nell'anima di quei due uomini nell'atto che segnavano quei numeri e quei circoli la tempesta che ci fremeva! I numeri rappresentano le forze dell'esercito inglese e furono scritti poco prima delle battaglia di Waterloo; i circoli rappresentano le navi della flotta inglese e della francese e furono fatti poco prima della battaglia di Abukir; la somma è del Wellington lo schizzo è del Nelson. Manoscritti del Galileo del Newton di Michelangelo del Franklin del Washington del Molière di Carlo V di Pietro il Grande del Durer del Lutero del Tasso del Rousseau del Cromwel ce n'è da dare e da serbare. Ma ecco un'altra strana cosa: mentre ora non so che darei per avere sotto gli occhi una sola di quelle carte allora che avevo solo da chinarmi per vederle non provavo nemmeno un'ombra di curiosità; e quel ch'è più strano prevedevo ero sicuro che poi mi sarei pentito di non averle guardate. E mi rimproveravo e domandavo a me medesimo:—Ma perchè non sei curioso?—e mi rispondevo:—Non lo so;—e sentivo una maledetta smania di andar via e correvo per quelle sale con una barbarica indifferenza per tutti quei tesori in mezzo ai quali ci sarebbe di che passare un mese in una continua successione di piaceri.

Mi paghi no!

Uscendo dal museo intesi brontolare queste parole da uno sconosciuto che stava per entrare. Oh dolcissima lingua! dissi tra me; e mi fermai a guardare lo sconosciuto. Era uno che pareva un operaio e discorreva con una donna che aveva l'aria d'esser sua moglie. Accortosi che m'ero voltato si voltò egli pure e sorprendendomi a sorridere vedete un po' la combinazione! invece di capire ch'ero un suo compatriotta perduto nel gran mare di Londra che il suo paghi no m'aveva rallegrato il cuore e che se avessi osato l'avrei invitato a desinare con un matto piacere non gli frulla pel capo che io abbia fatto l'occhietto a sua moglie? e non risponde al mio sguardo soave facendomi due occhi di basilisco? e vedendo che io continuo a guardare non fa un passo avanti coll'aria di venirmi a dare un cappiotto? Ingrato lombardo!—mormorai mestamente ripigliando la mia strada;—tu mi hai dato una stoccata nel cuore. Ma va per amore della Madre comune ti perdono!

Prima di sera volli ancora fare una corsa in strada ferrata aerea e pigliai un biglietto d'andata e ritorno per un punto qualunque della città. È un piacere tutto diverso ma non meno vivo di quello della gita sottoterra. Si corre in mezzo ai tetti nella regione del fumo e delle rondini a traverso una foresta sconfinata di rocche di camino di tubi di banderuole di abbaini di comignoli; si vedono mille piccoli recessi sconosciuti di quella informe capricciosa solitaria architettura che pullula come la vegetazione selvaggia d'un immenso terreno pensile sull'ultimo piano della grande città; si scoprono mille piccoli misteri di finestrine di covi umani di gabbie di case che paiono sospese fra il cielo e la terra e nelle quali pure si annidano delle famiglie numerose coi loro giardinetti aerei: si vede giù in fondo nelle strade la folla nera alla quale si passa sopra come a un torrente udendone appena lo strepito; e tutto intorno si spazia coll'occhio fino a una grande lontananza scorgendo a volta a volta il Tamigi gli alberi dei bastimenti del porto il verde dei parchi immensi le torri delle officine dei sobborghi e ogni cosa fuorchè i confini del meraviglioso panorama.

Ma rimaneva ancora da fare un po' di strada in omnibus; m'arrampicai sul tetto del primo che vidi mi lasciai condurre fino al termine della corsa e poi tornai al punto di dov'era partito. Strada facendo ebbi più volte occasione di meravigliarmi della famigliarissima disinvoltura colla quale uno qualunque dei miei vicini per passare da una parte all'altra dei sedili si serviva della mia spalla come punto d'appoggio facendomi per un momento sentire il peso di tutta la sua persona e dandomi poi nell'atto di levare la mano una scossa vigorosa come un ginnastico che butta via l'asta dopo aver saltato la corda. Il primo che mi rese questo servizio siccome mi colse all'improvviso mi fece rimanere mezzo stroncato. Come di ragione mi voltai almeno per avere il compenso d'un sorriso che volesse dire:—Scusi.—Che! M'aveva voltate le spalle senza darsi l'incomodo di guardare quant'ero lungo. Visto che s'usava così presi le mie precauzioni e ogni volta che vidi un vicino stender la mano gli porsi la spalla dicendo:—Si serva—; e così tenendo duro fin che si fosse servito restai un po' meno sconquassato. Ma fui poi compensato su quello stesso omnibus dal piacere che provai persuadendomi che si può benissimo fare una piacevole conversazione senza capirsi. Un giovanotto accanto a me che pareva molto allegro mi rivolse la parola in inglese. Io risposi in francese:—non capisco. Egli non capì che non capivo e tirò innanzi ridendo. Feci cenno col capo di no di no che non s'incomodasse che era fiato perduto. Il caso volle forse che quel no cadesse a proposito a una domanda che m'aveva fatta e continuò più infervorato che mai. Allora poichè parlava con tanto piacere finsi di capire facendo dei mezzi sorrisi e dei cenni indeterminati che non potessero discordare recisamente da nessuna cosa che mi dicesse. Poi cominciando ad annoiarmi di far quella parte pensai che s'egli mi parlava una lingua che io non capivo io potevo bene parlargli una lingua che non capisse lui; e mi misi a discorrere in italiano. Era buio pesto; nondimeno rise mi battè la mano sul ginocchio stette a sentire con un'aria di curiosità come se gli avessi canterellato un'arietta; o poi da capo a parlare inglese e così si continuò per un pezzo con reciproca soddisfazione fin che l'omnibus si fermò scendemmo mi diede un Orario d'una Società di navigazione a vapore della quale m'immagino che fosse un agente; e ci separammo stringendoci la mano come due persone che si fosser trovate completamente d'accordo su tutte le quistioni del giorno.

La sera non ebbi il coraggio di sfidare lo spleen e lo fuggii riparando per tempo all'albergo. Oh se avessi avuto là qualcuno da pagare perchè mi stesse a sentire gli avrei dato volentieri una mezza lira sterlina tale era il bisogno che provavo di sfogarmi a chiacchere dopo aver visto tante cose senza poterne dir una! Non sapendo che far altro mi misi a preparare i paragoni e le immagini di cui mi sarei servito a casa per dare un'idea della grandezza di Londra; e poichè da molti giorni non facevo che sfogliettar Guide e domandare ragguagli a quanti incontravo così non mi mancava la materia.

Sappi dunque —dicevo a una seggiola incaricata di rappresentare un amico intimo —che Londra è lunga sedici miglia e ne riquadra trentacinque; che i borghi che via via le si aggregano contano la popolazione di Firenze come Greenwich o la popolazione di Roma come Chelsea o la popolazione di Marsiglia come Hackney; che solo coi servitori che sono a Londra si fa un esercito più numeroso che l'esercito italiano in tempo di pace; che colle fiammelle a gaz che illuminano le sue dieci mila strade si rischiara una strada lunga la quarta parte della circonferenza della terra; che contando che ci vogliono dieci litri di birra per ubbriacare un tedesco colla birra che si beve in un anno a Londra c'è da ubbriacare due volte tutto l'esercito germanico sul piede di guerra; che mettendo l'una dietro l'altra tutte le bestie da macello che si mangiano in un anno a Londra si fa una fila continua che attraversa tutta l'Europa dallo stretto di Gibilterra fino all'estremità settentrionale della Russia; che colle ostriche che s'inghiottiscono in un anno a Londra si copre tutto il campo di Marte di Parigi col ponte di Jena e la piazza del Trocadero; e che sul Ponte-di-Londra passano giorno per giorno venti mila carrozze.

La mattina seguente andai a vedere il Palazzo di Cristallo.

 

III.

Il breve tragitto dalla stazione di Vittoria al palazzo di Cristallo offre la varietà d'un lungo viaggio. Si passa prima in mezzo ad altri treni rapidissimi sur un largo ponte che è come una piazza sospesa sul Tamigi sulla quale le rotaie s'incrociano tanto fitte da presentare una superficie quasi continua di ferro. Si passa accanto al grande parco di Battersea. Poi è un seguito di stazioni di gallerie di opifici circondati da centinaia di case d'operai che formano come dei villaggi dentro la città: tutte le case d'una sola forma e d'un solo colore ciascuna col suo piccolo orto e sciami di bambini da ogni parte. Poi altri parchi ossature di edifici enormi abbozzi di piccole città che saranno finite e popolate fra mesi magazzini giardini castelli cimiteri e fin dove arriva la vista grandi mucchi di materiali da costruzione che predicono altre città di là da venire. Sotto i tunnel sulle travi delle tettoie fin sui comignoli fin sugli alberi fin sulle prode della via una prodigiosa diffusione di annunzi ciarlataneschi che fanno a soverchiarsi l'un l'altro come grida di venditori in un mercato e danno al luogo l'aspetto fantastico d'un bazar che copra una intera provincia.

Finalmente si vede sulla cima d'un colle la mole enorme del palazzo di cristallo che mostra a tutta la contea di Kent la maestà delicata delle sue vôlte trasparenti.

Dentro è una sola immensa sala un piccolo mondo. A primo aspetto non si raccapezza nulla. Da un cortile si riesce in un caffè da un caffè in un bazar da un bazar in un giardino da un giardino in un museo. In mezzo ai cipressi agli allori agli aloè alle palme a tutte le piante pompose della zona torrida allungano il collo le giraffe e levan la testa le statue di Michelangelo. Fra le sfingi d'un cortile egiziano si vede lontano una casa greca col gruppo di Laocoonte e la Venere di Milo. Dalla casa greca s'entra in una casa romana di qui si sprofonda lo sguardo nelle stanzine misteriose dell'Alhambra e dall'Alhambra si vede dentro il cortile d'una casetta di Pompei. S'esce si passa in mezzo a gruppi di leoni e di tigri che s'addentano fra due file di aquile e di pappagalli e si riesce in un cortile bizantino dal quale per una sfilata di porte si vede un cortile d'una casa del medio evo la sala d'un palazzo del Rinascimento la cappella d'una chiesa gotica. Si va oltre fra i monumenti sepolcrali le fontane le porte istoriate e tutti i capolavori della scultura moderna e si giunge in mezzo a una folla di gente alla porta d'un teatro dove si rappresenta il Trovatore. Un po' più oltre da un lato si vede un'orchestra capace di tre mila artisti sotto una mezza cupola larga due volte quella della cattedrale di San Paolo; e dal lato opposto un palco scenico dove un professore dà lezione di matematica. Si passa davanti a teatri di commedia a camere oscure a circhi si entra in un labirinto di grandi bazar in forma di templi e di chioschi nei quali sono esposti i più splendidi prodotti dell'industria di tutti i paesi dal Cairo a Birmingham e da Parigi a Pekino. Si trascorre per corridoi di biblioteche in mezzo a lunghe file di pianoforti di carrozze di mobili di vasi di fiori e si va a smarrirsi fra gli alberi e le caverne d'un bosco popolato di stivaggi d'Africa e d'Oceania sparsi alla caccia delle fiere o raccolti a famiglie intorno ai focolari o appostati dietro i sassi nell'atto di pigliarci di mira colle freccie. Si va su per una scala: ci si allungano davanti gallerie a perdita d'occhio dove si possono far delle miglia in mezzo ai quadri ad olio agli acquerelli alle fotografie ai busti d'uomini celebri. E sopra queste altre gallerie a mille giri dalle quali guardando fuori si abbraccia con un colpo d'occhio la bella campagna della contea di Kent e guardando giù tutto quel fantastico giro di sale di giardini di cortili di teatri di trattorie; la gente che sale scende e s'affolla ai teatri e sparisce e riappare in mezzo alle piante e alle statue; e su quella prodigiosa varietà di forme di colori e di spettacoli su quel compendio di mondo sul quale s'incurva un cielo di cristallo la luce del sole che irrompe e saetta da tutte le parti gettando iridi lampi e sprazzi di scintille d'argento lungo le pareti e le vôlte azzurrine.

Tornando a Londra mi seguì un caso che mi fece rimpiangere amaramente di non sapere l'inglese. Nel vagone c'era un signore che fumava la pipa: io accesi l'ultimo sigaro virginia d'una reliquia di mazzo che avevo portato da Parigi. L'avevo appena acceso quando entrò una signora. Io faccio un atto come per domandarle se il fumo le dà noia; essa mi risponde qualche parola in inglese che dall'espressione del suo viso mi pare che significhi:—Sì mi dà noia.—Raccolgo tutta la mia forza di sacrificio e butto via il sigaro dal finestrino. Non era ancora cascato in terra che l'uomo della pipa mi afferra il braccio e mi fa capire in francese che la signora aveva risposto che anzi il fumo le piaceva. Io guardai il finestrino la mia mano vuota la signora che rideva e venni men così com'io morisse.

Arrivato a Londra andai all'abbazia di Westminster la Santa Croce dell'Inghilterra.

Entrando in quella chiesa se si fosse soli si chinerebbe la fronte sul lastrico.

Un Panteon di quella natura è un immenso argomento di marmo in favore dell'immortalità dell'anima.

Appena entrati si alzano gli occhi agli altissimi archi acuti delle vôlte poi si girano sul popolo di statue che ne circonda. Là gli uomini grandi sono accalcati si pigiano si nascondono. Fatti i primi passi s'incontra Pitt Palmerston Robert Peel: avanguardia degna della legione. In un canto Pasquale Paoli. I simulacri delle glorie supreme sono frammisti a quei delle glorie minori e invece di oscurarle le irradiano. È un Panteon divinamente democratico. I grandi principi dormono accanto ai grandi poeti. Vicino a Shakespeare v'è un pedagogo: Andrea Bell. Vicino a Newton un portabandiere. Fra due ammiragli vittoriosi Garrick l'attore che si presenta fra le cortine del palco scenico col sorriso sulle labbra. Fra una folla di ciambellani di abati e di ministri fra i quali si passa indifferenti s'incontrano le immagini care e gloriose che fanno battere il cuore come amici ritrovati in un paese sconosciuto: Gray Milton Goldsmith Thomson Thackeray Addison e l'ultimo amato e compianto come i più grandi Carlo Dickens. In mezzo ai capitani famosi che insanguinarono il mare e la terra splende la gloria intatta e serena dei grandi benefattori: gli apostoli dell'abolizione della schiavitù; Hanway il filantropo; Wintringham il medico; James Watt l'inventore della macchina a vapore. Accanto alla grandezza sfolgorante del genio la grandezza austera delle anime integre dei caratteri indomabili delle lunghe vite spese in lavori pazienti e in sacrifizi ignorati. Ma che diversi pensieri in quelle cappelle rivestite di meravigliosi ricami di pietra dove si cammina fra i sepolcri dei principi fra i ricordi della potenza e delle sventure di sette schiatte di re! Se tutto il sangue che fece spicciare il pugnale o la scure dalle vene della gente sepolta fra la tomba di Enrico VII e quella di Edoardo il Confessore si spandesse tutto a un tratto nel santuario non rimarrebbe un palmo di marmo senza macchia. Maria Stuarda Lord Stafford il marito di Anna duchessa di Somerset decapitati; Tommaso Tyrme assassinato; Aymer di Valenza conte di Pembroc assassinato; Tommaso di Woodstock duca di Salisbury assassinato; Riccardo II assassinato; Edoardo V e il fratello duca di York gli sventurati figli di Edoardo assassinati; il duca di Buckingam assassinato: Spencer Perceval cancelliere del tesoro assassinato; Nicola Bagenall soffocato nella culla dalla nutrice. Dopo fatto il giro delle cappelle colsi un momento che il custode guardava da un'altra parte per sedermi sul vecchio trono dei re di Scozia; e poi battei la mano sulla pietra dove il patriarca Giacobbe posò la testa quand'ebbe la visione divina.

Chi non ha visto piovere a Londra non ha visto Londra; ed io ebbi questo piacere la mattina che andai a vedere il tunnel sotto il Tamigi. Capii allora come con quel tempo si possa esser presi dalla tentazione di tirarsi una pistolettata. Le case sgocciolano come se sudassero; l'acqua non par che scenda soltanto dal cielo ma che trapeli dai muri e dalla terra; i colori cupi delle case diventan più cupi e pigliano un'apparenza oleosa; le imboccature dei vicoli sembrano imboccature di grotte; tutto par sucido logoro muffoso sinistro; l'occhio non sa dove rivolgersi che non incontri qualcosa di sgradevole; si senton dei brividi che fan l'effetto dell'assalto improvviso d'un malanno; si prova un senso molesto di stanchezza un'uggia d'ogni cosa una voglia inesprimibile di sparire come un lampo da questo mondo noioso.

Mentre pensavo queste cose sparii davvero dal mondo scendendo per una scala a chiocciola illuminata che si sprofonda nella terra sulla riva destra del Tamigi di fronte alla Torre di Londra. Discesi discesi fra due pareti fosche fin che mi trovai dinanzi all'apertura rotonda del gigantesco tubo di ferro che ondeggia come un gran budello nel ventre enorme del fiume. L'interno di questo tubo si presenta come un corridoio sotterraneo del quale non si vede la fine. È rischiarato da una fila di lumi a perdita d'occhio che mandano una luce velata come lampade sepolcrali; vi è un'aria nebbiosa; vi si va per lunghi tratti senza incontrar nessuno; le pareti sgocciolano come i muri d'un acquedotto; l'intavolato si move sotto i piedi come il palco d'un bastimento; il passo e le voci della gente che viene incontro mandano un suono cavernoso e si sentono prima che la gente si veda; le persone da lontano paiono grandi ombre; v'è in fine non so che di misterioso che senza far paura mette in cuore una vaga inquietudine. Quando poi si è giunti nel mezzo e non si vede più fondo nè di qua nè di là e regna un silenzio di catacomba e non si sa quanta strada rimanga da fare e si pensa che s'è giù nell'acqua nella profondità oscura del fiume dove spirano i suicidi e che sul nostro capo passano i bastimenti e che se s'aprisse una crepa nella parete non si avrebbe più il tempo di raccomandar l'anima a Dio in quel momento oh come par bello il sole!

Credo che avevo fatto poco meno d'un miglio quando arrivai all'opposta imboccatura sulla sinistra del Tamigi; salii per una scala gemella di quell'altra e riuscii davanti alla torre di Londra.

Questi monumenti esecrabili della crudeltà e della sventura umana mi ispirarono sempre una ripulsione più forte della curiosità; ma ricordando i nomi di coloro che morirono fra quelle mura mi sentii forzato ad entrare. Appena passato il primo recinto le memorie terribili si affollano. Il castello costrutto in forma di pentagono è sormontato da otto torri ognuna delle quali rammenta un prigioniero famoso e una morte miseranda. In una furono assassinati i figli di Edoardo IV in un'altra assassinato Enrico VI in una terza annegato dentro una botte il duca di Clarence fratello di Edoardo VI. Nella torre delle campane fu chiusa la regina Elisabetta; in quella di Beauchamp passò gli ultimi giorni della sua vita Anna Bolena; in quella dei Mattoni Giovanna Grey. Fatti pochi passi si giunge nella piazzetta dei supplizi segreti dove fra le molte altre vittime Giovanna Grey fu decapitata. Poco distante è la piccola chiesa dove sono sepolti Anna Bolena Roberto Devereux Caterina Howard e altri che furono avvelenati o pugnalati o strozzati nelle segrete. Il castello nudo e lugubre di fuori è anche più triste dentro. Le scale strette e schiacciate dalle vôlte conducono in grandi sale squallide in lunghi corridoi semi-oscuri in celle sinistre in quei sepolcri di gente viva dove si stracciarono i capelli e batterono il capo nelle pareti tanti infelici impazziti dalla disperazione. La mente si distrae per poco da quei pensieri in mezzo alle splendide armature dei re e dei principi raccolte nelle sale a terreno; e poi vi ricade al veder l'orrenda segreta dove Walter Raleigh il favorito di Elisabetta languì dodici anni; la scure e il ceppo ancora macchiato di sangue dove fu troncata la testa a centinaia di prigionieri della Torre; gli strumenti ancora intatti coi quali si straziavano le carni e si stritolavan le ossa senza dare la morte. Grida che sfuggono ad una creatura umana soltanto insieme alla vita gemiti che fanno inorridire atteggiamenti parole supplichevoli che lacerano il cuore e resistenze sovrumane di gente che non vuol morire si sentono e si vedono col pensiero vivissimamente girando pei recessi di quell'edifizio maledetto.

In una sala appartata sotto una grande custodia di vetro difesa da una rete di ferro si vede un mucchio di scettri di diademi e di braccialetti che abbarbagliano come un raggio di luce elettrica: sono i diamanti della Corona d'Inghilterra che presentano tutti insieme il valore di settantacinque milioni di lire.

All'uscire della Torre di Londra vidi per la prima volta in una birreria un ubbriaco di gin. Mi fece orrore. Non credevo che l'ubbriachezza potesse trasfigurare un uomo in quella maniera. I nostri ubbriachi di vino o smodatamente allegri o cascanti di sonno sto per dire che sono gradevoli a vedere in confronto di quegli uomini colla faccia stravolta e convulsa coperta di un pallore mortale con un'espressione di malato e di pazzo e gli occhi spalancati e fissi come occhi di cadaveri. E si vedono quei disgraziati così ridotti bere ancora a gorgate quel liquore tremendo stramazzare come gente fulminata picchiare sconciamente il capo nei muri e nei tavoli e insanguinarsi il viso; e i presenti assistere alla scena ridendo.

Ma una vista che per le strade e nei parchi di Londra mi compensava del brutto spettacolo degli ubbriachi era la vista dei bambini quei cari bambini inglesi che godono meritamente la fama di essere i più gentili e i più freschi del mondo. Dal color d'oro della lira sterlina fino al biondo cinereo della seta più chiara e della fresca barba d'una pannocchia di gran turco si vedon capelli di tutte le sfumature di biondo cascanti in larghe onde lucide che mettono la tentazione di darci una forbicciata passando. Guancine poi di tutte le gradazioni del color di rosa dalle foglie pallide che vestono il fiore alle piccine voluttuose che fanno all'amore col pistillo; boccuccie purpuree da far meravigliare che gli uccelli non se le becchino; pupille celesti e candori da metter vergogna ai putti che svolazzano intorno alle Concezioni del Murillo. Se non ho portato via una bracciata di questi bimbi è proprio perchè non li sapevo dove mettere. Ma non ebbi la forza di resistere a un'altra tentazione. Un giorno nel Green-Park ne agguantai uno che mi passò a tiro gli schioccai tanti baci da levargli il fiato e rendendolo alla bambinaia che era accorsa per salvarlo feci un atto supplichevole come per dire:—Mi scusi ne avevo bisogno.

I bimbi mi fanno ricordare della celebre esposizione di figure della signora Tussaud. Non mi pentii d'esserci stato; ma n'ebbi un'impressione quasi più penosa che gradita. Appena entrato mi trovai dinanzi al cadavere di Napoleone III steso sul letto in grande uniforme di maresciallo così mirabilmente imitato che provai repugnanza ad avvicinarmi. Mentre lo guardavo vidi colla coda dell'occhio un signore accanto a me che faceva un atto di dolore; mi voltai lo guardai fisso e detti indietro con raccapriccio: era il Pietri—di cera—vestito di nero ritto in mezzo alla gente come uno spettro. Nella gran sala principesca dove son centinaia di re di regine di generali corti intere d'Inghilterra e di Spagna cogli splendidi costumi dei tempi respirai più libero. Girando intorno al trono d'un re d'Aragona m'imbattei nel ciuffetto del Thiers; poi scivolai fra l'imperatore Guglielmo e il principe Federico Carlo e passai dinanzi a Giulio Favre e a Bismarck che discorrevano con molto calore in un angolo appartato. Nella sala dove son raccolti i più famosi malfattori dell'Inghilterra passai di volo. Quelle faccie di cretini feroci quegli atteggiamenti circospetti quei panni macchiati di sangue in quella mezza oscurità che non lascia quasi avvertire la finzione mi fecero orrore. Se qualcuno in quel momento avesse gettato un grido dietro una cortina avrei creduto che uno di quegli assassini gli avesse piantato un coltello nel cuore.

Andai un giorno a vedere quella famosa Banca d'Inghilterra che ha la bagatella di novecento impiegati ai quali dà la povertà di sei milioni di stipendio e possiede nelle sue casse la bellezza di quattrocento milioni in oro e in argento e conserva sotto una campanella di vetro un biglietto che vale la giuggiola di venticinque milioni. Entrai nella grande sala dove si fanno i pagamenti. Cento impiegati affacciati a cento finestrini distribuiscono con una rapidità da prestigiatori argento ed oro a rotoli a manate a palettate e i creditori empiono in furia tasche e sacchetti e scappano come ladri gettando intorno delle occhiate di diffidenza. Bisogna vedere i lampi i barlumi di sorriso le contrazioni leggerissime delle sopracciglia e delle labbra e i mille moti espressivissimi ma inesprimibili dei volti della gente alla vista di quell'oro. E bisogna vedere quell'oro come sguiscia scappa sfolgora e manda dei tintinni che sembran risa di allegrezza e fa ogni sorta di civetterie che sembra animato e maligno. Anch'io dinanzi a quello spettacolo provai per la prima volta un turbamento colpevole e feci una faccia che un che m'avesse veduto in quel punto avrebbe gridato:—Arrestatelo!—Quel sentimento a diciott'anni non l'avrei provato! A quell'età non si dà pensiero di non esser ricchi. La gioventù come disse un grande poeta è un aspettare misterioso e fra le mille cose che si aspettano nell'avvenire indeterminato e lontano vi è anche quella di diventar ricchi. Si spera ancora vagamente nelle eredità di parenti ignoti e nei fasci dei biglietti di Banca trovati sul tavolino da notte una sera dopo il teatro mandati non si sa da chi. Ma ogni anno che passa cancella una parola di queste promesse fantastiche del nostro buon Genio e allora la vista dell'oro fa pensare e desta dei desiderii malinconici: non per amor dell'ozio ma di quella cara indipendenza che il lavoro obbligato ci toglie ma per poter lavorare dieci anni intorno a un libro per tenerci in casa quattro maestri di lingue per fare un viaggio in Africa per poter offrire insieme all'amore un diadema di rubini e un palazzo di granito.

Andai lo stesso giorno a vedere quella rinomata birreria di Barklay che paga allo Stato un'imposta di quattro milioni e mezzo di lire e consuma anno per anno trecento mila ettolitri d'orzo. Dopo aver girato un pezzo per le strade d'un quartiere di Southwark in cerca della porta domandai e mi fu fatto capire con mia gran meraviglia che mi trovavo già nella birreria e che fin allora non avevo fatto che passeggiare fra le sue mura.—Ma chiamatela città di Barklay!—dissi poi al custode che m'accompagnava. Il flemmatico inglese sorrise e si diffuse per gratitudine in minute spiegazioni facendomi girare per gl'interminabili labirinti di quegli edifizi intorno a laghi di spuma in mezzo a botti titaniche e a fragorose cascate di birra; e quando infine domandai un po' di tregua per le mie gambe mi condusse a riposare sur un alto terrazzo di dove accennando col braccio teso come fa un generale l'accampamento quell'ampio giro di case di magazzini di scuderie di granai e di cortili che formano la birreria Barklay:—Ecco —disse alteramente—la più grande birreria della terra!

Quella medesima sera ripassai dinanzi alla Banca d'Inghilterra vidi la borsa mi trattenni un po' in quel crocicchio di strade dove ferve il gran commercio di Londra: e poi tutto compreso di quello spettacolo tornai a casa agitato da una smania non mai provata di buttarmi agli affari e di ammassare ricchezze.—Ma che scrivere!—dicevo tra me.—Azione vuol essere! Cos'è questo passar la vita a spacciar parole? È una vita rettorica. Bisogna lavorar sul sodo. Grazie al cielo sono ancora in tempo. Ci son ben altri che si son dati al commercio più tardi di me e sono ancora riusciti a farsi una fortuna. Tornato che sarò in Italia mi darò moto cercherò farò qualche cosa. I miei amici rideranno? E ridano! Riderò io pure quando mi farò fabbricare una villa a Fiesole... Vediamo un po' che ramo potrei tentare. Bisogna cominciare dal poco. Vini liquori.... non direi; cotone....—In quel punto mi parve di vedere un ditino bianco appuntato verso di me e d'udire una voce canzonatoria domandarmi:—Tu?—Allora risi e rinunziai al commercio.

 

IV.

Per veder bene i musei di Londra bisogna esser ricchi: poter cioè piantare comodamente le tende nella gran città per un anno. Se no le visite ai musei non riescono altro che marcie forzate. Mi pare ancora di correre per le sale interminabili di quell'emporio universale che è il museo di South Kensington sperando sempre all'entrare in una nuova sala che quella sia l'ultima e lasciando sempre cader la braccia al vederne un'altra sfilata appena arrivato alla porta. È un gran che se mi ricordo dei famosi cartoni di Raffaello e d'un meraviglioso Amleto del Lawrence che mi arrestò in un corridoio per propormi l'enimma tremendo. Non presenta però questo inconveniente il piccolo museo di pittura della piazza di Trafalgar ed ho ancora vivi dinanzi agli occhi quegl'immortali sposi di Hogarth che furon pagati a lui due mila lire e rivenduti per una somma venti volte maggiore cinquant'anni dopo; le fantastiche battaglie di luce di Turner; i quadri di Raffaello cercati per venticinque anni; e quelli dei quattro pittori prediletti dall'Inghilterra: Correggio Poussin Murillo Claudio il Lorenese. Ma non feci che marcie forzate nel museo delle Indie nel museo di Soane nel museo marittimo nel collegio dei chirurghi dove si vede lo scheletro di Carolina Cracami la famosa nana siciliana che si poteva seppellire sotto un cappello cilindrico; e di Byrne il gigante irlandese che passeggiando per le strade accendeva la pipa alla gente del primo piano.

Ma l'impressione che mi rimarrà più di tutte è quella che mi fece la Camera dei Comuni. C'entrai senza saperlo —era vuota;—guardai e riguardai e non mi passò nemmeno per la mente che fosse la Camera. Una sala all'apparenza piccina decorata con una magnificenza piena di grazia aristocratica che arieggia un coro di cattedrale da canonici eleganti e che si presterebbe a meraviglia per un congresso di contessine coi capelli biondi e le vesti bianche. Quando seppi ch'era la Camera dei Comuni —quella Camera dove suona la semplice e tranquilla eloquenza dei primi oratori del mondo che echeggia poi spizzicata in sentenze presuntuose e in citazioni pedantesche nei parlamenti latini —feci un atto rispettoso domandai il permesso di toccare lo scettro (the Mace) colla punta delle dita colla speranza che mi trasfondesse la non latina virtù delle discussioni pacate.

 

Il castello di Windsor.

Dalle visite faticose ai Musei e ai Palazzi m'andavo a riposare nei parchi —in quelle grandi oasi del popoloso deserto di Londra dove l'anima si rallegra al vedere che il mondo non è tutto case e strade ferrate; dove centinaia di bellissime donne su bellissimi cavalli trascorrendo per viali di cui non si vede la fine e migliaia di bimbi sparpagliati alla corsa per prati immensi e intorno a grandi laghi solcati da barchette innumerevoli vi fanno pensare con piacere che la vita non è tutta traffico e fatica; dove il verde rigoglioso l'ilarità dei volti e la melodia della musica italiana vi ravvivano con un sentimento di tenero desiderio l'immagine della patria cara che rivedrete fra poco. O Hyde Park Regent's Park parco del Vittoria parco di Battersea parco di Greenwich parco di Southwark parco di San Giacomo parco d'Olanda —benefici consolatori delle mie malinconie —io vi ringrazio e vi saluto! E ripenso con gratitudine anche alla collina del castello di Windsor ai boschetti di Eton ai passeggi di Richmond e ai giardini di Kew e a tutti gli ameni dintorni di Londra dove mi salvai dalla noia micidiale delle domeniche. Ah! chi non ha visto Londra la domenica non sa che cos'è la noia. Le porte chiuse le finestre sbarrate le strade deserte le piazze silenziose; intieri quartieri abbandonati dove si potrebbe morir di fame senz'essere nè soccorsi nè visti; uno squallore di città disabitata; un tedio infinito su tutte le cose; si direbbe che le statue sonnecchiano e che le case s'annoiano e vi si apre la bocca in così larghi e lunghi e violenti sbadigli che subito vi vien fatto di tastarvi la faccia per vedere se c'è nulla di dislogato.

Londra mi pareva di giorno in giorno più grande. Per quanto camminassi con qualunque direzione non riuscivo mai non solo a vederne la fine ma nemmeno una radura di case che l'annunziasse. Da certe parti passandoci una seconda volta scoprivo dei tratti di città grandi come Firenze che la prima volta m'erano sfuggiti. Ogni giorno anche solo nei quartieri della Westend che frequentavo vedevo quasi per incanto aprirmisi dinanzi qualche strada immensa che non avevo neanche visto sulla carta. Mi mettevo in viaggio la mattina ripassavo pei luoghi percorsi il giorno innanzi senza riconoscerli; arrivavo in un parco dove mi fermavo a ripigliar fiato e coraggio; e poi daccapo nel labirinto infinito delle strade ora a piedi ora in diligenza ora in cab facendo un'esclamazione di stupore allo svolto d'ogni cantonata come quando si arriva sulla cima d'un monte e si scopre tutt'a un tratto un nuovo paese. Ho ancora in capo mille immagini confuse di crocicchi pieni di popolo di grandi spazii solitari e di lontananze nebbiose —non so di che parte di Londra nè che giorno vedute —che spesso mi si confondono con visioni di quelle città immaginarie che ci appariscon nei sogni.

La grandezza e la ricchezza di Londra mi facevano ogni momento una impressione diversa. Alle volte sentivo il mio amor proprio d'italiano schiacciato; ricordavo con dispetto le meschine vanterie a cui ci lasciamo andare in casa nostra paragonandoci soltanto con noi medesimi; mi proponevo quando fossi in Italia di rintuzzarlo con sarcasmo; avrei voluto esser nato inglese per aver diritto di guardare dall'alto in basso i latini. Altre volte invece lo spettacolo della superiorità di quel paese mi faceva sentire pel mio un affetto più vivo misto di pietà gentile. Forse che un figliuolo pensavo deve amar meno sua madre perchè è povera e malata? Spesso poi neppure quella grandezza mi pareva invidiabile. Vanità dicevo; vanità. A che tende come domanda il pastore del Leopardi tutto questo gran moto questo immenso agitarsi d'uomini e di cose? Sono più contenti di noi costoro? Hanno la ricchezza! Ebbene noi non abbiamo la nebbia e un povero diavolo al sole gode forse più la vita che un ricco al buio. E forse che non ci sono anche qui miserie e dolori infiniti?—E anche questa povera Italia qualche volta mi dava delle soddisfazioni d'amor proprio. Quando qualche cortese compagno di diligenza sentendo ch'ero italiano mi volgeva uno sguardo tra benevolo e curioso come per cercare sul mio viso qualcosa che rispondesse a quella vaga immagine di cose belle e di vita lieta che desta in ogni straniero il nome d'Italia sentivo un piacere vivo e vedevo nel cristallo del finestrino di rimpetto che i miei occhi brillavano e le mie guancie erano diventate color di rosa.

Ma che lezione di modestia è questo viaggiare! Come par ristretto a chi viaggia il giro delle cognizioni e delle idee in cui vive abitualmente e che pure a casa sua fra i suoi amici e i suoi libri gli pare già così vasto! Veder che una metà almeno di quello che forma «il tesoro d'istruzione» che abbiamo raccolto in tanti anni di studio e d'osservazione non ha quasi punto valore nel paese straniero dove ci troviamo! Toccar con mano che a casa nostra mentre credevamo di leggere il libro del mondo non ne leggevamo veramente che una pagina che mille cose che ci parevano grandi importanti e tali da riempire di sè mezzo il mondo non sono che robetta di casa che non conta il bellissimo nulla un passo fuori dell'uscio! A ogni passo che si fa in un paese straniero ci si apre sotto gli occhi come una crepa per la quale vediamo giù gli abissi della nostra ignoranza e ci giunge d'in fondo una risata di compassione. Ma v'hanno dei momenti per contro nei quali il movimento delle idee ci si fa così rapido e vediamo indoviniamo comprendiamo in un lampo tante cose che ci erano ignote od oscure prima d'allora che se quella febbrile attività della mente potesse durare continua si sarebbe uomini straordinarii. Che grandi disegni si fanno allora che sfumano alla prima svoltata di strada!

Quello che mi meravigliò di più a Londra dopo la grandezza e la ricchezza è l'ordine. Quella città enorme è assestata come un villaggio olandese. Le funzioni della sua immensa vita si compiono a rigor di orologio. Uno straniero che appena capisca il francese si cava da solo d'ogni impaccio e senza perdere un minuto di tempo. I muri e le diligenze coperte d'infinite iscrizioni lo guidano costantemente e a ogni passo; qualcuno gli mette in mano un foglio stampato che gli dà un consiglio o una notizia utile. In qualunque parte di Londra uno si smarrisca non ha che da andare nel senso del primo treno che vede passare sui tetti; il treno lo conduce a una stazione; i muri della stazione gl'insegnano la strada per tornar a casa. Un giorno salii sur una diligenza senza saper dove andasse; fui condotto parecchie miglia fuor di Londra; discesi a una trattoria di campagna rimasi solo. Nessuno di quei ch'eran là capiva una parola di francese non potei nemmeno sapere dov'ero nè quando la diligenza sarebbe ripassata. Mi prese un po' d'inquietudine. Girai per un villaggio tutto casette lustre e giardinetti leccati dove non incontrai che qualche ragazzo aristocratico a cavallo e non vidi che qualche bionda testa di miss dietro i vetri delle finestre: e v'era un silenzio di camposanto. Che fare? Dove andare? A un tratto sentii un soffio che mi andò al cuore come una voce d'un amico; corsi da quella parte e in quindici minuti fui a Londra.

Il nuovo ponte di Londra.

La sera a Londra per uno straniero è molto trista. Ebbi degli spleen feroci. Abituato al fantastico splendore dei boulevards di Parigi e a quel gran movimento festivo le strade di Londra mi parevan buie e melanconiche. Rimpiangevo i caffè affollati le botteghe sfarzose e persino i quadri dissolventi del boulevard Montmartre; dimenticando l'indignazione che mi destava lo spettacolo della prostituzione sfrontata trionfante e sfolgorante che pullula in ogni parte. Ma che mistero son questi scoraggiamenti queste tristezze profonde che ci assalgono la sera in una città che non si conosce! e tanto profonde che alle volte s'ha una faccia che mette compassione alla gente che passa! Ma perchè?—uno si domanda; stai bene non ti mancano i denari hai buone notizie di casa sei libero domani mattina ti divertirai fra dieci giorni ti ritroverai nel tuo paese; ma dunque perchè quel cipiglio da suicida?—Chi lo sa! Anch'io come il lebbroso del De Maistre quando vedevo passare una coppia coniugale con ragazzi balia e bambino tutti contenti e ridenti sentivo un'invidia amara e torcevo il viso da un'altra parte.

Si può a Londra per via di raccomandazioni ottenere il permesso di accompagnare la ronda notturna della polizia in quei luridi quartieri dove formicola la popolaglia dei mattatori e dei pezzenti; e penetrare nei covi dove quei miserabili con pochi centesimi passan la notte. Girai per quei quartieri soltanto di giorno in mezzo alle case dove vanno a istupidirsi i bevitori d'oppio dove si fanno i balli osceni a un soldo l'entrata dove il dilettante di box va a veder vibrare i pugni formidabili che schiacciano gli occhi e spezzano i denti; dove si rinvengono le donne col cranio spaccato dai mariti ubbriachi; dove la meretrice consunta riceve gli amplessi del ladro macchiato di sangue; dove la prostituzione comincia colla fanciullezza e continua colla vecchiaia; dove la ferocia la lascivia la miseria si dan la posta nelle tenebre come mostri schifosi e s'accoppiano per mandar vittime al Tamigi agli ospedali ed al patibolo; dove fermenta infine il putridume della grande città e dove Carlo Dickens andava a bere la birra col suo servitore.

La più bella mattinata che passai a Londra fu l'ultima chiusa dalla più cara colezione cosmopolita che abbia fatta finora. Ero salito sulla torre di Wren —quella torre famosa che ricorda un incendio di quattrocentosessanta strade e quattordici mila case;—dalla cima della quale si abbraccia con un colpo d'occhio il grande movimento del ponte di Londra e di tutte le strade che vi fan capo sulla sinistra del Tamigi. Trovai lassù cinque giovanotti simpatici che chiacchieravano allegramente strapazzando la lingua francese (uno eccettuato) con una disinvoltura da garzoni di barbiere; attaccai discorso; e dopo qualche parola seppi con mio grande piacere che uno era di Colonia uno di Manchester uno di Harlem uno di Guadalajara e il quinto di Lione; così che me compreso il gruppo rappresentava sei stati: Germania Inghilterra Francia Italia Spagna ed Olanda —tre popoli latini e tre popoli nordici —quattro monarchie sane e due repubbliche malate. Ridemmo del curioso incontro poichè il tedesco e l'olandese eran capitati là anch'essi per caso qualche minuto prima; e gli altri tre s'eran combinati nella stessa maniera il giorno innanzi; e dandoci una cert'aria grave di commissione internazionale per un arbitrato qualunque andammo insieme a far colezione. Eccettuato lo spagnuolo e un po' l'italiano gli altri erano spugne da birra; la tavola fu presto coperta di bicchieri vuoti; e la conversazione si fece animatissima. I vapori della birra avevano assopito gli odii e i dispetti politici e destato invece in tutti e sei un sentimento d'amore universale che prorompeva in brindisi clamorosi alla prosperità e alla gloria di tutte le nazioni rappresentate quoique indignement come diceva il lionese in quell'allegro convegno che avrebbe dovuto servir d'exemple aux gouvernements. Prima che giungesse l'ottava bottiglia l'Alsazia era restituita ogni ombra di timore di guerra per la quistion di Roma dissipata tutti i Carlisti sparsi sulla frontiera francese ammanettati il Lussemburgo assicurato per sempre dalle pretensioni della Germania. Poi cominciarono a ballar sulla tavola Guttemberg Coster Michelangelo Mendoza Newton il principe d'Orange Victor Hugo e su di loro una pioggia di quegli aggettivi da dessèrt rinforzati da una gorgata: divino immenso sublime sovrumano. Poi via via che cresceva la dimestichezza ciascuno a parlare dei fatti suoi:—io sono negoziante—io giornalista—io pittore—io ho... qualche cosa —e l'uno domandare all'altro l'età e dirsi reciprocamente:—Lei è un bel tipo tedesco—e—Lei è un bel tipo italiano—e assassinare l'uno la lingua dell'altro e di tratto in tratto una voce che gridava:—Ma qui non si beve!—E poi i grandi progetti e gli appuntamenti convenuti per l'anno venturo a Parigi ad Amsterdam e a Costantinopoli tal strada tal giorno tal ora; e—badi che io ci sarò:—Lei mi scriva—vada franco—e poi un ultimo cozzo di bicchieri straboccanti al grido di:—Viva la civiltà!

 

Gravesend.

A mezzogiorno salivo vicino alla Torre di Londra sur un bastimento a vapore che partiva per Anversa.

La favolosa grandezza di Londra non si vede intera che scendendo e rimontando il Tamigi; il London-Bridge e la City scompariscono al paragone del porto; tutta la città di Londra rimpicciolisce.

Quando il bastimento partì splendeva il sole e l'aria era limpida. Si entrò in mezzo a due file di grandi bastimenti si oltrepassò in pochi minuti quel dock di Santa Caterina che abbraccia lo spazio occupato una volta da dodici mila abitanti e serve di porto ai bastimenti che vengono dalla Germania dai Paesi Bassi dalla Francia e dalla Scozia; si lasciarono addietro quei London-Docks che contengono nei loro bacini trecento bastimenti di alto bordo e nei loro magazzini duecento mila tonnellate di mercanzia e danno lavoro a tre mila operai di tutti i paesi del mondo; e si andò innanzi rapidamente rasentando i bastimenti i piroscafi di rimorchio i barconi le navi d'ogni forma che vanno e vengono per il largo fiume. Per un po' di tempo lo spettacolo non è straordinario. Mucchi enormi e file sterminate di sacchi di botti di casse di balle che ingombran le rive le dighe i ponti le imboccature delle strade; lunghissimi muri di cinta infinite case nere e per tutto fumo di officine moto di macchine e affaccendarsi d'operai e di marinai; il movimento più fitto e più svariato che si vede in tutti i grandi porti. Senonchè quando si è giunti al grande svolto del Tamigi si comincia a osservare che prima d'allora non s'era mai percorso un così lungo spazio in mezzo ai bastimenti e appena svoltati vedendo ancora nella nuova dirittura alberi e vele a perdita d'occhio si prova una viva maraviglia. Ma è ben altra cosa quando ci s'accorge che di là da questi alberi e da queste vele oltre i muri altissimi che si stendono lungo le due rive vi sono altre foreste di bastimenti fitte profonde confuse; a sinistra i grandi bacini dei docks delle Indie occidentali che coprono la superficie di cento ettari; a destra i cinque grandi docks «Commerciali» e i docks di Surrey che si estendono per parecchie miglia dentro terra. Non si naviga più fra due file di navi ma fra due file di porti; e lo sguardo non può abbracciare tutto lo spettacolo. Oltrepassati i docks commerciali si va innanzi per qualche miglio in mezzo a docks minori; ma sempre tra foreste di bastimenti muri neri di magazzeni grandi come città e monti di mercanzie. Si passa dinanzi al glorioso ospedale di Greenwich e si svolta intorno all'isola dei Cani. Son già due ore di navigazione i bastimenti diradano e benchè i magazzeni gli opifici le case si succedano senza interruzione sulle due rive il porto pare che sia per finire. Si tira un respiro si aveva bisogno di un po' di riposo si era stanchi di meravigliarsi. Così si va innanzi per un'altr'ora pensando già a Londra come a una città lontana e al movimento e allo strepito del porto come uno spettacolo del giorno innanzi. Quand'ecco a una svoltata del fiume nuove file lunghissime di bastimenti nuove foreste lontane di alberi e d'antenne nuovi docks immensi un altro porto un altro spettacolo grandioso. Qui l'ammirazione si cangia in stupore e sembra di sognare. Si direbbe che si sta per entrare in un'altra Londra. Si passa accanto ai docks delle Indie orientali si rasentano gli arsenali di Woolwich si trascorre lungo i docks Vittoria che si stendono per tre miglia lungo la riva sinistra e via sempre in mezzo a muri senza fine navi senza numero merci macchine fumo fischi partenze arrivi bandiere di tutti i popoli della terra faccie di tutti i colori parole di lingue ignote che vi giungono all'orecchio dai legni vicini vestimenta strane grida selvaggie che fan balenare alla fantasia mari e lidi remoti. E son tre ore che quello spettacolo dura! Per quanto il senso dell'ammirazione sia stanco bisogna ricominciare ad ammirare. La mente si esalta non si prova più quel sentimento quasi di umiliazione che si provava da principio paragonando quel paese al proprio; non si paragona più; ci si sente diventare cosmopolita; l'orgoglio nazionale muore in un sentimento d'orgoglio umano; non si vede più il porto di Londra ma il porto di tutti i paesi il centro del commercio della terra il luogo di convegno dei popoli d'ogni razza e d'ogni zona; e mentre gli occhi guardan lì il pensiero attraversa i continenti e si rappresenta le immense curve descritte sul globo da quella miriade di navi che s'incontrano e si salutano; le fatiche e i pericoli infiniti il via vai perpetuo per le terre e pei mari il lavoro eterno dell'umanità instancabile e par di comprendere per la prima volta le leggi della vita del mondo. E intanto il bastimento vola il Tamigi s'allarga le foreste di navi non appariscono più che come vasti cannetti sull'orizzonte leggermente dorato dal sole che cade; ma ai docks succedono ancora i docks i bacini ai bacini i magazzeni ai magazzeni gli arsenali agli arsenali; Londra la grande Londra è sempre là; Londra dopo quattr'ore di navigazione ci segue ancora; a destra a sinistra davanti fin dove arriva lo sguardo si vede ancora con un misto quasi di dubbio e di spavento la città mostruosa che lavora e s'avanza.

FINE /79.583

  1. CLASSIC LITERATURE
    EDMONDO DE AMICIS - Londra
  2. GRAZIA DELEDDA - Canne al vento
  3. FRANCESCO DE SANCTIS - Storia della letteratura italiana
    CLASSIC REFERENCE IN ENGLISH
  4. ELWES - Italian Grammar
  5. FERDINANDO ALTIERI - A New Italian Grammar (1736)
  6. J. MARCONI - A Key to the Italian Language and Conversation (1826)
  7. VERGANI - A New and Complete Italian Grammar (1828)
  8. JOSEPH BARETTI - English and Italian Dictionary (1832)
  9. GRAGLIA/OUISEAU - Pocket Italian Dictionary (1833)
  10. PIETRO BACHI - A Grammar of the Italian Language (1838)
  11. E. LEMMI - Key to Italian Grammar (1865)
    CLASSIC REFERENCE IN ITALIAN
  12. EGIDIO MENAGIO - Le origini della lingua italiana (1670)
  13. G.F. GALEANI NAPIONE - Dell'uso e dei pregi della lingua italiana (1791-1830)
  14. FRANCESCO CARDINALI - Dizionario portatile della lingua italiana - Tomo 2° (1828)
  15. NICOLÒ TOMMASEO - Nuovo dizionario de' sinonimi della lingua italiana (1830)
  16. ANGELO CERUTTI - Grammatica filosofica della lingua italiana (1831)
  17. OTTAVIO MAZZONI TOSELLI - Origine della lingua italiana (1831)
  18. GIUSEPPE GRASSI - Saggio intorno ai sinonimi della lingua italiana (1832)
  19. G.T. - Primi principii di grammatica italiana ad uso dei piccoli fanciulli (1833)
  20. CARLO ANT. VANZON - Grammatica ragionata della lingua italiana (1834)
  21. CARLO ANT. VANZON - Dizionario universale della lingua italiana - Tomo 5° P-Q - (1838)
  22. NICOLÒ TOMMASEO - Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana (1838)
  23. GIUSEPPE MANUZZI - Vocabolario della lingua italiana - Tomo secondo - Parte prima (1838)
  24. ALESSANDRO MANZONI - Sulla lingua italiana (1868)

 

 

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