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FRANCESCO DE SANCTIS
Storia della letteratura italiana

I

I SICILIANI

Il più antico documento della nostra letteratura è comunemente creduto la cantilena o canzone di Ciullo (diminutivo di Vincenzo) di Alcamo e una canzone di Folcacchiero da Siena.

Quale delle due canzoni sia anteriore è cosa puerile disputare essendo esse non principio ma parte di tutta un'epoca letteraria cominciata assai prima e giunta al suo splendore sotto Federico secondo da cui prese il nome.

Federico secondo imperatore d'Alemagna e re di Sicilia chiamato da Dante “cherico grande” cioè uomo dottissimo fu come leggesi nel novelissimo signore nella cui corte a Palermo venia “la gente che avea bontade sonatori trovatori e belli favellatori”. E perciò i rimatori di quel tempo ancorchè parecchi sieno d'altra parte d'Italia furono detti siciliani.

Che cosa è la cantilena di Ciullo?

È una tenzone o dialogo tra Amante e Madonna Amante che chiede e Madonna che nega e nega e in ultimo concede tema frequentissimo nelle canzoni popolari di tutt'i tempi e luoghi e che trovo anche oggi a Firenze nella Canzone tra il Frustino e la Crestaia.

Ciascuna domanda e risposta è in una strofa di otto versi sei settenari di cui tre sdruccioli e tre rimati chiusi da due endecasillabi rimati. La lingua è ancor rozza e incerta nelle forme grammaticali e nelle desinenze mescolata di voci siciliane napolitane provenzali francesi latine. Diamo ad esempio due strofe:

 

AMANTE

 

Molte sono le femine

c'hanno dura la testa

e l'uomo con parabole

le dimina e ammonesta:

tanto intorno percacciale

sinchè l'ha in sua podesta.

Femina d'uomo non si può tenere.

Guàrdati bella pur di ripentere.

 

MADONNA

 

Che eo me ne pentesse?

Davanti foss'io auccisa

ca nulla buona femina

per me fosse riprisa.

Er sera ci passasti

correnno alla distisa.

Acquistiti riposo canzoneri:

le tue paraole a me non piaccion gueri.

 

La canzone è tirata giù tutta d'un fiato piena di naturalezza e di brio e di movimenti drammatici rapida tutta cose senza ombra di artificio e di rettorica. Ci è una finezza e gentilezza di concetti in forma ancor greggia ineducata. E perciò il documento è più prezioso perchè se l'ingegno del poeta apparisce ne' concetti e ne' sentimenti e nell'andamento vivo e rapido del dialogo la forma è quasi impersonale ritratto immediato e genuino di quel tempo.

E studiando in quella forma è facile indurre che c'era allora già la nuova lingua non ancora formata e fissata ma tale che non solo si parlava ma si scriveva; e c'era pure una scuola poetica col suo repertorio di frasi e di concetti e con le sue forme tecniche e metriche già fissate.

Chi sa quanto tempo si richiede perchè una lingua nuova acquisti una certa forma che la renda atta ad essere scritta e cantata può farsi capace che la lingua di Ciullo ancorachè in uno stato ancora di formazione dovea già essere usata da parecchi secoli indietro.

E ci volle anche almeno un secolo perchè fosse possibile una scuola poetica giunta allora all'ultimo grado della sua storia quando i concetti i sentimenti e le forme diventano immobili come un dizionario e sono in tutti i medesimi.

Come e quando la lingua latina sia ita in decomposizione quali erano i dialetti usati dalle varie plebi come e quando siensi formate le lingue nuove o moderne neolatine quando e come siesi formato il nostro volgare si può congetturare con più o meno di verisimiglianza ma non si può affermare per la insufficienza de' documenti. Oltrechè non è questo il luogo di esaminare e chiarire quistioni filologiche di così alto interesse materia non ancora esausta di sottili e appassionate discussioni.

Si possono affermare alcuni fatti.

La lingua latina fu sempre in uso presso la parte colta della nazione parlata e scritta da' chierici da' dottori da' professori e da' discepoli. Ricordano Malespini dice che Federico secondo seppe “la lingua nostra latina e il nostro volgare”.

Ci erano dunque due lingue nostre nazionali il latino e il volgare. E che accanto al latino ci fosse il volgare parlato nell'uso comune della vita si vede pure da' contratti e istrumenti scritti in un latino che pare una traduzione dal volgare e dove spesso accanto alla voce latina trovi la voce in uso con un “vulgo dicitur” o “dicto.”

Questo volgare non era in fondo che lo stesso latino come erasi ito trasformando nel linguaggio comune detto il “romano rustico”. Nell'812 il concilio di Torsi raccomanda ai preti di affaticarsi a dichiarare le omelie in “lingua romana rustica”. Questa lingua romana o romanza dice Erasmo presso gli spagnuoli gli africani i galli e le altre romane province era così nota alla plebe che gli ultimi artigiani intendevano chi la parlasse “solo che l'oratore si fosse accostato alla guisa del volgo”. Il volgo dunque parlava un dialetto molto simile al romano e similissimo a questo dovea essere il nostro volgare anzi quasi non altro che questo uno nelle sue forme sostanziali vario ne' diversi dialetti quanto alle sue parti accidentali come desinenze accenti affissi ecc. C'era dunque un tipo unico presente in tutte le lingue neolatine e più prossimo come nota Leibnizio alla lingua italica che ad alcun'altra.

Con lo scemare della coltura prevalsero i dialetti. Per le chiese per le scuole negli atti pubblici era usato un latino barbaro molto simile alla lingua del volgo. Nell'uso comune il volgare non era parlato in nessuna parte ma era dappertutto come il tipo unico a cui s'informavano i dialetti e che li certificava di una sola famiglia.

Questo tipo o carattere de' nostri dialetti appare e nella somiglianza de' vocaboli e delle forme grammaticali e ne' mezzi musicali e analitici sostituiti alla prosodia e alle forme sintetiche della lingua latina. Il nome generico della nuova lingua come segno di distinzione dal latino era il “volgare”. Così Malespini dicea: “la nostra lingua latina e il nostro volgare” cioè la nuova lingua parlata in tutta Italia dal volgo ne' suoi dialetti.

Con lo svegliarsi della coltura se parecchi dialetti rimasero rozzi e barbari come le genti che li parlavano altri si pulirono con tendenza visibile a svilupparsi dagli elementi locali e plebei e prendere un colore e una fisonomia civile accostandosi a quel tipo o ideale comune fra tante variazioni municipali che non si era perduto mai che era come criterio a distinguere fra loro i dialetti più o meno conformi a quello stampo e che si diceva il “volgare” così prossimo al romano rustico.

Proprio della coltura è suscitare nuove idee e bisogni meno materiali formare una classe di cittadini più educata e civile metterla in comunicazione con la coltura straniera avvicinare e accomunare le lingue sviluppando in esse non quello che è locale ma quello che è comune.

La coltura italiana produsse questo doppio fenomeno: la ristaurazione del latino e la formazione del volgare. Le classi più civili da una parte si studiarono di scrivere in un latino meno guasto e scorretto dall'altra ad esprimere i sentimenti più intimi e familiari della nuova vita lasciando alla spregiata plebe i natii dialetti cercarono forme di dire più gentili un linguaggio comune dove appare ancora questo o quel dialetto ma ci si sente già uno sforzo ad allontanarsene e prendere quegli abiti e quei modi più in uso fra la gente educata e che meglio la distinguano dalla plebe.

Questo linguaggio comune si forma più facilmente dove sia un gran centro di coltura che avvicini le classi colte e sia come il convegno degli uomini più illustri. Questo fu a Palermo nella corte di Federico secondo dove convenivano siciliani pugliesi toscani romagnoli o per dirla col Novellino “dove la gente che avea bontade venìa a lui da tutte le parti”.

Il dialetto siciliano era già sopra agli altri come confessa Dante. E in Sicilia troviamo appunto un volgare cantato e scritto che non è più dialetto siciliano e non è ancora lingua italiana ma è già malgrado gli elementi locali un parlare comune a tutt'i rimatori italiani e che tende più e più a scostarsi dal particolare del dialetto e divenire il linguaggio delle persone civili.

La Sicilia avea avuto già due grandi epoche di coltura l'araba e la normanna. Il mondo fantastico e voluttuoso orientale vi era penetrato con gli arabi e il mondo cavalleresco germanico vi era penetrato co' normanni che ebbero parte così splendida nelle Crociate. Ivi più che in altre parti d'Italia erano vive le impressioni le rimembranze e i sentimenti di quella grande epoca da Goffredo a Saladino; i canti de' trovatori le novelle orientali la Tavola rotonda un contatto immediato con popoli così diversi di vita e di coltura avea colpito le immaginazioni e svegliata la vita intellettuale e morale. La Sicilia divenne il centro della coltura italiana. Fin dal 1166 nella corte del normanno Guglielmo II convenivano i trovatori italiani. Sotto Federico secondo l'Italia colta avea la sua capitale in Palermo. Tutti gli scrittori si chiamavano “siciliani”. Cronache trattati scrivevano in un latino già meno rozzo anzi ricercato e pretensioso come si vede nel Falcando. I sentimenti e le idee nuove avevano la loro espressione in quel romano rustico fondo comune di tutt'i dialetti e divenuto il parlare della gente colta il “volgare” di tutt'i volgari moderni il più simile al latino.

La lingua di Ciullo non è dialetto siciliano ma già il volgare com'era usato in tutt'i trovatori italiani ancora barbaro incerto e mescolato di elementi locali materia ancora greggia.

Vi si trova una forma poetica molto artificiosa e musicale con un gioco assai bene inteso di rime e grande ricchezza e spontaneità di forme e di concetti. Per giungere fin qui è stato necessario un lungo periodo di elaborazione. Ciullo è l'eco ancora plebea di quella vita nuova svegliatasi in Europa al tempo delle Crociate e che avea avuta la sua espressione anche in Italia e massime nella normanna Sicilia. Di quella vita un'espressione ancor semplice e immediata ma più nobile più diretta e meno locale è nella romanza attribuita al re di Gerusalemme e nel Lamento dell'amante del crociato di Rinaldo d'Aquino. Sentimenti gentili e affettuosi sono qui espressi in lingua schietta e di un pretto stampo italiano con semplicità e verità di stile con melodia soave. Cantato e accompagnato da istrumenti musicali questo “sonetto” come lo chiama l'innamorata dovea fare la più grande impressione. Comincia così:

Giammai non mi conforto
nè mi voglio allegrare.

Le navi sono al porto

e vogliono collare.

Vassene la più gente

in terre d'oltremare.

Ed io oimè lassa dolente!

Come degg'io fare?

Vassene in altea contrata

e nol mi manda a dire:

ed io rimango ingannata.

Tanti son li sospire

che mi fanno gran guerra

la notte con la dia;

nè in cielo nè in terra

non mi pare ch'io sia.

 

Il seguito della canzone è una tenera e naturale mescolanza di preghiere e di lamenti ora raccomandando a Dio l'amato ora dolendosi con la croce:

La croce mi fa dolente
e non mi val Deo pregare.

Oimè croce pellegrina

perchè m'hai così distrutta?

Oinzè lassa tapina!

ch'io ardo e incendo tutta.

 

Finisce così

 

Però ti prego Dolcetto

che sai la pena mia

che me ne facci un sonetto

e mandilo in Soria:

ch'io non posso abentare

notte nè dia:

in terra d'oltremare

ita è la vita mia.

 

La lezione è scorretta; pure questa è già lingua italiana e molto sviluppata ne' suoi elementi musicali e ne' suoi lineamenti essenziali.

L'amante che prega e chiede amore l'innamorata che lamenta la lontananza dell'amato o che teme di essere abbandonata le punture e le gioie dell'amore sono i temi semplici de' canti popolari la prima effusione del cuore messo in agitazione dall'amore. E queste poesie come le più semplici e spontanee sono anche le più affettuose e le più sincere. Sono le prime impressioni sentimenti giovani e nuovi poetici per sè stessi non ancora analizzati e raffinati.

Di tal natura è il Lamento dell'innamorato per la partenza in Storia della sua amata di Ruggerone da Palermo e il canto di Odo delle Colonne da Messina dove l'innamorata con dolci lamenti effonde la sua pena e la sua gelosia. Eccone il principio:

Oi lassa innamorata
contar vo' la mia vita

e dire ogni fiata

come l'amor m'invita

ch'io son senza peccata

d 'assai pene guernita

per uno che amo e voglio

e non aggio in mia baglia

siccome avere io soglio;

però pato travaglia.

Ed or mi mena orgoglio

lo cor mi fende e taglia.

Oi lassa tapinella
come l'amor m'ha prisa!

Come lo cor m'infella

quello che m'ha conquisa!

La sua persona bella

tolto m'ha gioco e risa

ed hammi messa in pene

ed in tormento forte:

mai non credo aver bene

se non m'accorre morte

e spero là che vene

traggami d'esta sorte.

Lassa che mi dicia

quando m'avìa in celato:

 - Di te o vita mia

mi tegno più pagato

che s'io avessi in balìa

lo mondo a signorato.

 

Sono sentimenti elementari e irriflessi che sbuccian fuori nella loro natia integrità senza immagini e senza concetti. Non ci è poeta di quel tempo anche tra i meno naturali dove non trovi qualche esempio di questa forma primitiva elementare a suon di natura come dice un poeta popolare e com'è una prima e subita impressione colta nella sua sincerità. Ed è allora che la lingua esce così viva e propria e musicale che serba una immortale freschezza e la diresti “pur mo' nata” e fa contrasto con altre parti ispide dello stesso canto. Rozza assai è una canzone di Enzo re; ma chi ha pazienza di leggerla vi trova questa gemma:

 

Giorno non ho di posa

come nel mare l'onda:

core chè non ti smembri?

Esci di pene e dal corpo ti parte:

ch'assai val meglio un'ora

morir che ognor penare.

 

Rozzissima è una canzone di Folco di Calabria poeta assai antico; ma nella fine trovi lo stesso sentimento in una forma certo lontana da questa perfezione pur semplice e sincera:

Perzò meglio varria
morir in tutto in tutto

ch'usar la vita mia

in pena ed in corrutto

come uomo languente.

 

Nella canzone a stampa di Folcacchiero da Siena fredda e stentata è pure qua e colà una certa grazia nella nuda ingenuità di sentimenti che vengon fuori nella loro crudità elementare. Udite questi versi:

 

E par ch'eo viva in noia della gente:

ogni uono m' è selvaggio:

non paiono li fiori

per me com' già soleano

e gli augei per amori

dolci versi faceano — agli albori.

 

Questi fenomeni amorosi sono a lui cosa nuova che lo empiono di maraviglia e lo commuovono e lo interessano senza ch'ei senta bisogno di svilupparli o di abbellirli. Narra non rappresenta e non descrive. Non è ancora la storia è la cronaca del suo cuore.

Però niente è in questi che per ingenuità e spontaneità di forma e di sentimento uguagli il canto di Rinaldo di Aquino o di Odo delle Colonne. Sono due esempli notevoli di schietta e naturale poesia popolare.

Ma la coltura siciliana avea un peccato originale. Venuta dal di fuori quella vita cavalleresca mescolata di colori e rimembranze orientali non avea riscontro nella vita nazionale. La gaia scienza il codice d'amore i romanzi della Tavola rotonda i Reali di Francia le novelle arabe Tristano Isotta Carlomagno e Saladino il soldano tutto questo era penetrato in Italia e se colpiva l'immaginazione rimaneva estraneo all'anima e alla vita reale. Nelle corti ce ne fu l'imitazione. Avemmo anche noi i trovatori i giullari e i novellatori. Vennero in voga traduzioni imitazioni contraffazioni di poemi romanzi rime cavalleresche. L'Intelligenzia poema in nona rima ultimamente scoperto è una imitazione di simil genere. L'amore divenne un'arte col suo codice di leggi e costumi. Non ci fu più questa o quella donna ma la donna con forme e lineamenti fissati così come era concepita ne' libri di cavalleria. Tutte le donne sono simili. E così gli uomini: tutti sono il cavaliere con sentimenti fattizii e attinti da' libri. Ma il movimento si fermò negli strati superiori della società e non penetrò molto addentro nel popolo e non durò. Forse se la Casa sveva avesse avuto il di sopra questa vita cavalleresca e feudale sarebbe divenuta italiana. Ma la caduta di Casa sveva e la vittoria de' comuni nell'Italia centrale fecero della cavalleria un mondo fantastico simile a quel favoleggiare di Roma di Fiesole e di Troia.

Essendo idee sentimenti e immagini una merce bella e fatta non trovate e non lavorate da noi si trovano messe lì come tolte di peso con manifesto contrasto tra la forma ancor rozza e i concetti peregrini e raffinati. Sono concetti scompagnati dal sentimento che li produsse e che non generano alcuna impressione. Quando vengono sotto la penna il cervello e il cuore sono tranquilli. Il poeta dice che amore lo fa “trovare” lo rende un trovatore; ma è un amore come lo trova scritto nel codice e ne' testi nè ti è dato sentire ne' suoi versi una tragedia sua le sue agitazioni. Le reminiscenze le idee in voga gli tengono luogo d'ispirazione. Sono migliaia di poesie tutte di un contenuto e di un colore così somiglianti che spesso sei impacciato a dire il tempo e l'autore del canto ove ne' codici sia discordanza o silenzio: ciò che non di rado accade. La poesia non è una prepotente effusione dell'anima ma una distrazione un sollazzo un diporto una moda una galanteria. È un passatempo come erano le corti d'amore è la gaia scienza un modo di passarsela allegramente e acquistarsi facile riputazione di spirito e di coltura facendo sfoggio della dottrina d'amore; e chi più mostrava saperne era più ammirato. Invano cerchi ne' canti di Federico di Enzo di Manfredi di Pier delle Vigne le preoccupazioni o le agitazioni della loro vita: vi trovi il solito codice d'amore con le stesse generalità. L'arte diviene un mestiere il poeta diviene un dilettante; tutto è convenzionale concetti frasi forme metri: un meccanismo che dovea destare grande ammirazione nel volgo specialmente usato dalle donne; la Nina Siciliana e la Compiuta Donzella fiorentina dovettero parere un miracolo.

Quello che avvenne si può indovinare. Migliori poeti son quelli che scrivono senza guardare all'effetto e senza pretensione a diletto e a sfogo e come viene. Anche nelle poesie più rozze trovi bei movimenti di affetto e d'immaginazione con una gentilezza e leggiadria di forma che viene dal di dentro. Sono più vicini al sentimento popolare e alla natura. Ma quando vai su quando ti accosti a quella poesia che Dante chiama aulica e cortigiana ti trovi già lontano dal vero e dalla natura ed hai tutt'i difetti di una scuola poetica nata e formata fuori d'Italia e già meccanizzata e raffinata. Hai tutt'i difetti della decadenza un seicentismo che infetta l'arte ancora in culla. Ci è già un repertorio. Il poeta dotto non prende quei concetti così crudi e nudi come fanno i rozzi nella loro semplicità ma per fare effetto li assottiglia e li esagera. Nei rozzi non ci è alcun lavoro: in questi un lavoro c'è ma freddo e meccanico. Concetti immagini sentimenti frasi metri rime tutto è sforzato tormentato oltrepassato sì che il lettore ammiri la dottrina lo spirito e le difficoltà superate. Trovi insieme rozzezza e affettazione. La lingua ancor giovane non è raffinata come il concetto e scopre l'artificio di un lavoro a cui rimane estranea. E fosse almeno originale questo lavoro sì che rivelasse nei poeta una vera svegliatezza e attività dello spirito! Ma è un seicentismo venuto anch'esso dal di fuori. Eccone un esempio:

Umile sono ed orgoglioso
prode e vile e coraggioso

franco e sicuro e pauroso

e sono folle e saggio.

Facciome prode e dannaggio

e diraggio

 - Vi' como

mal e bene aggio

più che null'omo. -

 

Così comincia una canzone Ruggieri Pugliese tutta su questo andare dove la rozzezza e la negligenza della forma esclude ogni serietà di lavoro: è una litania di antitesi racimolate qua e là e messe insieme a casaccio.

I poeti siciliani di questo genere più ammirati a quei tempi sono Guido delle Colonne e il notaio Iacopo da Lentino.

Guido dottore o come allora dicevasi giudice fu uomo dottissimo. Scrisse cronache e storie in latino e voltò di greco in latino la Storia della caduta di Troia di Darete una versione che fu poi recata parecchie volte in volgare. Un uomo par suo sdegna di scrivere nel comune volgare e tende ad alzarsi ad accostarsi alla maestà e gravità del latino: sì che meritò che Dante le sue canzoni chiamasse tragiche cioè del genere nobile e illustre. Ma la natura non lo avea fatto poeta e la sua dottrina e il lungo uso di scrivere non valse che a fargli conseguire una perfezione tecnica della quale non era esempio avanti. Hai un periodo ben formato molta arte di nessi e di passaggi uno studio di armonia e di gravità: artificio puramente letterario e a freddo. Manca il sentimento; supplisce l'acutezza e la dottrina studiandosi di fare effetto con la peregrinità d'immagini e concetti esagerati e raffinati che parrebbero ridicoli se non fossero incastonati in una forma di grave e artificiosa apparenza. Ecco un esempio:

Ancor che l'aigua per lo foco lasse

la sua grande freddura

non cangerea natura

se alcun vasello in mezzo non vi stasse:

anzi avverrea senza alcuna dimura

che lo foco stutasse

o che l'aigua seccasse;

ma per lo mezzo l'uno e l'alto dura.

Così gentil criatura

in me ha mostrato amore

l'ardente suo valore

che senz'amore - era aigua fredda e ghiaccia.

Ma el m'ha sì allumato

di foco che m'abbraccia

ch'eo fòra consumato

se voi donna sovrana

non foste voi mezzana

infra l'amore e meve

che fa lo foco nascere di neve.

 

E non si ferma qui e continua con l'acqua e il foco e la neve e poi dice che il suo spirito è ito via e lo “spirito ch'io aggio credo lo vostro sia che nel mio petto stia” e conchiude ch'ella lo tira a sè ed ella sola può come di tutte le pietre la sola calamita ha balìa di trarre: paragone in cui spende tutta la strofa spiegando come la calamita abbia questa virtù. Questi son concetti e freddure dissimulate nell'artificio della forma; perchè se guardi alla condotta del periodo all'arte de' passaggi alla stretta concatenazione delle idee alla felicità dell'espressione in dir cose così sottili e difficili hai poco a desiderare.

In Iacopo da Lentino questa maniera è condotta sino alla stravaganza massime ne' sonetti. Non mancano movimenti d'immaginazione ed una certa energia d'espressione come:

Ben vorria che avvenisse

che lo meo core uscisse

come incarnato tutto

e non dicesse mutto - a voi sdegnosa:

ch'Amore a tal n 'addusse

che se vipera fusse

naturia perderea:

ella mi vederea: - fòra pietosa.

 

Ma sono affogati fra paragoni sottigliezze e freddure che nella rozza trascurata forma spiccano più e sono reminiscenze sfoggio di sapere. Non sente amore ma sottilizza d'amore come:

Fino amor di fin cor vien di valenza

e scende in alto core somigliante

e fa di due voleri una voglienza

la qual è forte più che lo diamante

legandoli con amorosa lenza

che non si rompe nè scioglie l'amante.

 

Su questa via giunge sino alla più goffa espressione di una maniera falsa e affettata come è un sonetto che comincia:

Lo viso e son diviso dallo viso

e per avviso credo ben visare

però diviso viso dallo viso

ch'altro è lo viso che lo divisare ecc.

 

Nondimeno questi passatempi poetici se rimasero estranei alla serietà e intimità della vita ebbero non piccola influenza nella formazione del volgare sviluppando le forme grammaticali e la sintassi e il periodo e gli elementi musicali: come si vede principalmente in Guido delle Colonne. Ne' più rozzi trovi de' brani di un colore e di una melodia che ti fa presentire il Petrarca. Valgano a prova alcuni versi nella canzone attribuita a re Manfredi:

E vero certamente credo dire

che fra le donne voi siete sovrana

e d'ogni grazia e di virtù compita

per cui morir d'amor mi saria vita.

 

L'Intelligenzia poema allegorico pieno d'imitazioni e di contraffazioni ha una perfezione di lingua e di stile che mostra nell'ignoto autore un'anima delicata innamorata aperta alle bellezze della natura e fa presumere a quale eccellenza di forma era giunto il volgare. C'è una descrizione della primavera non nuova di concetti ma piena di espressione e di soavità come di chi ne ha il sentimento. E continua così:

Ed io stando presso a una fiumana

in un verziere all'ombra di un bel pino

d'acqua viva aveavi una fontana

intorneata di fior gelsomino.

Sentìa l'àire soave a tramontana:

udìa cantar gli augei in lor latino;

allor sentìo venir dal fino amore

un raggio che passò dentro dal core

come la luce che appare al mattino.

 

E descrive così la sua donna:

Guardai le sue fattezze dilicate

che nella fronte par la stella Diana

tant' è d'oltremirabile biltate

e nell'aspetto sì dolce ed umana!

Bianca e vermiglia di maggior clartate

che color di cristallo o fior di grana:

la bocca picciolella ed aulorosa

la gola fresca e bianca più che rosa

la parlatura sua soave e piana.

Le bionde trecce e i begli occhi amorosi

che stanno in sì salutevole loco

quando li volge son sì dilettosi

che il cor mi strugge come cera foco.

Quando spande li sguardi gaudiosi

par che 'l mondo si allegri e faccia gioco.

 

Qui ci è un vero entusiasmo lirico il sentimento della natura e della bellezza: ond'è nata una mollezza e dolcezza di forma che con poche correzioni potresti dir di oggi; così è giovine e fresca.

E se il sonetto dello “sparviere” è della Nina se è lavoro di quel tempo come non pare inverisimile è un altro esempio della eccellenza a cui era venuto il volgare maneggiato da un'anima piena di tenerezza e d'immaginazione:

 

Tapina me che amava uno sparviero

amaval tanto ch'io me ne moria;

a lo richiamo ben m'era maniero

ed unque troppo pascer nol dovia.

Or è montato e salito sì altero

assai più altero che far non solia;

ed è assiso dentro a un verziero

e un'altra donna l'averà in balìa.

Isparvier mio ch'io t'avea nodrito;

sonaglio d'oro ti facea portare

perchè nell'uccellar fossi più ardito.

Or sei salito siccome lo mare

ed hai rotto li geti e sei fuggito

quando eri fermo nel tuo uccellare.

 

Con la caduta degli Svevi questa vivace e fiorita coltura siciliana stagnò prima che acquistasse una coscienza più chiara di sè e venisse a maturità. La rovina fu tale che quasi ogni memoria se ne spense ed anche oggi dopo tante ricerche non hai che congetture oscurate da grandi lacune.

Nata feudale e cortigiana questa coltura diffondevasi già nelle classi inferiori ed acquistava una impronta tutta meridionale. Il suo carattere non è la forza nè l'elevatezza ma una tenerezza raddolcita dall'immaginazione e non so che molle e voluttuoso fra tanto riso di natura. Anche nella lingua penetra questa mollezza e le dà una fisonomia abbandonata e musicale come d'uomo che canti e non parli in uno stato di dolce riposo: qualità spiccata de' dialetti meridionali.

La parte ghibellina sconfitta a Benevento non si rilevò più. Lo nobile signore Federico e il bennato re Manfredi dieron luogo ai papi e agli Angioini loro fidi. La parte popolana ebbe il disopra in Toscana e la libertà de' comuni fu assicurata. La vita italiana mancata nell'Italia meridionale in quella sua forma cavalleresca e feudale si concentrò in Toscana. E la lingua fu detta toscana e toscani furon detti i poeti italiani. De' siciliani non rimase che questa epigrafe:

 

Che fur già primi: e quivi eran da sezzo.


II

I TOSCANI

Mentre la coltura siciliana si spiegava con tanto splendore e lusso d'immaginazione e attirava a sè i più chiari ingegni d'Italia ne' comuni dell'Italia centrale oscuramente ma con assiduo lavoro si formava e puliva il volgare. Centri principali erano Bologna e Firenze intorno a' quali trovi Lucca Pistoia Pisa Arezzo Siena Faenza Ravenna Todi Sarzana Pavia Reggio.

Gittando uno sguardo su quelle antichissime rime non vi trovi la vivacità e la tenerezza meridionale; ma uno stile sano e semplice lontano da ogni gonfiezza e pretensione e un volgare già assai più fino per la proprietà de' vocaboli ed una grazia non scevra di eleganza.

Trovo una tenzone di Ciacco dall'Anguillara fiorentino sullo stesso tema trattato da Ciullo. Nella cantilena di costui hai più varietà e più impeto e concetti ingegnosi in forma rozza. Nella tenzone di Ciacco tutto è su uno stampo in andamento piano uguale e tranquillo e in una lingua così propria e sicura che non ne hai esempio ne' più tersi e puliti siciliani. Comincia così:

 

AMANTE

O gemma leziosa

adorna villanella

che sei più virtudiosa

che non se ne favella;

per la virtude ch'hai

per grazia del Signore

aiutami chè sai

ch'io son tuo servo Amore.

 

DONNA

Assai son gemme in terra

ed in fiume ed in mare

ch'anno virtude in guerra

e fanno altrui allegrare:

amico io non son dessa

di quelle tre nessuna:

altrove va per essa

e cerca altra persona.

Con questa precisione e sicurezza di vocabolo e di frase che ti annunzia un volgare già formato e parlato si accompagna una misura e una grazia ignota alla nudità molle e voluttuosa della vita meridionale. E vaglia per prova la fine di questa tenzone di una decenza amabile così lontana dal plebeo “allo letto ne gimo” di Ciullo:

 

DONNA

Tanto m'hai predicata

e sì saputo dire

ch'io mi sono accordata:

dimmi: che t' è in piacere?

 

AMANTE

Madonna a me non piace

castella nè monete:

fatemi far la pace

con l'amor che sapete.

Questo addimando a vui

e facciovi finita.

Donna siete di lui

ed egli è la mia vita.

 

Questi dialoghi sono una pretta imitazione della lingua parlata e sono i più acconci a mostrare a qual grado di finezza e di grazia era giunto il volgare in Toscana massime in Firenze. Ecco alcuni brani di un altro dialogo di Ciacco:

 

Mentr'io mi cavalcava

audivi una donzella;

forte si lamentava

e diceva: - Oi madre bella

lungo tempo è passato

che deggio aver marito

e tu non lo m'hai dato.

La vita d'esto mondo nulla cosa mi pare...

 - Figlia mia benedetta

se l'amor ti confonde

de la dolce saetta

ben te ne puoi sofferere...

 - Per parole mi teni

tuttor così dicendo;

questo patto non fina

ed io tutta ardo e incendo;.

La voglia mi domanda

cosa che non suole

una luce più chiara che il sole;

per ella vo languendo.

 

In queste rappresentazioni schiette dell'animo e non astratte e pensate ma in casi ben determinati e circoscritti il poeta è sincero vede con chiarezza istintiva quello s'ha a fare e dire come fa il popolo e non esprime i suoi sentimenti perchè non ne ha coscienza tutto dietro alle cose che gli si presentano dette però in modo che ti suscitano anche le impressioni provate dal poeta. A lui basta dire il fatto e la sua immediata impressione senza dimorarvi sopra parendogli che la cosa in se stessa dica tutto: semplicità rara ne' meridionali dov'è maggiore espansione ma che è qualità principale del parlare fiorentino. Uno stupendo esempio trovi in questo sonetto della Compiuta Donzella fiorentina la divina Sibilla come la chiama maestro Torrigiano:

Alla stagion che il mondo foglia e fiora

accresce gioia a tutt'i fini amanti:

vanno insieme alli giardini allora

che gli augelletti fanno nuovi canti.

 

La franca gente tutta s'innamora

ed in servir ciascun traggesi innanti

ed ogni damigella in gioi' dimora

e a me ne abbondan smarrimenti e pianti.

 

Chè lo mio padre m'ha messa in errore

e tienemi sovente in forte doglia:

donar mi vuole a mia forza signore.

 

Ed io di ciò non ho disio nè voglia

e in gran tormento vivo a tutte l'ore:

però non mi rallegra fior nè foglia.

 

Un sonetto di Bondie Dietaiuti è similissimo a questo di concetto e di condotta con minor movimento e grazia e freschezza ma superiore d'assai per arte e perfezione di forma:

 

Quando l'aria rischiara e rinserena

il mondo torna in grande dilettanza

e l'acqua surge chiara dalla vena

e l'erba vien fiorita per sembianza

 

e gli augelletti riprendon lor lena

e fanno dolci versi in loro usanza

ciascun amante gran gioi' ne mena

per lo soave tempo che s'avanza.

 

Ed io languisco ed ho vita dogliosa:

come altro amante non posso gioire

chè la mia donna m' è tanto orgogliosa.

 

E non mi vale amar nè ben servire:

però l'altrui allegrezza m'è noiosa

e dogliomi ch'io veggio rinverdire.

 

In questi due sonetti è grande semplicità di pensiero e di andamento e una perfetta misura. Si ha aria di narrare quello si vede o si sente senza riflessioni ed emozioni ma con una vivacità ed un colorito che suscita le più vive impressioni. Il secondo sonetto è cosa perfetta se guardi alla parte tecnica ed accenna a maggior coltura; non solo la nuova lingua è pienamente formata ma è già elegante già la frase surroga i vocaboli propri: a me piace più la perfetta semplicità del sonetto femminile con movenza più vivace più immediata e più naturale.

La proprietà la grazia e la semplicità sono le tre veneri che si mostrano nel volgare come si era ito formando in Toscana; qualità che trovi ancora dove è più difficile a serbarle quando per una impazienza interna si rompe il freno e si dicono i secreti più delicati dell'animo con tanta più audacia quanto maggiore è stata la compressione e con la sicurezza di chi sente che non ha torto ma ragione: è una violenza raddolcita da una grazia ineffabile e che per una naturale misura rimane ipotetica nel seguente madrigale di Alesso di Guido Donati:

In pena vivo qui sola soletta

giovin rinchiusa dalla madre mia

la qual mi guarda con gran gelosia.

Ma io le giuro alla croce di Dio

s'ella mi terrà più sola serrata

ch'i' dirò: - Fa' con Dio vecchia arrabbiata. -

E gitterò la rocca il fuso e l'ago

amor fuggendo a te di cui m'appago.

 

Questa bella forma in tanto spirito e vivacità così castigata propria e semplice e piena di grazia si andò sviluppando non perchè il suo contenuto voleva così ma in opposizione ad esso contenuto vuoto ed astratto. Anzi che qualità del contenuto o di questo e quel poeta sembra il progresso naturale dello spirito toscano dotato di un certo senso artistico che lo tirava alla forma nella piena indifferenza del contenuto. Perciò queste qualità spiccano più dove il poeta non è impedito da un contenuto convenzionale ma si abbandona a rappresentare i fatti e i moti dell'animo come gli si affacciano in situazioni ben determinate e come sono nella realtà della vita. Allora contenuto e forma sono una cosa stessa ed hai ciò che di più perfetto ha prodotto a quel tempo lo spirito toscano: come è in parecchie poesie già citate. Potremmo desiderare che la lingua e la poesia italiana si fosse ita formando per un movimento ingenito naturale e popolare com'è stato presso altri popoli. Ma sono desidèri sterili. Il fatto è che mentre la lingua si formava il contenuto era già formato e meccanizzato e convenzionale: la lingua si moveva il contenuto rimaneva stazionario lo stesso ne' più puliti scrittori tutti del pari dimenticati perchè quello solo sopravvive che ha una forma prodotta da un contenuto attivo e reale vivente della vita comune.

Tale non è il contenuto in tanta moltitudine di rimatori a quei tempi. In Toscana come in Sicilia ci era già tutto un mondo poetico non formato a poco a poco insieme col volgare ma già fissato con lineamenti precisi e costanti. C'era già una poetica e c'era anche un vocabolario comune. Concetti e parole sono in tutt'i trovatori gli stessi. Come più tardi avemmo le maschere cioè caratteri comici con lineamenti tradizionali che nessuno si attentava di alterare così ci era allora Madonna e Messere.

Madonna l'“amanza” o la cosa amata era un ideale di tutta perfezione non la tale e tale donna ma la donna in genere amata con un sentimento che teneva di adorazione e di culto. Messere era l'amante il “meo sere” che avea qualche valore solo amando. Uomo senz'amore è uomo senza valore. Amare è indizio di cor gentile. Chi ama è cavaliere ubbidiente alle leggi dell'onore difensore della giustizia protettore de' deboli umile servo o servente d'amore e soffre volentieri ove a sua Madonna piaccia e amato sta allegro ma “senza vanitate” senza menar vanto e spregia le ricchezze perchè chi è amato è ricco. Amore è “di due voleri una voglienza” ed è senza “fallimento” o “villania” senza peccato e sta contento al solo sguardo; nello stesso paradiso la gioia dell'amante è contemplare Madonna e senza Madonna “non vi vorria gire”. Il codice d'amore descrive i concetti e i sentimenti degli amanti “fini” e “cortesi”. Il codice della cavalleria descrive le leggi dell'onore i doveri di cavaliere “leale” e “franco”. Come si vede amore era tutta la vita ne' suoi vari aspetti era Dio patria e legge; la donna era la divinità di quei rozzi petti. Chi cerca nelle memorie della prima età troverà questo ideale della donna nella sua purezza e nella sua onnipotenza: l'universo è la Donna. E tale fu negl'inizi della società moderna in Germania in Francia in Provenza in Spagna in Italia. La storia fu fatta a quella immagine. Troiani e romani erano concepiti come cavalieri erranti e così arabi saraceni turchi lo soldano e Saladino. Paris e Elena Piramo e Tisbe sono eroi da romanzo come Lancillotto e Ginevra Tristano e Isaotta la bionda. In questa fraternità universale si trovano gli angioli i santi i miracoli il paradiso in istrana mescolanza col fantastico e il voluttuoso del mondo orientale tutto battezzato sotto nome di cavalleria. Le idee generali non sono ancora potenti di uscire nella loro forma e sono ancora allegorie. Le idee morali sono motti e proverbi. La letteratura di questa età infantile sono romanzi e novelle e favole e motti poemi allegorici e sonetti nel loro primo significato cioè rime con suoni canti e balli onde la canzone e la ballata.

La cavalleria poco attecchì in Italia. Castella e castellane col loro corteggio di giullari trovatori novellatori e bei favellatori doveano aver poco prestigio presso un popolo che avea disfatte le castella e s'era ordinato a comune. Vinto Federico Barbarossa e abbattuta poi Casa sveva quella vita di popolo fu assicurata e le tradizioni feudali e monarchiche perdettero ogni efficacia nella realtà. Rimasero nella memoria non come regola della vita ma come un puro gioco d'immaginazione. Nessuno credeva a quel mondo cavalleresco nessuno gli dava serietà e valore pratico: era un passatempo dello spirito non tutta la vita ma un incidente una distrazione. Ora quando un contenuto non penetra nelle intime latebre della società e rimane nel campo dell'immaginazione diviene subito frivolo e convenzionale come la moda e perde ogni sincerità e ogni serietà. Ma la stessa immaginazione era inaridita innanzi a un contenuto dato e fissato come si trovava in una letteratura non nata e formata con la vita nazionale ma venuta dal di fuori per via di traduzioni. Perciò niente di nazionale e di originale nessun moto di fantasia o di sentimento; nessuna varietà di contenuto; una così noiosa uniformità che mal sai distinguere un poeta dall'altro.

Questo contenuto non può aver vita se non si move trasformato e lavorato dal genio nazionale. Quello stesso senso artistico che avea condotta già a tanta perfezione la lingua dovea altresì risuscitare quel contenuto e dargli moto e spirito.

L'Italia avea già una coltura propria e nazionale molto progredita: l'Europa andava già ad imparare nella dotta Bologna. Teologia filosofia giurisprudenza scienze naturali studi classici aveano già con vario indirizzo dato un vivo impulso allo spirito nazionale. Quel contenuto cavalleresco dovea parer frivolo e superficiale ad uomini educati con Virgilio ed Ovidio che leggevan san Tommaso e Aristotile nutriti di Pandette e di dritto canonico ed aperti a tutte le maraviglie dell'astronomia e delle scienze naturali. Le tenzoni d'amore doveano parer cosa puerile a quegli atleti delle scuole così pronti e così sottili nelle lotte universitarie. Quella forma di poetare dovea parer troppo rozza e povera a gente già iniziata in tutti gli artifici della rettorica. Nacque l'entusiasmo della scienza una specie di nuova cavalleria che detronizzava l'antica. Lo stesso impeto che portava l'Europa a Gerusalemme la portava ora a Bologna. Gli storici descrivono co' più vivi colori questo grande movimento di curiosità scientifica il cui principal centro era in Italia.

E la scienza fu madre della poesia italiana e la prima ispirazione venne dalla scuola. Il primo poeta è chiamato il Saggio e fu il padre della nostra letteratura fu il bolognese Guido Guinicelli il nobile il massimo dice Dante il padre

 

mio e degli altri miei miglior che mai

rime d'amor usàr dolci e leggiadre.

 

Guido nel 1270 insegnava lettere nell'università di Bologna. Il volgare era già formato e si chiamava “lingua materna”: l'uso moderno in opposizione al latino. Egli vi gittò dentro tutto l'entusiasmo di una mente educata dalla filosofia alle più alte speculazioni e commossa da' miracoli dell'astronomia e dalle scienze naturali. È il mondo nuovo della scienza che si rivela con le sue fresche impressioni nella sua canzone sulla natura dell'amore. In generale le poesie de' trovatori sono una filza di concetti addossati gli uni agli altri senza sviluppo. Qui non ci è che un solo concetto ed è il luogo comune de' trovatori espresso nel celebre verso:

Amore e cor gentil sono una cosa.

 

Ma questo concetto diviene tutto un mondo innanzi a Guido e si mostra ne' più nuovi aspetti. Risorge l'immaginazione e attinge le sue immagini non da' romanzi di cavalleria ma dalla fisica dall'astronomia da' più bei fenomeni della natura con la compiacenza con la voluttà e l'abbondanza di chi addita e spiega le sue scoperte. I paragoni si accavallano s'incalzano ti par di essere in un mondo incantato e passi di maraviglia in maraviglia. Citerò alcuni brani:

 

Al cor gentil ripara sempre amore

siccome augello in selva alla verdura;

nè fe amore anti che gentil core

nè gentil core anti che amor Natura.

Che adesso com' fu il Sole

sì tosto fue lo splendor lucente

nè fu davanti al Sole.

E prende Amore in gentilezza loco

così propiamente

come il calore in chiarità di foco.

 

Foco d'Amore in gentil cor s'apprende

come virtute in pietra preziosa;

chè dalla stella valor non discende

anzi che il Sol la faccia gentil cosa...

 

Amor per tal ragion sta in cor gentile

per qual lo foco in cima del doppiero...

 

Amore in gentil cor prende rivera

com' diamante dal ferro in la miniera.

 

èere lo Sol lo fango tutto il giorno:

vile riman: nè il Sol perde calore.

Dice uom altier: - Gentil per schiatta torno: -

lui sembra il fango; e il Sol gentil valore.

Chè non dee dare uom fè

che gentilezza sia fuor di coraggio

in dignità di re

se da virtute non ha gentil core:

com'acqua ei porta raggio

e il ciel ritien la stella e lo splendore.

 

C'è qui una certa oscurità alcuna volta e un certo stento come di un pensiero in travaglio e n'escono vivi guizzi di luce che rivelano le profondità di una mente sdegnosa di luoghi comuni e per lungo uso speculatrice. Il contenuto non è ancora trasformato internamente non è ancora poesia cioè vita e realtà; ma è già un fatto scientifico scrutato analizzato da una mente avida di sapere con la serietà e la profondità di chi si addentra ne' problemi della scienza e illuminato da una immaginazione eccitata non dall'ardore del sentimento ma dalla stessa profondità del pensiero. Guido non sente amore non riceve e non esprime impressioni amorose ma contempla l'amore e la bellezza con uno sguardo filosofico; quello che gli si affaccia non è persona idealizzata ma è pura idea della quale è innamorato con quello stesso amore che il filosofo porta alla verità intuita e contemplata dalla sua mente quasi fosse persona viva. Così Platone amava le sue idee; l'amore platonico non era altro che amore d'intuizione e di contemplazione una specie di parentela tra il contemplante e il contemplato: io ti contemplo e ti fo mia. Guido ama la creatura della sua meditazione e l'amore gli move l'immaginazione e gli fa trovare i più ricchi colori sì ch'ella par fuori pomposamente abbigliata. L'artista è un filosofo non è ancora un poeta. A quel contenuto cavalleresco frivolo e convenzionale così fecondo presso i popoli dove nacque così sterile presso noi dove fu importato succede Platone la contemplazione filosofica. Non ci è ancora il poeta ma ci è l'artista. Il pensiero si move l'immaginazione lavora. La scienza genera l'arte.

La coltura cavalleresca se giovò a formare il volgare impedì la libertà e spontaneità del sentimento popolare e creò un mondo artificiale e superficiale fuori della vita che rese insipidi gl'inizi della nostra letteratura così interessanti presso altri popoli. Quel contenuto stazionario comincia a moversi presso Guido di un moto impresso non da sentimento di amore ma da contemplazione scientifica dell'amore e della bellezza che se non riscalda il core sveglia l'immaginazione. Questo dunque si ricordi bene che la nostra letteratura fu prima inaridita nel suo germe da un mondo poetico cavalleresco non potuto penetrare nella vita nazionale e rimaso frivolo e insignificante; e fu poi sviata dalla scienza che l'allontanò sempre più dalla freschezza e ingenuità del sentimento popolare e creò una nuova poetica che non fu senza grande influenza sul suo avvenire. L'arte italiana nasceva non in mezzo al popolo ma nelle scuole fra san Tommaso e Aristotele tra san Bonaventura e Platone.

La poesia di Guido ha il difetto della sua qualità: la profondità diviene sottigliezza e l'immaginazione diviene rettorica quando vuole esprimere sentimenti che non prova. Vuol esprimere il suo stato quando fu colpito dal dardo di amore e dice che quel dardo

per gli occhi passa come fa lo trono

che fèr per la finestra della torre

e ciò che dentro trova spezza e fende.

Rimagno come statua d'ottono

ove spirto nè vita non ricorre

se non che la figura d 'uomo rende.

 

Queste non sono certo le insipide sottigliezze di Iacopo da Lentino. Ci si vede l'uomo d'ingegno e la mente che pensa. Ma non è linguaggio d'innamorato questo sottilizzare e fantasticare sul suo amore e sul suo stato.

Immensa fu l'impressione che produsse questa poesia di Guido se vogliamo giudicarla da quella che n'ebbe Dante che lo imitò tante volte che lo chiamò padre suo che la magnifica terza strofa scelse a materia della sua canzone sulla nobiltà che ebbe la stessa scuola poetica che nota la celebrità a cui venne l'uno e l'altro Guido e aggiunge:

e forse è nato

chi l'uno e l'altro caccerà di nido.

Guido oscurò tutt'i trovatori e salì a gran fama presso un pubblico avido di scienza e pieno d'immaginazione di cui Guido era il ritratto; un pubblico uscito dalle scuole per il quale poesia era sapienza e filosofia verità adorna e che non pregiava i versi se non come velame della dottrina:

Mirate la dottrina che s'asconde

sotto il velame de li versi strani.

 

Tal poeta tal pubblico. E si andò così formando una scuola poetica il cui codice è il Convito di Dante.

Se Bologna si gloriava del suo Guido Arezzo avea il suo Guittone Todi il suo Iacopone e Firenze il suo Brunetto Latini.

Dante mette Guittone tra quelli che “sogliono sempre ne' vocaboli e nelle locuzioni somigliare la plebe”. Alla qual sentenza contraddicono alcuni sonetti attribuiti a lui e che per l'andamento e la maniera sembrano di fattura molto posteriore. Se guardiamo alle sue canzoni e alle sue prose non sarà alcuno che non stimerà giusta la sentenza di Dante. In Guittone è notabile questo che nel poeta senti l'uomo: quella forma aspra e rozza ha pure una fisonomia originale e caratteristica una elevatezza morale una certa energia d'espressione. L'uomo ci è non l'innamorato ma l'uomo morale e credente e dalla sincerità della coscienza gli viene quella forza. E c'è anche l'uomo colto una mente esercitata alla meditazione e al ragionamento. I suoi versi sono non rappresentazione immediata della vita ma sottili e ingegnosi discorsi che doveano parer maraviglia a quel pubblico scolastico. Venne perciò a tale celebrità che fu tenuto per qualche tempo il primo de' poeti; ma nella sua vecchia età si vide oscurato da' nuovi astri onde dice il Petrarca:

Guitton d'Arezzo

che di non esser primo par ch'ira aggia.

 

Nondimeno gli rimasero ammiratori e seguaci con grande ira di Dante che esclama: “Cessino i seguaci dell'ignoranza che estollono Guittone d'Arezzo”.

Guittone non è poeta ma un sottile ragionatore in versi senza quelle grazie e leggiadrie che con sì ricca vena d'immaginazione ornano i ragionamenti di Guinicelli. Non è poeta e non è neppure artista: gli manca quella interna misura e melodia che condusse poeti inferiori a lui di coltura e d'ingegno a polire il volgare. È privo di gusto e di grazia.

Degne di maggiore attenzione sono le poesie di Iacopone come quelle che segnano un nuovo indirizzo nella nostra letteratura. Sono le poesie di un santo animato dal divino amore. Non sa di provenzali o di trovatori o di codici d'amore: questo mondo gli è ignoto. E non cura arte e non cerca pregio di lingua e di stile anzi affetta parlare di plebe con quello stesso piacere con che i santi vestivano vesti di povero. Una cosa vuole dare sfogo ad un'anima traboccante di affetto esaltata dal sentimento religioso. Ignora anche teologia e filosofia e non ha niente di scolastico. Si capisce che un poeta così fuori di moda dovea in breve esser dimenticato dal colto pubblico sì che le sue poesie ci furono conservate come un libro di divozione anzi che come lavoro letterario. E nondimeno c'è in Iacopone una vena di schietta e popolare e spontanea ispirazione che non trovi ne' poeti colti finora discorsi. Se i mille trovatori italiani avessero sentito amore con la caldezza e l'efficacia che desta tanto incendio nell'anima religiosa di Iacopone avremmo avuta una poesia meno dotta e meno artistica ma più popolare e sincera.

Iacopone riflette la vita italiana sotto uno de' suoi aspetti con assai più di sincerità e di verità che non trovi in nessun trovatore. È il sentimento religioso nella sua prima e natia espressione come si rivela nelle classi inculte senza nube di teologia e di scolasticismo e portato sino al misticismo ed all'estasi. In comunione di spirito con Dio la Vergine i santi e gli angeli parla loro con tutta dimestichezza e li dipinge con perfetta libertà d'immaginazione co' particolari più pietosi e più affettuosi che sa trovare una fantasia commossa dall'amore. Maria è soprattutto il suo idolo e le parla con la familiarità e l'insistenza di chi è sicuro della sua fede e sa di amarla:

Di' Maria dolce con quanto disio

miravi 'l tuo figliuol Cristo mio Dio.

 

Quando tu il partoristi senza pena

la prima cosa credo che facesti

sì l'adorasti o di grazia piena

poi sopra il fien nel presepio il ponesti;

con pochi e pover' panni l'involgesti

maravigliando e godendo cred'io.

 

O quanto gaudio avevi e quanto bene

quando tu lo tenevi fra le braccia!

Dillo Maria chè forse si conviene

che un poco per pietà mi satisfaccia.

Baciavi tu allora nella faccia

se ben credo e dicevi: - O figliuol mio! -

 

Quando “figliuol” quando “padre” e “signore”

quando “Dio” e quando “Gesù” lo chiamavi;

o quanto dolce amor sentivi al core

quando in grembo il tenevi ed allattavi!

Quanti dolci atti e d'amore soavi

vedevi essendo col tuo figliuol pio!

 

Quando un poco talora il dì dormiva

e tu destar volendo il paradiso

pian piano andavi che non ti sentiva

e la tua bocca ponevi al suo viso

e poi dicevi con materno riso:

 - Non dormir più che ti sarebbe rio. -

 

Sotto l'impressione del sentimento religioso Iacopone indovina tutte le gioie e le dolcezze dell'amor materno. Iacopone non concepisce il divino nella sua purezza come un teologo o un filosofo ma vestito di tutte le apparenze e gli affetti umani. Questa è una scena di famiglia colta dal vero con una franchezza di colorito e con una grazia di movenze tutta intuitiva. Preghiere sdegni follie d'amore fantasie estasi visioni tutto trovi in Iacopone al naturale e come gli viene di dentro; ciò che ci è più semplice e commovente e ciò che ci è più strano e volgare. La forma è il sentimento esso medesimo; ed ora è soave efficace quasi elegante ora stravagante e plebea. Ha una facilità che gli nuoce ed un impeto di espressione che non dà luogo alla lima. Ma ne' suoi impeti gli escono forme di dire così fresche e felici che non disdegnarono d'imitarle Dante e il Tasso. Nè è meno terribile che soave; e vagliano a prova alcuni tratti:

Andiam tutti a vedere

Iesù quando dormia.

La terra l'aria e il cielo

fiorir rider facia:

tanta dolcezza e grazia

dalla sua faccia uscia.

 

La faccia di Gesù bambino il Natale la Vergine il volo dell'anima al paradiso gli angioli sono visioni piene di grazia e di efficacia. Nascendo Gesù:

le gerarchie superne

eran dal ciel discese:

lucean come lucerne

d'ardente foco accese

le loro ale distese.

 

Gesù ha un corteggio di donne che gli danzano intorno Verginità Umiltà Carità Speranza Povertà Astinenza: è qualche cosa di simile alle tre sorelle di Dante nella sua celebre canzone. Ecco in che modo Iacopone descrive l'Umiltà:

E questa era gioconda

onesta e mansueta

e con la treccia bionda

e a cantar la più lieta;

 

d'ogni virtù repleta

a me il capo chinava:

tanto m'assecurava

ch'io presi a favellare.

 

Quella stessa immaginazione che dipinge con tanta grazia rappresenta con evidenza terribile i terrori dell'anima peccatrice nel giudizio universale:

 

Chi è questo gran Sire

rege di grande altura?

Sotterra i' vorrei gire

tal mi mette paura.

Ove potria fuggire

dalla sua faccia dura?

Terra fa' copritura

ch'io nol veggia adirato.

... ... ... .

Non trovo loco dove mi nasconda

monte nè piano nè grotta o foresta:

chè la veduta di Dio mi circonda

e in ogni loco paura mi desta...

Tutti li monti saranno abbassati

e l'aire stretto e i venti conturbati

e il mare muggirà da tutt'i lati.

Con l'acque lor stara fermi adunati

i fiumi ad aspettare.

Allor udrai dal ciel tromba sonare

e tutti i morti vedrai suscitare

avanti al tribunal di Cristo andare

e il foco ardente per l'aria volare

con gran velocitate.

 

Iacopone non è un'apparizione isolata; ma si collega a tutta una letteratura latina popolare animata dal sentimento religioso. Là trovi il Salve regina e l'Ave maria stella e il Dies irae e drammi e vite di santi scritte da uomini eloquenti e appassionati. Anche in volgare comparivano già cantici e laudi: di Bonifazio papa c'è rimasto un breve e rozzo cantico alla Vergine. I fatti della Bibbia la passione e morte di Cristo le visioni e i miracoli de' santi i lamenti e le preghiere delle anime purganti le mistiche gioie del paradiso i terrori dell'inferno erano il tema comune de' predicatori e rappresentazioni nelle chiese e su per le piazze sotto il nome di “misteri” “feste” “moralità”. È rimasta memoria di una visione dell'inferno con la quale Gregorio settimo quando era predicatore atterriva l'immaginazione de' suoi uditori: ed è visione di un fantastico e di una crudezza di colori che mette il brivido. In Morra mio paese nativo ricordo che nella festa della Madonna quando la processione è giunta sulla piazza comparisce l'angiolo che fa l'annunzio. Ed è ancora la vecchia tradizione dell'angiolo che allora apriva la rappresentazione annunziando l'argomento. È nota la grande rappresentazione dell'altro mondo in Firenze che rottosi il ponte di legno sull'Arno costò la vita a molte persone.

Questa materia religiosa che ispirò tanti capilavori di pittura e di scultura e di architettura era efficacissima fonte di poesia congiungendo in sè il fantastico e l'affetto il divino e l'umano e nelle sue gradazioni dall'inferno al paradiso facendo vibrar tutte le corde dello spirito. La sua tendenza troppo ascetica e spirituale era vinta dal grosso senso popolare che paganizzava e umanizzava tutto. In questa storia religiosa il cui proprio teatro è l'altra vita a cui questa è preparazione l'uomo mescolava le sue passioni terrene le sue vendette i suoi odii le sue opinioni i suoi amori. Maria era l'anello che giungeva la terra al cielo e il devoto le parla con tutta familiarità e le ricorda che la è stata pur donna. Iacopone dice:

Ricevi donna nel tuo grembo bello

le mie lacrime amare.

Tu sai che ti son prossimo e fratello

e tu nol puoi negare.

Lei implora il trovatore nel suo colpevole amore a lei si raccomanda anche oggi il brigante nelle sue scellerate spedizioni. Maria Gesù i santi gli angioli Lucifero non bastano: l'immaginazione popolare personifica le virtù e ne fa un corteggio di figure allegoriche alla divinità rappresentandole con ogni libertà come fa Iacopone e come si vede ne' bassirilievi e in tante opere di scultura e di pittura. E come il paganesimo ne' suoi ultimi tempi era interpretato allegoricamente anche le figure pagane entrano in questo mondo torte dal senso letterale e volte a significato generale come Giove Plutone Amore Apollo le Muse Caronte. Come il papa aspirava a far sua tutta la terra la storia religiosa assorbiva in sè tutt'i tempi e tutte le storie. In questa mescolanza universale opera di una immaginazione primitiva e ancor rozza non hai luce uguale e non fusione di tinte: domina un fondo oscuro il sentimento di un di là della vita di un infinito non rappresentabile superiore alla forma che riempie lo spazio di grandi ombre; e quelle mescolanze di divino e di terreno di antico e di moderno di serio e di comico non sono ben fuse anzi stannosi accanto crudamente e in luogo di armonizzare producono un'impressione irresistibile di contrasto di cose che cozzano. Quel difetto di luce è il gotico e quel difetto di armonia è il grottesco: e però il gotico e il grottesco sono le prime forme artistiche di quel mondo com'è nella sua prima ingenuità non ancora vinto e domato dall'arte. Il sublime del gotico si sente nel Giudizio universale di Iacopone. Dove la veduta di Dio ti circonda senza che tu lo veda chiarissimo al sentimento inaccessibile all'immaginazione. Il peccatore vede sonar le trombe turbati i venti l'aria immobile e i fiumi fermarsi e il mare muggire e il fuoco volare per l'aria; dappertutto si sente inseguito dalla veduta di Dio ma non lo guarda non gli dà forma: non è un'immagine è un sentimento senza forma che riempie della sua ombra tutto lo spettacolo. Di qui il grande effetto di due versi stupendi che sono veri decasillabi sotto apparenza di endecasillabo pieni di movimento e di armonia:

chè la veduta di Dio mi circonda

e in ogni loco paura mi desta.

 

È il sentimento da cui sei preso innanzi alle grandi ombre di una cattedrale. Ma ciò che prevale in Iacopone è il grottesco una mescolanza delle cose più disparate senza nessun senso di convenienza e di armonia: il che se fatto con intenzione è comico; fatto con rozza ingenuità è grottesco. Trovi il plebeo l'indecente il disgustoso misto coi più gentili affetti: ciò che è pure il carattere del santo con le sue estasi e le sue stravaganze. E questo in Iacopone non è già un contrasto che celi alte intenzioni artistiche ma rozza natura così discorde e mescolata come si trova nella realtà. Ecco il principio del cantico 48:

 

O Signor per cortesia

mandami la malsania;

a me la febbre guartana

la continua e la terzana:

a me venga mal di dente

mal di capo e mal di ventre

mal de occhi e doglia di fianco

la postema al lato manco.

 

La poesia di Iacopone è proprio il contrario di quella de' trovatori. In questi è poesia astratta e convenzionale e uniforme non penetrata di alcuna realtà. In Iacopone è realtà ancora naturale non ancora spiritualizzata dall'arte; è materia greggia tutta discorde che ti dà alcuni tratti bellissimi niente di finito e di armonico.

Accanto a questa vita religiosa ancora immediata e di prima impressione spunta la vita morale un certo modo di condursi con regola e prudenza; e anch'essa è nella sua forma immediata e primitiva. Non è ragione o filosofia è pura esperienza e tradizione nella forma di motto o proverbio che riassume la sapienza degli avi. Il motto rimato è la più antica forma di poesia nel nostro volgare. Ecco alcuni motti antichissimi:

 

Ancella donnea

se donna follea.

 

In terra di lite

non poner la vite.

 

Uomo che ode vede e tace

sì vuol vivere in pace.

 

Chi parla rado

tenuto è a grado.

 

Di questa fatta sono una filza di motti ammassati da Iacopone in un suo carme una specie di catechismo a uso della vita illustrati brevemente da qualche immagine o paragone ora goffo ora egregio di concetto e di forma. Sulla vanità della vita dice:

 

Lo fior la mane è nato

la sera il vei seccato.

 

Ciò che nella sua semplicità ha più efficacia che la elegante traduzione dello stesso concetto fatta dal Poliziano la quale ti pare una Venere intonacata e lisciata:

Fresca è la rosa di mattino: e a sera

ella ha perduta sua bellezza altera.

 

I motti di Iacopone sono pensieri morali espressi per esempio e per immagini come fa l'immaginazione popolare e nella loro brevità e succo è il principale attrattivo.

 

Ove temi pericolo

non fare spesso posa.

 

Sappi di polver tollere

la pietra preziosa

e da uom senza grazia

parola graziosa;

dal folle sapienzia

e dalla spina rosa.

Prende esempio da bestia

chi ha mente ingegnosa.

 

Vediamo bella immagine

fatta con vili deta;

vasello bello ed utile

tratto da sozza creta;

pigliam da laidi vermini

la preziosa seta

vetro da laida cenere

e da rame moneta.

 

Non dimandare agli uomini

che lor nega natura:...

e non pregar la scimia

di bella portatura

nè il bue nè l'asino

di dolce parladura...

 

Quel che non si conviene

ti guarda di non fare:

nè messa ad uomo laico

nè al prete saltare;

non dece spada a femmina

nè ad uom lo filare...

 

Non piace se 'n suo loco

non ponesi la cosa:

innanzi che ti calzi

guarda da qual piè è l'uosa.

Se leggi non far punto

dove non è la posa;

dov'è piana la lettera

non fare oscura glosa.

 

In ogni cosa al prossimo

ti mostra mansueto:...

Da nimistate guàrdati

se vuoi viver quieto...

A quel modo conformati

che trovi nel paese:

al Genovese in Genova

ed in Siena alsSanese...

 

Uomo che spesso volgesi

da tuo consiglio caccia.

Se vedi volpe correre

non dimandar la traccia:

non ti sforzare a prendere

più che non puoi con braccia:

chè nulla porta a casa

chi la montagna abbraccia.

 

Quando puoi esser umile

non ti dimostrar forte:

il muro tu non rompere

se aperte son le porte...

Con signore non prendere

se tu puoi quistione;

ch'ei ti ruba ed ingiuria

per piccola cagione

e tutti gli altri gridano:

 - Messere ha la ragione... -

 

Uomo senz'amicizia

castello è senza mura...

Quella è buona amicizia

che d'ogni termpo dura:

povertà non la parte

nè nulla ria ventura.

 

Quel che tu dici in camera

non dire in ogni loco:

a piaga metti unguento

non vi mettere il foco...

 

E così hai motto a motto spesso senz'altro legame che il caso qual più qual meno felice in quella forma sentenziosa ed esemplata che è propria dell'immaginazione popolare prima ancora che nasca la favola e il racconto. E trovi certo più gusto in queste prime rozze formazioni così piene della vita e del sentire comune che ne' sonetti e canzoni morali in forma più artificiosa ma contorta e scolastica di Onesto e Semprebene e altri trovatori.

Questi uomini con tanti proverbi in bocca e con tanta divozione alla Madonna e a' santi con l'immaginazione piena di leggende e avventure cavalleresche avevano nel piccolo spazio del comune una vita politica ancora più vivace e concentrata che non è oggi allargata com'è e diffusa in quegl'immensi spazi che si chiamano “regni”. Certo i costumi si polivano come la lingua; ma religione e cavalleria misteri e romanzi se colpivano le immaginazioni poco bastavano a contenere e regolare le passioni suscitate con tanta veemenza dalle lotte municipali. Questa vita era troppo reale troppo appassionata e troppo presente perchè potesse esser vista con la serenità e la misura dell'arte. Si manifesta con la forma grossolana dell'ingiuria appena talora rallegrata da qualche lampo di spirito. Un esempio è il verso:

 

Quando l'asino raglia un guelfo nasce.

 

Questa forma primitiva dell'odio politico amara anche nel motteggio e nell'epigramma e così sventuratamente feconda tra noi anche ne' tempi più civili non esce mai dalle quattro mura del comune con particolari e allusioni così personali che manca con la chiarezza ogni interesse: prova ne sieno i sonetti di Rustico. Certo in questo antico esempio di satira politica vedi il volgare condotto a tutta la sua perfezione e ci senti uno spirito e una vivacità propria dell'acuto ingegno fiorentino. Ma che interesse volete voi che prendiamo per donna Gemma e messer Fastello e messer Messerino e ser Cerbiolino con quel suo parlare sotto figura per allusioni che non ne comprendiamo un'acca? Ciò che è meramente personale muore con la persona. Il comune sembra un castello incantato dove l'uomo entrando ignori tutto ciò che vive e si muove al di fuori. Nessun vestigio de' grandi avvenimenti di cui l'Italia era stata ed era il teatro; niente che accennasse ad alcuna partecipazione alle grandi discussioni tra papato e impero tra guelfi e ghibellini o rivelasse un sentimento politico elevato e nazionale al di sopra della cerchia del comune. Tutto è piccolo tutto va a finire là nella piccola maldicenza sulla piazza del comune. Di ciò che si passava in Italia appena un'ombra trovi in un sonetto di Orlandino Orafo eco delle preoccupazioni e ansietà pubbliche quando Carlo d'Angiò andava ad investire re Manfredi in Benevento. Ma ciò che preoccupa Orlandino non è il risultato politico e nazionale della lotta ma la grande strage che ne verrà:

Ed avverrà tra lor fera battaglia

e fia sanfaglia - tal che molta gente

sarà dolente - chi che ne abbia gioia.

 

E molti buon destrier coverti a maglia

in quella taglia - saran per niente;

qual fia perdente - allor convien che muoia.

 

A lui è uguale chi vinca e chi perda. Ciò che gli fa impressione è la lotta in se stessa co' suoi accidenti. Lo diresti uno spettatore posto fuori de' pericoli e delle passioni de' combattenti che contempla avido di emozioni i vari casi della pugna.

Questa rozzezza della vita italiana sotto i suoi vari aspetti religioso morale politico spicca più perchè in evidente contrasto con la precoce coltura scientifica divenuta il principale interesse di quel tempo. La scienza era come un mondo nuovo nel quale tutti si precipitavano a guardare. Ma la scienza era come il Vangelo che s'imparava e non si discuteva. A quel modo che troiani romani franchi e saraceni santi e cavalieri erano nell'immaginazione un mondo solo; Aristotile e Platone Tommaso e Bonaventura erano una sola scienza. Il maggiore studio era sapere e chi sapeva più era più ammirato; nessuno domandava quanta concordia e profondità era in quel sapere. Perciò venne a grandissima fama ser Brunetto Latini. Il suo Tesoro e il Tesoretto furono per lungo tempo maraviglia delle genti stupite che un uomo potesse saper tanto ed esporre in verso Aristotele e Tolomeo. Di che nessuno oggi saprebbe più nulla se Dante non avesse eternato l'uomo e il suo libro in quei versi celebri:

sieti raccomandato il mio Tesoro nel quale io vivo ancora.

La scienza in Brunetto è materia così rozza e greggia com'è la vita religiosa in Iacopone e la vita politica in Rustico. Il suo studio è di cacciar fuori tutto quello che sa così crudamente come gli è venuto dalla scuola e senza farlo passare a traverso del suo pensiero. Ciò che dice gli pare così importante e pareva così importante a' suoi contemporanei ch'egli non chiede altro e nessuno chiedeva altro a lui. Quella sua enciclopedia non è che prosa rimata.

Brunetto fu maestro di Guido Cavalcanti e di Dante che compirono i loro studi nell'Università di Bologna dalla quale uscì pure Cino da Pistoia. Si sente in tutti e tre la scuola di Guido Guinicelli. Amore si scioglie dalle tradizioni cavalleresche e diviene materia di teologia e di filosofia. Si discute sulla sua origine su' suoi fenomeni e sul suo significato. Nella sua apparenza volgare esso adombra quella forza che move il sole e le stelle; il poeta lascia al volgo il senso letterale e cerca un soprasenso il senso teologico e filosofico di cui quello sia il velo. Il lettore con le sue abitudini scientifiche disprezza il fenomeno amoroso e cerca dietro di quello la scienza. L'esistente non è per lui che un velo del pensiero una forma dell'essere; Cino da Pistoia chiama Arrigo di Lussemburgo “forma del bene”; il corpo è un velo dello spirito; la donna è la forma di ogni perfezione morale e intellettuale: spiritualismo religioso e idealismo platonico si fondono e fanno una sola dottrina. L'allegoria ch'era già prima la forma naturale di una coltura poco avanzata diviene una forma fissa del pensiero teologico e filosofico disposizione dello spirito aiutata dall'uso invalso di cercare il senso allegorico a spiegazione della mitologia e del senso letterale biblico. Ma il pensiero esercitato nelle lotte scolastiche era già tanto vigoroso che poteva anco bastare a se stesso ed avere la sua espressione diretta. Perciò nella poesia entra non solo l'allegoria ma il nudo concetto scientifico sviluppato dal ragionamento e da tutt'i procedimenti scolastici. Cino Cavalcanti e Dante erano tra' più dotti e sottili disputatori che fossero mai usciti dalla scuola di Bologna. La loro mente robusta era stata educata a guardare in tutte le cose il generale e l'astratto e a svilupparlo col sussidio della logica e della rettorica. Prima di esser poeti sono scienziati. Anche verseggiando ciò che ammirano i contemporanei è la loro scienza.

Cino maestro di Francesco Petrarca e del sommo Bartolo fu dottissimo giureconsulto. Il suo comento sopra i primi nove libri del Codice fu la maraviglia di quell'età. Ristoratore del diritto romano aperse nuove vie alla scienza e non fu uomo come dice Bartolo che più di lui desse luce alla civil giurisprudenza. L'amore di Selvaggia lo fece poeta ma non potè mutare la sua mente. In luogo di rappresentare i suoi sentimenti come poeta egli li sottopone ad analisi come critico e ne ragiona sottilmente. Posto fuori della natura e nel campo dell'astrazione ogni limite del reale si perde e quella stessa sottigliezza che legava insieme i concetti più disparati e ne traeva argomentazioni e conclusioni fuori di ogni realtà e di ogni senso comune creava ora una scolastica poetica o per dirla col suo nome una rettorica ad uso dell'amore piena di figure e di esagerazioni dove vedi comparire gli spiritelli d'amore che vanno in giro e i sospiri che parlano. In luogo di persone vive abbondano le personificazioni. In un suo sonetto de' meglio condotti e di grande perfezione tecnica vuol dire che nella sua donna è posta la salute: mèta sì alta che avanza ogni sforzo d'intelletto e però non resta altro che morire. Questo è rettorica non solo per la strana esagerazione del concetto ma per il modo dell'esposizione scolastico e dottrinale.

Questa donna che andar mi fa pensoso

porta nel viso la virtù d'Amore:

la qual fa disvegliare altrui nel core

lo spirito gentil che vi è nascoso.

Ella m'ha fatto tanto pauroso

poscia ch'io vidi quel dolce signore

negli occhi suoi con tutto 'l suo valore

che io le vo presso e riguardar non l'oso.

E s'avvien poi che quei begli occhi miri

io veggio in quella parte la salute

ove lo mio intelletto non può gire.

 

Allor si strugge sì la mia vertute

che l'anima che move li sospiri

s'acconcia per voler del cor fuggire.

 

Una così strana esagerazione non può essere scusata che dall'impeto e dalla veemenza della passione. Ma qui non ce n'è vestigio; ed hai invece una specie di tèma astratto che si fa sviluppare nelle scuole per esercizio di rettorica. La prima quartina è una maggiore di sillogismo; intelletto animo core sospiri virtù di onore e spirito gentile sono le sottili distinzioni e astrazioni delle scuole. Esule ghibellino si levò a grande speranza quando seppe della venuta di Arrigo di Lussemburgo; e quando seppe della sua morte scrisse una canzone. Quale materia di poesia! Dove dovrebbero comparire le speranze i disinganni le illusioni e i dolori dell'esule. Ma è invece una esposizione a modo di scienza sulla potenza della morte e l'immortalità della virtù. Ancora più astratta e arida è la canzone sulla natura d'amore di Guido Cavalcanti dottissimo di filosofia e di rettorica: la qual canzone fu tenuta miracolo da' contemporanei.

Adunque la vita religiosa morale e politica era appena nella sua prima formazione e la splendida vita che raggiava da Bologna era anch'essa materia greggia pretta vita scientifica messa in versi.

Siamo alla seconda metà del Dugento. La Sicilia malgrado la sua Nina è già nell'ombra. I due centri della vita italiana sono Bologna e Firenze l'una centro del movimento scientifico l'altra centro dell'arte. Nell'una prevaleva il latino la lingua de' dotti; nell'altra prevaleva il volgare la lingua dell'arte.

L'impulso scientifico partito da Bologna traendosi appresso anche la poesia dava il bando alla superficiale galanteria de' trovatori: il pubblico domandava cose e non parole. E si formò una coscienza scientifica ed una scuola poetica conforme a quella. Il tempo de' poeti spontanei e popolari finisce per sempre.

Il nuovo poeta scrive con intenzione. Più che poeta egli è lume di scienza; si chiama Brunetto Latini l'enciclopedico Cino il primo giureconsulto dell'età Cavalcanti filosofo prestantissimo Dante il primo dottore e disputatore de' tempi suoi. Scrivono versi per bandire la verità spiegare popolarmente i fenomeni più astrusi dello spirito e della natura. La poesia è per loro un ornamento la bella veste della verità o della filosofia uso amoroso di sapienza come dice Dante nel Convito. Ci è dunque in loro una doppia intenzione. Ci è una intenzione scientifica. Ma ci è pure una intenzione artistica di ornare e di abbellire. L'artista comparisce accanto allo scienziato. Questo doppio uomo è già visibile in Guido Guinicelli.

È in Toscana massime in Firenze che si forma questa coscienza dell'arte. Il volgare venuto già a grande perfezione era parlato e scritto con una proprietà e una grazia di cui non era esempio in nessuna parte d'Italia. Se i poeti superficiali dispiacevano a Bologna i poeti incolti e rozzi non piacevano a Firenze. A lungo andare non vi poterono essere tollerati Guittone e Brunetto e sorgeva la nuova scuola la quale se a Bologna significava scienza a Firenze significava “arte”.

Questo primo svegliarsi di una coscienza artistica è già notato in Cino. Egli scrive con manifesta intenzione di far rime polite e leggiadre e cerca non solo la proprietà ma anche la venustà del dire. Aveva animo gentile e affettuoso e orecchio musicale. Se a lui manca l'evidenza e l'efficacia virtù della forza non gli fa difetto la melodia e l'eleganza con una certa vena di tenerezza. Fu il precursore del grande suo discepolo Francesco Petrarca.

Ecco un esempio della sua maniera:

Raccomando agli studiosi la canzone sugli occhi della sua donna che ispirò le tre sorelle del Petrarca il quale ne imitò anche la fine che è piena di grazia:

E ci ha pure parecchi sonetti dove Cino in luogo di filosofare e sottilizzare si contenta di rappresentare con semplicità il suo stato e sono teneri ed affettuosi. Meno apparisce dotto e più si rivela artista.

La coscienza artistica si mostra in Cino nelle qualità tecniche ed esteriori della forma. La sua principale industria è di sviluppare gli elementi musicali della lingua e del verso nè fino a quel tempo la lingua sonò sì dolce in nessun poeta rendendo imagine di un bel marmo polito da cui sia rimossa ogni asprezza e ineguaglianza Ma qualità più serie e più profonde si rivelano in Guido Cavalcanti. Anche in lui la perfezion tecnica è somma anzi in lui è scienza. Innamorato della lingua natia pose ogni studio a dirozzarla e fissarla e scrisse una gramatica e un'arte del dire. Egli nota Filippo Villani dilettandosi degli studi rettorici essa arte in composizioni di rime volgari elegantemente e artificiosamente tradusse. Di che si vede quanta impressione dovè fare su' contemporanei di Guittone e Brunetto Latini tanto e sì nuovo artificio spiegato come scienza e applicato come arte. Così Guido divenne il capo della nuova scuola il creatore del nuovo stile e oscurò Guido Guinicelli:

Ma la gloria della lingua non bastava a Guido a cui lingua e poesia erano cose accessorie semplici ornamenti: sostanza era la filosofia. Perciò aveva a disdegno Virgilio parendogli dice il Boccaccio “la filosofia siccome ella è da molto più che la poesia”. Sottilissimo dialettico come lo chiama Lorenzo de' Medici introduce nella poesia tutte le finezze rettoriche e scolastiche e mira a questo non solo di dir bene ma dir cose importanti. I contemporanei studiarono la sua canzone dell'Amore come si fa un trattato filosofico e ne fecero comenti come si soleva di Aristotele e di san Tommaso: anche più tardi il Ficino vi cercava le dottrine di Platone. Così Guido era tenuto eccellente non solo come artificioso ed elegante dicitore ma come sommo filosofo.

Questo voleva Guido e questo ottenne questo gli bastò ad acquistare il primo posto fra' contemporanei. Salutavano in lui lo scienziato e l'artista.

Ma Guido fu dotto più che scienziato. Fu benemerito della scienza perchè la divulgò non perchè vi lasciasse alcuna sua orma propria. E fu artefice più che artista inteso massimamente alla parte meccanica e tecnica della forma: vanto non piccolo ma che tocca la sola superficie dell'arte.

La gloria di Guido fu là dov'egli non cercò altro che un sollievo e uno sfogo dell'animo. Fu là ch'egli senza volerlo e saperlo si rivelò artista e poeta. Vi sono uomini che i contemporanei ed essi medesimi sono incapaci di apprezzare. Guido era più grande ch'egli stesso e i suoi contemporanei non sapevano.

Guido è il primo poeta italiano degno di questo nome perchè è il primo che abbia il senso e l'affetto del reale. Le vuote generalità de' trovatori divenute poi un contenuto scientifico e rettorico sono in lui cosa viva perchè quando scrive a diletto e a sfogo rendono le impressioni e i sentimenti dell'anima. La poesia che prima pensava e descriveva ora narra e rappresenta non al modo semplice e rozzo di antichi poeti ma con quella grazia e finitezza a cui era già venuta la lingua maneggiata da Guido con perfetta padronanza. Qui sono due forosette egregiamente caratterizzate che gli cavano di bocca il suo segreto d'amore. Là è una pastorella che incontra nel boschetto e ti abbozza una scena d'amore colta dal vero. Sono gli stessi concetti de' trovatori ma realizzati non solo ornati e illeggiadriti al di fuori ma trasformati nella loro sostanza divenuti caratteri immagini sentimenti cioè a dire vita e azione. Senti là dentro l'anima dello scrittore ora lieta e serena che si esprime con una grazia ineffabile come nelle ballate delle forosette e della pastorella ora penetrata di una malinconia che si effonde con dolcezza negli amabili sogni dell'immaginazione e nella tenerezza dell'affetto come nella ballata che scrisse esule a Sarzana il canto del cigno il presentimento della morte. Qui lo scienziato sparisce e la rettorica è dimenticata. Tutto nasce dal di dentro naturale semplice sobrio con perfetta misura tra il sentimento e l'espressione. Il poeta non pensa a gradire a cercare effetti a fare impressione con le sottigliezze della dottrina e della rettorica: scrive se stesso come si sente in un certo stato dell'animo senz'altra pretensione che di sfogarsi di espandersi segnando la via nella quale Dante fece tanto cammino. I posteri poterono applicare a lui quello che Dante disse di sè:

Il che non avvenne di Lentino di Guittone rimasti al di qua del “dolce stil nuovo” perchè esagerarono i sentimenti andarono al di là della natura per “gradire” piacere a' lettori.

Di questo dolce stil nuovo il precursore fu Guinicelli il fabbro fu Cino il poeta fu Cavalcanti. La nuova scuola non era altro che una coscienza più chiara dell'arte. La filosofia per sè sola fu stimata insufficiente e si richiese la forma. Guittone d'Arezzo non fu più apprezzato quantunque “di filosofia ornatissimo grave e sentenzioso” come dice Lorenzo de' Medici perchè gli mancava lo stile “alquanto ruvido e severo nè di alcun dolce lume di eloquenza acceso”. Anche Benvenuto da Imola chiama nude le sue parole e lo commenda per le gravi sentenze ma non per lo stile. Nasceva in Firenze un nuovo senso il senso della forma.

A quel tempo fra tante feroci gare politiche la letteratura era nel suo fiore in tutta Toscana e sotto i più diversi aspetti. Dante da Maiano era un'eco de' trovatori con la sua Nina siciliana. Guittone Brunetto Orbiciani da Lucca erano poeti dotti ma rozzi come i bolognesi Onesto e Semprebene. Ma già il culto della forma l'amore del bello stile si sente in parecchi poeti. Dino Frescobaldi Rustico di Filippo Guido Novello Lapo Gianni Cecco d'Ascoli sono il corteggio nel quale emerge la figura di Guido Cavalcanti.

Ma ben presto al nome di Guido Cavalcanti si accompagnò quello di Dante Alighieri legati insieme da un'amicizia che non si ruppe se non per morte. Parvero le “nuove rime” e fu tale l'impressione ch'ei salì subito accanto a Cavalcanti. Sembrò che avesse risolto il problema di esprimere le profondità della scienza in bella forma: ultimo segno a cui si mirava. Perciò ebbe molta voga la sua canzone:

e ancora più l'altra:

Dante avea la stessa opinione. Il dotto discepolo di Bologna mira poetando a divulgare la scienza usando modi piani e aperti alla intelligenza comune. Nella canzone dove esorta la donna a dispregiare uomo che “da sè virtù fatta ha lontana” dice:

E quando pure è costretto a celare sotto benda i suoi concetti aggiunge un comento in prosa e dichiara egli medesimo la sua dottrina. Tale è il comento che fa alla canzone:

e parendogli che senza quel comento la canzone presa in se stessa rimanga fuori dell'intelligenza volgare finisce così:

C'era dunque nell'intenzione di Dante di bandire i veri della scienza ora nella forma diretta del ragionamento ora sotto il velo dell'allegoria ma in modo che la poesia quando anche non fosse compresa da' più avesse un valore in se stessa fosse bella e dilettasse. Era la teoria della nuova scuola nella sua più alta espressione una coscienza artistica più chiara e più sviluppata. Il rispetto della verità scientifica è tale che Dante si domanda come essendo Amore non sostanza ma accidente possa egli farlo ridere e parlare come fosse persona. E adduce a sua difesa che i rimatori che fanno versi in volgare hanno gli stessi privilegi de' poeti nome che dà a' latini i quali come Virgilio Ovidio Lucano Orazio diedero moto e parole alle cose inanimate: il che egli chiama “rimare sotto vesta di figura o di colore rettorico” qualificando rimatori stolti quelli che domandati non sapessero “dinudare le loro parole da cotal vesta”. Onde si vede che Dante e Cavalcanti ch'egli qui chiama il suo primo amico spregiavano e questi rimatori stolti che usavano rettorica vuota di contenuto e quelli che ti davano un contenuto scientifico nudo senza rettorica. Qui è tutta la nuova scuola poetica rimasa per molti secoli l'ultima parola della critica italiana: ciò che il Tasso chiamò “condire il vero in molli versi”.

Con queste teorie con queste abitudini della mente parecchie canzoni e sonetti sono ragionamenti con lume di rettorica concetti coloriti. Di tal natura è la canzone sulla gentilezza o nobiltà:

e l'altra:

dove sotto colore rettorico di donna amata rappresenta gli effetti che sul suo animo produce lo studio della filosofia. I fenomeni dell'amore e della natura sono spiegati scientificamente più che rappresentati com'è l'inverno nella canzone:

e come è l'amore nella canzone:

e come è la bellezza nella canzone:

Delle canzoni allegoriche e scientifiche la più accessibile e popolare è quella delle tre donne Drittura Larghezza Temperanza germane d'amore che cacciate dal mondo vanno mendicando.

Qui il poeta non ragiona ma narra e rappresenta. Il concetto scientifico è vinto dalla vivacità della rappresentazione e dalla elevatezza del sentimento. Il colore rettorico non è semplice colorito ma è la sostanza.

In queste canzoni scientifiche Dante mostra ben altra forza e vivacità e ricchezza di concetti e di colori che i due Guidi. Egli fu il suo proprio comentatore avendo nella Vita nuova e nel Convito spiegata l'occasione il concetto la forma delle sue poesie. E quanto alla parte tecnica all'uso della lingua del verso e della rima nel suo libro De vulgari eloquio mostra che ne intendeva tutt'i più riposti artifici. I contemporanei trovavano in queste poesie il perfetto esempio della loro scuola poetica: la maggior dottrina sotto la più leggiadra veste rettorica.

Il mondo lirico di Dante è la stessa materia che s'era ita finora elaborando con maggior varietà e con più chiara coscienza. Il dio di questo mondo è Amore prima con le ammirazioni i tormenti e le immaginazioni della giovanezza poi con un misticismo ed un entusiasmo filosofico. Amore non può operare che ne' cuori gentili: perciò gli amanti sono chiamati fini e cortesi. Gentilezza non nasce da nobiltà o da ricchezza ma da virtù. E però le virtù sono suore d'Amore e fanno star lucente il suo dardo finchè sono onorate in terra. Ma la virtù è in pochi e l'amore è perciò “di pochi vivanda”. L'obbietto dell'amore è la bellezza non il “bello di fuori” le parti nude ma il “dolce pomo” concesso solo a chi è amico di virtù. La bellezza non si mostra se non a chi la intende: amore è chiamato dagli antichi “intendanza” e Dante non dice “sentire amore” ma “avere intelletto d'amore”. Ad appagare l'amore basta il vedere la contemplazione. Vedere è amore amore è intendere.

E chi la vede e non se n'innamora

Le intelligenze celesti movono le stelle intendendo:

Dio move l'universo pensando:

Nè altro è amore nell'uomo che “nova intelligenza che lo tira su” lo avvicina alla prima intelligenza. La donna esemplare della bellezza è “nobile intelletto”:

La donna è perciò il viso della conoscenza la bella faccia della scienza che invaghisce l'uomo e sveglia in lui nova intelligenza lo fa intendere. La donna dunque è la scienza essa medesima è la filosofia nella sua bella apparenza: e questo è la bellezza il dolce pomo consentito a pochi. Intendere è amore e amore è operare come s'intende; perciò filosofia è “uso amoroso di sapienza” scienza divenuta azione mediante l'amore. La virtù non è altro che sapienza vivere secondo i dettati della scienza. Perciò l'amante è chiamato saggio; e la donna è saggia prima di esser bella:

La beltà non è altro che l'apparenza della saggezza sì che piaccia e innamori di sè.

Con questo misticismo filosofico si accordava il misticismo religioso secondo il quale il corpo è il velo dello spirito e la bellezza è la luce della verità la faccia di Dio somma intelligenza contemplazione degli angioli e dei santi. Dio gli angioli il paradiso rappresentano anche qui la loro parte. Teologia e filosofia si danno la mano.

È la prima volta che questo contenuto esce fuori nella sua integrità e con così perfetta coscienza. È l'idealismo di quel tempo con la sua forma naturale l'allegoria. Aggiungi l'opera della immaginazione che dà alle figure tanta vivacità di colorito ed hai l'ultimo segno di perfezione che si poteva allora desiderare.


III

LA LIRICA DI DANTE

Fin qui giunge la coscienza di Dante. Se gli domandi più in là ti risponde come Raffaello: “Noto quando Amor mi spira” ubbidisco all'ispirazione. E appunto se vogliamo trovar Dante dobbiamo cercarlo qui fuori della sua coscienza nella spontaneità della sua ispirazione. Innanzi tutto Dante ha la serietà e la sincerità dell'ispirazione. Chi legge la Vita nuova non può mettere in dubbio la sua sincerità. Ci si vede lo studente di Bologna pieno il capo di astronomia e di cabala di filosofia e di rettorica di Ovidio e di Virgilio di poeti e di rimatori; ma tutto questo non è la sostanza del libro ci entra come colorito e ne forma il lato grottesco. Sotto l'abito dello studente ci è un cuore puro e nuovo tutto aperto alle impressioni facile alle adorazioni e alle disperazioni ed una fervida immaginazione che lo tiene alto da terra e vagabondo nel regno de' fantasmi. L'amore per la bella fanciulla involta di drappo sanguigno ch'egli chiama Beatrice ha tutt'i caratteri di un primo amore giovanile nella sua purezza e verginità più nell'immaginazione che nel cuore. Beatrice è più simile a sogno a fantasma a ideale celeste che a realtà distinta e che produca effetti propri. Uno sguardo un saluto è tutta la storia di questo amore. Beatrice morì angiolo prima che fosse donna e l'amore non ebbe tempo di divenire una passione come si direbbe oggi rimase un sogno ed un sospiro. Appunto perchè Beatrice ha così poca realtà e personalità esiste più nella mente di Dante che fuori di quella ed ivi coesiste e si confonde con l'ideale del trovatore l'ideale del filosofo e del cristiano: mescolanza fatta con perfetta buona fede e perciò grottesca certo ma non falsa e non convenzionale. Queste che presso gli altri sono astrattezze scolastiche e rettoriche qui sono cacciate nel fondo del quadro sono non il quadro ma contorni e accessorii. Il quadro è Beatrice non così reale che tiri e chiuda in sè l'amante ma reale tanto che opera con efficacia sul suo cuore e sulla sua immaginazione. Non ci è proprio l'amante ma ci è il poeta che per questo o quello incidente anche minimo del suo amore si sente mosso a scrivere se stesso in un sonetto o in una canzone. Quando il suo animo è tranquillo fa capolino il dottore il retore e il rimatore; ma quando il suo animo è veracemente commosso Dante gitta via il suo berretto di dottore e le sue regole rettoriche e le sue reminiscenze poetiche e ubbidisce a l'ispirazione. Allora è Beatrice solo Beatrice che occupa la sua mente e le sue impressioni appunto perchè immediate e sincere sono quasi pure di ogni mescolanza. Il suo amore si rivela schietto come lo sente più adorazione e ammirazione che appassionato amore di donna. Tale è il sonetto

E tale è la ballata ove con la grazia e l'ingenuità di una fanciulla scesa pur ora di cielo così parla Beatrice:

Questo non è allegoria e non è concetto scientifico; o per dir meglio ci è l'allegoria e ci è il concetto scientifico ma profondato ed obbliato in questa creatura perfettamente realizzato conforme a quel primo ideale della donna che apparisce all'immaginazione giovanile.

Se nell'espressione di questa ingenua ammirazione trovi qualche reminiscenza di repertorio e qualche preoccupazione scientifica senti un accento di verità puro ed autonomo nell'espressione del dolore la vera musa di questa lirica. Perchè infine questa breve storia d'amore ha rari intervalli di gioia serena e contemplativa; la morte del padre di Beatrice il suo dolore il presentimento della sua morte e la sua morte sono la sostanza del quadro il motivo tragico della poesia. Finchè Beatrice vive è un secreto del cuore che il poeta s'industria con ogni più sottile arte di custodire; la storia è poco interessante intessuta di artificiose e fredde dissimulazioni: ma quando quell'ideale della giovanezza minaccia di scomparire quando scompare al poeta manca con quello il fondamento della sua vita e si sente solo e si sente morire insieme con quello. Ne nasce una situazione nuova nella storia della nostra poesia: l'amore appena nato simile ancora a' primi fuggevoli sogni della giovanezza che acquista la sua realtà presso alla tomba ed oltre la tomba. L'amore si rivela nella morte. Là perde quell'aria fattizia e convenzionale che gli veniva da' trovatori e dalla scienza. Là non è più concetto nè allegoria ma è sentimento e fantasia. Quell'amore che in vita della donna non si è potuto ancora realizzare eccolo qui nella sua schietta e pura espressione ora che Beatrice muore. A questa situazione si rannoda la parte più eletta e poetica di questa lirica. Poi vengono sentimenti più temperati: il poeta si consola cantando la loda della morta; Beatrice ita nel cielo diviene la Verità la cara immagine sotto la quale il poeta inviluppa le sue speculazioni la bella faccia della Sapienza. Non hai più la Vita nuova hai il Convito. L'amore non è più un sentimento individuale ma è il principio della vita divina e umana. Beatrice nella sua gloriosa trasfigurazione diviene un simbolo il dolce nome che il poeta dà al suo nuovo amore alla Filosofia.

Ma la filosofia non è in Dante astratta scienza: è Sapienza cioè a dire pratica della vita. Con che orgoglio si professa amico della filosofia! e vuol dire amico di virtù che ti fa spregiare ricchezze e onori e gentilezza di sangue e ti dà la vera nobiltà che ti viene da te e non dagli altri. Intendere è per lui il principio del fare; e la forza che dà attività all'intelletto ed efficacia alla volontà è l'amore. In questa triade è l'unità della vita: l'uno non può star senza l'altro. Or tutto questo in Dante non è mera speculazione nè vanità scientifica; ma è vero amore ma è un sentimento morale così profondo ed efficace come è la fede ne' credenti. La filosofia investe tutto l'uomo e si addentra in tutti gli aspetti della vita. Questa serietà e sincerità di sentimento fa penetrare fra tante sottili e scolastiche speculazioni una elevatezza morale tanto più poetica quanto meno espressa ma che si sente nel tono nel colorito nello stile. Tale è la sublime risposta di Amore alle sorelle esuli e quel subito ritorno del poeta in sè medesimo:

e questo sentimento rende tollerabile tanta pedanteria quanta è nella canzone sulla vera gentilezza. La quale elevatezza morale non è disgiunta in lui da un certo orgoglio direi aristocratico del sentirsi solo con pochi privilegiato da Dio alla sapienza: così alto ha collocato l'ideale della scienza e della virtù:

Sentimento di soddisfazione che si volge in tristezza e talora in fieri accenti di sdegno contro la moltitudine degli uomini “bestie che somigliano uomo. E dove non è virtù non è amore e non dovrebbe esser bellezza: onde esorta le donne a partirla da loro:

Qui sviluppato in forma scolastica è il solito concetto dell'amore che fa uno di due unisce bellezza e virtù. Ma questo concetto è per Dante cosa vivente è l'anima del mondo l'unità della vita. E poichè vede bellezza e non trova virtù sente nella vita una scissura una discordia che lo move a sdegno. Indi quel movimento d'immaginazione così nuovo e originale quel desiderare nella donna e sperar poco un atto di “bel disdegno” per il quale dica: - Poichè nell'uomo non è virtù cesso di esser bella cesso di amare. - Dante si crede obbligato ad argomentare ad esporre il suo concetto in forma dottrinale e qui è il suo torto qui è la forma che lo certifica di quel tempo; ma qui il concetto scientifico e la sua esposizione scolastica è un accessorio; la sostanza è il sentimento che sveglia nel poeta la contraddizione tra quel concetto e la realtà: “Lasso! a che dicer vegno?”. Il poeta sente la vanità de' suoi desidèri e che il mondo andrà sempre a quel modo.

Come l'amore si afferma nella morte così la filosofia si afferma nella sua morte cioè nella sua contraddizione con la vita. Qui trovi un sentimento chiaro e vivo dell'unità della vita fondata nella concordia dell'intendere e dell'atto o come si direbbe oggi dell'ideale e del reale e insieme il dolore della scissura che mette il poeta in uno stato di ribellione contro l'uomo “caduto in servo di signore” già signore di sè ora servo delle sue inclinazioni animali. Ma il sentimento di questa contraddizione non uccide l'entusiasmo e la fede come ne' poeti moderni: l'anima del poeta è ancora giovane piena di una fede robusta che il disinganno nobilita e fortifica; e però il dolore del disaccordo non lo conduce alla negazione della filosofia anzi alla sua glorificazione ad un più ardente amore della derelitta fiero di possederla e amarla egli solo con pochi e di sentirsi perciò quasi Dio tra la gregge degli uomini.

Adunque il primo carattere di questo mondo lirico è la sua verità psicologica. Se c'è negli accessorii alcunche di fattizio e di convenzionale il fondo è vero è la sincera espressione di quello che si passa nell'animo del poeta. Ti senti innanzi ad un uomo che considera la vita seriamente. La vita è la filosofia la verità realizzata; e la poesia è la voce e la faccia della verità. Amico della filosofia con orgoglio non minore si chiama poeta il banditore del vero. Filosofo e poeta si sente come investito di una missione di una specie di apostolato laicale e parla dal tripode alla moltitudine con l'autorità e la sicurezza di chi possiede la verità.

Ma il sentimento che move questo mondo lirico così serio e sincero non rimane puramente individuale o subiettivo; anzi la parte personale e contingente appena si mostra: esso è l'accento lirico dell'umanità a quel tempo la sua forma di essere di credere di sentire e di esprimersi. Quell'angeletta scesa dal cielo che non giunge ad esser donna breve apparizione che ritorna al cielo in bianca nuvoletta seguita dagli angioli che le cantano “Osanna” ma rimasa in terra come luce della verità della quale l'amante si fa apostolo è tutto il romanzo religioso e filosofico di quell'età: è la vita che ha la sua verità nell'altro mondo e che qui non è che Beatrice fenomeno apparenza velo della eterna verità. Se la terra è un luogo di passaggio e di prova la poesia è al di là della terra nel regno della verità. Beatrice comincia a vivere quando muore.

Un mondo così mistico e spiritualista nel concetto così dottrinale nella forma se può essere allegoricamente rappresentato dalla scultura se trova nella pittura e nella musica le sue movenze le sue sfumature il suo indefinito è difficilissimo a rappresentare con la parola. Perchè la parola è analisi distinzione precisione e non può rappresentare che un contenuto ben determinato e ne' suoi momenti successivi più che nella sua unità. Analizzate questo mondo e vi svanisce dinanzi come realtà o vita: l'analisi vi porta irresistibilmente al discorso al ragionamento alla forma dottrinale che è la negazione dell'arte. Non bisogna dimenticare che la vita interna di questo mondo è la scienza come concetto e come forma la pura scienza non penetrata ancora nella vita e divenuta fatto. È vero che per Dante la scienza dee essere non astratto pensiero ma realtà. Se non che il male è appunto in questo “dee essere”. Perchè prendendo a fondamento non quello che è ma quello che dee essere la sua poesia è ragionamento esortazione non rappresentazione se non in forma allegorica che aggiunge una nuova difficoltà ad un contenuto così in se stesso astruso e scientifico.

I contemporanei sentirono la difficoltà e credettero vincerla con la rettorica ornando quei concetti di vaghi fiori. Anche Dante credeva rendere poetica la filosofia dandole una bella faccia. Certo questo era un progresso; ma siamo ancora al limitare dell'arte nel regno dell'immaginazione. Guinicelli Cino Cavalcanti non possono attirare la nostra attenzione e neppur Dante ancorchè dotato di una immaginazione così potente. Anzi egli riesce meno di questi suoi predecessori nell'arte dell'ornare e del colorire perchè quelli vi pongono il massimo studio non essendo il mondo da essi rappresentato che un gioco d'immaginazione dove a Dante quel mondo è lui stesso parte del suo essere e che ha la sua importanza in se stesso: ond'egli è sobrio severo schivo del “gradire” e spesso nudo sino alla rozzezza. E non corre agli ornamenti come mezzo rettorico e a fine di ornare e di lisciare ma per rendere palpabile ed evidente il suo concetto.

Ma Dante vince in gran parte la difficoltà appunto per questo che quel mondo è vita della sua vita e anima della sua anima. Esso opera non pure sulla sua mente ma su tutto il suo essere. Questa sua fede assoluta in quel mondo non è però sufficiente a farne un poeta. La fede è la base il sottinteso la condizione preliminare e necessaria della poesia ma non è la poesia. Il poeta dee essere un credente ma non ogni credente è poeta; può essere un santo un apostolo un filosofo. Dante non fu il santo nè il filosofo del suo mondo: fu il poeta. La fede svegliò le mirabili facoltà poetiche che avea sortito da natura.

Dante ha in supremo grado la principale facoltà di un poeta la fantasia che non si vuol confondere con l'immaginazione facoltà molto inferiore. L'immaginazione ti dà l'ornato e il colore liscia la superficie: il suo maggiore sforzo è di offrirti un simulacro di vita nell'allegoria e nella personificazione. La fantasia è facoltà creatrice intuitiva e spontanea è la vera musa il “deus in nobis” che possiede il secreto della vita e te la coglie a volo anche nelle sue più fuggevoli apparizioni e te ne dà l'impressione e il sentimento. L'immaginazione è plastica; ti dà il disegno ti dà la faccia: “pulcra species sed cerebrum non habet”: l'immagine è il fine ultimo in cui si adagia. La fantasia lavora al di dentro e non ti coglie il di fuori se non come espressione e parola della vita interiore. L'immaginazione è analisi e più si sforza di ornare di disegnare di colorire più le fugge il sostanziale quel tutto insieme in cui è la vita. La fantasia è sintesi: mira all'essenziale e di un tratto solo ti suscita le impressioni e i sentimenti di persona viva e te ne porge l'immagine. La creatura dell'immaginazione è l'immagine finita in se stessa e opaca; la creatura della fantasia è il “fantasma” figura abbozzata e trasparente che si compie nel tuo spirito. L'immaginazione ha molto del meccanico è comune alla poesia e alla prosa a' sommi e a' mediocri; la fantasia è essenzialmente organica ed è privilegio di pochissimi che son detti Poeti.

Il mondo lirico di Dante o piuttosto del suo secolo così mistico e spirituale resiste a tutti gli sforzi dell'immaginazione. In balìa di questa esso non è che un mondo rettorico e artificiale di bella apparenza ma freddo e astratto nel fondo. Tale è il mondo di Guinicelli di Cavalcanti e di Cino. L'organo naturale di questo mondo è la fantasia e la sua forma è il fantasma. Il suo primo e solo poeta è Dante perchè Dante ha l'istrumento atto a generarlo è la prima fantasia del mondo moderno.

Dante non accarezza l'immagine non vi s'indugia sopra se non quando essa è lume che come paragone dia una faccia al suo concetto. Sia d'esempio la sua canzone all'Amore:

Queste immagini non sono il concetto esso medesimo ma paragoni atti a lumeggiarlo. È la maniera del Guinicelli. Costui se ne pavoneggia e vi spiega un lusso e una pompa che passa il segno e affoga il concetto nell'immagine. Dante è più severo perchè il concetto non gli è indifferente e non te ne distrae anzi per troppo amore a quello spesso te lo porge nodo e irsuto com'è da natura. Ma egli penetra in questo mondo di concetti e ne fa il suo romanzo la sua storia intima. Il concetto allora non che abbia bisogno di essere illuminato da una immagine tolta dal di fuori è trasformato è esso medesimo l'immagine. In quest'opera di trasformazione si rivela la fantasia. Pigmalione non è più una statua di marmo; ma riscaldato dall'amorosa fantasia diviene persona. La donna astratta e anonima del trovatore divenuta innanzi alla filosofia un'idea platonica l'esemplare di ogni bellezza e di ogni virtù eccola qui persona viva: è Beatrice quell'angeletta scesa dal cielo che annunzia alle genti il suo arrivo e racconta la sua bellezza:

 

Ma questo lavoro di trasformazione non va così innanzi che il concetto sia come seppellito e dimenticato nell'immagine (miracolo dell'arte greca) nè questo avviene per manco di calore e di fantasia. Dante è così immedesimato con quel suo mondo intellettuale e mistico che la sua fantasia non può oltrepassarlo non può materializzarlo. In questa dissonanza può capitare l'artista a cui il contenuto sia indifferente e che intenda alla perfezione del modello non il poeta che ha un culto per il suo mondo e vi si chiude e ne fa la sua regola e il suo limite. Dante non può paganizzare quel mondo dello spirito appunto perchè esso è il suo spirito il suo mondo il suo modo di sentire e di concepire. La sua immagine è ricordevole e trascendente e appena abbozzata è già scorporata fatta impressione e sentimento. Non descrive: non può fissare e determinare l'immagine come quella a cui l'intelletto non giunge. Gli sta innanzi un non so che luce intellettuale superiore all'espressione visibile non in se stessa ma nelle sue impressioni. Perciò esprime non quello che ella è ma quello che pare. Ciò che è più chiaro innanzi alla sua immaginazione non è il corpo ma lo spirito non è l'immagine ma il suo “parere” l'impressione:

uno spirto soave e pien d'amore

Questi ultimi tre versi sono la chiusa mirabile di un sonetto molto lodato dove il poeta vuol descrivere Beatrice e non fa che esprimere impressioni. Beatrice non la vedi mai. Ella è come Dio nel santuario. Non la vedi ma senti la sua presenza in quel mondo tutto pieno di lei. Ella piange la morte del padre. Lo sguardo del poeta non è là. Tu vedi lei nella faccia sfigurata del poeta e nel pianto delle donne che gli sono intorno che la udirono e non osarono di guardarla:

Beatrice saluta e

e gli occhi non l'ardiscon di guardare.

 

Di questa giovinetta inaccessibile allo sguardo non descritta non rappresentata di cui non hai nessuna parola e nessun atto non restano che due immagini: del nascere e del morire l'angeletta scesa di cielo che torna al cielo bianca nuvoletta. Dante non vede lei morire. La vede in sogno e già morta e quando le donne la coprian di un velo. Ma se della morte non ci è l'immagine ce n'è il vivo sentimento:

L'universo muore con Beatrice:

“Sì bella!” Questa è l'immagine. Gli basta chiamarla bella chiamarla Beatrice. Incontra per via peregrini essi soli indifferenti in tanto dolore:

La vita e la morte di Beatrice non è in lei ma negli altri in quello che fa sentire. L'immagine è immediatamente trasformata in sentimento. E questa immagine spiritualizzata è quella mezza realtà che si chiama il fantasma esistente più nella immaginazione del lettore che nella espressione del poeta. Ciascuno si fa una Beatrice a sua maniera e secondo le forze del suo spirito. Siamo nel regno musicale dell'indefinito. Beatrice è un rêve un sogno una visione. La stessa sua morte è un sogno o come dice Dante una fantasia accompagnata di particolari patetici e drammatici perchè il poeta è vittima de' suoi fantasmi e vive entro a quel mondo e ne sente e riflette tutte le impressioni. Beatrice muore perchè “esta vita noiosa”

e tornata gloriosa nel cielo diviene “spiritual bellezza grande” che spande per lo cielo luce d'amore e fa la maraviglia degli angioli. Questa bellezza spirituale o come dice Dante altrove “luce intellettual piena d'amore” è il mondo lirico realizzato nell'altra vita dove il fantasma sparisce e la verità ti si porge nel suo splendore intellettuale pura intelligenza bellezza spirituale scorporata. Il fantasma quella mezza realtà a contorni vaghi e indecisi più visibile nelle impressioni e ne' sentimenti che nelle immagini non era che il presentimento il velo la forma preparatoria di questo regno del puro spirito; era l'ombra dello spirito. Ora la luce intellettuale dissipa ogni ombra: non hai niente più d'indeciso niente più di corporeo: sei nel regno della filosofia dove tutto è precisione e dogmatismo tutto è posto con chiarezza e discorso a modo degli scolastici. E poichè la filosofia non è potuta divenire virtù poichè in terra essa è proscritta rimane una realtà puramente scientifica e dottrinale. L'impressione ultima è che la terra è il regno delle ombre e de' fantasmi la selva dell'ignoranza e del vizio la tragedia che ha per sua inevitabile fine la morte e il dolore e che la realtà l'eterna e Divina Commedia è nell'altro mondo.

Nè prima nè poi fu immaginato un mondo lirico così vasto nel suo ordito così profondo nella sua concezione così coerente nelle sue parti così armonico nelle sue forme così personale e a un tempo così umano. Esso è l'accento lirico del medio evo colto nelle sue astrazioni e nelle sue visioni la voce dell'umanità a quel tempo. Il mistero di questo mondo religioso-filosofico è la Morte “gentile” come passaggio dall'ombra alla luce dal fantasma alla realtà dalla tragedia alla commedia o come dice Dante alla pace. La morte è il principio della vita è la trasfigurazione. Perciò il vero centro di questa lirica la sua vera voce poetica è il sogno della morte di Beatrice là dove sono in presenza questa vita e l'altra e mentre il sole piange e la terra trema gli angioli cantano “Osanna” e Beatrice par che dica: - Io sono in pace -. Ci è la terra co' suoi dolori e il cielo con le sue estasi il mondo lirico nel momento misterioso della sua unità. Non credo che la lirica del medio evo abbia prodotto niente di simile a questo sogno di Dante di una rara perfezione per chiarezza d'intuizione per fusione di tinte per profondità di sentimento per correzione di condotta e di disegno per semplicità e verità di espressione.

Ma se questo mondo logicamente è uno e concorde esteticamente è scisso perchè non è insieme terra e cielo ma è ora l'uno ora l'altro imperfetti ambidue. Il fantasma è spesso simile più ad un'allegoria che ad una realtà ed è stazionario senza successione e senza sviluppo senza storia. La realtà è pura scienza in forma scolastica. Si può dire che quando in questo mondo comincia la realtà allora appunto muore la poesia s'inaridisce la fantasia e il sentimento. È un difetto organico di questo mondo che resiste a tutti gli sforzi dell'arte resiste a Dante.

D'altra parte Dante vi si mostra più poeta che artista. Quel mondo è per lui cosa troppo seria perchè possa contemplarlo col sereno istinto dell'arte. Poco a lui importa che la superficie sia scabra purchè ci sia sotto qualche cosa che si mova. Perciò è sempre evidente spesso arido e rozzo. L'Italia ha già il suo poeta; non ha ancora il suo artista.


IV

LA PROSA

Se i rimatori o dicitori in rima aiutarono molto alla formazione del volgare non minore opera vi diedero i bei favellatori o favoleggiatori. “Favella” viene da “fabella” favoletta e perciò le lingue moderne furon dette “favelle” lingue de' favoleggiatori. Costoro nelle corti e ne' castelli raccontavano novelle come i rimatori poetavano d'Amore. Così gl'inizi della nostra lingua furono

Come i versi così le prose aveano già tutto un repertorio venuto dal di fuori. I rimatori attingevano nel codice d'Amore; i novellatori o favellatori attingevano ne' romanzi della Tavola rotonda o di Carlomagno. Il cavaliere errante era il tipo convenzionale degli uni e degli altri.

Questa letteratura non produsse altro che traduzioni come sono i Conti di antichi cavalieri la Tavola rotonda e i Reali di Francia: Tristano Isotta Lancillotto il re Meliadus il profeta Merlino Carlomagno Orlando erano gli eroi dell'immaginazione popolare. Oggi ancora i cantastorie napoletani raccontano ad una plebe avida di fatti maravigliosi le geste di Orlando e di Rinaldo. Anche la storia romana prese questa forma. Un codice antico ha per titolo: Lucano tradotto in prosa ed è la versione del Giulio Cesare romanzo in versi rimati di Jacques de Forest. La guerra tra Cesare e Pompeo è narrata con colori e particolari tolti alla vita cavalleresca. Cicerone “mastro di rettorica” e “buono chierico” così comincia una sua aringa a Pompeo: “Li re e conti e baroni e l'altro popolo ti richieggono e pregano che tu non metta la cosa a indugio”. E non è maraviglia che anche nelle cronache penetri questa vita cavalleresca. Si leggono non senza diletto i Diurnali o come oggi si direbbe giornali di Matteo Spinelli la più antica cronaca italiana non solo per la semplicità e naturalezza del racconto in un dialetto assai prossimo al volgare ma per la vaghezza de' fattarelli che pare un favellatore e non uno storico. Di maggior mole è la Storia di Firenze di Ricordano Malespini che dagli inizi della città si stende sino al 1282. Quando narra fatti contemporanei è testimonio veridico ed esatto nè la sua fede guelfa lo induce ad alterare i fatti. Ma quando esce da' suoi tempi ti trovi nell'infanzia della coltura. Anacronismi ed errori geografici sono accoppiati con la più grossolana credulità nelle favole più assurde improntate di tutto il maraviglioso de' romanzi cavallereschi. Dice che la chiesa di san Pietro fu fondata a' tempi di Ottaviano quando san Pietro e Cristo stesso non erano ancora nati; che la mattina di Pentecoste fu celebrata la messa nella chiesa della canonica di Fiesole al tempo di Catilina; che il tempio di san Giovanni in Firenze fu fondato alla morte di Cristo; che Pisa viene da “pisare” o “pesare” Lucca da “luce” e Pistoia da “pistolenzia”; narra gli amori di Catilina con la regina Belisea moglie del re Fiorino e le avventure di Teverina figlia di Belisea e pare una pagina tolta a qualche romanzo allora in voga.

In queste versioni e cronache la lingua è ancor rozza e incerta desinenze goffe o dure sgrammaticature frequenti nessun indizio di periodo nessun colorito: non ci è ancora l'“io” la personalità dello scrittore.

Come la poesia così la prosa cavalleresca poco attecchì in Italia. Non solo non ci fu nessun romanzo originale ma neppure alcuna imitazione. Tutto quel maraviglioso è riprodotto con quella stessa aridità e indifferenza che senti nel Malespini anche quando narra fatti commoventissimi come la morte di Manfredi o di Bondelmonte. Come l'uomo inculto parla assai meglio che non scrive è a presumere che i novellatori raccontassero le loro favolette con una vivacità d'immaginazione e di affetto che non trovi ne' racconti e nelle cronache. Ci è una raccolta di novelle detta il Novellino che sembrano schizzi e appunti anzi che vere narrazioni simili a quegli argomenti che si danno a' giovinetti per esercizio di scrivere. Il libro fu detto “fiore del parlar gentile”; e veramente vi è tanta grazia e proprietà di dettato che stenti a crederlo di quel secolo e sembrano piuttosto racconti rozzi e in voga raccolti e ripuliti più tardi. Ma se la lingua è assai più schietta e moderna che non è ne' Conti di antichi cavalieri e ne' romanzi di quel tempo è in tutti la stessa aridità. Ci è il fatto ne' suoi punti essenziali spogliato di tutte le circostanze e i particolari che gli danno colore e senza le impressioni e i sentimenti che gli danno interesse. Pure quando il fatto è semplice e breve e non richiede arte basta a conseguire l'effetto quella naturalezza e quel candore pieno di verità che è nel racconto. Eccone un esempio:

"Leggesi del re Currado padre di Corradino che quando era garzone si avea in compagnia dodici garzoni di sua etade. Quando lo re Currado fallava li maestri che gli eran dati a guardia non batteano lui ma batteano di questi garzoni suoi compagni per lui. E quei dicea: - Perchè non battete me chè mia è la colpa? - Diceano li maestri: - Perchè tu sei nostro signore. Ma noi battiamo costoro per te: onde assai ti dee dolere se tu hai gentil cuore che altri porti pena delle tue colpe. - E perciò si dice che lo re Currado si guardava molto di fallire per la pietà di coloro."

Se il romanzo e la novella non giunse ad esser popolare tra noi e non divenne un lavoro d'arte la ragione è che una materia tanto poetica si mostrò quando lingua e arte erano ancora nell'infanzia e rimasa fuori della vita e dei costumi riuscì un frivolo passatempo come fu della poesia cavalleresca. Trattata da illetterati questa materia non potè svilupparsi e formarsi sopravvenuto in breve tempo il risorgimento de' classici e il rifiorire delle scienze che trasse a sè l'animo delle classi colte. Quantunque “chierico” significasse ancora uomo dotto e da' pergami e dalle cattedre si parlasse ancora latino ed in latino si scrivessero le opere scientifiche già il laicato usciva dalle università vigoroso ed istrutto con la giovanile confidenza nella sua dottrina e nella sua forza. Se il chierico tendeva a restringere in pochi la dottrina e farne un privilegio della sua milizia lo spirito laicale tendeva a diffonderla a volgarizzarla a farla patrimonio comune. La libertà municipale aprendo la vita pubblica a tutte le classi costituiva in modo stabile un laicato colto e operoso a cui non bastava più il latino e che formato nelle scuole superbo della sua scienza in quotidiana comunione con le altre classi aveva già un complesso d'idee comuni che costituivano la base della coltura. Erano nuove forze che entravano in azione e davano un indirizzo proprio alla vita italiana. A quella gente quei romanzi e quei racconti doveano sembrare trastullo di oziosi spasso di plebe. Le idee religiose così come venivano bandite dal pergamo non doveano aver molta grazia a' loro occhi; quella semplicità e rozzezza di esposizione dovea poco gradire a quegli uomini che tutto codificavano e sillogizzavano. Certo non fu perciò estinta la razza de' novellatori e de' predicatori; ma lo spirito della classe colta se ne allontanò e i Conti de' cavalieri e le Vite de' santi rimasero occupazione di uomini semplici e inculti senza eco e senza sviluppo. La società mirava a divulgare la scienza a diffondere le utili cognizioni a far sua tutta la cultura passata profana e sacra. I suoi eroi furono Virgilio Ovidio Livio Cicerone Aristotile Platone Galeno Giustiniano Boezio santo Agostino e san Tommaso. Il volgare divenne l'istrumento naturale di questa coltura. I poeti bandivano la scienza in verso; i prosatori traslatavano dal latino gli scrittori classici i moralisti e i filosofi. Era un movimento di erudizione e di assimilazione dell'antichità che durò parecchi secoli e che ebbe una grande azione sulla nostra letteratura. La materia a cui più volentieri si volgevano i traduttori era l'etica e la rettorica l'arte del ben fare e l'arte del ben dire. Una delle più antiche versioni è il Libro di Cato o Volgarizzamento del Libro de' costumi opera scritta in distici latini e divisa in quattro libri. L'opera ebbe tanta voga che se ne fecero tre versioni ed è spesso citata dagli scrittori. Nè è maraviglia perchè ivi la morale è nella sua forma più popolana essendo ciascuna regola del ben vivere chiusa in un distico a guisa di motto o proverbio o sentenza facile a tenere in memoria. Ecco un esempio:

Virtutem primam esse puto compescere linguam:

proximus ille Deo est Qui scit ratione tacere.

Ed è tradotto egregiamente così:

Esercizio utilissimo a' giovani sarebbe il raffronto delle tre versioni che ti mostra la lingua ne' diversi stati della sua formazione. La terza versione pubblicata dal Manni ha per compagna l'Etica di Aristotile e la Rettorica di Tullio. Questa Rettorica di Tullio è il Fiore di rettorica attribuito a frate Guidotto da Bologna e da altri con più verisimiglianza a Bono Giamboni e che comincia così: “Qui comincia la Rettorica nuova di Tullio traslatata da grammatica in volgare per frate Guidotto da Bologna”. Che importanza avesse la rettorica e quali miracoli potea produrre si vede da queste parole del traduttore:

"Fu uno nobile e vertudioso uomo cittadino nato di Capova del regno di Puglia il quale era fatto abitante della nobile città di Roma che avea nome Marco Tullio Cicerone lo quale fu maestro e trovatore della grande scienzia di rettorica la quale avanza tutte le altre scienzie per la bisogna di tutto giorno parlare nelle valenti cose siccome in far leggi e piati civili e cherminali e nelle cose cittadine siccome in fare battaglie ed ordinare schiere e confortare cavalieri nelle vicende degl'imperii regni e principati e governare popoli e regni e cittadi e ville e strane e diverse genti come conversano nel gran cerchio del mappamondo della terra."

Il libro è dedicato a re Manfredi il quale vi potrà avere “sufficiente e adorno ammaestramento a dire in piuvico e in privato”. Accanto a Cicerone comparisce il grande poeta Virgilio “il quale Virgilio si trasse tutto il costrutto dello intendimento della rettorica e ne fece chiara dimostranza”. Il frate cercando le “magne virtudi” di Cicerone aggiunge: “Sì mi mosse talento di volere alquanti membri del Fiore di rettorica volgarizzare di latino in nostra lingua siccome appartiene allo mestiere de' laici volgarmente”. Onde pare che il tradurre volgarmente in volgare era mestiere dei laici scrivendo i chierici in latino. Queste citazioni sono il ritratto del tempo. Ci si vede la grande impressione che facea su quelle menti Virgilio e Cicerone “d'arme maraviglioso cavaliere franco di coraggio armato di grande senno fornito di scienzia e di discrezione ritrovatore di tutte le cose”. E ci si vede pure la gran fede nei miracoli della scienza come se a vivere con buoni costumi e a ben dire in pubblico e in privato bastasse imparare le regole dell'etica e della rettorica. Nè si recavano in volgare le opere solo dell'antichità ma anche le contemporanee scritte in latino. Cito fra gli altri il volgarizzamento fatto da Soffredi del Grazia notaio pistoiese de' Trattati di morale dottissima opera di Albertano da Brescia scritta in prigione. Il primo trattato Della dilezione di Dio e del prossimo e della forma della vita onesta è composto l'anno 1238. L'opera levò tal grido che fu tradotta in francese e in inglese e veramente ci è lì dentro raccolta tutta la dottrina del tempo intorno all'onesto vivere sacra e profana. L'impulso fu tale che gli uomini più chiari si volsero a tradurre o compendiare grammatiche rettoriche trattati di morale di fisica di medicina. Ristoro di Arezzo scrivea sulla Composizione della terra; Cavalcanti scrivea una grammatica e una rettorica; ser Brunetto traduceva il trattato De inventione di Cicerone e parecchie orazioni di Sallustio e di Livio e sotto nome di Fiore di filosofi e di molti savi raccoglieva i detti e i fatti degli antichi filosofi Pitagora Democrito Socrate Epicuro Teofrasto e di uomini illustri come Papirio Catone. Ecco i “fiori” di Plato:

"Plato fue grandissimo savio e cortese in parole e disse queste sentenzie:

In amistade nè in fede non ricevere uomo folle: più leggermente si passa l'odio de' folli e de' malvagi che la loro compagnia.

A neuno uomo ti fare troppo compagno. L'uomo è cosa troppo singolare: non puote sofferire suo pare de' suoi maggiori hae invidia de' suoi minori hae disdegno a' suoi iguali non leggeremente s'accorda.

Quelli sono pessimi e maliziosi nimici che sono nella fronte allegri e nel cuore tristi."

Secondo la rettorica di quel tempo si diceva “fiore” quel raccogliere il meglio degli antichi e offrirlo al pubblico come un bel mazzetto. E si diceva anche “giardino” come spiegava Bono Giamboni nel suo Giardino di consolazione versione del latino: “e chiamasi questo Giardino di consolazione imperò che siccome nel giardino altri si consola e trova molti fiori e frutti così in questa opera si trovano molti e begli detti li quali l'anima del divoto leggitore indolcirà e consolerà”. In effetti questo bel libro dov'è molta semplicità e grazia di dettato è una descrizione de' vizi e delle virtù con sopra ciascuna materia i detti de' savi e de' santi Padri tanto che si può veramente dire dell'autore: “il più bel fior ne colse”. Ecco il capitolo Dell'Ebrietade:

“Ebrietade secondo che dice santo Agostino è vile sepoltura della ragione e furore della mente”. Anche dice: “La ebrietà è lusinghiere demonio dolce veleno soave peccato. Anche dice: la ebrietà molti ne ha guasti toglie il senno fa venire infermitadi ingrossa lo ingegno accende alla lussuria mai non tiene segreto induce a male parole.” Santo Basilio dice: “l'ebro quando pensa bere sì è beuto: come lo pesce che con grande desiderio inghiottisce l'esca nella sua gola e non sente l'amo; così l'ebro bevendo il vino riceve in sè nemico senza ragione.” E santo Paolo dice: “non t'inebriare di vino imperò che di vino esce lussuria.”

Nè solo “fiore” o “giardino” ma si diceva pure “tesoro” o “convito” quasi mostra di ricche pietre preziose o di elettissime vivande. Brunetto che scrisse il Fiore avea già scritto il Tesoro “in romanzo o lingua francesca” come “più dilettevole e più comune che tutti gli altri linguaggi” e voltato poi in volgare da Bono Giamboni. Il Tesoro è il Cosmos di quel tempo l'universalità della scienza come s'insegnava nelle scuole la somma o il compendio del sapere e per dirla con le parole di Brunetto “un'arnia di mèle tratta di diversi fiori” un “estratto di tutt'i membri di filosofia in una somma brevemente”. Prende capo dalla filosofia siccome “radice di cui crescono tutte le scienze” ed è descrizione di Dio dell'uomo della natura. Segue l'etica o filosofia pratica e poi la rettorica che ha come appendice la politica o l'arte di ben governare gli stati. È il disegno di una prima facoltà universitaria che prepara con questi studi i giovani alle scienze speciali. Questa vasta compilazione di cui non era esempio parve una maraviglia. Ma più importanti erano i trattati speciali dove gli scrittori mostravano qualche originalità come furono i tre trattati di Albertano e il famoso trattato De regimine principum di Egidio Colonna dottissimo patrizio napolitano volgarizzato da un toscano.

Il luogo che teneva la fede venne occupato dalla filosofia. Non che la filosofia negasse la fede anzi era proprio di quel tempo aver fede in tutto quello che era scritto; ma sotto quella forma s'affermava la società colta e si distingueva da' semplici e dagl'ignoranti. Il luogo comune di tutte le invenzioni era l'eterno Giobbe l'uomo colpito dall'avversità che maledice prima alla vita e trova poi rimedio e consolazione nella filosofia ovvero nello studio della scienza nella visione delle opere divine e umane. Questo spiega la grande popolarità del libro di Boezio Della consolazione fondato appunto su questa base dove la filosofia è rappresentata “in sembianza di donna in tale abito e in sì maravigliosa potenzia che cresceva quando le piaceva tanto che il suo capo aggiungeva di sopra alle stelle e sopra al cielo e poggiava a monte e a valle”. Tale è pure la visione di ser Brunetto Latini nel Tesoretto ch'è visione delle cose umane “secondo il corso stabilito a ciascheduna”:

La stessa base ha il libro Introduzione alle virtù di Bono Giamboni. È un giovine “caduto di buono luogo in malvagio stato” che narra di sè in questo modo:

"Seguitando il lamento che fece Giobbe cominciai a maledire l'ora e il die che io nacqui e venn'in questa misera vita e il cibo che in questo mondo m'avea nutricato e governato. E pienamente luttando con guai e gran sospiri i quali venieno della profondità del mio petto fra me medesimo dissi: - Dio onnipotente perchè mi facesti tu vivere in questo misero mondo acciocch'io patissi cotanti dolori e portassi cotante fatiche e sostenessi cotante pene? Perchè non mi uccidesti nel ventre della madre mia o incontanente che nacqui non mi desti tu la morte? Facestilo tu per dare di me esempio alle genti che neuna miseria d'uomo potesse nel mondo più montare? - Lamentandomi duramente nella profondità di un'oscura notte nel modo che avete udito di sopra e dirottamente piangendo m'apparve di sopra al capo una figura che disse: - Figliuolo mio forte mi maraviglio che essendo tu uomo fai reggimenti bestiali perciocchè stai sempre col capo chinato e guardi le oscure cose della terra laonde sei infermato e caduto in pericolosa malattia. Ma se tu dirizzassi il capo e guardassi il cielo e le dilettevoli cose del cielo considerassi come dee fare uomo naturalmente e di ogni tua malattia saresti purgato e vedresti la malizia de' tuoi reggimenti e sarestine dolente. Or non ti ricorda di quello che disse Boezio: che conciossiacosachè tutti gli altri animali guardino la terra e seguitino le cose terrene per natura solo all'uomo è dato a guardare il cielo e le celestiali cose contemplare e vedere? - Quando la boce ebbe parlato... si riposò una pezza aspettando se alcuna cosa rispondessi o dicessi; e vedendo che stava mutolo e di favellare neuno sembiante facea si rappressò verso me e prese i ghironi del suo vestimento e forbimmi gli occhi i quali erano di molte lacrime gravati per duri pianti ch'io avea fatto... Allora apersi gli occhi e guardaimi dintorno e vidi appresso di me una figura bellissima e piacente quanto più innanzi fue possibile alla natura di fare. E della detta figura nascea una luce tanto grande e profonda che abbagliava gli occhi di coloro che guardare la volieno: sicchè poche persone la poteano fermamente mirare. E della detta luce nasceano sette grandi e maravigliosi splendori che alluminavano tutto il mondo. E io vedendo la detta figura così bella e lucente avvegna che avessi dallo incominciamento paura m'assicurai tostamente pensando che cosa rea non potea così chiara luce generare. Cominciai a guardar la figura tanto fermamente quanto la debolezza del mio viso poteva sofferire. E quando l'ebbi assai mirata conobbi certamente ch'era la Filosofia nelle cui magioni avea lungamente dimorato. Allora incominciai a favellare e dissi: - Maestra delle virtudi che vai tu facendo in tanta profondità di notte per le magioni de' servi tuoi? - "

Seguono discorsi tra questo servo della Filosofia e la Filosofia il cui costrutto è questo: che la vita terrestre è vita di prova; e la vera vita è in cielo se però “porti in pace le pene e le tribulazioni di questo mondo chi vuole essere verace figliuolo di Dio e non bastardo pensando che s'egli sarà compagno di Dio nelle passioni sarà suo compagno nelle consolazioni”. La Filosofia finisce con questo lamento:

“O umana generazione quanto se' piena di vanagloria e hai gli occhi della mente e non vedi! Tu ti rallegri delle ricchezze e della gloria del mondo e di compiere i desidèri della carne che possono bastare quasi per uno momento di tempo perchè poco basta la vita dell'uomo: e queste sono veracemente la morte tua perchè meritano nell'altro mondo molte pene eternali. E della povertà e delle tribulazioni del mondo ti turbi e lamenti che poco tempo possono durare: e queste sono veracemente la tua vita perchè se si comportano in pace meritano nell'altro mondo molta gloria perpetuale... Disse uno savio: - Quello che ne diletta nel mondo è cosa di momento e quello che ne tormenta nell'altro durerae mai sempre.”

E segue citando i detti dell'Apostolo di san Pietro e di Salomone.

Questo era il tèma comune delle prediche salvo che qui il predicatore è la Filosofia che si fa interprete di Dio e cita Salomone e san Pietro e i santi Padri. Questo concetto è l'idea fondamentale della “leggenda” una storia fantastica la cui base è il peccatore condannato o redento. In queste leggende Dio e il demonio sono gli attori principali: Dio che co' suoi angioli e le sue virtù tira l'anima alla rinunzia de' beni terrestri e alla contemplazione delle cose celesti e il demonio che la tiene stretta e affezionata alla terra. L'uomo mosso dalle naturali inclinazioni vende l'anima al demonio pur d'essere felice in terra e lo spettacolo finisce nelle tenebre e nel fuoco dell'inferno. Ma spesso la tragedia si solve nella commedia cioè nel trionfo e nel gaudio dell'anima quando aiutata dalla divina grazia sa riscattarsi dal demonio e acquistare il paradiso. Questa lotta tra Dio e il demonio è la battaglia dei vizi e delle virtudi che nella Introduzione alle virtù del Giamboni la Filosofia mostra al suo servo perchè in quella immagine fortifichi la sua fede. Questa è pure la base della leggenda del dottore Fausto che vendè l'anima al diavolo leggenda così popolare al medio evo e resa immortale da Goethe. E questo è anche il concetto del mondo lirico dantesco dove Beatrice diviene la Filosofia e le gioie e i dolori dell'amore terrestre svaniscono nella contemplazione intellettuale della Scienza.

Così il secolo decimoterzo si chiude con uno stesso concetto esposto in prosa e in poesia. Brunetto Giamboni e Dante s'incontrano nella stessa idea o per dir meglio era questa l'idea comune elaborata in tutto il medio evo e che sullo scorcio di quel secolo ci si presenta netta e distinta consapevole di sè. Ma in prosa non trovò quell'adeguata espressione che seppe dare Dante al suo mondo lirico. Mancò la leggenda com'era mancata la novella e mancò il romanzo religioso o spirituale com'era mancato il romanzo cavalleresco. Lo scrittore è più intento a raccogliere che a produrre. Fra tanti “Fiori” e “Giardini” e “Tesori” manca l'albero della vita l'anima impressionata e fatta attiva che produca. Ci è un lavoro di traduzione e di compilazione non ci è ancora un lavoro di assimilazione e tanto meno di produzione. Le ricchezze son tante che tutta l'attività dello spirito è consumata a raccoglierle anzi che a crearne di nuove. Senti una stanchezza a leggere queste traduzioni o compilazioni dove niente è affermato senza un “ipse dixit” o piuttosto “ipsi dixerunt” tante e così accumulate sono le citazioni. E non ci è tregua non digressioni non varietà in questi “giardini” dove hai innanzi un cicerone insopportabile sempre con la stessa voce e lo stesso tuono. Nessun movimento d'immaginazione o di affetto; nessun vestigio di narrazione o descrizione; l'esposizione didattica il trattato riempie l'intelletto e t'uccide l'anima. L'espressione più chiara del secolo furono i dottissimi Brunetto Latini e Bono Giamboni traduttori e compilatori infaticabili. Basti dire che il Giamboni oltre le opere avanti accennate ha tradotto pure le Storie di Paolo Orosio l'Arte della guerra di Flavio Vegezio e la Forma di onesta vita di Martino Dumense.

La gloria di questo secolo cominciatore di civiltà è di aver preparato il secolo appresso lasciandogli in eredità una ricca messe di cognizioni fatte volgari e la lingua e la poesia formata nella sua parte tecnica. Quel tradurre fu un esercizio utilissimo che diede forma e stabilità alla nuova lingua e quella pieghevolezza ed evidenza che viene dalla necessità di rendere con esattezza il pensiero altrui. Principe de' traduttori fu Bono Giamboni così terso e fresco che molte pagine con lievi correzioni si direbbero scritte oggi soprattutto dove sono descrizioni di animali o di virtù e di vizi.

In queste prose didattiche non ci è di arte neppure intenzione. Ai contemporanei di Cino di Cavalcanti di Dante quelle nude e aride prose doveano sembrare assai povera cosa. E si venne confermando l'opinione che il volgare non fosse buono che a dire di amore e che le materie gravi si dovessero trattare in latino come costumavano gli scrittori di polso.


 

V

I MISTERI E LE VISIONI

Al punto a cui siamo giunti ci si porge chiara l'immagine delsecolo decimoterzo. Due sono le fonti di quella letteratura primitiva: la cavalleria e le sacre scritture. L'eroe della cavalleria il cavaliere è l'uomo che si sforza di realizzare in terra la verità e la giustizia di cui è immagine la donna suo culto e amore. La sua vita è attiva piena di avventure e di fatti maravigliosi. Senti la sua presenza nella più antica lirica nelle novelle ne' romanzi e nelle cronache. Ma la cavalleria venutaci di fuori con gli stranieri che occupavano il nostro suolo non prese radice non si sviluppò non produsse alcuna opera originale rimase stazionaria. Perdette il suo carattere serio e quasi religioso e restò un puro gioco d'immaginazione che si mescola come colorito e accessorio in tutte le storie sacre e profane. Di ben altra efficacia era l'idea religiosa penetrata ne' sentimenti e ne' costumi e nelle istituzioni compagna dell'uomo in tutti gli stati della vita. L'eroe cristiano è chiamato pure “cavaliere” il “cavaliere di Cristo”; ma è un eroe contemplativo il cui tipo è il frate il romito il santo. Come il cavaliere errante anche lui rinunzia ed ha a vile i beni terrestri ma la vita dell'uno è militante quella dell'altro è contemplante: ci è in fondo la stessa idea di cui l'uno è il soldato l'altro è il sacerdote. Certo questi due tipi entrano spesso l'uno nell'altro e il frate diviene il templario o il cavaliere di Malta soldato della fede e il cavaliere errante finisce romito e penitente. Ma il cavaliere gittandosi nelle più strane avventure dimentica e fa dimenticare il cielo attirata l'attenzione dal maraviglioso delle opere sì che destano uguale curiosità e interesse le geste de' cristiani e de' saracini e la rappresentazione rimane terrena. L'altro al contrario passando la vita ne' digiuni nella povertà nella castità e nell'orazione ci tien sempre viva innanzi l'immagine dell'altro mondo; e perciò questa vita contemplativa è schiettamente religiosa; anzi è ivi la perfezione ivi il più alto ideale. La passione dell'anima è l'esser legata al corpo alla carne e la sua beatitudine o santificazione è sciogliersi da quella e star con Cristo: al che è via la contemplazione e la preghiera. Nelle tre allegorie sull'anima pubblicate dal Palermo è detto: “Ogni bene e virtù qualunque vogli e buono in sè medesimo ma la preghiera solamente trae a sè tutte le altre virtù”. In queste allegorie compariscono tre esseri che sono i tre gradi della santificazione: “Umano” “Spoglia” e “Rinnova”. Dapprima l'anima impacciata dal terrestre dall'“Umano” non può scorgere il vero che sotto figura nel sensibile. Il secondo essere “Spoglia” è la virtù che monda e purga l'anima dagli affetti terrestri insino a che viene “Rinnova” luce mentale che “rinnova l'anima in tutto e mostra la verità senz'ombra e senza figura”. Questi tre gradi di santificazione comprendono tutta la vita del cavaliere cristiano. Inviluppato nel senso e nella carne non vede che un barlume del vero e non giunge all'ultima luce mentale all'ultimo grado se non purificandosi e mondandosi della parte terrestre. Anch'egli ha le sue battaglie ma col demonio e con la carne ch'egli macera e mortifica d'ogni maniera e le sue armi sono la contemplazione e la preghiera. Il maraviglioso di questa vita non è solo ne' miracoli ma in quella forza di volontà che trae l'uomo a vincere tutti gli affetti e le inclinazioni naturali com'è in santo Alessio il tipo più commovente di questi cavalieri di Cristo. La creazione del mondo il peccato originale le profezie la venuta di Cristo la sua passione morte e trasfigurazione l'anticristo e il giudizio universale sono l'epopea il fondo storico a cui si annodano tante vite di santi. E questa storia dell'umanità era tutt'i giorni innanzi al popolo nella predica nella confessione nella messa nelle feste. La messa non è altro che una rappresentazione simbolica di questa storia un vero dramma senza che ce ne sia l'intenzione rappresentato dal prete e da' fedeli. Ogni atto che fa il prete è pieno di significato è rappresentazione mimica. La prima parte della messa è epica o narrativa; è il Verbum Dei l'esposizione che comprende le profezie e il Vangelo e finisce con la predica. La seconda parte è drammatica è l'azione il Sacrificium l'adempimento delle profezie. La terza parte è lirica come nelle risposte de' fedeli (il coro) al prete o quando due cori si alternano nel canto e negl'inni e nelle preghiere: ciò che ha luogo principalmente nella messa cantata. Aggiungi le immagini de' santi e i fatti dell'antico e del nuovo Testamento in quelle cappelle in quelle finestre variopinte in quelle cupole e quelle grandi ombre e quelle moli restringentisi sempre più e terminate da croci slanciate verso il cielo ed avrai l'immagine e l'effetto musicale di questo stacco dalla terra di questo volo dell'anima a Dio. Dopo l'evangelo il predicatore talora per fare più effetto sull'immaginazione esponeva la sua storia sotto forma di rappresentazione come si fa in parte anche oggi ne' quaresimali. I monaci e i preti rappresentavano il fatto e il predicatore aggiungeva le sue spiegazioni e considerazioni. Era una rappresentazione liturgica cioè legata al culto parte del culto detta “divozione” o “mistero”. Di tal natura sono due divozioni che si rappresentavano il giovedì e il venerdì santo e sono piuttosto due atti di una sola rappresentazione che due rappresentazioni distinte. La prima comincia col banchetto che Cristo ebbe in casa di Lazzaro sei giorni avanti Pasqua e che qui è il giovedì santo. Cristo viene da Gerusalemme Maria con Maddalena e Marta gli va incontro. Maria prega il figlio di non tornare a Gerusalemme perchè vogliono la sua morte. Cristo risponde dover ubbidire al Padre: pur si conforti che niente farà che non lo dica a lei. Alla fine del banchetto Cristo scopre a Maddalena che dee ire a Gerusalemme dove patirà il supplizio della croce e le raccomanda la madre. Cristo esce. Sopraggiunge Maria che ha visto il figlio turbato e la prega a svelarle quello che il figlio le ha detto. Maddalena tace. E la madre va a Cristo tutta in lacrime e dice:

Dimilo figlio dimilo a mi

Cristo dice che pel riscatto del mondo dee ire a morte e Maria sviene. Tornata in sè e lamentandosi raccomanda il figlio a Giuda che risponde in modo equivoco: - So quello che ho a fare. - Poi si volge a Pietro che promette difendere il figlio contro tutto il mondo. Giunti a una porta della città Maria non vuol separarsi dal figlio; ma quando non lo vede più e sa che per un'altra porta è entrato in Gerusalemme fa pietosi lamenti innanzi al popolo:

Segue il racconto secondo la Bibbia. Le parole di Cristo tolte al Vangelo sono dette in latino. E la “divozione” finisce con la prigionia di Cristo.

La “divozione” del venerdì santo racconta la passione e la morte di Cristo. Il predicatore interrompe la rappresentazione con le sue spiegazioni e fa cenno quando si ha a continuare. Maria vi rappresenta una gran parte. Mentre Cristo prega pe' suoi nemici ella dice alla croce:

Cristo la raccomanda a Giovanni che inginocchiandosi e baciandole i piedi cerca racconsolarla. Ma essa abbraccia la croce e si lamenta:

Quando Cristo muore Maddalena gli sta a' piedi al capo Giovanni Maria nel mezzo. E bacia il corpo di Cristo gli occhi le guance la bocca i fianchi le mani “con le quali benediva il mondo” i piedi su' quali “Maddalena sparse tante lacrime”.

Queste rappresentazioni erano antichissime e si scrivevano in latino come il Ludus paschalis rappresentazione di Pasqua dove è messo in azione l'anticristo. Le due “divozioni” avanti discorse non sono probabilmente che versioni o imitazioni di opere più antiche rimase nella tradizione. Tale era pure la rappresentazione del Nostro Signore Gesù Cristo che ebbe luogo a Padova nel 1243 e il Ludus Christi una trilogia rappresentata dal clero in Cividale negli ultimi due giorni di maggio il 1298. Nella Pentecoste e ne' tre seguenti giorni il capitolo di questa città in presenza del vescovo e del patriarca di Aquileia diede questa serie di rappresentazioni: la creazione di Adamo ed Eva la profezia o l'annunzio la nascita morte e risurrezione di Cristo la discesa dello Spirito santo l'Anticristo e la venuta di Cristo nel giudizio universale. Era tutta l'epopea biblica fatta evidente e sensibile dalla musica dal canto dalle scene dalla mimica e dalla parola. Tale era pure la Passione rappresentata a Roma nel Coliseo il venerdì santo dalla Compagnia del gonfalone nel 1264.

Queste rappresentazioni di cui i preti erano attori e attrici aveano tutto il carattere di solennità o feste o cerimonie religiose. Il diavolo vi ha pure la sua parte di tentatore ma parla in modo serio e semplice secondo la sua natura e non ha niente di grottesco e di ridicolo. Chiuse nel recinto delle chiese de' conventi e delle curie vescovili rimangono tradizionali e immobili senza sviluppo artistico come anche oggi si vedon in parte nelle feste del contado.

La moralità di queste rappresentazioni era che il fine dell'uomo è nell'altra vita o come si diceva è la salvazione dell'anima; che per conseguire questo fine si ha a imitare Cristo soffrire in questo mondo per godere nell'altro. Perciò l'ideale l'eroico o come si diceva la “perfezione della vita” era il dispregio de' beni di questo mondo la resistenza a tutte le inclinazioni naturali e il vivere in ispirito nell'altro mondo con la contemplazione e la preghiera. Questa è la vita de' santi della quale si dava anche rappresentazione a' fedeli. E tra le più antiche è una ancora inedita che ha per titolo: D'uno monaco che andò a servizio di Dio probabilmente recitata a monaci da monaci in un convento. L'eroe è questo monaco un giovinetto che resiste alle lacrime della madre alle querele del padre alle tentazioni del compare e si rende frate nel deserto dove è accolto come figlio da un romito. Ma ivi prove più dure l'attendono. Mentre egli va a raccogliere per il pasto radici frutta castagne e noci il romito prega e mosso da curiosità chiede a Dio qual luogo spetti al suo novizio in paradiso e un angelo risponde che sarà dannato. Non perciò della notizia si turba il giovinetto anzi risponde tranquillo che continuerà ad amare e servire Dio. Invano il demonio lo tenta dicendogli che “ha guastato l'amor naturale” e che il meglio sarà tornare in casa del padre chè forse Dio gli avrà misericordia. Il giovinetto con gli scongiuri fuga il demonio e rimane fermo nella sua risoluzione. Allora l'angiolo annunzia al romito ch'egli è salvo. E il monaco e il romito intuonano il Te Deum o una lauda. Nell'epilogo o commiato sono esortati gli spettatori a castigare la carne e a pensare alla vita eterna. Anima della rappresentazione è l' invitta fede del giovane monaco che la preghiera e la contemplazione è la più sicura guardia contro il peccato e la tentazione della carne e che si giunge alla santificazione con rinunziare al mondo e vivere con lo spirito in Dio. Questo concetto è espresso in una forma scolastica nel canto del monaco di cui ecco alcuni brani:

Ci è una rappresentazione intitolata Commedia dell'anima che è una storia ideale della vita de' santi una specie di logica dove sono le idee fondamentali della santificazione l'ossatura e lo scheletro di tutte le vite de' santi. L'anima esce pura dalle mani di Dio e a sua immagine. Dio la contempla con amore dicendo:

Ma il demonio invidioso che “sì vil cosa abbia a fruire quel regno del qual esso è privato” si apparecchia a darle battaglia. L'angelo custode conforta l'anima e le presenta la Memoria l'Intelletto e la Volontà: le sue “potenzie”. L'Intelletto parla dopo la Memoria e dice:

E la Volontà dice:

L'Intelletto dice alla Volontà:

A te s'appartien sol deliberare

di far quel che ti è mostro fedelmente;

E la Volontà risponde:

L'anima confortata alza la preghiera a Dio e l'angelo custode aggiunge:

Cioè a dire non bastano le tre potenzie naturali Memoria Intelligenzia Volontà perchè l'anima piaccia al Signore; ci vuole anche la sua grazia l'ardente fiammella che dee cacciare il drago il demonio. E Dio manda ad assisterla le virtù teologiche Fede vestita di colore celeste con una croce nella mano destra e nella sinistra un calice e suvvi la patena; Speranza vestita di verde con gli occhi fissi al cielo e le mani giunte Carità vestita di rosso con un parvolino per mano. Intanto il demonio chiama l'Eresia la Disperazione la Sensualità e tutte le sue forze capitanate dall'Odio. Le tre virtù intorniano l'anima. La Fede dice dell'esser suo e san Giovanni Crisostomo celebra la sua potenza. Ma l'Infedeltà con acri parole la rampogna:

Allora la Speranza viene in soccorso:

Ma l'anima teme pensando la sua debolezza:

La Speranza le pone avanti l'esempio de' santi e soprattutto di santo Agostino:

Allora l'assale la Disperazione e dice:

Ma l'anima risponde allo scherno cacciandola da sè:

Segue un'altra disputa tra la Carità della quale san Paolo celebra le lodi e l'Odio in cui spunta l'ombra di un carattere qualche cosa di simile a un capitano millantatore:

Vommene pe' conventi in ogni cella

L'ultima battaglia è tra il Senso o la Sensualità e la Ragione. L'anima pregando si sente sopraffatta dal corpo:

E la Sensualità così invocata le dice beffando:

Ma ecco la Ragione dire all'anima:

E saputo il fatto dice della sua nemica:

 - Ma che dovevo fare? - dice l'anima:

La Sensualità non se ne spaventa e dopo uno scambio di villanie aggiunge:

La Ragione è vinta e l'anima cede. Ella desidera una ghirlanda con un nodo

E il demonio aggiunge:

Così la Ragione è impotente senza la Grazia. Comparisce Dio stesso:

L'anima pentita del mal pensiero risponde:

Allora Dio le manda in soccorso le virtù cardinali Prudenza Temperanza Fortezza Giustizia Misericordia Povertà Pazienza Umiltà. Ciascuna parla di sè citando talora questo o quel passo della Bibbia. Ecco alcuni brani:

PRUDENZA - Io ti conforto che tu sia prudente

TEMPERANZA - Terrai la via del mezzo in ogni cosa

FORTEZZA - Tullio dice di me questa parola:

GIUSTIZIA - Dice David con la sua voce amena:

MISERICORDIA - Mercè mercè o Giustizia divina

POVERTÀ - Io son la Povertà o città mia

PAZIENZA - O popul mio io son la Pazienzia;

POVERTÀ -... M'affliggo e doglio

PAZIENZA - Chi pensa andare al ciel per altra via

UMILTÀ - L'Umiltade son io fratei diletti

L'anima contrita e fortificata alza un canto a Dio:

Colpita da grave infermità dice:

Intorno alla morente fanno l'ultima battaglia l'angiolo e il demonio. Gli argomenti dell'angiolo si possono ridurre in questi tre versi:

Dio accoglie l'anima e pronunzia il suo giudizio:

E l'angiolo dice

E il coro accompagna l'anima al cielo con questo canto:

Così finisce questa rappresentazione detta “commedia” perchè si conchiude con la salvazione e non con la perdizione dell'anima. È detta anche “misterio” per la sua natura allegorica. È uno degli antichissimi misteri liturgici ritoccato ripulito rammodernato e fatto laico a' tempi di Lorenzo de' Medici e forse più in là a giudicare dalla forma franca e spigliata da certi tentativi di formazione artistica come nelle figure del demonio dell'Odio della Sensualità della Povertà e da un certo non so che beffardo e grottesco che svela poca serietà e unzione nello scrittore e negli spettatori. Ma se la trama è moderna la stoffa è antica e ricorda il duello del Senso e della Ragione così comune negli scritti volgari che apparvero prima e la battaglia de' vizi e delle virtù del Giamboni e le tre allegorie cristiane. Anzi questa Commedia dell'anima non è se non le tre allegorie messe in rappresentazione. Là trovi tre gradi di santificazione Umano Spoglia e Rinnova. E anche qui l'anima è prima combattuta dal senso e cade ne' suoi lacci perchè “umana cosa è cascare in errore” poi fa la sua penitenza si spoglia e si monda della scoria del peccato e così a Dio si rimarita come dice Dante o come dice il nostro autore sta “al convito celestiale con veste bella e nuziale”. Questi tre gradi aveano la loro formazione liturgica nell'inferno purgatorio e paradiso che erano appunto il senso l'Umano puro abbandonato a se stesso lo Spoglia o la penitenza che purga o monda l'anima e il Rinnovamento o la luce mentale la beatitudine. Questo era il concetto delle rappresentazioni che aveano a materia l'altro mondo come quella di cui fa menzione Giovanni Villani che ebbe luogo a Firenze. L'altro mondo era la storia o come si diceva la “Commedia dell'anima” la quale non potea giungere a redimersi dall'umanità dal corpo dalla carne dall'inferno se non con la penitenza purificandosi e purgandosi e così contrita e confessa diveniva leggiera saliva al cielo. Questa Commedia spirituale dell'anima di cui ho voluto dare un sunto possibilmente esatto è il codice di quel secolo il contenuto astratto e generale particolarizzato nelle vite nelle leggende ne' trattati e nella lirica Spiritus intus alit. Lo spirito che alita per entro a quelle prose e a quelle poesie è la “Commedia dell'anima”.

Ma in tante prose e in tante poesie non ci è ancora un vero lavoro d'individuazione e di formazione. Il contenuto rimane nella sua astratta semplicità innominato e impersonale l'anima. Essendo il suo fondamento la contemplazione e non l'azione o un'azione negativa la resistenza agl'istinti e agli affetti naturali non penetra nella vita non ne assume tutte le forme non diventa la società. Certo quell'azione negativa è molto poetica è il sublime religioso e tocca il cuore quando è rappresentata con semplicità e unzione. Ma in questo contrasto tra il sentimento religioso e la natura ciò che move più è il grido della natura come ne' lamenti della madre di santo Alessio o di santa Eugenia o nel dolore d'Isacco nel Sacrifizio di Abraam che all'annunzio della sua morte chiama la madre:

Tutta è l'anima mia trista e dolente

Quantunque questo non sia che uno de' lati più angusti e solitari della vita umana così ricca e varia ne' suoi aspetti pure offre contrasti e gradazioni che lo rendono capacissimo di un grande sviluppo artistico. Ma in quel suo albore la letteratura ha lo stesso carattere che mostra nella decadenza la naturalità o materialità del contenuto. Tante vite e storie e leggende e visioni stuzzicavano la curiosità con la varietà e novità degli accidenti e si attendeva più allo spettacoloso a colpire l'immaginazione con apparizioni nuove e maravigliose che a lavorarle e svilupparle. Mancava la virtù di mettersi gli oggetti a distanza e trasformarli: la realtà anche nuda era per se stessa maravigliosa e bastava ad ottenere l'effetto operando in modo semplice e immediato sullo scrittore e su' lettori.

Oltrechè siccome il contenuto riposava su di una dottrina liturgica stabilita e inalterabile poco era accomodato ad una rappresentazione libera e artistica anche quando usciva dalla chiesa e dal convento ed era maneggiato da' laici come fu anche de' misteri. Impadronirsi di quel contenuto cacciarlo dalla sua generalità dargli corpo e persona sarebbe sembrata una profanazione. Lo spirito mirava a rendere accessibile quella dottrina per via di esempli di sentenze e di allegorie come si vedea nella Bibbia. Il reale il concreto non avea valore se non come figura della dottrina. Ecco ad esempio in che modo è nella Commedia dell'anima figurato il paradiso:

Le ultime parole spiegano la figura. Quella è la fontana della divina Grazia. Con questa tendenza lo scrittore sta contento alla semplice personificazione e gli pare di aver fatto assai a dare una immagine che renda chiaro e sensibile il suo concetto. Oltre a ciò l'uomo colto schivo delle forme semplici e volgari dell'umile credente mira a trasformare quella dottrina in un contenuto scientifico e la traduce nelle forme scolastiche e di questa fede ragionata e sillogizzata fa la filosofia figliuola di Dio. Lo studio del secolo è di allegorizzare e dimostrare anzichè di rappresentare; è di chiarire quel contenuto lumeggiarlo volgarizzarlo ragionarlo anzichè coglierlo in azione e nell'atto della vita. Perciò l'opera letteraria tiene dell'allegoria e del trattato e ciò che è mera rappresentazione rimane nell'infanzia. Mai non ti senti ben fermo in terra in mezzo a uomini vivi con tali caratteri passioni e costumi anzi lo scrittore ti par quasi estraneo alla società e alle sue lotte e dimora nell'astratta e monotona generalità della sua contemplazione. E quando pur scende a rappresentare la vita ti senti d'un tratto balzato nel regno de' misteri delle leggende e delle visioni nell'altro mondo.

La visione è in effetti la forma naturale di questo contenuto quando si vuol rappresentarlo. La vita e la realtà è il senso la carne il peccato e lo scrittore o guarda e passa o se pur vi si trattiene è per maledirla rappresentandola non quale appare in terra ma quale è nell'altro mondo. La rappresentazione è dunque la visione della realtà come sarà dopo la morte e là si spazia e si diletta l'immaginazione. E se il mistero è commedia ed ha per conclusione la santificazione e la beatitudine la visione è spesso pittura delle pene infernali lasciate alla libera immaginazione de' predicatori de' vescovi de' frati de' santi Padri che col terrore operavano sulle rozze immaginazioni. Laghi di zolfo valli di fuoco o di ghiaccio botti d'acqua bollente rettili vermi dragoni da' denti di fuoco demòni armati di lance di fruste di martelli infocati cadaveri putridi e inverminiti scheletri tremanti sotto una pioggia di ghiaccio dannati inchiodati al suolo con tanti chiodi che “non pare la carne” o sospesi per le unghie in mezzo al zolfo o menati e rapiti da velocissime ruote di fuoco simili a “cerchi rosseggianti” o infissi a spiedi giganteschi che i demòni irrugiadano di metalli fusi: ecco la realtà delle visioni rappresentata co' più vivi colori. I tre monaci che si mettono in viaggio per iscoprire il paradiso terrestre dopo quaranta giorni di cammino attraversano l'inferno:

“E veggono un lago grandissimo pieno di serpenti che tutti pareano che gittassero fuoco e odono voci uscire di quel lago e stridere come di mirabili popoli che piagnessero e urlassero. E pervenuti che sono fra due monti altissimi appare loro un uomo di statura in lunghezza bene di cento cubiti incatenato con quattro catene e due delle quali eran confitte nell'un monte e l'altre due nell'altro; e tutto intorno a lui era fuoco e gridava sì fortemente che si udiva bene quaranta miglia da lungi. E vengono in un luogo molto profondo e orribile e scoglioso e aspro nel quale vedono una femmina nuda laidissima e scapigliata in volto e compresa tutta da un dragone grandissimo e quando ella volea aprire la bocca per parlare o per gridare quel dragone le mettea il capo in bocca e mordeale crudelmente la lingua; e i capelli di quella femmina erano grandi infino a terra.”

Nella Vita di Santa Margherita si trova questa pittura del dragone:

“Vide uscire un dragone crudelissimo e orribile con isvariati colori e la barba e i capelli pareano d'oro e ' denti suoi parevano di ferro e gli occhi acuti e lucenti come fuoco acceso e colla bocca aperta menava la lingua e parea che per le nari e per la bocca gittasse fuoco e puzzo gittava di zolfo.”

Tra le visioni è celebre il Purgatorio di San Patrizio di frate Alberico e quella d'Ildebrando poi Gregorio settimo che predicando innanzi a papa Niccolò secondo narra di un conte ricco e insieme onesto “ciò che è proprio un miracolo in questa gente” egli dice. Questo conte morto dieci anni innanzi fu visto da un santo uomo ratto in ispirito starsi al sommo d'una scala lunghissima che ergevasi illesa tra le fiamme e si perdeva giù nell'inferno. Su ciascuno scalino stava uno degli antenati del conte con quest'ordine che quando alcuno moriva di quella famiglia doveva occupare il primo gradino e colui che vi giaceva e tutti gli altri scendevano di un grado verso l'abisso dove tutti l'uno appresso l'altro si sarebbero riuniti. E chiedendo il santo uomo come fosse dannato il conte che avea lasciata in terra buona fama di sè si udì una voce rispondere: - Uno degli antenati di cui il conte è l'erede in decimo grado tolse al beato Stefano un territorio nella chiesa di Metz; e per questo delitto tutti costoro sono involti nella stessa dannazione. - Questa pena che colpisce un'intera generazione è molto poetica mostrando l'inferno nel sublime d'un lontano indeterminato messo costantemente innanzi all'immaginazione de' condannati che a grado a grado vi si avvicinano insino a che non vi caggiano entro: come quel tiranno che voleva che le sue vittime sentissero di morire il terribile prete vuole che ei sentano l'inferno.

Da queste visioni e misteri e prose e poesie si sviluppa questo concetto: che attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale è il peccato; che la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che la vita non è la realtà ma ombra e apparenza di quella; che la vera realtà non è quello che è ma quello che dee essere ed è perciò la scienza o la verità come concetto e come contenuto è l'altro mondo l'inferno il purgatorio e il paradiso il mondo conforme alla verità e alla giustizia.

Appunto perchè l'individuo è pulvis et umbra e la realtà è pura scienza ed un di là della vita questo mondo resiste ad ogni sforzo d'individuazione e di formazione. Lo stesso amore così possente non ci può gittare un po' di calore e non ci vive se non come figura e immagine dell'amore divino. La donna come donna è peccato; essa diviene una specie di medium che lega l'uomo a Dio.

Il maggior grado di realtà a cui questo mondo sia pervenuto è nella lirica di Dante. La donna di quel secolo acquista il suo nome e la sua forma è Beatrice la fanciulla uscita pura dalle mani di Dio come l'anima nella commedia spirituale breve apparizione tornata così presto in cielo tra' canti degli angioli. La sua vita terrena è quasi non altro che nascere e morire. La sua vera vita comincia dopo la morte nell'altro mondo. Ivi è luce mentale o intellettuale verità e scienza filosofia. Ma non è filosofia incarnata mondo vivente dove l'idea di Dio o del vero sia perfettamente realizzata; è pura scienza incapace di rappresentazione nella sua forma scolastica di trattato e di esposizione. È scienza non ancora realizzata non ancora corpo; è idea non è visione; è didattica non è commedia o rappresentazione. Hai “misteri” e visioni; manca il Mistero e la Visione cioè un mondo vivente nel suo insieme e ne' suoi aspetti dove sia realizzato quel concetto teologico e filosofico dell'umanità comune al secolo e rimasto ancora nella sua astrazione dottrinale.

Il secolo decimoterzo si chiudeva lasciando una lingua già formata molta varietà di forme metriche una poetica una rettorica una filosofia ed un concetto della vita ancora didattico e allegorico con rozzi tentativi di formazione e individuazione. Il suo primo individuo poetico è Beatrice il presentimento e l'accento lirico di un mondo ancora involto nel grembo della scienza ancora fuori della vita.


 

VI

IL TRECENTO

Quello che il secolo precedente concepì e preparò fu realizzato in questo secolo detto aureo. I posteri compresero sotto questo nome tutto un periodo letterario dove si trovano mescolati dugentisti e quattrocentisti. E in verità le notizie cronologiche sono sì scarse e incerte che non è facile assegnare di ciascuno scrittore l'età seguire strettamente l'ordine del tempo. Al nostro scopo è più utile seguire il cammino del pensiero e della forma nel suo sviluppo senza violare le grandi divisioni cronologiche ma senza cercare una precisione di date che ci farebbe sciupare il tempo in conietture e supposizioni di poco interesse.

Questo secolo s'apre con un grande atto il Giubileo pontefice Bonifazio ottavo. Tutta la cristianità concorse a Roma d'ogni età d'ogni sesso di ogni ordine e condizione per ottenere il perdono de' peccati e guadagnarsi la salute eterna. Tutti animava lo stesso concetto espresso così variamente in tante prose e poesie: la maledizione del mondo e della carne la vanità de' beni e delle cure terrestri e la vita cercata al di là della vita. Il nuovo secolo cominciava consacrando in modo tanto solenne il pensiero comune nella varietà della cultura. I preti e i frati soprastavano nella riverenza pubblica non solo pel carattere religioso ma per la dottrina tenuta loro privilegio tanto che il Villani loda di scienza Dante aggiungendo: “benchè laico” e i dotti uomini benchè laici erano detti chierici. Tutta la società italiana raccolta colà dallo stesso fine rendeva una viva immagine di quel pensiero comune e di quella varia cultura. Vedevi i contemplanti i remiti i solitari del deserto e della cella col corpo macero da' digiuni da' cilizii e dalle vigilie ritratti viventi de' misteri e delle leggende. C'erano gli umili di spirito animati da schietto sentimento religioso e che tenevano la scienza come cosa profana e ci erano i dotti i predicatori e i confessori il cui testo era la Bibbia e i santi Padri. Vedevi gli scolastici e gli eruditi teologi e filosofi che univano in una comune ammirazione i classici e i santi Padri disputatori sottili di tutte le cose e anche delle cose di fede parlanti un latino d'uso e di scuola vibrato rapido vivace dove sentivi il volgare destinato a succedergli amici della filosofia con quello stesso ardore di fede che gli altri si professavano servi del Signore ma di una filosofia non ripugnante alla fede anzi sostegno illustrazione e ragione di quella confortata da sillogismi e da sentenze e da citazioni dove trovi spesso Tullio accanto a san Paolo. Alteri della loro scienza e del loro latino spregiatori del volgare da costoro uscivano que' trattati que' comenti quelle “somme” quelle storie che empivano di maraviglia il mondo. Accanto a questi veggenti della fede e della filosofia a questa vita dello spirito trovi la vita attiva e temporale affratellati dallo stesso pensiero i signori e i tirannetti feudali e i priori e gli anziani delle repubbliche il cavaliere de' romanzi e il mercatante delle cronache. Là appiè del Coliseo un ardito negoziante Giovanni Villani pensò che la sua Fiorenza figliuola di Roma era non meno degna di avere una storia e la scrisse. Fra tanto splendore e potenza del chiericato lo spregiato laico cominciava a levare la testa e pensava all'antica Roma e a Firenze figliuola di Roma. Là molte amicizie si strinsero molte paci si fecero come avviene in certi grandi momenti della storia umana; sparirono guelfi e ghibellini ottimati e popolari baroni e vassalli stretti tutti ad una sola bandiera: uno Dio uno papa uno imperatore. Là il papato ebbe l'ultimo suo gran giorno l'ultimo sogno di monarchia universale rotto per sempre dallo schiaffo di Anagni.

Il giubileo ci dà una immagine di quello che dovea essere la letteratura nel secolo decimoquarto. Ebbe dal secolo antecedente la sua materia i suoi istrumenti e il suo concetto del quale il giubileo fu una così splendida manifestazione. Ma quel concetto rimaso nella sua astrazione intellettuale e allegorica con così scarsi inizi di rappresentazione ne' misteri e nelle visioni ancora senza nome altro che di Beatrice breve apparizione svaporata subito nelle astrattezze della scienza ebbe nel Trecento la sua vita e venne a perfetta individuazione e formazione: questo fu il carattere e la gloria di quel secolo.

L'uomo che dovea dare il suo nome al secolo avea già trentatrè anni avea creato Beatrice e volgea nella mente non so che più ardito che dovesse abbracciare tutta l'umanità. Tenzonava nel suo capo il filosofo e il poeta: ci era il Convito e ci era la Commedia. Ma per apprezzare più degnamente quella vasta sintesi che ne uscì è bene preceda l'analisi studiando la fisonomia del secolo negl'ingegni più modesti che non conobbero di tutto quel mondo se non questa o quella parte.

E c'incontriamo dapprima nella letteratura claustrale ascetica mistica religiosa continuazione in prosa di fra Iacopone ma in una prosa piena di poesia. Domenico Cavalca l'autore de' Fioretti Guido da Pisa Bartolomeo da San Concordio Iacopo Passavanti Giovanni dalle Celle non sono scrittori astratti e impersonali come quelli del secolo innanzi ma anche volgarizzando senti che quegli uomini prendono viva partecipazione a quello che scrivono e vivono là dentro e ci lasciano l'impronta del loro carattere e della loro fisonomia intellettuale e morale. Usciamo dalle astrattezze de' trattati e delle raccolte sotto nome di “fiori” “giardini” e “tesori” ed entriamo nella realtà della vita nel vero giardino dell'arte. Perchè questi uomini non ragionano non disputano e di rado citano: la loro dottrina va poco al di là della Bibbia e de' santi Padri: ma narrano quel medesimo che si rappresentava ne' misteri vite leggende e visioni e sono narrazioni più vive e schiette che non i misteri del Quattrocento raffazzonamenti degli antichi con più liscio ma dove desideri la purità e semplicità delle prime ispirazioni.

Gli scrittori son tutti frati ed hanno le qualità degli uomini solitari il candore l'evidenza e l'affetto. Hanno l'ingenuità di un fanciullo che sta con gli occhi aperti a sentire e più i fatti sono straordinari e maravigliosi più tende l'orecchio e tutto si beve: qualità spiccatissima ne' Fioretti di san Francesco il più amabile e caro di questi libri fanciulleschi. L'immaginazione concitata dalla solitudine presenta gli oggetti così vivi e propri che vengon fuori di un getto non solo figurati ma animati e coloriti caldi ancora dell'impressione fatta sullo scrittore. Nel quale l'affetto è tanto più vivace e impetuoso e lirico quanto la sua vita è più astinente e compressa: quasi vendetta della natura che grida più alto dove ha più contrasto. Non ci è in queste prose alcuna intenzione artistica nessun vestigio di studio o di sforzo o di esitazione o di scelta; manca soprattutto il nesso la distribuzione la gradazione. Ma si conseguono tutti gli effetti dell'arte che nascono da movimenti sinceri e gagliardi dell'immaginazione e dell'affetto e n'escon pagine animate e potenti assai più sul tuo spirito che non tanti romanzi moderni. Cito fra l'altro la storia di Abraam romito che prende veste e costume di cavaliere mondano e mangia pane e beve vino ed usa nelle taverne per convertire la sua nipote Maria. Il suo incontro con Maria nella taverna gli allettamenti lascivi di costei la sua sorpresa e vergogna quando nel bel cavaliere scopre il suo zio e i rimproveri affettuosi di lui e le grida strazianti e disperate della bella pentita sono una vera scena drammatica alla quale non trovi niente comparabile nel teatro italiano. In queste Vite del Cavalca che sono traduzioni ma per la freschezza e spontaneità del dettato e per la commossa partecipazione del frate sono cosa originale il concetto del secolo uscito dalle astrattezze teologiche e scolastiche prende carne acquista una esistenza morale e materiale. Il santo è esso medesimo il concetto divenuto persona e la sua rappresentazione ti offre il nuovo mondo morale aperto al cristiano fatto attivo e divenuto storia la storia del santo. Cardine di questo mondo morale è la realtà della vita nell'altro mondo e la guerra a tutti gl'istinti e affetti terreni l'astinenza e la pazienza il “sustine et abstine”; e però le sue virtù non esprimono altro che la vittoria dell'uomo sopra se stesso sulla sua natura: indi l'umiltà il perdono delle offese la povertà la castità l'ubbidienza. Se la vittoria fosse preceduta dalla lotta lo spettacolo sarebbe sublime; ma il più sovente il santo entra in iscena ch'è già santo e nell'esercizio quieto delle sue cristiane virtù interrotto a volte dalle tentazioni del demonio cacciato via da scongiuri e segni di croce: ciò che è grottesco più che sublime. Il santo è troppo santo perchè la sua vita possa offrirti una vera contraddizione e battaglia tra il cielo e la natura ciò che rende così drammatica la vita di Agostino e di Paolo. Qui hai racconti uniformi infinite ripetizioni rarissimi contrasti e spesso provi noia e stanchezza. La musa di queste cristiane virtù non è la forza e non è l'azione ma è un certo languir d'amore una effusione di teneri e dolci sentimenti liriche aspirazioni ed estasi e orazioni un impetuoso prorompere degli affetti naturali tosto sedato e riconciliato il sacrificio ignorato e oscuro che ha la sua glorificazione anche terrena dopo la morte. Una delle vite più interessanti e popolari è quella di santo Alessio che abbandona la nobile casa paterna e la sposa il dì delle nozze e va peregrinando e limosinando e dopo molti anni tornato in patria serve non conosciuto in casa del padre e non si scopre alla madre e alla sposa e i servi gli danno le guanciate e lui umile e paziente. Questa vittoria sulla natura non fa effetto perchè in Alessio non ci è l'“homo sum” non ci è lotta non la coscienza del sacrifizio parendo a lui naturale e facile esercizio di virtù quello che a noi uomini pare cosa maravigliosa e quasi incredibile. L'innaturale è in lui natura: perfezione ascetica ma non artistica. L'interesse comincia quando la natura fa sentire il suo grido e col suo contrasto sublima il santo; quando saputo il fatto il pontefice con infinita moltitudine traendo a venerare il servo spregiato si odono tra la folla queste grida: “Prestatemi la via datemi loco fate che io vegga il figliuol mio quello che ha succiato le mammelle mie”. E ragionando col cuore di madre la donna accusa il figlio e lo chiama “senza cuore” e poi nel suo dolore lo glorifica e ricorda che i servi gli davano le guanciate. Scene simili non sono scarse in queste Vite: ricorderò la madre di Eugenia e Maria Maddalena eloquentissima nelle sue lacrime.

Una vera intenzione artistica si scorge nello Specchio di penitenza di Iacopo Passavanti una raccolta di prediche ridotte in forma di trattati morali accompagnati con leggende e visioni dell'altro mondo. Il frate mira a fare effetto inducendo a penitenza i fedeli con la viva rappresentazione de' vizi e delle pene. La musa del Cavalca è l'amore e la sua materia è il paradiso che tu pregusti in quello spirito di carità e di mansuetudine che comunica alla prosa tanta soavità e morbidezza di colorito. La musa del Passavanti è il terrore e la sua materia è il vizio e l'inferno rappresentato meno nel suo grottesco e nella sua mitologia che nel suo carattere umano come il rimorso è il grido della coscienza. Intralciato e monotono nel discorso il suo stile è rapido liquido pittoresco nel racconto. Diresti che provi voluttà a spaventare e tormentare l'anima: cerca immagini accessorii colori come istrumenti della tortura e ti lascia sgomento e assediato da fantasmi. Il periodo spesso ben congegnato svelto e libero la cura de' nessi e de' passaggi la distribuzione degli accessorii e de' colori l'intelligenza delle gradazioni un sentimento di armonia cupo che accompagna lo spettacolo fanno del Passavanti l'artista di questo mondo ascetico.

Ma ecco fra tante vite di santi il santo in persona scrittore e pittore di sè medesimo Caterina da Siena. Abbandonata la madre e i fratelli resasi monaca macerato il corpo co' cilizii e digiuni vive una vita di estasi e di visioni e scrive in astrazione anzi dètta con una lucidità di spirito maravigliosa. Scrive a papi a principi a re e regine come alla madre a' fratelli a frati e suore dall'altezza della sua santità con lo stesso tono di amorevole superiorità. Nelle più intricate faccende prende il suo partito risolutamente consigliando e quasi comandando quella condotta che le pare conforme alla dottrina di Cristo. Ho detto “pare” e dovrei dire “è”: perchè nessun dubbio o esitazione è nel suo spirito e le dottrine più astruse e mentali le sono così chiare e sicure come le cose che vede e tocca. Ha la visione dell'astratto e lo rende come corpo anzi fa del corpo la luce e la faccia di quello. Indi un linguaggio figurato e metaforico spesso sazievole talora continuato sino all'assurdo. È un po' il fare biblico; un po' vezzo de' tempi; ma è pure forma naturale della sua mente. Vivendo in ispirito le cose dello spirito le si affacciano palpabili e visibili come materia e così come vede Cristo e angioli vede le idee e i pensieri. È una regione spirituale divenutale per lungo uso così familiare che ne ha fatto il suo mondo e il suo corpo. Questa chiarezza d'intuizione accompagnata con la squisita sensibilità e la perfetta sincerità della fede le fanno trovare forme delicate e peregrine degne di un artista. Ma le spesse ripetizioni l'esposizione didattica quell'incalzare di consigli di esortazioni e di precetti senza tregua o riposo rendono il libro sazievole e monotono.

In queste lettere di Caterina quel mondo morale rappresentato nelle vite nelle estasi nelle visioni de' santi è sviluppato come dottrina in tutta la sua rigidità ascetica. È il codice d'amore della cristianità. La perfezione è “morire a se stesso” secondo la sua frase energica morire alla volontà alle inclinazioni agli affetti umani sino all'amore de' figli e tutto riferire a Dio di tutto fare olocausto a Dio. Il suo amore verso Cristo ha tutte le tenerezze di un amore di donna che si sfoga a quel modo lei inconscia. L'ultima frase di ogni sua lettera è: “Annegatevi bagnatevi nel sangue di Cristo”. Ardente è la sua carità pel prossimo: “Amatevi amatevi” grida la santa e predica pace concordia umiltà perdono voce inascoltata. La regina Giovanna rispondea alla santa con riverenza e continuava la vita immonda. Lo scisma giungeva al sangue nelle vie di Roma. Più alto e puro era l'ideale della santa meno era efficace sugli uomini. La sua vita si può compendiare in due parole: amore e morte. Celebre è la sua lettera sul condannato a morte da lei assistito negli ultimi momenti: “Teneva il capo suo sul petto mio. Io allora sentivo un giubilo e un odore del sangue suo; e non era senza l'odore del mio il quale io desidero di spandere per lo dolce sposo Gesù”. Il sangue di Cristo la esalta la inebbria di voluttà. Ad una serva di Dio scrive: “Inebriatevi del sangue saziatevi del sangue vestitevi del sangue”. “Sudare sangue” “trasformarsi nel sangue” “bere l'affetto e l'amore nel sangue” sono immagini di questo lirismo. Della cella “si fa un cielo” e vi gusta “il bene degl'immortali obumbrandola Dio di un gran fuoco d'amore”. Nella estasi o visione o esaltazione di mente è gittata giù e le pare come se l'anima sia partita dal corpo. Il corpo pareva quasi venuto meno. Le membra del corpo dice Caterina si sentivano dissolvere e disfare come la cera nel fuoco. E altrove: “Nel corpo a me non pareva essere ma vedevo il corpo mio come se fosse stato un altro”. Questi ardori d'anima queste illuminazioni di mente questi martìri d'amore sono espressi con una semplicità ed evidenza che testimoniano la sua sincerità. L'anima “innamorata e ansietata d'amore affocata” dal desiderio “crociato” o della croce “annegata la propria volontà” nell'amore del “dolce e innamorato Verbo” vive nel corpo come fosse fuori di quello. Posto il suo amore al di là della vita vive morendo dimorando con la mente al di là della vita. Ma questa morte spirituale non l'appaga: “muoio e non posso morire” dice la santa. Gli ultimi giorni furono battaglie con le dimonia e colloquii con Cristo e a trentatrè anni finì la vita consumata dal desiderio.

La “Commedia dell'anima” è ora pienamente realizzata nel suo aspetto religioso come espressione letteraria. Quell'anima ora ha un nome è una persona Alessio Eugenia Caterina. Il demonio e la carne sono un mondo pieno di vita ne' racconti del Passavanti. Quelle virtù allegoriche che escono in processione sulla scena sono le opere le volontà le passioni e i pensieri de' santi. E la Divina Commedia la trasfigurazione e la glorificazione dell'anima la Beatrice che torna bianca nuvoletta in cielo tra i canti degli angioli qui sono estasi rapimenti dell'anima colloquii con Dio mistica unione con Cristo e dopo la morte la santificazione e la contemplazione nell'eterna luce. Quel concetto è uscito dall'astrattezza della scienza e dell'allegoria dalla sua vuota generalità e si è incarnato è divenuto uomo.

La prosa italiana in questa letteratura acquista evidenza colorito caldezza di affetto in un andar semplice e naturale specialmente quando vi si esprimono sentimenti dolci e ingenui. È perfetto esemplare di stile cristiano guasto di poi. Alla sua perfezione manca un più sicuro nesso logico maggiore sobrietà e scelta di accessorii ed una formazione grammaticale e meccanica più corretta. Con lievi correzioni molti brani possono paragonarsi a ciò che di più perfetto è nella prosa moderna. L'Imitazione di Cristo è certo prosa superiore scritta in tempo di maggior coltura. Ci è una maggiore virilità intellettuale una logica più stretta e pura di quella pedanteria scolastica che inseguiva i frati fino nel convento. Ma non è superiore quanto a quelle qualità organiche dove è il segreto della vita la schiettezza dell'ispirazione e il calore dell'affetto; e spesso in quella prosa mirabile di precisione e di proprietà desideri l'energia e l'intuizione di Caterina.

Nè questa prosa era già fattura di un solo o di pochi perchè la trovi anche ne' minori che scrivevano delle cose dello spirito. Citerò una lettera di un discepolo di Caterina che annunzia la sua morte:

“Credo che tu sappi come la nostra reverendissima e carissima mamma se ne andò in paradiso domenica addì 29 di aprile (1380); lodato ne sia il Salvatore nostro Gesù Cristo crocifisso benedetto. A me ne pare essere rimaso orfano però che di lei avevo ogni consolazione e non mi posso tenere di piangere. E non piango lei piango me che ho perduto tanto bene. Non potevo fare maggiore perdita e tu 'l sai... .Della mamma si vuol fare allegrezza e festa quanto che è per lei; ma di quelli suoi e di quelle che sono rimasi in questa misera vita ène da piangere e da avere compassione grandissima. Con veruna persona mi so dare dolore quanto che con teco che mi fusti cagione di acquistare tanto bene. Prendo alcuno conforto perchè nel mio cuore ène rimasa e incarnata la mamma nostra assai più che non era in prima; e ora me la pare bene conoscere. Chè noi miseri ne avevamo tanta copia che non la conoscevamo e non savamo degni della sua presenzia... . Carissimo fratello io sono fatto tanto smemoriato del bene che ho perduto ch'io ti scrivo anfanando. E però di ciò non ti scrivo più.”

Lo stesso stile è in Giovanni dalle Celle Stefano Maconi e altri frati. Ecco in che modo commovente e semplice sono raccontati alcuni particolari della fine di Caterina:

“Nella domenica di sessaggesima svenne e perdè il vigore di sanità mantenutole dalla forza dello spirito e che non pareva scemarsi per inedia. Il dì poi un altro svenimento la lasciò lungamente come morta: se non che risentitasi stette in piede come se nulla fosse. Cominciò la quaresima colle solite pratiche esercizio a lei di consolazioni angosciose. Ogni mattina dopo la comunione le è forza rimettersi sfinita a letto. Di lì a due ore usciva a San Pietro un buon miglio di strada e lì stava orando infino a vespro. Così fino alla terza domenica di quaresima quando il male la spossò. E per otto settimane giacque senza potere alzare il capo tutta dolori. A ogni nuovo spasimo alzando il capo ne ringraziava Iddio lieta. Alla domenica innanzi l'Ascensione Il corpo non era omai più che uno scheletro nel mezzo in giù senza moto ma nel volto raggiante la vita. Debole; un alito di respiro; pareva in fine; e le fu data l'estrema unzione.”

Questa eccellenza di dettato trovi pure ne' volgarizzamenti de' classici o di romanzi e storie allora in voga come sono i volgarizzamenti di Livio e di Sallustio i Fatti di Enea gli Ammaestramenti degli antichi voltati da Bartolomeo da San Concordio con un nerbo ed una vigoria degna del traduttore di Sallustio. È una prosa adulta spedita calda immaginosa spesso colorita con tutto l'andare di lingua viva e parlata già nel suo fiore.

I romanzi operavano sul popolo non meno vivamente che la letteratura spirituale. Nella sua immaginazione si confondea il cavaliere di Cristo e il cavaliere di Carlomagno e con la stessa avidità leggea la vita di Alessio e i fatti di Enea e gli amori di Lancillotto e Ginevra. Caterina trae dalla cavalleria molte sue immagini. Chiama Cristo un “dolce cavaliere” “cavaliere dolcemente armato”; chiama la Redenzione un “torneo della morte colla vita”. Ma la letteratura cavalleresca rimase stazionaria e non produsse alcun lavoro originale. Le traduzioni sono fatte senza intenzione seria in prosa scarna e trascurata posto il diletto nel maraviglioso de' fatti. Agli stessi traduttori è materia frivola buona per passare il tempo e non vi partecipano non sentono colà dentro il loro mondo e la loro vita.

Accanto a questo mondo dello spirito e dell'immaginazione c'era il mondo reale il mondo della carne o della vita terrena come si dicea che si potea maledire ma non uccidere. Era la cronaca memoria dì per dì de' fatti che succedevano inanime come il dizionario o come la lista delle spese. Quelli che ne scrivevano con qualche intenzione artistica la dettavano in latino e la chiamavano storia. Latini erano anche i trattati scientifici e i lavori propriamente d'arte. Quella letteratura spirituale e cavalleresca rimanea circoscritta al popolo ed era tenuta in poco conto da' dotti. Costoro spregiavano il volgare come buono solo a dir d'amore e di cose frivole e le gravi faccende della vita le trattavano in latino. Di questi illustre per ingegno per coltura e per patriottismo fu Albertino Mussato coronato poeta in Padova sua patria. Abbiamo di lui molte opere alcune ancora inedite. Scrisse in quattordici libri De gestis Henrici septimi Caesaris e anche De gestis italicorum post mortem Henrici septimi in dodici libri de' quali alcuni sono in versi esametri. Fece epistole egloghe elegie e due tragedie l'Achilleis e l'Eccerinis. Quest'ultima rappresenta la tirannide di Ezzelino creduto per la sua ferocia figlio del demonio e la vittoria de' comuni collegati contro di lui. È narrazione più che azione come ne' misteri un narrare serrato e nervoso le cui impressioni patetiche e morali sono espresse dal coro. Sotto a quel latino ossuto e asciutto palpita l'anima del medio evo. Senti una società ancor rozza selvaggia negli odii e nelle vendette senza misura nelle passioni poco riflessiva di proporzioni epiche anche in forma drammatica. Il carattere di Ezzelino non è sviluppato in modo che n'esca fuori un personaggio drammatico. Egli rimane ravvolto nel suo manto epico come Farinata. È figlio de demonio e lo sa e se ne gloria e opera come genio del male con piena coscienza: ciò che gli dà proporzioni colossali. Invoca il padre e dice:

 

Nullis tremiscet sceleribus fidens manus;

annue Satan et filium talem proba.

E quest'uomo rimane così intero e tutto di un pezzo: manca l'analisi senza di cui non è dramma. Il concetto della tragedia è più morale che politico quantunque il fatto sia altamente politico rappresentando la lotta tra i comuni liberi e i tirannetti feudali. Certo in Mussato c'è il guelfo e ci è il padovano che l'ispira e l'appassiona. Ma il motivo tragico è affatto morale. Ezzelino è punito non perchè offende la libertà ma perchè opera scelleratamente e “qui gladio ferit gladio perit”: ciò che è in bocca al coro la conclusione del fatto:

Consors operum

meritum sequitur quisque suorum.

È il concetto ascetico dell'inferno applicato anche alla vita terrestre. Questa nella sua prima apparizione letteraria è ancora nella sua generalità morale non è sviluppata nei suoi interessi ne' suoi fini nelle sue passioni e nelle sue idee politiche: di che solo può nascere il dramma. Il senso del reale era ancora troppo scarso perchè il dramma fosse possibile. Non ci è il sentimento collettivo non il partito e non la società: ci è l'individuo appena analizzato rappresentato buono o cattivo e retribuito secondo le opere forma elementare della vita reale. Il feroce e il grottesco delle pene infernali hanno qui un riscontro nelle immani crudeltà di Ezzelino e nella immane punizione.

Questo concetto morale ancorchè non ancora penetrato e sviluppato in tutti gli aspetti della vita pure non è più un motto un proverbio un ammaestramento un “fabula docet” una esposizione didattica in prosa o in verso come nel secolo scorso ma la vita in atto con tutt'i caratteri della personalità così nella vita contemplativa come nella vita attiva così nel carbonaio del Passavanti come nell'Ezzelino del Mussato.

Onori straordinari furono conferiti al Mussato tenuto pari a' classici quando i classici erano ancora così poco noti. Anche Venezia ebbe i suoi latinisti che scrissero la sua storia Andrea Dandolo e Martin Sanuto. Nell'Italia settentrionale abbondano le cronache latine. Il volgare vi si era poco sviluppato. E dappertutto teologia filosofia giurisprudenza medicina era insegnata e trattata in latino. Scrissero le loro opere in questa lingua Marsilio da Padova Cino da Pistoia Bartolo e Baldo.

Ma in Toscana il Malespini avea già dato l'esempio di scrivere la cronaca in volgare. E Dino Compagni seguì l'esempio scrivendo in volgare i fatti di Firenze dal 1270 al 1312. Attore e spettatore prende una viva partecipazione a quello che narra e schizza con mano sicura immortali ritratti. Non è questa una cronaca una semplice memoria di fatti: tutto si move tutto è rappresentato e disegnato costumi passioni luoghi caratteri intenzioni e a tutto lo scrittore è presente si mescola in tutto esprime altamente le sue impressioni e i suoi giudizi. Così è uscita di sotto alla sua penna una storia indimenticabile.

Questa storia è una immane catastrofe. Da lui preveduta e non potuta impedire. E non si accorge che di quella catastrofe cagione non ultima fu lui. O piuttosto ne ha un'oscura coscienza quando con quel tale “senno di poi” dice: - Oh se avessi saputo! Ma chi poteva pensare? - Ma Dino peccò per soverchia bontà d'animo; gli altri peccarono per malizia e Dino li flagella a sangue. Era Bianco; ma più che Bianco era onesto uomo e patriota. Gli pareva che que' Neri e que' Bianchi quei Donati e quei Cerchi non fossero divisi da altro che da gara d'uffici e gli parea che partendo ugualmente gli uffici quelle discordie avessero a cessare. Gli parea pure che tutti amassero la città come facea lui e fossero pronti per la sua libertà e il suo decoro a fare il sacrificio de' loro odii e delle loro cupidigie. E gli parea che uomo di sangue regio non potesse mentire nè spergiurare e che nessuno potesse mancare alle promesse quando fossero messe in carta. E anche questo gli parea che gli amici stessero saldi intorno a lui e che ad un suo cenno tutti gli avessero ad ubbidire. Che cosa non parea al buon Dino? E con queste opinioni si mise al governo della repubblica. È la prima volta che si trova in presenza la morale com'era in Albertano giudice e come fu poi in Caterina la morale de' libri e la morale del mondo. E la contraddizione balza fuori con tutta l'energia di una prima impressione. Il brav'uomo al contatto del mondo reale cade di disinganno in disinganno e ciascuna volta rivela la sua ingenuità con un accento di maraviglia e d'indignazione. Immaginatevelo alle prese con Bonifazio ottavo Carlo di Valois e Corso Donati ciò che di più astuto e violento era a quel tempo. L'energia del sentimento morale offeso è il secreto della sua eloquenza. Qui non ci è nessuna intenzione letteraria: la narrazione procede rapida naturale sino alla rozzezza. Vi è un materiale crudo e accumulato e mescolato senza ordine o scelta o distribuzione; ignota è l'arte del subordinare e del graduare; mancano i passaggi e le giunture; il fatto è spesso strozzato; spesso il colorito è un po' risentito e teso difetti di composizione gravi. Pure le qualità essenziali che rendono un libro immortale stanno qui dentro la sincerità dell'ispirazione l'energia e la purità del sentimento morale la compiuta personalità dello scrittore e del tempo la maraviglia l'indignazione il dolore la passione del cronista che comunica a tutto moto e vita. In tempi meno torbidi Giovanni Villani scrisse la sua Cronaca di Firenze sino al 1348 continuata dal fratello Matteo e dal nipote Filippo. Mira a dar memoria de' fatti pigliandoli dove li trova e spesso copiando o compendiando i cronisti che lo precessero. Sono nudi fatti raccolti con scrupolosa diligenza anche i più minuti e familiari della vita fiorentina come le derrate i drappi le monete i prestiti: materiale prezioso per la storia. Ma questa cruda realtà scompagnata dalla vita interiore che la produce è priva di colorito e di fisonomia e riesce monotona e sazievole.

La Cronaca di Dino e le tre Cronache de' Villani comprendono il secolo. La prima narra la caduta de' Bianchi le altre raccontano il regno de' Neri. Tra vinti erano Dino e Dante. Tra vincitori erano i Villani. Questi raccontano con quieta indifferenza come facessero un inventario. Quelli scrivono la storia col pugnale. Chi si appaga della superficie legga i Villani. Ma chi vuol conoscere le passioni i costumi i caratteri la vita interiore da cui escono i fatti legga Dino.

Finora non abbiamo creduto necessario di entrare nel vivo della storia perchè gli scrittori o ascetici o cavallereschi o didattici scrivono come segregati dal mondo. Ma Dino vive nel mondo e col mondo; i fatti che racconta sono i fatti suoi parte della sua vita e la sua Cronaca è lo specchio del tempo non nelle regioni astratte della scienza o nel fantastico della cavalleria e dell'ascetica ma nella realtà della vita pubblica.

I partiti che straziavano Firenze con nomi venuti da Pistoia erano detti i Neri e i Bianchi gli uni capitanati da' Donati e gli altri da' Cerchi famiglie potentissime di ricchezza e di aderenze. Dante sperò di poter pacificare la città mandando in esilio i due più potenti e irrequieti capi delle due fazioni Corso Donati e Guido Cavalcanti. Venuto malato il Cavalcanti fu richiamato ma non Corso Donati: di che si menò molto scalpore massime che Dante era Bianco e amico del Cavalcanti.

I Neri erano guelfi puri e si appoggiavano sui popolani e sul papa vicino influente e centro di tutti gl'intrighi e le cospirazioni guelfe. Bonifazio ottavo venuto dopo il giubileo in maggior superbia avea chiamato a sè con molte promesse Carlo di Valois detto per dispregio “senza terra” e mandatolo a Firenze sotto colore di pacificare la città ma col proposito di ristorarvi la parte nera. Qui comincia il dramma esposto con sì vivi colori dal nostro Dino nel libro secondo.

Dante si lasciò persuadere di andare legato a Roma. Si dice abbia detto: - Se io vado chi resta? - Restò il povero Dino. Certo l'opera di Dante sarebbe stata più utile a Firenze dove lasciò il campo libero agli avversari. A Roma fu tenuto con belle parole da Bonifazio e non concluse nulla.

Dino comincia il racconto con stile concitato. Sembra un profeta o un predicatore che tuoni sopra Gomorra o Gerosolima:

“Levatevi o malvagi cittadini pieni di scandali e pigliate il ferro e il fuoco con le vostre mani e distendete le vostre malizie. Non penate più: andate e mettete in ruina le bellezze della vostra città. Spandete il sangue de' vostri fratelli spogliatevi della fede e dell'amore; nieghi l'uno all'altro aiuto e servigio. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? Pur quella del mondo rende una per una... Non v'indugiate o miseri: chè più si consuma un dì nella guerra che molti anni non si guadagna in pace e piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno.”

Qui non ci è l'uomo politico. Ci è la realtà vista da un aspetto puramente morale e religioso come gli ascetici; il concetto è lo stesso; la materia è diversa. Considerata così la realtà riesce al buon Dino altra che non pensava e in luogo di riconoscere il suo errore se la prende con la realtà e la maledice. I suoi errori nascono dal concetto falso che avea degli uomini e delle cose sì che divenne il trastullo degli uni e degli altri perdette lo stato e fu calunniato come avviene a' vinti. Allora prende la penna e li maledice tutti Neri e Bianchi raccontando i fatti con tale ingenuità che se le male passioni degli altri son manifeste non è men chiara la sua soverchia bontà.

Mentre gli ambasciatori armeggiano con Bonifazio largo promettitore purchè “sia ubbidita la sua volontà” furono in Firenze eletti i nuovi signori e Dino fu di quelli. Piacque la scelta perchè “uomini non sospetti e buoni e senza baldanza e avevano volontà d'accomunare gli uffici dicendo: - Questo è l'ultimo rimedio”. Questo è il giudizio che porta Dino di sè e de' suoi colleghi. Ma i loro avversari “n'ebbono speranza” perchè li conosceano “uomini deboli e pacifici i quali sotto spezie di pace credeano leggiermente di poterli ingannare”. Che buon Dino! Egli stesso pronunzia la sua sentenza.

I Neri “a quattro e a sei insieme preso accordo fra loro” li andavano a visitare e diceano: “Voi siete buoni uomini e di tali avea bisogno la nostra città. Voi vedete la discordia de' cittadini vostri: a voi la conviene pacificare o la città perirà. Voi siete quelli che avete la balìa e noi a ciò fare vi profferiamo l'avere e le persone di buono e leale animo”. E benchè “di così false profferte dubitassero credendo che la loro malizia coprissero con falso parlare” pure Dino per commessione de' suoi compagni rispose: “Cari e fedeli cittadini le vostre profferte noi riceviamo volentieri e cominciar vogliamo a usarle: e richieggiamvi che voi ci consigliate e pogniate l'animo a guisa che la nostra città debba posare”. Che scellerati! E che buoni uomini! Non si può meglio rappresentare la malizia degli uni e l'innocenza degli altri. Scrivendo dopo i fatti Dino si picchia il petto e dice il mea culpa: “E così perdemmo il primo tempo perchè non ardimmo a chiudere le porte nè a cessare l'udienza ai cittadini. Demmo loro intendimento di trattar pace quando si convenia arrotare i ferri”.

Poichè si trattava la pace i Bianchi smessero dalle offese e i Neri presero baldanza. E Dino confessa questo primo effetto della sua bontà: “La gente che tenea co' Cerchi ne prese viltà dicendo: - Non è da darsi fatica chè pace sarà. - E i loro avversari pensavano pur di compiere le loro malizie”.

La voce che Bonifazio ottavo si fosse chiarito contrario a' Cerchi e che Carlo di Valois veniva in Firenze dovea aver tanto imbaldanzito i Neri che a costoro pareva un atto di debolezza e di paura quello che in Dino era ispirato da sincero amore di concordia. E quelle pratiche di pace spacciavano covare sotto un tradimento. La forza materiale era ancora in mano di Dino; ma la forza morale passava agli avversari più audaci e confidenti in vicina vittoria. Già ci era un'altra aria in città. Non pur gl'indifferenti ma anche noti seguaci de' Cerchi mutavano lingua. Sicchè l'oratore di Carlo riferì che “la parte de' Donati era assai innalzata e la parte de' Cerchi era assai abbassata” veggendo come dopo le sue parole “molti dicitori si levarono in piè affocati per dire e magnificare messer Carlo”.

Dino volendo negare l'ingresso a Carlo e non osando prendere su di sè la cosa “essendo la novità grande” si rimise al suffragio de' suoi concittadini. Fu un plebiscito fatto dal debole e che riuscì in favore de' forti: solito costume de' popoli e il buon Dino nol sapea. I soli fornai si mostrarono uomini dicendo che “nè ricevuto nè onorato fusse perchè venìa per distruggere la città”.

Dino credette trovare il rimedio chiedendo a Carlo “lettere bollate che non acquisterebbe ... niuna giurisdizione nè occuperebbe niuno onore della città nè per titolo d'imperio nè per altra cagione nè le leggi della città muterebbe nè l'uso”. Dino pensava che Carlo non farebbe la lettera e provvide che il passo gli fosse negato e “vietata la vivanda”. Ma la lettera venne e “io la vidi e fecila copiare e quando fu venuto io lo domandai se di sua volontà era scritta. Rispose: - Sì certamente -”. Ora che Dino ha la lettera in tasca può viver sicuro.

E gli viene “un santo e onesto pensiero immaginando: Questo signore verrà e tutt'i cittadini troverà divisi di che grande scandalo ne seguirà”. Onde li rauna nella chiesa di San Giovanni e loro fa un fervorino perchè “sopra quel sacrato fonte onde trassero il santo battesimo” giurino buona e perfetta pace. Le parole di Dino sono di quella eloquenza semplice e commovente che viene dal cuore. In quei tempi di lotte così accese il sentimento della concordia era tanto più vivo negli animi buoni e onesti da Albertano a Caterina. E non so che in Caterina si trovino parole nella loro semplicità così affettuose come queste di Dino: “Signori perchè volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? Contro a' vostri fratelli? Che vittoria avrete? Non altro che pianto”.

Tutti giurarono; e Dino aggiunge con amarezza: “I malvagi cittadini che di tenerezza mostravano lacrime e baciavano il libro ... furono i principali alla distruzione della città”. Povero Dino! E si affligge il brav'uomo e si pente e “di quel sacramento molte lacrime sparsi pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia”.

Carlo quintoenne e diètrogli dicendo che venìano a onorare il signore lucchesi perugini e Cante d'Agobbio e molti altri a sei e dieci per volta tutti avversari de' Cerchi: e “ciascuno si mostrava amico”. Dino fece il ponte d'oro al nemico che entra contro il proverbio. E Carlo ebbe in Firenze milledugento cavalli.

Che fa Dino? Sceglie quaranta cittadini di amendue le parti perchè provveggano alla salvezza della terra. Ciò che ci era negli animi è qui scolpito in pochi tratti: “Quelli che avevano reo proponimento non parlavano; gli altri aveano perduto il vigore. Baldino Falconieri uom vile dicea: - Signori io sto bene perchè io non dormia sicuro”. Lapo Saltarelli per riamicarsi il papa ingiuria la Signoria e tiene in casa nascosto un confinato. Albertano del Giudice monta in ringhiera e biasima i signori. Pare coraggio civile ed è viltà e diserzione. I nemici tacciono. Gli amici ingiuriano per farsi grazia. Cominciano i tradimenti. “I priori scrissero al papa segretamente; ma tutto seppe la parte nera perocchè quelli che giurarono credenza non la tennono”.

Alfine Dino si risolve ad accomunare gli uffici parlando “umilmente e con gran tenerezza” dello scampo della città. Ma era troppo tardi. I Neri non volevano parte ma tutto.

“E Noffo Guidi parlò e disse: - Io dirò cosa che tu mi terrai crudele cittadino. - E io li dissi che tacesse: e pur parlò e fu di tanta arroganza che mi domandò che mi piacesse far la loro parte nell'ufficio maggiore che l'altra; che tanto fu a dire quanto: - Disfa' l'altra parte - e me porre nel luogo di Giuda. E io li risposi che innanzi io facessi tanto tradimento darei i miei figliuoli a mangiare a' cani.”

Carlo quintoolea in mano i Signori e li facea spesso invitare a mangiare. E quelli si ricusavano adducendo che la legge li costringea che fare non lo potevano; ma era “perchè stimavano che contro a loro volontà li avrebbe ritenuti”. Un giorno disse che in Santa Maria Novella fuori della terra volea parlamentare e che piacesse alla Signoria esservi. Dino vi mandò tre soli de' compagni: “a' quali niente disse come colui che non volea parole ma sì uccidere”.

“Molti cittadini si dolsono con noi di quella andata parendo loro che andassono al martirio. E quando furono tornati lodavano Dio che da morte gli avea scampati.”

 

Volevano se la Signoria vi fosse ita tutta “ucciderli fuori della porta e correre la terra per loro”. E Dino che facea?

C'è un brano stupendo che è una pittura. Vedi come Dino passava i giorni; la sua incapacità e i suoi affanni:

“I Signori erano stimolati da ogni parte. I buoni diceano che guardassero ben loro e la loro città. I rei li contendeano con quistioni. E tra le domande e le risposte il dì se ne andava. I baroni di messer Carlo gli occupavano con lunghe parole. E così viveano con affanno.”

Un rimedio gli è suggerito da frate Benedetto: - Fate fare processione e del pericolo cesserà gran parte -. E Dino fece la processione e molti lo schernirono dicendo che “meglio era arrotare i ferri”. E Dino conchiude parlando di sè e de' colleghi: “Niente giovò perchè usarono modi pacifici e voleano essere repenti e forti. Niente vale l'umiltà contro alla grande malizia”.

Tutto ti è messo sott'occhio come in una rappresentazione drammatica. Vedi i Neri in istrada corrompere far gente mostrare la loro potenza. Diceano:

“- Noi abbiamo un signore in casa; il papa è nostro protettore; gli avversari nostri non sono guerniti nè da guerra nè da pace; danari non hanno; i soldati non sono pagati. -”

E misero in ordine “tutto ciò che a guerra bisognava ... invitati molti villani d'attorno e tutti gli sbanditi”. I Neri si armavano; i Bianchi no perchè era contro la legge e Dino minacciava di punirli. E ora che scrive a scolparsi nota che fu per avarizia perchè fece dire a' Cerchi: “- Fornitevi e ditelo agli amici vostri -”.

I Neri “conoscendo i nemici loro vili e che aveano perduto il vigore” vengono a' ferri. I Medici lasciano per morto Orlandi un valoroso popolano. Si grida a' priori: - Voi siete traditi armatevi -.

Ecco finalmente sventolare sulle finestre il gonfalone di giustizia. Molti vanno nascosamente ... dal lato di parte nera. Ma traggono alla Signoria i soldati che non erano corrotti e altre genti e amici a piè e a cavallo. Era il momento di operare con vigore. Ma “i Signori non usi a guerra erano occupati da molti che voleano essere uditi; e in poco stante si fe' notte”. Il podestà non si fe' vivo. Il capitano non si mosse come “uomo più atto a riposo e a pace che a guerra.” “La raunata gente non consigliò”. Il giorno finì: e non si concluse nulla e la gente stanca se ne andò e ciascuno pensò a se stesso. E Dino cosa facea? Dava udienza.

I Neri lusingavano e indugiavano i Bianchi con buone parole.

Li Spini diceano alli Scali:

“- Deh! Perchè facciamo noi così? Noi siamo pure amici e parenti e tutti guelfi; noi non abbiamo altra intenzione che di levarci la catena di collo che tiene il popolo a voi e a noi. E saremo maggiori che noi non siamo. Mercè per Dio siamo una cosa come noi dovemo essere. - ... Quelli che riceveano tali parole s'ammollavano nel cuore e i loro seguaci invilirono”.

 

I ghibellini credendosi abbandonati si smarrirono e gli sbanditi si avvicinavano alla città. Come farli entrare? Carlo primonstava presso la Signoria perchè si desse a lui la guardia della città e delle porte: che farebbe de' malfattori aspra giustizia. E sotto questo nascondea la sua malizia nota l'arguto Dino. Ma l'arguto Dino gli dà la guardia delle porte d'Oltrarno! Bisogna proprio sentir lui:

 

“Le chiavi gli furono negate e le porte di Oltrarno gli furono raccomandate e levati ne furono i fiorentini e furonvi messi i franciosi. E il cancelliere e il manescalco di messer Carlo giurarono nelle mani a me Dino ricevente per lo comune.... E mai credetti che un tanto signore e della casa reale di Francia rompesse la sua fede: perchè passò piccola parte della seguente notte che per la porta che noi gli demmo in guardia die' l'entrata a ... molti ... sbanditi.”

 

Fatta la breccia entrano gli altri. E i signori venuta meno tutta la loro speranza “deliberarono quando i villani fossero venuti in loro soccorso prendere la difesa.” Che erà quel prender tempo e non risolversi degli animi deboli. Furono vinti senza combattere. Tutti si gettarono là dov'era la forza:

“I malvagi villani gli abbandonarono... e i ... famigli li tradirono.... Molti soldati si volsono a servire i loro avversari. Il podestà ... andava procurando in aiuto di messer Carlo.”

Carlo manda i suoi a' priori “per occupare il giorno e il loro proponimento con lunghe parole”. Giuravano che il loro signore si tenea tradito” e che farebbe la vendetta grande. - Tenete per fermo che se il nostro signore non ha cuore di vendicare il misfatto a vostro modo fateci levare la testa. - E ora che scrive Dino aggiunge: “E non giurò messer Carlo primol vero perchè [Corso Donati] di sua saputa venne”.

Carlo è pronto ad armare i suoi cavalieri e vendicare il comune ma ad un patto che si dieno a lui in custodia i più potenti uomini delle due parti. E Dino consente.

“I Neri vi andarono con fidanza i Bianchi con temenza. Messer Carlo li fece guardare; i Neri lasciò partire ma i Bianchi ritenne presi quella notte senza paglia e senza materasse come uomini micidiali.”

Qui Dino non ne può più e prorompe:

“O buono re Luigi che tanto temesti Iddio ov'è la fede della real casa di Francia caduta per mal consiglio non temendo vergogna? O malvagi consiglieri che avete il sangue di così alta corona fatto non soldato ma assassino imprigionando i cittadini a torto e mancando della sua fede e falsando il nome della real casa di Francia!”

L'indignazione è uguale alla maraviglia del buon uomo. Come pensare che il sangue di san Luigi un Reale di Francia fosse spergiuro e assassino?

Quando non ci era più il rimedio si corse al rimedio. Dino fa sonare la campana grossa che era un chiamare alle armi. Ma nessuno uscì: “La gente sbigottita non trasse di casa i Cerchi. Non uscì uomo a cavallo nè a pie armato”.

Anche il cielo vi si mescola. Apparisce una croce vermiglia sopra il palagio de' priori:

“Onde la gente che la vide e io che chiaramente la vidi potemmo comprendere che Dio era fortemente contro alla nostra città crucciato.”

La città per sei giorni fu messa a ruba. In pochi tocchi ti sta innanzi il quadro:

“Gli uomini che temeano i loro avversari si nascondeano per le case de' loro amici. L'uno nimico offendea l'altro; le case si cominciavano ad ardere; le ruberie si faceano e fuggivansi gli arnesi alle case degl'impotenti. I Neri potenti domandavano danaro a' Bianchi; maritavansi le fanciulle a forza; uccideansi uomini; e quando una casa ardea forte messer Carlo domandava: - Che fuoco è quello? - Eragli risposto che era una capanna quando era un ricco palazzo.”

I priori multiplicando il mal fare e non avendo rimedio lasciarono il priorato. E venne al governo la parte nera.

Dino fu il Pier Soderini di quel tempo e fu a se stesso il suo Machiavelli. Nessuno può dipingerlo meglio che non fa egli medesimo.

In questa maravigliosa cronaca non ci è una parola di più. Tutto è azione che corre senza posa sino allo scioglimento. Ma è azione dove paion fuori caratteri e passioni. Un motto un tratto è un carattere. Carlo dopo di aver tratto da' fiorentini molti danari va a Roma e chiede danari a Bonifazio. - Ma io ti ho mandato alla fonte dell'oro - risponde il papa. È una risposta che è un ritratto dell'uno e dell'altro. I discorsi sono sostanziosi incisivi non meno pittoreschi: vedi personaggi vivi con la loro natura e i loro intendimenti e fanno più effetto che non le studiate e classiche orazioni venute poi. Uomo d'impressione più che di pensiero Dino intuisce uomini e cose a prima vista e ne rende la fisonomia che non la puoi dimenticare. Di Bonifazio ottavo dice:

“Fu di grande ardire e alto ingegno e guidava la Chiesa a suo modo e abbassava chi non li consentia.”

Di Corso Donati fa questo magnifico ritratto:

“Un cavaliere della somiglianza di Catilina romano ma più crudele di lui gentile di sangue bello del corpo piacevole parlatore; adorno di belli costumi sottile d'ingegno coll'animo sempre intento a mal fare (col quale molti masnadieri si raunavano e gran sèguito avea) molte arsioni e molte ruberie fece fare;... molto avere guadagnò e in grande altezza salì. Costui fu messer Corso Donati che per sua superbia fu chiamato il barone che quando passava per la terra molti gridavano: - Viva il barone. - E parea la terra sua. La vanagloria il guidava e molti servigi facea.”

La stessa sicurezza è nella rappresentazione delle cose. Rapido arido tutto fatti che balzan fuori coloriti dalle sue vivaci impressioni dalla sua maraviglia dalla sua indignazione. Una cosa soprattutto lo colpisce che “molte lingue si cambiarono in pochi giorni”. Non vi si sa rassegnare e li chiama ad uno ad uno e ricorda loro quello che diceano e quello che erano. Il mutarsi dell'animo secondo gli eventi non gli potea entrare:

“Donato Alberti ... dove sono le tue arroganze che ti nascondesti in una vile cucina? O messer Lapo Salterelli minacciatore e battitore de' rettori che non ti serviano nelle tue quistioni ove t'armasti? In casa i Pulci stando nascoso ... O messer Manetto Scali che volevi esser tenuto sì grande e temuto ove prendesti le armi? ... O voi popolani che desideravate gli ufici e succiavate gli onori e occupavate i palagi de' rettori ove fu la vostra difesa? Nelle menzogne simulando e dissimulando biasimando gli amici e lodando i nemici solamente per campare. Adunque piangete sopra voi e la vostra città.”

I soliti fenomeni delle rivoluzioni brutali e ingenerose sono da lui rappresentati con lo stesso accento di maraviglia come di cose non viste mai e svegliano nel suo animo onesto una indignazione eloquente. Ed è da quei sentimenti che è uscito questo capolavoro di descrizione:

“Molti nelle pie opere divennero grandi i quali avanti nominati non erano e nelle crudeli opere regnando cacciarono molti cittadini e feciongli rubelli e sbandeggiarono nell'avere e nella persona. Molte magioni guastarono e molti ne puniano secondo che tra loro era ordinato e scritto. Niuno ne campò che non fosse punito. Non valse parentado nè amistà; nè pena si potea minuire nè cambiare a coloro a cui determinate erano. Nuovi matrimoni niente valsero ciascuno amico divenne nimico; i fratelli abbandonavano l'un l'altro il figliuolo il padre ogni amore ogni umanità si spense. ... Patto pietà nè mercè in niuno mai si trovò. Chi più dicea: - Muoiano muoiano i traditori - colui era il maggiore.”

Tra' proscritti fu Dante. Condannato in contumacia non rivide più la sua patria. Ira vendetta dolore disdegno ansietà pubbliche e private tutte le passioni che possono covare nel petto di un uomo lo accompagnarono nell'esilio. Chi ha visto l'indignazione di Dino può misurare quella di Dante.

Il priorato fu il principio della sua rovina com'egli dice ma fu anche il principio della sua gloria. Non era uomo politico; mancavagli flessibilità e arte di vita; era tutto un pezzo come Dino. Priore volle procurare una concordia impossibile e non riuscì che a farsi ingannare da' Neri in Firenze e da Bonifazio in Roma. Esule non valse a mantenere quella preminenza che era debita al suo ingegno e alla sua virtù si lasciò soverchiare da' più audaci e arrischiati e non potendo impedire e non volendo accettare molti disegni si segregò e si fece parte per se stesso. Toltosi alle faccende pubbliche ripiegatosi in sè sviluppò tutte le sue forze intellettive e poetiche.

Dopo la morte di Beatrice erasi dato con tale ardore allo studio che la vista ne fu debilitata. Finisce la Vita Nuova con la speranza “di dire di lei quello che non fu mai detto di alcuna”. E fece di questo suo primo e solo amore “la bellissima e onestissima figlia dell'Imperatore dell'universo alla quale Pitagora pose nome Filosofia”. Frutto di questi nuovi studi furono le sue canzoni allegoriche e scientifiche.

Tra questi studi nacque la seconda Beatrice luce spirituale unità ideale l'amore che congiunge insieme intelletto e atto scienza e vita. Intelletto amore atto era questa la trinità che fu il suo secondo amore la sua filosofia. Beatrice divenne un simbolo e la poesia vanì nella scienza.

Quel mondo lirico che a noi pare troppo astratto parve poco spirituale ai contemporanei che chiamavano “sensuale” quel primo amore di Dante e poco intendevano questo suo secondo amore. E Dante per cessare da sè l'infamia e per mostrare la dottrina “nascosa sotto figura di allegoria” volle illustrare e comentare le sue canzoni egli medesimo.

Era dottissimo. Teologia filosofia storia mitologia giurisprudenza astronomia fisica matematica rettorica poetica di tutto lo scibile avea notizia e non superficiale: perchè di tutto parlò con chiarezza e con padronanza della materia. Il disegno gli si allargò: al poeta tenne dietro lo scienziato; e pensò di chiudere in quattordici trattati quante erano le canzoni tutta la scienza nella sua applicazione alla vita morale. Un lavoro simile che Brunetto chiamò Tesoro e altri chiamavano Fiore o Giardino egli chiamò Convito quasi mensa dov'è imbandito “il pane degli angeli” il cibo della sapienza. Brunetto avea scritto il Tesoro in francese gli altri trattavano la scienza in latino. La prosa volgare era tenuta poco acconcia a questa materia massime dopo l'infelice versione dell'Etica di Aristotile fatta da un tal Taddeo celebre medico nominato “l'ippocratista”. Bisogna vedere quante sottili ragioni adduce Dante per scusarsi di scrivere in volgare. Celebra il latino come “perpetuo e non corruttibile” e perchè “molte cose manifesta concepute nella mente che il volgare non può” e perchè “il ... volgare seguita uso e il latino arte”; onde il latino è “più bello più virtuoso e più nobile”. Ma appunto per questo il comento latino non sarebbe stato “suggetto alle canzoni” scritte in volgare ma “sovrano” e il comento per sua natura è servo e non signore e dee ubbidire e non comandare. Ora il latino non può ubbidire perchè “comandatore” e sovrano del volgare. Oltrechè come può il latino comentare il volgare non conoscendo il volgare? E che il latino non è conoscente del volgare si vede: “chè uno abituato di latino non distingue s'egli è d'Italia lo volgare provenzale dal tedesco nè il tedesco lo volgare italico o provenzale ”. Ecco le opinioni le forme e le sottigliezze della scuola. Questa novità di scrivere di scienza in volgare che è come dare a' convitati “pane di biado e non di formento” gli pare così grande che a difendersene spende otto capitoli modello di barbarie scolastica. Lasciando stare le sottigliezze la sostanza è questa ch'egli usa “il volgare di sì” perchè loquela propria e “delli suoi generanti” e suo “introducitore” nello studio del latino e perciò “nella via di scienza ch'è ultima perfezione”. Scrisse in volgare le rime il volgare usò “deliberando interpretando e quistionando”; dal principio della vita ebbe con esso “benivolenza e conversazione”; il volgare è l'amico suo dal quale non si sa dividere. Coloro “fanno vile lo parlare italico e prezioso quello di Provenza” che per “iscusarsi del non dire o dire male accusano e incolpano la materia cioè lo volgare proprio”. La plebe o come dice egli le “popolari persone” cadono “nella fossa” di questa falsa opinione per poca discrezione: “per che incontra che molte volte gridano: - Viva la loro morte - e: - Muoia la loro vita - purchè alcuno cominci” e sono da chiamare “pecore e non uomini”. Gli altri vi caggiono per vanità o per vanagloria o per invidia o per pusillanimità. Questo disamare lo volgare proprio e pregiare l'altrui gli pare un adulterio conchiudendo con queste sdegnose parole: “E tutti questi cotali sono gli abbominevoli cattivi d'Italia che hanno a vile questo prezioso volgare lo quale se è vile in alcuna cosa non è se non in quanto egli suona nella bocca meretrice di questi adulteri”. E però egli scrive questo comento in volgare per fargli avere “in atto e palese quella bontade che ha in potere e occulto” mostrando che la sua virtù si manifesta anche in prosa senza le accidentali adornezze della rima e del ritmo come donna “bella per natural bellezza e non per gli adornamenti dell'azzimare e delle vestimenta” e che altissimi e novissimi concetti convenientemente sufficientemente e acconciamente “quasi come per esso latino” vi si esprimono. E finisce con queste profetiche parole: “Questo sarà luce nuova sole nuovo il quale surgerà ove l'usato tramonterà”.

Tanta veemenza nell'accusare tanto ardore nel magnificare può fare intendere quanto radicata e sparsa era l'opinione degl'infiniti “ciechi” com'egli li chiama che tenevano il volgare inetto alla prosa. E non ottenne l'intento. Il latino continuò a prevalere: egli medesimo lasciato a mezza via il Convito trattò in latino la rettorica e la politica che insieme con l'etica era la materia ordinaria dei trattati scientifici.

Il libro De vulgari eloquio non è un fior di rettorica quale si costumava allora un accozzamento di regole astratte cavate dagli antichi ma è vera critica applicata ai tempi suoi con giudizi nuovi e sensati. La base di tutto l'edifizio è la lingua nobile aulica cortigiana illustre che è dappertutto e non è in alcuna parte di cui ha voluto dare esempio nel Convito. Questo ideale parlare italico è illustre in quanto si scosta dagli elementi locali ove prendono forma i dialetti e si accosta alla maestà e gravità del latino la lingua modello. Voleva egli far del volgare quello che era il latino non la lingua delle persone popolari ma la lingua perpetua e incorruttibile degli uomini colti. Sogno assai simile a quello di una lingua universale fondata con procedimenti artificiali della scienza. Scegliere il meglio di qua e di là e far cosa una e perfetta sembra cosa facile e assai conforme alla logica ma è contro natura. Le lingue come le nazioni vanno all'unità per processi lenti e storici; e non per fusioni preconcette ma per graduale assorbimento e conquista degli elementi inferiori. Il ghibellino che dispregiava i dialetti comunali e voleva un parlare comune italico di cui abbozzava l'immagine ti rivelava già lo scrittore della Monarchia.

Il trattato De Monarchia è diviso in tre libri. Nel primo dimostra la perfetta forma di governo essere la monarchia; nel secondo prova questa perfezione essere incarnata nell'impero romano sospeso non cessato perchè preordinato da Dio; nel terzo stabilisce le relazioni tra l'impero e il sacerdozio l'unico imperatore e l'unico papa.

L'eccellenza della monarchia è fondata sull'unità di Dio. Uno Dio uno imperatore. Le oligarchie e le democrazie sono “polizie oblique” governi “per accidente” reggimenti difettivi. Fin qui tutti erano d'accordo guelfi e ghibellini. Non ci erano due filosofie: le premesse erano comuni ai due partiti.

E tutti e due ammettevano la distinzione tra lo spirito e il corpo e la preminenza di quello base della filosofia cristiana. E ne inferivano che nella società sono due poteri lo spirituale e il temporale il papa e l'imperatore. Il contrasto era tutto nelle conseguenze.

Se lo spirito è superiore al corpo dunque conchiudeva Bonifazio ottavo il papa è superiore all'imperatore. “Il potere spirituale - dic'egli - ha il diritto d'instituire il potere temporale e di giudicarlo se non è buono. E chi resiste resiste all'ordine stesso di Dio a meno ch'egli non immagini come i manichei due princìpi Ciò che sentenziamo errore ed eresia. Adunque ogni uomo dee essere sottoposto al pontefice romano e noi dichiariamo che questa sottomissione è necessaria per la salute dell'anima”.

Filosofia chiara semplice popolare irresistibile per il carattere indiscusso delle premesse consentite da tutti e per l'evidenza delle conseguenze. Quando lo spirito era il sostanziale e il corpo in se stesso era il peccato e non valea se non come apparenza o organo dello spirito cos'altro potevano essere i re e gl'imperatori che erano il potere temporale se non gl'investiti dal papa gli esecutori della sua volontà? I guelfi che salve le franchigie comunali ammettevano premesse e conseguenze erano detti “la parte di santa Chiesa”.

Dante ammetteva le premesse e per fuggire alla conseguenza suppone che spirito e materia fossero ciascuno con sua vita propria senza ingerenza nell'altro e da questa ipotesi deduce l'indipendenza de' due poteri amendue “organi di Dio” sulla terra di diritto divino con gli stessi privilegi “due soli” che indirizzano l'uomo l'uno per la via di Dio l'altro per la via del mondo l'uno per la celeste l'altro per la terrena felicità. Perciò il papa non può unire i due reggimenti in sè congiungere il pastorale e la spada; anzi come vero servo di Dio e immagine di Cristo dee dispregiare i beni e le cure di questo mondo e lasciare a Cesare ciò che è di Cesare. L'imperatore dal suo canto dee usar riverenza al papa appunto per la preminenza dello spirito sul corpo; e poichè il popolo è corrotto e usurpatore e la società è viziosa e anarchica il suo uffizio è di ridurre il mondo a giustizia e concordia ristaurando l'impero della legge. Nè è a temere che sia tiranno perchè nella stessa sua onnipotenza troverà il freno a se stesso: perciò rispetterà le franchigie de' comuni e l'indipendenza delle nazioni. Questa era l'utopia dantesca o piuttosto ghibellina. Dante ne ha fatto un sistema e ne è stato il filosofo.

Scendendo alle applicazioni Dante mostra nel secondo libro che la monarchia romana fu di tutte perfettissima. La sua storia risponde alle tre età dell'uomo. Nell'infanzia ebbe i re: adulta e rettasi a popolo con geste maravigliose una serie di miracoli che attestano la sua missione provvidenziale si apparecchiò alla età virile ordinandosi a monarchia sotto Augusto che san Tommaso chiama vicario di Cristo e che Dante seguendo la tradizione virgiliana dice discendente da Enea fondatore dell'impero per disegno divino. E fu a quel tempo che nacque Cristo e “fu suddito dell'impero” e compì l'opera della redenzione delle anime mentre Augusto componeva il mondo in perfetta pace.

Da queste premesse storiche Dante conchiude che Roma per dritto divino dee essere la capitale del mondo e che giustizia e pace non può venire in terra se non con la ristaurazione dell'impero romano “la monarchia predestinata” di cui la più bella parte il giardino era l'Italia.

In apparenza questo era un ritorno al passato ma ci era in germe tutto l'avvenire: ci era l'affrancamento del laicato e l'avviamento a più larghe unità. I guelfi si tenevano chiusi nel loro comune; ma qui al di là del comune vedi la nazione e al di là della nazione l'umanità la confederazione delle nazioni. Era un'utopia che segnava la via della storia.

Guelfi e ghibellini aveano comune la persuasione che la società era corrotta e disordinata e chiedevano il paciere. La selva immagine della corruzione è un punto di partenza comune a Brunetto guelfo e a Dante ghibellino. I guelfi chiamavano paciere nelle loro discordie un legato del papa come Carlo di Valois “che giostrò con la lancia di Giuda” come dice Dante. I ghibellini invocavano l'imperatore. E credesi che Dante abbia scritto questo trattato per agevolare la via all'imperatore Arrigo settimo di Lucemburgo sceso a pacificare l'Italia e morto al principio dell'impresa glorificato da Dante celebrato da Mussato lacrimato da Cino. Non avevano ancora imparato e guelfi e ghibellini che chiamar pacieri è mettersi a discrezione altrui e che metter l'ordine e salvar la società dalle fazioni è antico pretesto di tutt'i conquistatori.

Dante scrisse lettere anche in latino. Una ne scrisse appunto ad Arrigo nella sua venuta. Raccogliendo insieme le sue opere latine di cui la più originale è quella De vulgari eloquio e unendovi il Convito si può avere un giusto concetto del suo lavoro intellettuale.

Era uomo dottissimo ma non era un filosofo. Nè la filosofia fu la sua vocazione lo scopo a cui volgesse tutte le forze dello spirito. Fu per lui un dato un punto di partenza. L'accettò come gli veniva dalla scuola e ne acquistò una piena notizia. Seppe tutto ma in nessuna cosa lasciò un'orma del suo pensiero posto il suo studio meno in esaminare che in imparare. Accoglie qualsiasi opinione anche più assurda e gran parte degli errori e de' pregiudizi di quel tempo. Cita con uguale riverenza Cicerone e Boezio Livio e Paolo Orosio scrittori pagani e cristiani. La citazione è un argomento. Il suo filosofare ha i difetti dell'età. Dimostra tutto anche quello che non è controverso; dà pari importanza a tutte le quistioni. Ammassa argomenti di ogni qualità anche i più puerili; spesso non vede la sostanza della quistione e si perde in minuterie e sottigliezze. Aggiungi il gergo scolastico e le infinite distinzioni. Pure se fra tanti viottoli ti regge ire sino alla fine troverai nella sua Monarchia un'ampiezza ed unità di disegno ed una concordanza di parti che ti fa indovinare il grande architetto dell'altro mondo.

I difetti delle opere latine sono comuni al Convito e gl'intralciano lo stile e gl'impediscono quell'andamento naturale e piano del discorso che potea renderlo accessibile agl'illetterati a' quali era destinato. La sua teoria della lingua illustre lo allontana da quell'andare soave e semplice della prosa volgare e quando gli altri volgarizzano il latino egli latinizza il volgare cercando nobiltà e maestà nelle perifrasi ne' contorcimenti e nelle inversioni. Usa una lingua ibrida non italiana e non latina spogliata di tutte le movenze e attitudini vivaci del dialetto e lontana da quella dignità e misura che ammira nel latino e a cui tende con visibile e infelice sforzo. Se la natura gli avesse concesso un più squisito senso artistico avrebbe forse potuto essere fondatore della prosa. Ma gli manca la grazia e senti la rozzezza nello sforzo della eleganza. Salvo qualche raro intervallo che la passione lo scalda e lo fa eloquente la sua prosa come la sua lirica fa desiderare l'artista.

Vocazione di Dante non fu la filosofia e non fu la prosa. Quello ch'egli cercava non potè realizzarlo come scienza e come prosa.

 - Che cerchi? - Gli domandò un frate. Rispose: - Pace. - E questo cercavano tutt'i contemporanei. Pace era concordia del regno terrestre col regno celeste dell'anima con Dio il regno di Dio sulla terra. “Adveniat regnum tuum.” Pace vera quaggiù non può essere; vera pace è in Dio nel mondo celeste; Beatrice morendo parea che dicesse: “Io sono in pace”. La vita è una prova un tirocinio per accostarsi quanto si può all'ideale celeste e meritarsi l'eterna pace.

Lo scopo della vita è la salvazione dell'anima la pace dell'anima nel mondo celeste. Vivere è morire alla terra per vivere in cielo. La vita è la storia dell'anima è un “mistero”. Uscita pura dalle mani di Dio “che la vagheggia” è sottoposta quaggiù al male e al dolore e non può tornare nella patria che purificata di ogni macula terrestre. Per giungere a pace bisogna passare per tre gradi personificati ne' tre esseri Umano Spoglia e Rinnova e a' quali rispondono i tre mondi inferno purgatorio e paradiso. Il “mistero” o la storia finisce al primo grado quando l'anima sopraffatta dall Umano e vinta nella sua battaglia col demonio viene in potere di questo: è la tragedia dell'anima la tragedia di Fausto prima che Goethe ispirato da Dante lo avesse riscattato. Ma quando l'anima vince le tentazioni del demonio e si spoglia e si purga dell'Umano hai la sua glorificazione nell'eterna pace: hai la “commedia” dell'anima. Questo è il mistero ora tragedia ora commedia secondo che prevale l'umano o il divino il terrestre o il celeste che giace in fondo a tutte le rappresentazioni e a tutte le leggende di quell'età. Messo in iscena era detto “rappresentazione”: narrato. Era “leggenda” o “vita” esposto in figura era “allegoria” rappresentato in modo diretto e immediato era “visione”; anzi le due forme si compenetravano e spesso l'allegoria era una visione e la visione era allegorica. Allegorie visioni leggende rappresentazioni erano diverse forme di questo mistero dell'anima del quale i teologi erano i filosofi e i predicatori erano gli oratori che aggiungevano spesso alla dottrina l'esempio qualche leggenda o visione com'è nello Specchio di vera penitenza. Il mistero dell'anima era in fondo tutta una metafisica religiosa che comprendeva i più delicati e sostanziali problemi della vita e produceva una civiltà a sè conforme. Ci entrava l'individuo e la società la filosofia e la letteratura.

La letteratura volgare in senso prettamente religioso si stende per due secoli da Francesco di Assisi e Iacopone sino a Caterina. L'Allegoria dell'anima la rappresentazione del Giovane monaco l'Introduzione alle virtù la Commedia dell'anima sono in forma letteraria la teoria di questo mistero che nelle lettere di Caterina raggiunge la sua perfezione dottrinale ed acquista la sua individuazione o realtà storica ne' Fioretti nelle leggende e nelle visioni del Cavalca e del Passavanti.

Ma questa letteratura era senza eco nella classe colta da cui esce l'impulso della vita intellettuale. Dante spregiava il latino della Bibbia come privo di dolcezza e di armonia. Quello scrivere così alla buona e come si parla era tenuto barbarie e rozzezza. Vagheggiavano una forma di dire illustre e nobile prossima alla maestà del latino della quale Dante die' nel Convito un saggio poco felice. Nè potea piacere quella semplicità di ragionamento con tanta scarsezza di dottrina ad uomini che uscivano dalle scuole con tanta filosofia in capo con tanta erudizione sacra e profana. Ma se aveano in poco conto quella letteratura giudicata povera e rozza non era diverso il concetto che essi avevano della vita. I teologi filosofavano e i filosofi teologizzavano. La rivelazione rimaneva integra nelle sue basi essenziali ammesse come assiomi indiscutibili. Tali erano l'unità e personalità di Dio l'immortalità dello spirito e lo scopo della vita oltre terreno.

Ma se il concetto era lo stesso la materia era più ampia abbracciando la coltura oltre la Bibbia e i santi Padri quanto del mondo antico era noto e la forma era più libera paganizzando sotto lo scudo dell'allegoria e voltando il linguaggio cristiano nelle formole di Aristotile e Platone.

Il regno di Dio chiamavano regno della filosofia. E realizzare il regno di Dio era conformare il mondo a' dettati della filosofia unificare intelletto e atto. Il mediatore era l'Amore principio delle cose divine e umane e non l'amore sensuale ch'era peccato ma un amore intellettuale l'amore della filosofia. Il frutto dell'amore è la sapienza che non è puro intelletto ma intelletto e atto congiunti la virtù. Il regno di Dio in terra era dunque il regno della virtù o come dicevano della giustizia e della pace. A realizzare questo regno erano istrumenti i due Soli i due organi di Dio il papa e l'imperatore. La politica era l'arte di realizzare questo regno della giustizia e della pace rendendo gli uomini virtuosi e felici. Il criterio politico era puramente etico come s'è visto in Albertano giudice in Egidio Colonna in Mussato in Dino Compagni. All'effettuazione di questo regno etico concorreva la tradizione virgiliana; perchè Virgilio era un testo non meno rispettabile che la Bibbia. E si attendeva la monarchia predestinata da Dio la ristorazione dell'impero romano.

In questi due secoli abbiamo due letterature quasi parallele e persistenti l'una accanto all'altra: una schiettamente religiosa chiusa nella vita contemplativa circoscritta alla Bibbia e a' santi Padri e che ha per risultato inni e cantici e laude rappresentazioni leggende visioni e l'altra che vi tira entro tutto lo scibile e lo riduce a sistema filosofico e abbraccia i vari aspetti della vita e dà per risultato somme enciclopedie trattati cronache e storie sonetti e canzoni. Tra queste due letterature erra la novella e il romanzo eco della cavalleria rimasti senza seguito e senza sviluppo quasi cosa profana e frivola.

Gli uomini istrutti si studiavano di render popolare la cultura specialmente nella sua parte più accessibile e pratica l'etica e la morale. Indi le tante versioni e raccolte di precetti etici sotto nome di Fiori Giardini Tesori Ammaestramenti. Un tentativo di questo genere fu il Tesoretto.

Nella prima parte della lirica dantesca hai la storia ideale della santa nella sua purezza soppresso il demonio e le tentazioni della carne. È il mistero dell'anima così come è rappresentato nella Commedia dell'anima. L'anima che uscita pura dalle mani di Dio dopo breve pellegrinaggio ritorna in cielo bellezza spirituale o luce intellettuale è Beatrice; e Beatrice è la santa della gente colta è la donna platonica e innominata de' poeti battezzata e santificata.

Nella seconda parte Beatrice è la filosofia che riceve la sua esplicazione dottrinale nelle Canzoni e nel Convito. La poesia va a metter capo nella pura scienza nell'esposizione scolastica di un mondo morale dell'etica.

La letteratura popolare va a finire nelle lettere dottrinali e monotone di Caterina: il suo difetto ingenito è l'astrazione dell'ascetismo. La letteratura dotta va a finire nelle sottigliezze scolastiche del Convito: il suo difetto intrinseco è l'astrazione della scienza. Tutte e due hanno una malattia comune l'astrazione e la sua conseguenza letteraria l'allegoria.

Ma il mondo di Dante non potea rimaner chiuso in questi limiti o piuttosto non era questo il suo mondo naturale e geniale conforme alle qualità del suo spirito e del suo genio e ci sta a disagio. La sua forza non è l'ardore della ricerca e della investigazione che è il genio degli spiriti speculativi. La scienza è per lui un dogma: il cervello rimane passivo in quelle scolastiche esposizioni. Avea troppa immaginazione perchè potesse rimaner nell'astratto e studia più a figurarlo e colorirlo che a discuterlo e interrogarlo. La fantasia creatrice il vivo sentimento della realtà le passioni ardenti del patriota disingannato e offeso le ansietà della vita pubblica e privata non poteano avere appagamento in quella regione astratta della scienza che pur gli era tanto cara. Sentiva il bisogno meno di esporre che di realizzare. E volle realizzare questo regno della scienza o regno di Dio che tutti cercavano farne un mondo vivente.

Il mondo è una selva oscura corrotto dal vizio e dall'ignoranza. Rimedio è la scienza secondo i cui princìpi dovrebb'esser conformato. La scienza è il mondo ideale non qual è ma quale dee essere. Questo ideale si trova realizzato nell'altra vita nel regno di Dio conforme alla verità e alla giustizia. Perciò ad uscir dalla selva non ci è che una via la contemplazione e la visione dell'altra vita. Per questa via l'anima superate le battaglie del senso e purificatasi ha la sua pace la sua eterna commedia la beatitudine.

Da questo concetto semplice e popolare uscì la contemplazione o visione detta la Commedia rappresentazione allegorica del regno di Dio il “mistero dell'anima” o la “Commedia dell'anima.”


 

VII

LA COMMEDIA

Chi mi ha seguito vede che la “Divina Commedia” non è un concetto nuovo nè originale nè straordinario sorto nel cervello di Dante e lanciato in mezzo a un mondo maravigliato. Anzi il suo pregio è di essere il concetto di tutti il pensiero che giaceva in fondo a tutte le forme letterarie rappresentazioni leggende visioni trattati tesori giardini sonetti e canzoni. L'Allegoria dell'anima e la Commedia dell'anima sono gli schemi le categorie i lineamenti generali di questo concetto.

Nel Convito la sostanza è l'etica che Dante cerca di rendere accessibile agl'illetterati esponendola in prosa volgare. Qui il problema è rovesciato. La sostanza sono le tradizioni e le forme popolari rannodate intorno al mistero dell'anima il concetto di tutt'i misteri e di tutte le leggende ed è in questo quadro che Dante gitta tutta la coltura di quel tempo. Con questa felice ispirazione pigliando a base della coltura le tradizioni e le forme popolari riunisce le due letterature che si contendevano il campo intorno al comune concetto che le ispirava il mistero dell'anima. La rappresentazione e la leggenda esce dalla sua rozza volgarità e si alza a' più alti concepimenti della scienza; la scienza esce dal santuario e si fa popolo si fa mistero e leggenda. Indi l'immensa popolarità di questo libro che gl'illetterati accettavano nel senso letterale e i dotti comentavano come un libro di scienza come la Somma di san Tommaso. Il popolo vedeva in quei versi quel medesimo che sentiva nelle prediche nelle divozioni e rappresentazioni nè è maraviglia che qualcuno guardando Dante con quella faccia pensosa e come alienata dicesse: - Costui par veramente uscito ora dall'inferno. - Gli eruditi si affannavano a cercare il senso de' versi strani e il Boccaccio iniziava quella serie di comenti che spesso in luogo di squarciare il velo lo fanno più denso.

In effetti la Divina Commedia è una visione dell'altro mondo allegorica. Cristianamente la visione e la contemplazione dell'altra vita è il dovere del credente la perfezione. Il santo vive in ispirito nell'altro mondo; le sue estasi le sue visioni si riferiscono alla seconda vita a cui sospira. Dante accetta questa base ascetica popolarissima: contemplare e vedere l'altro mondo è la via della salvazione. Per campare dalla selva del vizio e dell'ignoranza egli si getta alla vita contemplativa vede in ispirito l'altro mondo e narra quello che vede. Questo è il motivo ordinario di tutte le visioni è la storia di tutt'i santi è il tema di tutt'i predicatori è la lettera della Commedia visione dell'altro mondo come via a salute. Ma la visione è allegoria. L'altro mondo è allegoria e immagine di questo mondo è in fondo la storia o il mistero dell'anima ne' suoi tre stati detti nell'Allegoria dell'anima Umano Spoglia Rinnova che rispondono a' tre mondi Inferno Purgatorio e Paradiso. È l'anima intenebrata dal senso nello stato puramente umano che spogliandosi e mondandosi della carne si rinnova ritorna pura e divina. Questa allegoria era popolare e comune non meno che la lettera. Ciascuno vedeva un po' l'altro mondo con l'occhio di questo mondo con le sue passioni e interessi. I predicatori soprattutto nella descrizione delle pene infernali cercavano immagini delle passioni terrene. Il mistero dell'anima era la base di tutte le invenzioni la leggenda delle leggende. L'uomo caduto nell'errore e nella miseria che finisce o vendendo l'anima al demonio o purgandosi e salvandosi era il fondamento di tutte le storie popolari come s'è visto nell'Introduzione alle virtù e nella Commedia dell'anima.

La Commedia dell'anima è l'anima uscita dalle mani di Dio pura che in terra combatte le sue battaglie con la carne e col demonio e vince assistita dalla grazia di Dio. Vizi e virtù combattono come gli dei di Omero intorno all'anima; le virtù vincono e l'anima è salva. Nell'Introduzione alle virtù è un giovane caduto in miseria a cui apparisce confortatrice la Filosofia sua maestra e signora e gli mostra la battaglia de' Vizi e delle Virtù; e il giovane spregiando i beni terrestri si leva al cielo. La filosofia è anche la divina consolatrice di Boezio così popolare e di Dante a cui dopo la morte di Beatrice apparve questa “nobilissima figlia dell'Imperatore dell'universo” facendolo suo amico e servo. Il vizio e l'ignoranza la conversione per opera di Dio o della filosofia la redenzione e beatificazione visione di Dio e della scienza era il luogo comune delle due letterature de' semplici e degli uomini colti. E Dante fonde insieme le due forme e tira nella sua allegoria filosofia e teologia ragione e grazia Dio e scienza e fa un mondo armonico assegnando a ciascuno il suo luogo. L'anima nell'inferno e nel purgatorio non essendo uscita ancora dal terreno ha a guida il lume naturale la ragione o la filosofia; ma la ragione è insufficiente senza la grazia di Dio: fatta libera e monda e leggiera ha nel paradiso maestra la grazia o la teologia luce intellettuale che le mostra la scienza senza velo o Dio nella sua essenza.

Perchè l'altro mondo è allegorico figura dell'anima nella sua storia il poeta è sciolto da' vincoli liturgici e religiosi e spazia nel mondo libero dell'immaginazione. Prendendo a base le tradizioni e le forme cristiane adopera alla sua costruzione tutt'i materiali della scienza sacra e profana e le tradizioni e favole del mondo pagano mescolando insieme Enea e san Paolo Caronte e Lucifero figure classiche e cristiane. Così ha realizzato quel mondo universale della coltura tanto desiderato dalle classi colte e fino allora tentato invano cristiano nel suo spirito e nella sua lettera ma dove già penetra da tutte le parti il mondo antico. Mescolanza che in molti contemporanei pare strana e grottesca legittimata qui dall'allegoria che concede al poeta libertà di forme ch'egli creda più acconce a significare i suoi concetti. Il mondo pagano e la scienza profana sono qui materiali di costruzione usati a edificare un tempio cristiano a quel modo che colonne egizie e greche si veggono talora nelle costruzioni moderne divenire simbolo e figure de' nuovi tempi e delle nuove idee. Così a questa costruzione gigantesca prendon parte tutte le età e tutte le forme fuse insieme e battezzate penetrate da un solo concetto il concetto cristiano.

L'ordito è semplicissimo: è la storia o mistero dell'anima nella sua espressione elementare come si trova nella rappresentazione della Commedia dell'anima; e l'hai già tutta e chiara innanzi fin dal primo canto. Dante nel giorno del Giubileo quando Bonifazio facea mostra di tutta la sua possanza e il mondo cristiano si raccoglieva intorno a lui si trova smarrito in una selva oscura e sta per soggiacere all'assalto delle passioni figurate nella lonza il leone e la lupa quando a camparlo dal luogo selvaggio esce Virgilio e lo mena seco a contemplare l'inferno e il purgatorio ove confessati i suoi falli guidato da Beatrice sale in paradiso e di luce in luce giunge alla faccia di Dio. Allegoricamente Dante è l'anima Virgilio è la ragione Beatrice è la grazia e l'altro mondo è questo mondo stesso nel suo aspetto etico e morale è l'etica realizzata questo mondo quale dee essere secondo i dettati della filosofia e della morale il mondo della giustizia e della pace il regno di Dio.

Dante è l'anima non solo come individuo ma come essere collettivo come società umana o umanità. Come l'individuo così la società è corrotta e discorde e non può aver pace se non instaurando il regno della giustizia o della legge riducendosi dall'arbitrio de' molti sotto unico moderatore. E qui entra la tradizione virgiliana: la monarchia prestabilita da Dio fondata da Augusto discendente di Enea e Roma per diritto divino capo del mondo. Questo concetto politico non è intruso e soprapposto ma è come si vede lo stesso concetto etico applicato all'individuo e alla società. È tale la medesimezza che la stessa allegoria si può interpretare in un senso puramente etico per rispetto all'individuo e in un senso politico per rispetto alla società. E non è perciò maraviglia che la stessa materia si presti con tanta docilità alle più diverse interpretazioni.

Se l'allegoria ha reso possibile a Dante una illimitata libertà di forme gli rende d'altra parte impossibile la loro formazione artistica. Dovendo la figura rappresentare il figurato non può essere persona libera e indipendente come richiede l'arte ma semplice personificazione o segno d'idea sicchè non contenga se non i tratti soli che hanno relazione all'idea a quel modo che il vero paragone non esprime di se stesso se non quello solo che sia immagine della cosa paragonata. L'allegoria dunque allarga il mondo dantesco e insieme lo uccide gli toglie la vita propria e personale ne fa il segno o la cifra di un concetto a sè estrinseco. Hai due realtà distinte l'una fuori dell'altra l'una figura e adombramento dell'altra perciò amendue incompiute e astratte. La figura dovendo significare non se stessa ma un altro non ha niente d'organico e diviene un accozzamento meccanico mostruoso il cui significato è fuori di sè com'è il grifone del Purgatorio l'aquila del Paradiso e il Lucifero e Dante con le sette “P” incise sulla fronte.

La poesia non s'era ancora potuta sciogliere dall'allegoria. Il cristianesimo in nome del Dio spirituale facea guerra non solo agl'idoli ma anche alla poesia tenuta lenocinio e artifizio: voleva la nuda verità. E verità era filosofia o storia: la verità poetica non era compresa. La poesia era stimata un tessuto di menzogne e “poeta” e “mentitore” come dice il Boccaccio era la stessa cosa; i versi erano chiamati come dice san Girolamo “cibo del diavolo”. La poesia perciò non fu accettata se non come simbolo e veste del vero: l'allegoria fu una specie di salvacondotto pel quale potè riapparire fra gli uomini. Erano detti “poeti solenni” a distinzione de' “popolari” i dotti che esprimevano in poesia la dottrina sotto figura o in forma diretta. Dante definisce la poesia “banditrice del vero” sotto “il velame della favola ascoso” di modo che il lettore “sotto alla dura corteccia sotto favoloso e ornato parlare trovi salutari e dolcissimi ammaestramenti”. La poesia è in sè una “bella menzogna” che non ha alcun valore se non come figura del vero.

Con questa falsa poetica di cui abbiamo visto l'influenza ne' nostri lirici Dante lavora sopra idee astratte: trova una serie di concetti e poi ti forma una serie corrispondente di oggetti. Le menti erano assuefatte a questo processo a correre al generale. Il campo ordinario della filosofia scolastica era l'Ente con tutte le altre generalità e la pratica del sillogismo avea avvezzi tutti anche i poeti a cercare in ogni cosa la maggiore la proposizione generale. Ora quel mondo di concetti è la maggiore dell'altro mondo.

Quali sieno questi concetti io dirò quasi con le stesse parole di Dante.

La patria dell'anima è il cielo e come dice Dante discende in noi da altissimo abitacolo. Essa partecipa della natura divina.

L'anima uscendo dalle mani di Dio è “semplicetta” “sa nulla”; ma ha due facoltà innate la ragione e l'appetito “la virtù che consiglia” e l'esser “mobile ad ogni cosa che piace” l'esser “presta ad amare”.

L'appetito (affetto amore) la tira verso il bene. Ma nella sua ignoranza non sa discernere il bene segue la sua falsa immagine e s'inganna. L'ignoranza genera l'errore e l'errore genera il male.

Il male o il peccato è posto nella materia nel piacere sensuale.

Il bene è posto nello spirito: il sommo Bene è Dio puro spirito. L'uomo dunque per esser felice dee contrastare alla carne e accostarsi al sommo Bene a Dio. A questo fine gli è stata data la ragione come consigliera: indi nasce il suo libero arbitrio e la moralità delle sue azioni.

La ragione per mezzo della filosofia ci dà la conoscenza del bene e del male. Lo studio della filosofia è perciò un dovere è via al bene alla moralità. La moralità è la “bellezza della filosofia”: è l'etica “regina delle scienze” “il primo cielo cristallino”.

A filosofare è necessario amore. L'Amore (appetito) può esser sementa di bene e di male secondo l'oggetto a cui si volge. Il falso amore è “appetito non cavalcato dalla ragione”. Il vero amore è studio della filosofia “unimento spirituale dell'anima con la cosa amata”.

Filosofia è “amistanza a sapienza” amicizia dell'anima con la sapienza. Nelle nature inferiori l'amore è “sensibile dilettazione”. Solo l'uomo come “natura razionale ha amore alla verità e alla virtù” (alla filosofia). Ciò è vera felicità che per contemplazione della verità si acquista.

In questi concetti si trova il succo della morale antica. Già i filosofi pagani aveano mostrato la filosofia come unico porto fra le tempeste della vita: esser filosofo significava e significa anche oggi resistere alle passioni ed a' piaceri vincer se stesso serbare l'eguaglianza dell'animo nelle umane vicissitudini.

Ma ecco ora sopraggiungere il cristianesimo.

L'umanità per il peccato d'origine cadde in servitù dei sensi (del male o del peccato) e la ragione e l'amore non furono più sufficienti a salvarla. La ragione andava a tentoni e menava all'errore; “i filosofi andavan e non sapevan dove”; l'amore rimaso senza “rettore” divenne appetito sensuale. Era necessaria una redenzione soprannaturale. Dio si fece uomo e redense l'umanità offrendosi vittima espiatoria per lei.

Mediante questo sacrificio la ragione è stata avvalorata dalla fede l'amore avvalorato dalla grazia la filosofia è stata compiuta dalla teologia la rivelazione.

Redenta l'umanità ciascun uomo ha acquistato la virtù di salvarsi con l'aiuto di Dio. Guidato dalla ragione e dalla fede fortificato dall'amore e dalla grazia può affrancarsi da' sensi e levarsi di mano in mano sino a Dio al sommo Bene.

Questo cammino dalla materia o dal peccato sino allo spirito o al bene comprende tutto il circolo della morale o etica. La conoscenza della morale (naturale e rivelata filosofia e teologia) è perciò necessaria a salute.

La morale è il “Nosce te ipsum” la conoscenza di se stesso. L'uomo si trova in questa vita in uno de' tre stati di cui tratta la morale stato di peccato stato di pentimento stato di grazia.

L'altro mondo è figura della morale. L'inferno è figura del male o del vizio; il paradiso è figura del bene o della virtù; il purgatorio è il passaggio dall'uno all'altro stato mediante il pentimento e la penitenza. L'altro mondo è perciò figura de' diversi stati ne' quali l'uomo si trova in questa vita.

La rappresentazione dell'altro mondo è dunque un'etica applicata una storia morale dell'uomo com'egli la trova nella sua coscienza. Ciascuno ha dentro di sè il suo inferno e il suo paradiso.

Il viaggio nell'altro mondo è figura dell'anima nel suo cammino a redenzione. Ed è Dante stesso che fa questo viaggio.

Si trova in una selva oscura (stato d'ignoranza e di errore la selva erronea del Convito) vede il dilettoso colle principio e cagione di tutta gioia (la beatitudine) illuminato dal sole che mena dritto altrui per ogni calle (la scienza) ma tre fiere (la carne gli appetiti sensuali) gli tengono il passo. L'uomo da sè non può salire il calle non può giungere a salute: viene dunque il deus ex machina l'aiuto soprannaturale. Si richiede non solo ragione ma fede non solo amore ma grazia. Virgilio (ragione e amore) lo guida insino a che confesso e pentito e purgato d'ogni macula terrena succede Beatrice (ragione sublimata a fede amore sublimato a grazia). Con questo aiuto esce dallo stato d'ignoranza e di errore (la selva) e prende il cammino della scienza (l'altro mondo il mondo etico e morale). Gli si affaccia prima l'inferno (l'anima nello stato del male) e conosce il male nella sua natura nelle sue specie ne' suoi effetti (vedi canto XI). Entra allora in purgatorio (pentimento ed espiazione) dove ancor vive la memoria e l'istinto del male e conosciuto il suo stato pentito e mondo diventa libero (dalla carne o dal peccato). Si trova allora ricondotto allo stato d'innocenza nel quale era l'uomo avanti il peccato d'origine e vede il paradiso terrestre e vede Beatrice (fede e grazia) Con la sua guida sale in paradiso (l'anima nello stato di beatitudine) di grado in grado si leva sino alla conoscenza e amore (contemplazione beatifica) di Dio del sommo Bene e in questa mistica congiunzione dell'umano e del divino si riposa (è beato).

La redenzione della società ha luogo nello stesso modo che degl'individui. La società serva della materia è anarchia discordia sviata dall'ignoranza e dall'errore. E come l'uomo non può ire a pace se non vinca la carne ed ubbidisca alla ragione così la società non può ridursi a concordia se non presti ubbidienza ad un supremo moderatore (l'imperatore) che faccia regnare la legge (la ragione) guida e freno dell'appetito.

Con questo fondo generale si lega tutto lo scibile di quel tempo metafisica morale politica storia fisica astronomia ecc

Il centro intorno a cui gira questa vasta enciclopedia è il problema dell'umana destinazione che si trova in fondo a tutte le religioni e a tutte le filosofie il mistero dell'anima pensiero della letteratura volgare sotto tutte le sue forme. Il problema è posto ed è sciolto cristianamente. L'umanità ha perduto ed ha racquistato il paradiso; questa storia epica di Milton è l'antecedente del problema. L'umanità ha racquistato il paradiso cioè ciascun uomo ha acquistato la forza di salvarsi. Ma in che modo? Qual è la via di salvazione? La Commedia è la risposta a questa domanda la soluzione del problema.

Il cristianesimo ne' primi tempi di fervore rispondea: - L'uomo si salva imitando Cristo che ha salvato l'umanità si salva con l'amore. Bisogna volger le spalle alla vita terrena e seguire Dio lui amare lui contemplare. - Di qui la preminenza della vita contemplativa che Dante chiama eccellentissima e simile alla vita divina. Il che dovea menar dritto alla visione estatica alla comunione tra l'anima e Dio al misticismo tanta parte della letteratura volgare. Gli uomini stanchi del mondo cercavano pace e obblio nei monasteri e nutrivano l'anima del pensiero della morte della meditazione dell'altra vita; i santi Padri esortano spesso i fedeli a volger la mente all'altro mondo; anche oggi le prediche i libri ascetici i libri di preghiera non sono che un continuo “Memento mori”; è famoso il “Pensa anima mia” frase formidabile a cui il lettore vede già in aria venir dietro il giudizio universale e le fiamme dell'inferno. Se le cose di quaggiù sono caduche e “nulla promission rendono intera” se il significato serio della vita è nell'altro mondo se là è il vero è la realtà: l'Iliade il poema della vita è la Commedia la storia dell'altro mondo.

In quei primi tempi la scienza non è necessaria a salute anzi i cristiani menavano vanto della loro ignoranza: “Beati pauperes spiritu”. Avendo per avversari gli uomini più dotti del paganesimo rispondevano ex abundantia cordis con la sicurezza e l'eloquenza della fede la loro lingua di fuoco. Ma questo amore di cuori semplici che spesso umiliava l'orgoglio di una scienza vòta e arida non bastò più appresso. Aristotele dominava nelle scuole; la scienza si era introdotta nella teologia e ne avea fatto un cumulo di sottigliezze: lo stesso misticismo avea preso forme scientifiche divenuto ascetismo scienza della santificazione in Agostino Bernardo e Bonaventura. L'Amore dunque prende un contenuto diviene scienza e la loro unità è la filosofia uso amoroso di sapienza.

La scienza però non contraddice non annulla anzi fortifica e dimostra lo stesso concetto della vita. Anche per Dante la santificazione è posta nella contemplazione; l'oggetto della contemplazione è Dio; la beatitudine è la visione di Dio; al sommo della scala de' beati mette i contemplanti non gli operanti; ma per giungere all'unione con Dio non basta volere bisogna sapere ci vuole la sapienza che è amore e scienza unità del pensiero e della vita. Perciò Virgilio non può esser ragione che non sia anche amore e Beatrice non può esser fede che non sia anche grazia; Dante stesso conosce e vuole a un tempo; ogni suo atto del conoscere mena a un suo atto del volere. L'intelletto è in cima della scala: l'amore dee essere inteso se ne dee avere intelletto.

Tale è la soluzione dantesca. A quattro secoli di distanza il problema si ripresenta ma i termini sono mutati. Il punto di partenza non è più l'ignoranza la selva oscura ma la sazietà e vacuità della scienza l'insufficienza della contemplazione il bisogno della vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell'ignorante e ingenua Margherita; e Fausto non contempla ma opera; anzi il suo male è stato appunto la contemplazione lo studio della scienza e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita. Ma al tempo di san Tommaso la ragione entrava appena nella sua giovinezza; sorgea da lungo ozio curiosa credula acuta tanto più confidente quanto meno esperta della misura di sè e delle cose; le si domandava tutto e prometteva tutto. Dovea ella darci la pietra filosofale del mondo morale la felicità. Lo scopo della scienza non era speculativo solamente ma pratico. Nell'ordine speculativo era già conseguito il suo scopo divenuta per Dante un libro chiuso di cui tutte le pagine sono scritte. Ma la scienza dee operare anche sulla volontà menare a virtù e felicità. E se questo miracolo non era ancora avvenuto se la realtà era tanto disforme alla scienza doveasene recare la cagione secondo Dante e i contemporanei all'ignoranza. Bisognava dunque volgarizzare la scienza darle uno scopo morale drizzarla all'opera. Indi l'importanza che ebbe l'etica e la rettorica la scienza de' costumi e l'arte della persuasione.

I tentativi fatti compreso il Convito furono infelici. Trattandosi di verità da esporre e non da cercare manca lo spirito e l'ardore scientifico manca in tutti anche in Dante. La stessa esposizione non è libera predeterminata da forme scolastiche. Da queste condizioni non potea uscire una letteratura filosofica quella forma propria degli uomini meditativi che ti rivela non solo l'idea ma come in te nasce come la si presenta con esso i sentimenti che l'accompagnano pregna di altre idee le quali per la potenza comprensiva della parola intravvedi ancora senza contorni mobili nasciture. Qui sta la vita superiore della forma filosofica generata immediatamente dal travaglio del pensiero che mette in moto tutte le altre facoltà compresa l'immaginazione. In quei tentativi il contenuto scientifico ci sta non nel punto che tu lo trovi e vi metti sopra la mano ma già trovato divenuto nello spirito un antecedente non esaminato tolto pesolo e grezzo dalla scuola. La terra si manifesta meglio al coltivatore che al proprietario. Dante sa di avere i tali fondi ma non ci va non entra in comunione con quelli non vive della vita de' campi non li lavora li conosce sulla carta. Rimane una proprietà astratta senza effettiva possessione senza assimilazione un mio che non è me non è fatto parte dell'anima mia. Non ci è investigazione e non ci è passione dico la passione che è generata da un amoroso lavoro intellettuale. Il filosofo fora la superficie e si seppellisce nel mondo sotterraneo dove come dice Mefistofele stanno le profonde radici della scienza. Ma qui la scienza è salita sulla superficie e se ne coglie i frutti senza fatica. Tutto è dato la scienza con esso le sue prove e il suo linguaggio; sì che ferme e intangibili le parti superiori della scienza non riman libera che l'ultima e più bassa operazione dell'intelletto distinguere e sottilizzare.

Essendo la scienza base di tutto l'edificio ne seguitò quella falsa poetica di cui è detto. La letteratura solenne e dotta divenne un istrumento della scienza un modo di volgarizzarla. E tenne due vie l'esposizione diretta o l'allegorica. Nè altro fu l'intendimento di Dante nella rappresentazione dell'altro mondo. Come que' filosofi che sotto nome di utopia costruiscono un mondo dove sia realizzato il loro sistema Dante costruisce il mondo allegorico della scienza dove pur trova modo di esporla in forma diretta nelle sue parti sostanziali.

Egli ha aria di dire: - Volete salvarvi l'anima? Venite appresso a me nell'altro mondo; ivi impareremo dalla bocca de' morti la filosofia morale la scienza della salvazione. - E i morti parlano ed espongono la scienza soprattutto in paradiso i cui stalli sembrano convertiti in vere cattedre o pulpiti. Nè la scienza è solo nelle parole de' morti ma anche nella costruzione e rappresentazione dell'altro mondo dove essa è sposta sotto figura in forma allegorica. Il sistema insegue il poeta in mezzo a' suoi fantasmi e dice: - Bada che tu non passeggi per curiosità per osservare e dipingere: il tuo scopo è l'insegnamento della scienza per la salute dell'anima; non ti dimenticare della scienza. - E la poetica gli soggiunge: - Pensa che tutte le tue invenzioni belle che sieno e maravigliose sono nè più nè meno che sciocche bugie quando non rendano odore di scienza: la poesia è un velo sotto il quale si dee nascondere la dottrina. - Ond'è che il poeta costringe la stessa realtà a produrre un contenuto scientifico: dietro la realtà ci è la scienza come dietro l'ombra ci è il corpo; qui la scienza è il corpo e la realtà è l'ombra “ombrifero prefazio del vero” anzi è meno che ombra perchè nell'ombra ci è pure l'immagine del corpo. È l'alfabeto della scienza come la parola è del pensiero un alfabeto composto non di lettere ma di oggetti ciascuno segno della tale e tale idea.

Questi erano i concetti e queste le forme a cui lo spirito era giunto. Perciò quel concetto fondamentale dell'età il mistero dell'anima o dell'umana destinazione non era ancora realizzato come arte; perchè l'arte è realtà vivente che abbia il suo valore e il suo senso in se stessa e qui la scienza in luogo di calare nel reale ed obbliarvisi lo tira e lo scioglie in sè.

Il mistero dell'anima era dunque o rozza e greggia realtà nella letteratura popolare o trattato e allegoria nella letteratura dotta e solenne.

Dante s'impadronì di questo concetto e tentò realizzarlo come arte. Ma ci si mise con le stesse intenzioni e con le stesse forme. Prese quella rozza realtà degli ascetici e volle farne l'ombrifero prefazio del vero l'allegoria della scienza. Da questa intenzione non potea uscir l'arte.

Neppure l'esposizione della scienza in forma diretta è arte. Il poeta che vuole esporre la scienza e vuol pur fare una poesia si propone un problema assurdo voler dare corpo a ciò che per sua natura è fuori del corpo. La poesia si riduce dunque a un puro abbigliamento esteriore non penetra l'idea non se l'incorpora; l'idea rimane invitta nella sua astrazione. Dante spiega in questo assunto tutte le forze della sua immaginazione; nessuno più di lui ha saputo con tanta potenza assalire la scienza nel proprio campo e farle forza; ma questo connubio della poesia e della scienza ch'egli chiama nel Convito un “eterno matrimonio” non è uno di due è un eterno due. La poesia può farle preziosi doni può vestirla sontuosamente ingemmarla girarle attorno carezzevole può abbigliarla non possederla. E la possiede allora solamente quando non la vede più fuori di sè perchè è divenuta la sua vita e anima la realtà.

L'allegoria è una prima forma provvisoria dell'arte. È già la realtà che però non ha valore in se stessa ma come figura il cui senso e il cui interesse è fuori di sè nel figurato oggetto o concetto che sia. E poichè nel figurato ci è qualche cosa che non è nella figura e nella figura ci è qualche cosa che non è nel figurato la realtà divenuta allegorica vi è necessariamente guasta e mutilata. O il poeta le attribuisce qualità non sue ma del figurato come il veltro che si ciba di sapienza e di virtude o esprime di lei solo alcune parti e non perchè sue ma perchè si riferiscono al figurato come il grifone del Purgatorio. In tutti e due i casi la realtà non ha vita propria o per dir meglio non ha vita alcuna: l'interesse è tutto nel figurato nel pensiero. Ora o il pensiero è oscuro e cessa ogni interesse; o è dubbio di maniera che ti si affaccino più sensi e tu rimani sospeso e raffreddato; o è chiaro e lo hai innanzi nella sua generalità senza carattere poetico. La selva è figura della vita terrena. E la vita terrena appunto perchè figurato ti si porge spoglia di ogni particolare per cui e in cui è vita generale e immobile come un concetto. Questo povero figurato è condannato come Pier delle Vigne a guardarsi il suo corpo penzolare innanzi senza che mai sen rivesta; e non propriamente suo perchè quel corpo singolare che chiamasi figura serve a due padroni è sè ed un altro è insieme lettera e figura un corpo a due anime rappresentato in guisa che prima paia se stesso la selva e considerato attentamente mostri in sè le orme di un altro. Talora la figura fa dimenticare il figurato; talora il figurato strozza la figura. Per lo più nel senso letterale penetrano particolari estranei che lo turbano e lo guastano e per volerci procurare un doppio cibo ci si fa stare digiuni.

Adunque in queste forme non ci è ancora arte. La realtà ci sta o come immagine del pensiero astratto ed estrinseco o come figura di un figurato parimente astratto ed estrinseco. Non ci è compenetrazione dei due termini. Il pensiero non è calato nell'immagine; il figurato non è calato nella figura. Hai forme iniziali dell'arte non hai ancora l'arte.

Dante si è messo all'opera con queste forme e con queste intenzioni. Se l'allegoria gli ha dato abilità a ingrandire il suo quadro e a fondere nel mondo cristiano tutta la coltura antica mitologia scienza e storia ha d'altra parte viziato nell'origine questo vasto mondo togliendogli la libertà e spontaneità della vita divenuto un pensiero e una figura una costruzione a priori intellettuale nella sostanza allegorica nella forma.

E se la Commedia fosse assolutamente in questi termini sarebbe quello che fu il Tesoretto prima e il Quadriregio poi grottesca figura d'idee astratte.

Ma dirimpetto a quel mondo della ragione astratta viveva un mondo concreto e reale la cui base era la storia del vecchio e nuovo Testamento nella sua esposizione letterale e allegorica e che nelle allegorie nei misteri nei cantici nelle laude nelle visioni nelle leggende avea avuta già tutta una letteratura. Era la letteratura degli uomini semplici poveri di spirito. A costoro la via a salute era la contemplazione non di esseri allegorici figurativi della scienza ma reali; Dio la Vergine Cristo gli angioli i santi l'inferno il purgatorio il paradiso; ciò che essi chiamavano l'altra vita non figura di questa anzi la sola che essi chiamavano realtà e verità. Il contemplante o il veggente era il santo il profeta l'apostolo banditore della parola di Dio; Dante l'amico della filosofia contemplando il regno divino se ne fa non solo il filosofo ma il profeta e l'apostolo rivelandolo e predicandolo agli uomini; diviene il missionario dell'altro mondo ed è san Pietro che gli apre la bocca e lo investe della sacra missione:

e non asconder quel ch'io non ascondo.

Ora questo mondo cristiano di cui si faceva il profeta era per lui una cosa così seria come per tutt'i credenti seria nel suo spirito e nella sua lettera. Ne parla col linguaggio della scienza lo intravvede attraverso la scienza ma la scienza non lo dissolveva anzi lo illustrava e lo confermava. Supporre che esso fosse una figura una forma trovata per adombrarvi i suoi concetti scientifici è un anacronismo è un correre sino a Goethe. La scienza penetra in questo mondo come ragionamento o come allegoria e spiega la sua costruzione e il suo pensiero a quel modo che il filosofo spiega la natura. E come la natura così l'altro mondo è per Dante più che figura è vivace e seria realtà che ha in se stessa il suo valore e il suo significato.

Nè quel mondo cristiano rimane nella sua generalità religiosa com'è nei cantici nelle prediche e ne' misteri e leggende. Dalla vita contemplativa cala nella vita attiva e si concreta nella vita reale. Essendo la perfezione religiosa nel dispregio de' beni terreni i credenti da Francesco d'Assisi a Caterina non poteano vedere con animo quieto i costumi licenziosi de' chierici e de' frati la corruzione della città santa dove Cristo si mercava ogni giorno il papa divenuto sovrano temporale e dominato da fini e interessi terreni in tresca adultera co' re. Su questo punto i santi sono così severi come Dante; più avean fede e maggiore era l'indignazione. Venendo più al particolare abbiam visto Bonifazio legarsi con Filippo il Bello contro l'imperatore ciò che Dante chiama un adulterio inviare Carlo di Valois a Firenze cacciarne i Bianchi instaurarvi i guelfi. Il guelfismo era allora la Chiesa fatta meretrice del re di Francia che la trasse poco poi in Avignone divenuta pietra di scandalo e aizzatrice di tutte le discordie civili. Come potere e interesse temporale era essa non solo radice e causa della corruzione del secolo ma impedimento alla costituzione stabile delle nazioni e massime d'Italia in quella unità civile o imperiale che rendea immagine dell'unità del regno di Dio. A questo mondo guasto contrapponevano la purezza de' tempi evangelici e primitivi e il vivere riposato e modesto delle città prima che vi entrasse la corruzione e la licenza de' costumi di cui la Chiesa dava il mal esempio.

Come si vede il mondo politico entrava per questa via nel mondo cristiano e ne facea parte sostanziale. La politica non era ancora una scienza con fini e mezzi suoi: era un'appendice dell'etica e della rettorica. E come vita reale il suo modello era il mondo cristiano di cui si ricordava un'immagine pura in tempi più antichi una specie di età dell oro della vita cristiana.

Questo mondo cristiano-politico non era già per Dante una contemplazione astratta e filosofica. Mescolato nella vita attiva egli era giudice e parte. Offeso da Bonifazio sbandito da Firenze errante per il mondo tra speranze e timori fra gli affetti più contrari odio e amore vendetta e tenerezza indignazione e ammirazione con l'occhio sempre volto alla patria che non dovea più vedere in quella catastrofe italiana c'era la sua catastrofe le sue opinioni contraddette la sua vita infranta nel fiore dell'età e offesi i suoi sentimenti di uomo e di cittadino. Le sue meditazioni le sue fantasie mandano sangue. Non è Omero contemplante sereno e impersonale; è lui in tutta la sua personalità vero microcosmo centro vivente di tutto quel mondo di cui era insieme l'apostolo e la vittima.

Se dunque come filosofo e letterato involto nelle forme e ne' concetti dell'età volea costruire un mondo etico o scientifico in forma allegorica come entra in quel mondo non vi trova più la figura. Simile a quel pittore che s'inginocchia innanzi al suo san Girolamo trasformatasi nell'immaginazione la figura nella persona del santo egli cerca la figura e trova una realtà piena di vita trova se stesso.

Oltre a ciò Dante era poeta. Invano afferma che “poeta” vuol dire “profeta” banditore del vero. Sublime ignorante non sapea dov'era la sua grandezza. Era poeta e si ribella all'allegoria. La favola ciò ch'egli chiama “bella menzogna” lo scalda lo soverchia e vi si lascia ir dietro come innamorato nè sa creare a metà arrestarsi a mezza via. Nel caldo dell'ispirazione non gli è possibile starsi col secondo senso innanzi e formar figure mozze che vi rispondano appuntino particolare con particolare accessorio con accessorio come riesce a' mediocri. La realtà straripa oltrepassa l'allegoria diviene se stessa; il figurato scompare in tanta pienezza di vita fra tanti particolari. Indi la disperazione de' comentatori: egli fece il suo mondo e lo abbandonò alle dispute degli uomini.

Per metter d'accordo la sua poetica con la sua poesia Dante sostiene nel Convito che il senso letterale dee essere indipendente dall'allegorico di modo che sia intelligibile per se stesso. Con questa scappatoia si è salvato dalle strette dell'allegoria ed ha conquistato la sua libertà d'ispirazione la libertà e indipendenza delle sue creature. Sia pure l'altro mondo figura della scienza; ma è prima e innanzi tutto l'altro mondo e Virgilio è Virgilio e Beatrice è Beatrice e Dante è Dante e se di alcuna cosa ci dogliamo è quando il secondo senso vi si ficca dentro e sconcia l'immagine e guasta l'illusione.

Sicchè nella Commedia come in tutt'i lavori d'arte si ha a distinguere il mondo intenzionale e il mondo effettivo ciò che il poeta ha voluto e ciò che ha fatto. L'uomo non fa quello che vuole ma quello che può. Il poeta si mette all'opera con la poetica le forme le idee e le preoccupazioni del tempo; e meno è artista più il suo mondo intenzionale è reso con esattezza. Vedete Brunetto e Frezzi. Ivi tutto è chiaro logico e concorde: la realtà è una mera figura. Ma se il poeta è artista scoppia la contraddizione vien fuori non il mondo della sua intenzione ma il mondo dell'arte.

Come l'argomento siasi affacciato a Dante non è chiaro. Le memorie secrete del genio non sono scritte ancora e mal si può indovinare da quello che è espresso quello che è preceduto nello spirito d'un autore. È difficile far la geologia di un lavoro d'arte trovare nel definitivo le tracce del provvisorio. È probabile che la Commedia sia stata vagamente concepita fin dalla giovinezza ad imitazione di quelle “commedie dell'anima” di quelle visioni dell'altra vita così in voga; e che dapprima il poeta pensasse solo alla glorificazione di Beatrice e alla rappresentazione pura e semplice dell'altro mondo; e forse de' frammenti e anche de' canti furono scritti prima che un disegno ben chiaro e concorde gli entrasse in mente. Questo è il tempo oscuro alla critica e altamente drammatico il tempo de' tentennamenti del silenzioso contendere con se stesso degli abbozzi del va e vieni storia intima del poeta. Il quale quando gli si mostra l'argomento vede per prima cosa dissolversi quella parte di realtà che vi risponde fluttuante come in una massa di vapori guardata da alto dove gli alberi i campanili i palazzi tutte le figure si decompongono e si offrono a frammenti. Chi non ha la forza di uccidere la realtà non ha la forza di crearla. Ma sono frammenti già penetrati di virtù attrattiva amorosi che si cercano si congregano con desiderio con oscuro presentimento della nuova vita a cui sono destinati. La creazione comincia veramente quando quel mondo tumultuario e frammentario trovi un centro intorno a cui stringersi. Allora esce dall'illimitato che lo rende fluttuante e prende una forma stabile; allora nasce e vive cioè si sviluppa gradatamente secondo la sua essenza. Ora il mondo dantesco trovò la sua base nella idea morale.

La idea morale non è concetto arbitrario ed estrinseco all'argomento è insito nell'altro mondo è il suo concetto; perchè senza di quella l'altro mondo non ha ragion d'essere. La base dunque è vera è nell'argomento; e se difetto c'è il difetto è nella natura dell'argomento. Ma Dante meditandovi sopra e non come poeta ma come filosofo valicò l'argomento. Non è contento che la ci sia ma la mostra e la spiega. E non si contenta neppure di questo. Quella idea diviene la filosofia tutto un sistema di concetti ben coordinato e non è più la base il senso interiore dell'altro mondo a quel modo che lo spirito è nella natura ma è essa il contenuto essa l'argomento essa lo scopo. Così quella vivace realtà si va ad evaporare in una generalità filosofica e il lavoro diviene un insegnamento morale-politico sotto il velo dell'altro mondo. Il poeta spontaneo e popolare si volta nel poeta dotto e solenne. Descrivere l'altro mondo così alla semplice e nel suo senso immediato gli pare un frivolo passatempo la maniera de' narratori volgari. La lettera ci è ma è per i profani per gli uomini semplici che non vedono di là dell'apparenza. Ma egli scrive per gl'iniziati per gl'intelletti sani e loro raccomanda di non fermarsi alla corteccia di guardare di là! E tutti si son messi a guardare di là.

Così sono nati due mondi danteschi uno letterale e apparente l'altro occulto la figura e il figurato. E poichè l'interesse è in questo senso occulto in questo di là i dotti si son messi a cercarlo. L'hanno cercato e non l'hanno trovato e dopo tante dispute e vane congetture esce infine il buon senso esce Voltaire e dice: “Gl'italiani lo chiamano divino ma è una divinità occulta; pochi intendono i suoi oracoli; la sua fama si manterrà sempre perchè nessuno lo legge”. E Voltaire vuol dire: - Abbiamo sudato parecchi secoli per capirti; e poichè non ti vuoi far capire statti con Dio -. E vuol dire ancora: - Ne val poi la pena? È una falsa divinità quella che rimane nascosta -. Pure nè il veto del Voltaire valse ad arrestare le ricerche nè il suo disprezzo ad intiepidire l'ammirazione. Con nuovo ardore italiani e stranieri si misero a interpretare questo Giano a due facce o piuttosto a due mondi l'uno visibile e l'altro invisibile; ciascuno si provò ad alzare un lembo del velo di cui si è ravvolto il dio. Ma nè acutezza d'ingegno nè copia di dottrina nè profonda conoscenza di quei tempi nè studio paziente delle altre sue opere hanno potuto trarci fuori delle ipotesi e delle congetture. Gli antichi interpreti dissentivano ne' particolari; il dissenso de' moderni è più profondo: hai interi sistemi che si confutano a vicenda. Oggi ancora non si pubblica un Dante in Germania che non ci si appicchino nuove spiegazioni; non puoi leggere una critica della Commedia che non ti trovi ingolfato in un pelago di quistioni. Dante è divenuto un nome che spaventa irto di sillogismi e soprasensi e spesso sei ridotto a domandarti: - Qual è il vero Dante? - Poichè ciascun comentatore ha il suo ciascuno gli appicca le opinioni e passioni sue e lo fa cantare a suo modo e chi ne fa un apostolo di libertà di umanità di nazionalità chi un precursore di Lutero chi un santo Padre. Cercano Dante dove non è cercano i suoi pregi dove sono i suoi difetti e qual maraviglia che il Lamartine alla sua volta cercandolo colà e non vel trovando si sia affrettato a conchiudere: “Dunque Dante non esiste”? Io ne conchiudo: - Poichè non è là cerchiamolo altrove. - La grandezza del dio non è nel santuario ma là dove si mostra con tanta pompa al di fuori. A forza di cercar maraviglie in un mondo ipotetico non vediamo quelle che ci si affacciano innanzi. Parlando a coro della dignità della Commedia e de' veri e del senso arcano si è data una importanza fattizia a questo mondo intellettuale-allegorico se non fosse per altro per la fatica che ci si è spesa. Se Dante tornasse in vita sentendo a dire che Beatrice è l'eresia o la sua anima che le arpie sono i monaci domenicani che Lucifero è il papa che il suo vocabolario è un gergo settario e vedendo quanti sensi occulti gli sono affibbiati potrebbe a più d'uno tirargli le orecchie e dire: - Cotesto “arri” non ci misi io -. Ma gli si potrebbe rispondere: - Vostra colpa: perchè non siete stato più chiaro? Ci avete promessa un'allegoria: perchè non ci avete data un'allegoria? La vostra figura non risponde appuntino al figurato: perchè l'avete fatta sì bella? Perchè le avete data tanta realtà? In tanta ricchezza di particolari dove o come trovare l'allegoria? E qual maraviglia che la stessa figura significhi una per me e una per voi? Qual maraviglia che nella stessa figura si trovi di che provare la verità di tre o quattro interpretazioni? E ci fosse solo un senso! Ma ci fate sapere che oltre all'allegorico ci è il senso morale e l'anagogico: dove trovare il bandolo? I vostri ascetici gridano che il corpo è un velo dello spirito: ma il peccatore fa di cappello allo spirito e adora la carne. E anche voi gridate che i versi sono un velo della dottrina; e come il peccatore piantate lì il figurato e correte appresso alla figura e la fate così impolpata così corpulenta che è un velo denso e fitto di là dal quale non si vede nulla e perciò si vede tutto quello che intendete voi e quello che intendiamo noi. Se dunque la vostra allegoria è come l'ombra di Banco messa tra voi e noi che ci toglie la vostra vista se il vostro poema è divenuto un immenso geroglifico un mondo ignoto alla cui scoperta si son messi infruttuosamente molti Colombi; di chi è la colpa? Non è forse della vostra poca logica che altro intendete e altro fate? - Rimproveri che sono un elogio.

Così è. Dante è stato illogico; ha fatto altra cosa che non intendeva. Ciascuno è quello che è anche a suo dispetto anche volendo essere un altro. Dante è poeta e avviluppato in combinazioni astratte trova mille aperture per farvi penetrare l'aria e la luce. Tratto ad una falsa concezione dal vezzo de' tempi valica l'argomento e si trova in un mondo di puri concetti e fa di questi la sua intenzione e si tira appresso tutta la realtà e ne vuol fare la figura de' suoi concetti. Ma come attinge il reale ivi sente se stesso ivi genera ivi l'ingegno trova la sua materia; quelle figure prendono corpo acquistano una vita propria; e le diresti creature libere e indipendenti se quella benedetta intenzione non vi fosse rimasa attaccata come una palla di piombo impacciando a volta a volta i loro movimenti. Così quel mondo intenzionale tanto caro al poeta si è ito come nebbia dissipando innanzi alla luce del mondo reale solo rimasto vivo. Tutto l'altro è l'astratto di quel mondo è il lavoro oltrepassato: non è la Commedia è il suo di là la sua nebbia che pur penetra qua e là e lascia delle grandi ombre che gl'interpreti dilatano e trasformano in una sola e vasta ombra. A quel modo che i geologi scoprono i vestigi di forme imperfette che attestano la lenta e progressiva formazione della materia qui si discernono i frammenti di un mondo prosaico intellettuale allegorico scissi isolati sterili più o meno tollerabili secondo la maggiore o minore abilità dell'esposizione inviluppati in una forma più alta alla quale il genio sospinge il poeta attraverso gli errori della sua poetica. I quali frammenti sono i fossili della Commedia morti già da gran tempo vivi solo agli eruditi i geologi della letteratura; e se la loro morte non ha potuto seco involgere il rimanente gli è che il vero lavoro è in questo rimanente dotato di una vita così fresca e tenace che distende un po' di sua luce anche sulle parti morte. Quel contenuto astratto vive in grazia del mondo in cui si trova entrato: spiccatenelo isolatelo e non se ne parlerebbe più.

Che cosa è dunque la Commedia? È il medio evo realizzato come arte malgrado l'autore e malgrado i contemporanei. E guardate che gran cosa è questa! Il medio evo non era un mondo artistico anzi era il contrario dell'arte. La religione era misticismo la filosofia scolasticismo. L'una scomunicava l'arte abbruciava le immagini avvezzava gli spiriti a staccarsi dal reale. L'altra viveva di astrazioni e di formole e di citazioni drizzando l'intelletto a sottilizzare intorno a' nomi e alle vacue generalità che si chiamavano “essenze”. Gli spiriti erano tirati verso il generale più disposti a idealizzare che a realizzare: ciò che è proprio il contrario dell'arte. Ne' poeti semplici trovi il reale rozzo senza formazione come ne' misteri nelle visioni nelle leggende. Ne' poeti solenni trovi una forma o crudamente didascalica o figurativa e allegorica. L'arte non era nata ancora. C'era la figura; non c'era la realtà nella sua libertà e personalità.

Dante raccoglie da' misteri la Commedia dell'anima e fa di questa storia il centro di una sua visione dell'altro mondo. Tutta questa rappresentazione non è che senso letterale; la visione è allegorica i personaggi sono figure e non persone; ma ciò che è attivo nel suo spirito lo porta verso la figura e non verso il figurato. La sua natura poetica tirata per forza nelle astrattezze teologiche e scolastiche ricalcitra e popola il suo cervello di fantasmi e lo costringe a concretare a materializzare a formare anche ciò che è più spirituale e impalpabile anche Dio. Quel mondo letterale lo ammalia lo perseguita lo assedia e non posa che non abbia ricevuta la sua forma definitiva; e non è più lettera ma è spirito non è più figura ma è realtà è un mondo in sè compiuto e intelligibile perfettamente realizzato. Visione e allegoria trattato e leggenda cronache storie laude inni misticismo e scolasticismo tutte le forme in questo gran mistero dell'anima o dell'umanità poema universale dove si riflettono tutt'i popoli e tutti i secoli che si chiamano il “medio evo”.

Ma questo mondo artistico uscito da una contraddizione tra l'intenzione del poeta e la sua opera non è compiutamente armonico non è schietta poesia. La falsa coscienza poetica disturba l'opera di quella geniale spontaneità e vi gitta dentro un tentennare un non so che di mal sicuro e di non compiuto una mescolanza e crudezza di colori. Il pensiero ora nella sua crudità scolastica ora abbellito d'immagini che pur non bastano a vincere la sua astrattezza vi ha troppo gran parte. Le sue figure allegoriche ricordano talora più i mostri orientali che la schietta bellezza greca personificazioni astratte anzi che persone conscie e libere. Preoccupato del secondo senso che ha in mente spesso gli escono particolari estranei alla figura che turbano e distraggono il lettore e gli rompono l'illusione. La presenza perenne di un altro senso che aleggia al di sopra della rappresentazione ed introducevisi a quando a quando ne turba la chiarezza e l'armonia. Anche lo stile inviluppato alcuna volta in rapporti lontani e sottili perde la sua lucidità e riesce intralciato e torbido. Non è un tempio greco: è un tempio gotico pieno di grandi ombre dove contrari elementi pugnano non bene armonizzati. Or rozzo or delicato. Ora poeta solenne or popolare. Ora perde di vista il vero e si abbandona a sottigliezze ora lo intuisce rapidamente e lo esprime con semplicità. Ora rozzo cronista ora pittore finito. Ora si perde nelle astrattezze ora di mezzo a quelle fa germogliare la vita. Qui cade in puerilità là spicca il volo a sopraumane altezze. Mentre tien dietro a un sillogismo brilla la luce dell'immagine. E mentre teologizza scoppia la fiamma del sentimento. Talora ti trovi innanzi ad una fredda allegoria quando tutto ad un tratto vi senti dentro tremare la carne. Talora la sua credulità ti fa sorridere talora la sua audacia ti fa stupire. Fu un piccolo mondo dove si rifletteva tutta l'esistenza com'era allora. I contrari elementi che fermentavano in una società ancora nello stato di formazione contendevano in lui. E senza che ne avesse coscienza. Se guardi alle sue aspirazioni tutto è armonia. Filosofo pensa il regno della scienza e della virtù. Cristiano contempla il regno di Dio. Patriota sospira al regno della giustizia e della pace. Poeta vagheggia una forma tutta luce e proporzione e armonia lo bello stile: il suo autore è Virgilio. Maggiore era la barbarie e la rozzezza e più si vagheggiava un mondo armonico e concorde. Ma il poeta è inviluppato egli medesimo in quella rozza realtà e in quelle forme discordi; e ne sente la puntura e gli manca la serenità dell'artista. E gli esce dalla fantasia un mondo dell'arte in gran parte realizzato ma dove pur trovi gli angoli e le scabrosità di una materia non perfettamente doma.

Entriamo in questo mondo e guardiamolo in se stesso e interroghiamolo. Perchè un argomento non è tabula rasa dove si può scrivere a genio ma è marmo già incavato e lineato che ha in sè il suo concetto e le leggi del suo sviluppo. La più grande qualità del genio è d'intendere il suo argomento e diventare esso risecando da sè tutto ciò che non è quello. Bisogna innamorarsene vivere ivi dentro essere la sua anima o la sua coscienza E parimente il critico in luogo di porsi innanzi regole astratte; e giudicare con lo stesso criterio la Commedia e l'Iliade e la Gerusalemme e il Furioso dee studiare il mondo formato dal poeta interrogarlo indagare la sua natura che contiene in sè virtualmente la sua poetica cioè le leggi organiche della sua formazione il suo concetto la sua forma la sua genesi il suo stile. Che cosa è l'altro mondo?

È il problema dell'umana destinazione sciolto è il mistero dell'anima spiegato è la fine della storia umana il mondo perfetto l'eterno presente l'immutabile necessità. Nella natura non ci è più accidente nell'uomo non ci è più libertà. La natura è predeterminata e fissata secondo una logica preconcetta secondo l'idea morale. Reale e ideale diventano identici apparenza e sostanza è tutt'uno. L'uomo non ha più libero arbitrio: è lì fissato e immobilizzato come natura. Ogni azione è cessata; ogni vincolo che lega gli uomini in terra è sciolto: patria famiglia ricchezze dignità costumi. Non c'è più successione nè sviluppo non principio e non fine: manca il racconto e manca il dramma. L'individuo scompare nel genere. Il carattere la personalità non ha modo di manifestarsi. Eterno dolore eterna gioia senza eco senza varietà senza contrasto nè gradazione. Non ci è epopea perchè manca l'azione; non ci è dramma perchè manca la libertà; la lirica è l'immutabile e monotona espressione di una sola aria; rimane l'esistenza nella sua immobile estrinsechezza descrizione della natura e dell'uomo.

Che cosa è dunque l'altro mondo per rispetto all'arte? È visione contemplazione descrizione una storia naturale.

Ma in questa visione penetra la leggenda o il mistero perchè ivi dentro è rappresentata la commedia o redenzione dell'anima nel suo pellegrinaggio dall'umano al divino “di Fiorenza in popol giusto e sano”. Ci hai dunque l'apparenza di un dramma che si svolge nell'altro mondo i cui attori sono Dante Virgilio Catone Stazio il demonio Matilde Beatrice san Pietro san Bernardo la Vergine Dio dramma allegorico come allegorica è la Commedia dell'anima. Dico apparenza di un dramma perchè la santificazione nasce non dall'operare ma dal contemplare e Dante contempla non opera e gli altri mostrano insegnano. Il dramma dunque svanisce nella contemplazione.

Questo mondo così concepito era il mondo de' misteri e delle leggende divenuto mondo teologico-scolastico in mano a' dotti. Dante lo ha realizzato gli ha dato l'esistenza dell'arte ha creato quella natura e quell'uomo. E se il suo mondo non è perfettamente artistico il difetto non è in lui ma in quel mondo dove l'uomo è natura e la natura è scienza e da cui è sbandito l'accidente e la libertà i due grandi fattori della vita reale e dell'arte.

Se Dante fosse frate o filosofo lontano dalla vita reale vi si sarebbe chiuso entro e non sarebbe uscito da quelle forme e da quell'allegoria. Ma Dante entrando nel regno de' morti vi porta seco tutte le passioni de' vivi si trae appresso tutta la terra. Dimentica di essere un simbolo o una figura allegorica ed è Dante la più potente individualità di quel tempo nella quale è compendiata tutta l'esistenza com'era allora con le sue astrattezze con le sue estasi con le sue passioni impetuose con la sua civiltà e la sua barbarie. Alla vista e alle parole di un uomo vivo le anime rinascono per un istante risentono l'antica vita ritornano uomini; nell'eterno ricomparisce il tempo; in seno dell'avvenire vive e si muove l'Italia anzi l'Europa di quel secolo. Così la poesia abbraccia tutta la vita cielo e terra tempo ed eternità umano e divino; ed il poema soprannaturale diviene umano e terreno con la propria impronta dell'uomo e del tempo. Riapparisce la natura terrestre come opposizione o paragone o rimembranza. Riapparisce l'accidente e il tempo la storia e la società nella sua vita esterna ed interiore; spunta la tradizione virgiliana con Roma capitale del mondo e la monarchia prestabilita ed entro a questa magnifica cornice hai come quadro la storia del tempo Bonifazio ottavo Roberto Filippo il Bello Carlo di Valois i Cerchi e i Donati la nuova e l'antica Firenze la storia d'Italia e la sua storia le sue ire i suoi odii le sue vendette i suoi amori le sue predilezioni.

Così la vita s'integra l'altro mondo esce dalla sua astrazione dottrinale e mistica cielo e terra si mescolano sintesi vivente di questa immensa comprensione Dante spettatore attore e giudice. La vita guardata dall'altro mondo acquista nuove attitudini sensazioni e impressioni. L'altro mondo guardato dalla terra veste le sue passioni e i suoi interessi. E n'è uscita una concezione originalissima una natura nuova e un uomo nuovo. Sono due mondi onnipresenti in reciprocanza d'azione che si succedono si avvicendano s'incrociano si compenetrano si spiegano e s'illuminano a vicenda in perpetuo ritorno l'uno nell'altro. La loro unità non è in un protagonista nè in un'azione nè in un fine astratto ed estraneo alla materia ma è nella stessa materia; unità interiore e impersonale vivente indivisibile unità organica i cui momenti si succedono nello spirito del poeta non come meccanico aggregato di parti separabili ma penetranti gli uni negli altri e immedesimantisi com'è la vita. Questa energica e armoniosa unità è nella natura stessa de' due mondi materialmente distinti ma una cosa nell'unità della coscienza. Cielo e terra sono termini correlativi l'uno non è senza l'altro; il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale; ogni uomo porta seco il suo inferno e il suo paradiso; ogni uomo chiude nel suo petto tutti gli dei d'Olimpo: lo scettico può abolire l'inferno non può abolir la coscienza. Appunto perchè i due mondi sono la vita stessa nelle sue due facce in seno a questa unità si sviluppa il più vivace dualismo anzi antagonismo: l'altro mondo rende i corpi ombre ombre gli affetti e le grandezze e le pompe ma in quelle ombre freme ancora la carne trema il desiderio suonano d'imprecazioni terrene fino le tranquille vòlte del cielo. Gli uomini con esso le loro passioni e vizi e virtù rimangono eterni come statue in quell'attitudine in quella espressione di odio di sdegno di amore che sono stati colti dall'artista; ma mentre l'altro mondo eterna la terra trasportandola nel suo seno e ponendole dirimpetto l'immagine dell'infinito ne scopre il vano e il nulla: gli uomini sono gli stessi in un diverso teatro che è la loro ironia. Questa unità e dualità uscente dall'imo stesso della situazione balena al di fuori nelle più varie forme ora in un'apostrofe ora in un discorso ora in un gesto ora in un'azione ora nella natura ora nell'uomo. In questa unità penetra la più grande varietà nè è facile trovare un lavoro artistico in cui il limite sia così preciso e così largo. Niente è nell'argomento che costringa il poeta a preferire il tal personaggio il tal tempo la tale azione: tutta la storia tutti gli aspetti sotto a' quali si è mostrata l'umanità sono a sua scelta; e può abbandonarsi a suo talento alle sue ire e alle sue opinioni e può intramettere nello scopo generale fini particolari senza che ne scapiti l'unità. Il che dà al suo universo compiuta realità poetica veggendosi nella permanente unità tutto ciò che sorge e dalla libertà dell'umana persona e dall'accidente e moversi con vario gioco tutt'i contrasti e il necessario congiunto col libero arbitrio e il fato col caso.

Adunque che poesia è codesta? Ci è materia epica e non è epopea; ci è una situazione lirica e non è lirica; ci è un ordito drammatico e non è dramma. È una di quelle costruzioni gigantesche e primitive vere enciclopedie bibbie nazionali non questo o quel genere ma il tutto che contiene nel suo grembo ancora involute tutta la materia e tutte le forme poetiche il germe di ogni sviluppo ulteriore. Perciò nessun genere di poesia vi è distinto ed esplicato: l'uno entra nell'altro l'uno si compie nell'altro. Come i due mondi sono in modo immedesimati che non puoi dire: - Qui è l'uno e qui è l'altro -; così i diversi generi sono fusi di maniera che nessuno può segnare i confini che li dividono nè dire: - Questo è assolutamente epico e questo è drammatico. -

È il contenuto universale di cui tutte le poesie non sono che frammenti il “poema sacro” l'eterna geometria e l'eterna logica della creazione incarnata ne' tre mondi cristiani: la città di Dio dove si riflette la città dell'uomo in tutta la sua realtà del tal luogo e del tal tempo; la sfera immobile del mondo teologico entro di cui si movono tempestosamente tutte le passioni umane.

L'idea che anima la vasta mole e genera la sua vita e il suo sviluppo è il concetto di salvazione la via che conduce l'anima dal male al bene dall'errore al vero dall'anarchia alla legge dal molteplice all'uno. È il concetto cristiano e moderno dell'unità di Dio sostituita alla pluralità pagana. Questo concetto se fosse solo un di fuori spiegato nella sua astrattezza dottrinale come pensiero o rappresentato in forma allegorica come figurato non basterebbe a generare un'opera d'arte. Ma qui è non solo il di fuori ma il di dentro non solo il significato e la scienza di quel mondo opera di filosofo e di critico ma principio attivo com'è nell'uomo e nella natura che costruisce e forma quel mondo e gli dà una storia e uno sviluppo. Questo principio attivo se nella sua astrattezza si può chiamare il vero o il bene o la virtù o la legge come realtà viva e operosa è lo spirito che ha per suo contrario la materia o la carne dove sta come in una prigione o in un “vasello” da cui si sforza di uscire. La vita è perciò un antagonismo una battaglia tra lo spirito e la carne tra Dio e il demonio. E la sua storia è la progressiva vittoria dello spirito la costui consapevolezza e libertà sotto le forme in cui vive il suo successivo assottigliarsi e scorporarsi e idealizzarsi sino a Dio assoluto spirito la Verità la Bontà l'Unità l'ultimo Ideale. Il concetto dantesco lo spirito che alita per entro al suo mondo è dunque la progressiva dissoluzione delle forme un costante salire di carne a spirito l'emancipazione della materia e del senso mediante l'espiazione e il dolore la collisione tra il satanico e il divino l'inferno e il paradiso posta e sciolta. Omero trasporta gli dèi in terra e li materializza; Dante trasporta gli uomini nell'altro mondo e li spiritualizza. La materia vi è parvenza; lo spirito solo è; gli uomini sono ombre; i fatti umani si riproducono come fantasmi innanzi alla memoria; la terra stessa è una rimembranza che ti fluttua avanti come una visione; il reale il presente è l'infinito spirito; tutto l'altro è “vanità che par persona”. Questo assottigliamento è progressivo: il velo si fa sempre più trasparente. L'Inferno è la sede della materia il dominio della carne e del peccato; il terreno vi è non solo in rimembranza ma in presenza; la pena non modifica i caratteri e le passioni; il peccato il terrestre si continua nell'altro mondo e s'immobilizza in quelle anime incapaci di pentimento: peccato eterno pena eterna. Nel Purgatorio cessano le tenebre e ricomparisce il sole la luce dell'intelletto lo spirito; il terreno è rimembranza penosa che il penitente si studia di cacciar via e lo spirito sciogliendosi dal corporeo si avvia al compiuto possesso di sè alla salvazione. Nel Paradiso l'umana persona scomparisce e tutte le forme si sciolgono ed alzano nella luce; più si va su e più questa gloriosa trasfigurazione s'idealizza insino a che al cospetto di Dio dell'assoluto spirito la forma vanisce e non rimane che il sentimento:

Questo concetto comprende tutto lo scibile e tutta la storia; non solo costruisce e sviluppa il mondo dantesco ma lo incontrate sempre vivo nel cammino intellettuale e storico della vita sotto tutte le forme in tutte le quistioni che si affacciano al poeta in religione in filosofia in politica in morale e così si concreta e compie in tutti gl'indirizzi della vita. In religione è il cammino dalla lettera allo spirito dal simbolo all'idea dal vecchio al nuovo Testamento; nella scienza dall'ignoranza e dall'errore alla ragione e dalla ragione alla rivelazione; in morale dal male al bene dall'odio all'amore mediante l'espiazione; in politica dall'anarchia all'unità. Sottoposto alle condizioni di spazio e di tempo diventa storia: il tale uomo il tale popolo il tale secolo. In religione vi sta innanzi la Chiesa romana il papato che il poeta vuole emancipare dalle cure e passioni terrene e ricondurre al suo fine spirituale; in filosofia avete la scienza volgare e la scienza della verità in paradiso; in morale vi stanno innanzi le passioni le discordie le colpe e i vizi della barbara età dalle quali vi sentite a poco a poco allontanare nel vostro cammino verso il sommo bene; in politica è l'Italia anarchica e sanguinosa che il poeta aspira a comporre a pace e concordia nell'unità dell'impero. Così un solo concetto penetra il tutto come forma come pensiero e come storia. Mai più vasta e concorde comprensione non era uscita da mente di uomo. Alcuni ci vedono dentro l'altro mondo e il resto è una intrusione e quasi una profanazione; Edgardo Quinet rimane choqué veggendo come le passioni del poeta lo inseguono fino in paradiso; altri ci veggono un mondo politico di cui quello sia la rappresentazione sotto figura. Chiamano questo poema o “religioso” o “politico” o “didascalico” o “morale” lo riducono a querele di cattolici e protestanti a dispute di guelfi e ghibellini. Guardano non dall'alto del monte dalla pianura e prendono per il tutto quello che incontrano nella diritta linea del loro cammino. Ciascuno si fabbrica un piccolo mondo e dice: - Questo è il mondo di Dante. - E il mondo di Dante contiene tutti quei mondi in sè. È il mondo universale del medio evo realizzato dall'arte.

Questa immensa materia si forma e si sviluppa secondo il concetto in tre mondi de' quali l'inferno e il paradiso sono le due forze in antagonismo carne e spirito odio e amore e il purgatorio è il termine medio o di passaggio: tre mondi de' quali la letteratura non offriva che povere e rozze indicazioni e che escono dalla fantasia dantesca vivi e compiuti.

L'inferno è il regno del male la morte dell'anima e il dominio della carne il caos: esteticamente è il brutto.

Dicesi che il brutto non sia materia d'arte e che l'arte sia rappresentazione del bello. Ma è arte tutto ciò che vive e niente è nella natura che non possa esser nell'arte. Non è arte quello solo che ha forma difettiva o in sè contraddittoria cioè l'informe o il deforme o il difforme: e perciò non è arte il confuso l'incoerente il dissonante il manierato il concettoso l'allegorico l'astratto il generale il particolare: tutto questo non è vivo è abbozzo o aborto di artisti impotenti. L'altro bello o brutto che si chiami in natura esteticamente è sempre bello.

In natura il brutto è la materia abbandonata a' suoi istinti senza freno di ragione: e ne nasce una vita che ripugna alla coscienza morale e al senso estetico. Alla sua vista il poeta vede negata la sua coscienza negato se stesso e perciò lo concepisce come brutto e gli dice: - Tu sei brutto. - Più il suo senso morale ed estetico è sviluppato e più la sua impressione è gagliarda più lo vede vivo e vero innanzi alla immaginazione. Perciò non pensa a palliarlo e tanto meno ad abbellirlo anzi lo pone in evidenza e lo ritrae co' suoi propri colori.

Il brutto è elemento necessario così nella natura come nell'arte; perchè la vita è generata appunto da questa contraddizione tra il vero e il falso il bene e il male il bello e il brutto. Togliete la contraddizione e la vita si cristallizza. Verità così palpabile che le immaginazioni primitive posero della vita due princìpi attivi il bene e il male l'amore e l'odio Dio e il demonio; antagonismo che si sente in tutte le grandi concezioni poetiche. Perciò il brutto così nella natura come nell'arte ci sta con lo stesso dritto che il bello e spesso con maggiori effetti per la contraddizione che scoppia nell'anima del poeta. Il bello non è che se stesso; il brutto è se stesso e il suo contrario ha nel suo grembo la contraddizione perciò ha vita più ricca più feconda di situazioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il brutto riesca spesso nell'arte più interessante e più poetico. Mefistofele è più interessante di Fausto e l'inferno è più poetico del paradiso.

Dante concepisce l'inferno come la depravazione dell'anima abbandonata alle sue forze naturali passioni voglie istinti desidèri non governati dalla ragione o dall'intelletto; contraddizione ch'egli esprime con l'energia di uomo offeso nel suo senso morale:

L'anima è dannata in eterno per la sua eterna impenitenza; peccatrice in vita peccatrice ancor nell'inferno salvo che qui il peccato è non in fatto ma in desiderio. Onde nell'inferno la vita terrena è riprodotta tal quale essendo il peccato ancor vivo e la terra ancora presente al dannato. Il che dà all'inferno una vita piena e corpulenta la quale spiritualizzandosi negli altri due mondi diviene povera e monotona. Gli è come un andare dall'individuo alla specie e dalla specie al genere. Più ci avanziamo e più l'individuo si scarna e si generalizza. Questa è certo perfezione cristiana e morale ma non è perfezione artistica. L'arte come la natura è generatrice e le sue creature sono individui non specie o generi non tipi o esemplari; sono res non species rerum Perciò l'inferno ha una vita più ricca e piena ed è de' tre mondi il più popolare. Aggiungi che la vita terrena o infernale è colta dal poeta nel vivo stesso della realtà in mezzo a cui si trova essendo essa la rappresentazione epica della barbarie nella quale il rigoglio della passione e la sovrabbondanza della vita trabocca al di fuori. Dante stesso è un barbaro un eroico barbaro sdegnoso vendicativo appassionatissimo libera ed energica natura. Al contrario la vita negli altri due mondi non ha riscontro nella realtà ed è di pura fantasia cavata dall'astratto del dovere e del concetto e ispirata dagli ardori estatici della vita ascetica e contemplativa.

Essendo l'inferno il regno del male o della materia in se stessa e ribelle allo spirito la legge che regola la sua storia o il suo sviluppo è un successivo oscurarsi dello spirito insino alla sua estinzione alla materia assoluta.

Il suo punto di partenza è l'indifferente l'anima priva di personalità e di volontà il negligente. Il carattere qui è il non averne alcuno. In questo ventre del genere umano non è peccato nè virtù perchè non è forza operante: qui non è ancora inferno ma il preinferno il preludio di esso. Ma se moralmente considerati i negligenti tengono il più basso grado nella scala de' dannati e paiono a Dante “sciaurati” più che peccatori il concetto morale rimane estrinseco alla poesia e non serve che a classificare i dannati. Altri sono i criteri del poeta. La morale pone i negligenti sul limitare dell'inferno la poesia li pone più giù dell'ultimo scellerato che Dante stima più di questi mezzi uomini. E la poesia è d'accordo con la tempra energica del gran poeta e de' suoi contemporanei. A quegli uomini vestiti di ferro anima e corpo questi esseri passivi e insignificanti doveano ispirare il più alto dispregio. E il dispregio fa trovare a Dante frasi roventi. Sono uomini che vissero senza infamia e senza lode” anzi “non fur mai vivi”. La loro pena è di essere stimolati continuamente essi che non sentirono stimolo alcuno nel mondo. La pena è minima eppure tale è la loro fiacchezza morale sono così vinti nel “duolo” che lacrimano e gettano le alte strida che fanno tumultuare l'aria

come la rena quando il turbo spira.

 

A' loro piedi è la loro immagine il verme. Turba infinita senza nome: appena accenna ad un solo e senza nominarlo

 

colui che fece per viltate il gran rifiuto

 

Il loro supplizio è la coscienza della loro viltà il sentirsi dispregiati cacciati dal cielo e dall'inferno. Ritratto immortale e popolarissimo di cui alcuni tratti sono rimasti proverbiali. Esseri poetici appunto perchè assolutamente prosaici la negazione della poesia e della vita: onde nasce il sublime negativo degli ultimi tre versi:

 

Se i negligenti non sono nell'inferno perchè mancò loro la forza del bene e del male gl'innocenti e i virtuosi non battezzati non sono in paradiso perchè mancò loro la fede sono nel Limbo. E anche qui il concetto teologico ci sta per memoria per semplice classificazione. La poesia nasce da altre impressioni e da altri criteri. Il valore poetico dell'uomo non è nella sua moralità e nella sua fede ma nella sua energia vitale; non è una idea ma una forza il personaggio poetico. Perciò il negligente considerato esteticamente è un sublime negativo la negazione della forza il non esser vivo. E perciò qui nel Limbo la mancanza di fede è un semplice accessorio e l'interesse è tutto nel valore intrinseco dell'uomo come essere vivo come forza. Dio ha lo stesso criterio poetico e dà ad alcuni un luogo distinto non per la loro maggiore bontà ma per la fama che loro acquistò in terra la grandezza dell'ingegno e delle opere:

Concetto poco ascetico e poco ortodosso; ma Dio si fa poeta con Dante e gli fabbrica un Eliso pagano un pantheon di uomini illustri. E chi vuol trovare le impressioni di Dante quando alzava questo magnifico tempio della storia e della coltura antica e le impressioni che ne dovettero ricevere i contemporanei ricordi le sue impressioni quando giovinetto su' banchi della scuola gli si affacciavano le maraviglie di questo mondo greco-latino. Aristotile Omero Virgilio Cesare Bruto ciascuno di questi nomi quante memorie quante fantasie suscitava! Nudo è qui un elenco di nomi tra alcuni tratti caratteristici che segnano i protagonisti il “signore dell'altissimo canto” e il “maestro di color che sanno”. E colui che a quella vista si sente “esaltare” in se stesso e s'incorona poeta con le sue mani e si proclama il primo poeta de' tempi nuovi “sesto tra cotanto senno” è non il Dante dell'altro mondo ma Dante Alighieri. Ecco ciò che rende il Limbo così interessante come il mondo de' negligenti due concezioni originalissime uscite da un profondo sentimento della vita reale e rimaste freschissime ne' secoli. Molti tratti sono ancora oggi in bocca del popolo.

Come l'inferno è concepito e ordinato lo spiega nel canto undecimo il poeta stesso architetto e filosofo delle sue costruzioni. Quel regno del male è partito in tre mondi rispondenti alle tre grandi categorie del delitto: la incontinenza e violenza la malizia e la fredda premeditazione. Ciascuna di queste categorie si divide in generi e specie in cerchi e gironi. Il concetto etico di questa scala de' delitti è che dove è più ingiuria è più colpa e l'ingiuria non è tanto nel fatto quanto nell'intenzione. Perciò la malizia e la frode è più colpevole della incontinenza e violenza e la fredda premeditazione de' traditori è più colpevole della malizia. Indi la storica evoluzione dell'inferno dove da' meno colpevoli gl'incontinenti si passa alla città di Dite sede de' violenti e poi si scende in Malebolge e di là nel pozzo de' traditori. Questo è l'inferno scientifico o etico. Ma non è ancora l'inferno poetico.

La poesia dee voltare questo mondo intellettuale in natura vivente. L'ordine scientifico presenta una serie di concetti astratti il poetico una serie di figure di fatti e d'individui: il primo una serie di delitti il secondo una serie non solo d'individui colpevoli ma di tali e tali individui. Dividere in categorie significa considerare in un gruppo d'individui non quello che ciascuno ha di proprio ma quello che ha di comune col gruppo a cui appartiene. Così una classificazione è possibile una esatta riduzione a generi e specie. Ma la poesia ritorna l'individuo nella sua libera personalità e lo considera non come essere morale ma come forza viva e operante. E più in lui è vita più è poesia. Perciò se l'inferno come mondo etico è il successivo incattivirsi dello spirito sì che alla violenza comune all'uomo e all'animale succede la malizia “male proprio dell'uomo” e alla malizia la fredda premeditazione questo concetto poeticamente rimane ozioso e non serve che alla sola classificazione. Come natura vivente o come forma l'inferno è la morte progressiva della natura la vita e il moto che manca a poco a poco sino alla compiuta immobilità alla materia come materia dove insieme con la vita muore la poesia. Indi la storia dell'inferno.

Dapprima la situazione è tragica: il motivo è la passione dove la vita si manifesta in tutta la sua violenza; perchè la passione raccoglie tutte le forze interiori distratte e sparpagliate nell'uso quotidiano della vita intorno a un punto solo di modo che lo spirito acquista la coscienza della sua libertà infinita. Preso per se stesso lo spirito ed isolato dal fatto la sua forza è infinita e non può esser vinta neppure da Dio non potendo Dio fare ch'esso non creda non senta e non voglia quello che crede sente e vuole. Non vi è donnicciuola così vile che non si senta forza infinita quando è stretta dalla passione. - Io ti amo e ti amerò sempre e se dopo morte si ama ed io ti amerò e piuttosto con te in inferno che senza te in paradiso. - Queste sono le eloquenti bestemmie che traboccano da un cuore appassionato e che rendono eroiche la timida Giulietta e la gentile Francesca.

Ma quando la passione vuole realizzarsi s'intoppa in un altro infinito nell'ordine generale delle cose di cui si sente parte e innanzi a cui è un fragile individuo. E n'esce la tragica collisione tra la passione e il fato l'uomo e Dio il peccato. Nella vita nè la passione nè il fato sono nella loro purezza: la passione ha le sue fiacchezze e oscillazioni; il fato talora è il caso o l'espressione collettiva di tutti gli ostacoli naturali e umani in cui intoppa il protagonista. Ma nell'inferno l'anima è isolata dal fatto ed è pura passione e puro carattere perciò inviolabile e onnipotente e il fato è Dio come eterna giustizia e legge morale: onde la prima parte dell'inferno ove incontinenti e violenti esseri tragici e appassionati mantengono la loro passione di rincontro a Dio è la tragedia delle tragedie l'eterna collisione nelle sue epiche proporzioni.

Tutto questo mondo tragico è penetrato dello stesso concetto. La natura infernale non è ancora laida e brutta; anzi balzan fuori tutt'i caratteri che la rendono un sublime negativo l'eternità la disperazione le tenebre. L'eterno è sublime perchè ti mostra un di là sempre allo stesso punto per quanto tu ti ci avvicini; la disperazione è sublime perchè ti mostra un fine non possibile a raggiungere per quanto tu operi; la tenebra è sublime come annullamento della forma e morte della fantasia per quella stessa ragione che è sublime la morte il male il nulla. Leggete la scritta sulla porta dell'inferno. Ne' primi tre versi è l'eterno immobile che ripete se stesso dolore dolore e dolore quel luogo quel luogo e quel luogo per me per me e per me insino a che in ultimo l'eterno risuona nella coscienza del colpevole come disperazione:

La luce il “dolce lome” rende sublimi le tenebre morte del sole e delle stelle e dell'occhio come è “l'aer senza stelle” e il “loco d'ogni luce muto” e quel “ficcar lo viso al fondo” e “non discernere alcuna cosa”. Certo l'eternità le tenebre e la disperazione sono caratteri comuni a tutto l'inferno; ma solo qui sono poesia quando l'inferno si affaccia per la prima volta alla immaginazione nella gagliardia e freschezza delle prime impressioni. Appresso diventano spettacolo ordinario come è il sole visto ogni giorno.

E Dante che parte da princìpi preconcetti nelle sue costruzioni scientifiche quando è tutto nel realizzare e formare i suoi mondi opera con piena spontaneità abbandonato alle sue impressioni. Il canto terzo è il primo apparire dell'inferno e come ci si sente la prima impressione come si vede il poeta esaltato turbato dalla sua visione assediato di forme di fantasmi impazienti di venire alla luce! In quel “diverse voci orribili favelle” ecc. non ci è solo il grido de' negligenti: ci è lì tutto l'inferno che manda il suo primo grido. Quel canto del sublime è una sola nota musicale variamente graduata è l'eterno il tenebroso il terribile l'infinito dell'inferno che invade e ispira il poeta e vien fuori co' vivi colori della prima impressione è il vero canto del regno de' morti della “morta gente” è l'albero della vita che il poeta sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che fa e ne toglie la speranza:

E ne toglie le stelle:

E ne toglie il tempo:

E ne toglie il cielo:

E ne toglie Dio:

Questa natura sublime dapprima è indeterminata senza contorni cerchio loco null'altro: la diresti natura vuota se non la riempissero l'eternità e le tenebre e la morte e la disperazione. Nel regno de' violenti prende una forma. Si esce dal sublime: si entra nel bello negativo. Incontri tutto ciò che è figura ordine regolarità proporzione in terra; anzi con vocabolo umano è chiamata città la città di Dite. Vedi selve laghi sepolcri; e l'effetto poetico nasce dal trovare la stessa figura ma spogliata di tutti gli accessorii che la rendono bella in terra.

La natura spogliata della sua vita del suo cielo della sua luce delle sue speranze è un sublime che ti gitta nell'animo il terrore; la natura spogliata della sua bellezza è un bello negativo pieno di strazio e di malinconia. È la natura snaturata depravata a immagine del peccato: con la virtù se n'è ita la bellezza sua faccia.

Questa natura snaturata vien fuori con maggior vita nelle pene. Perchè il concetto nella natura sta immobile come nell'architettura e nella scultura; dove nelle pene acquista ogni varietà di attitudini e di movenze. Le pene sono la coscienza fatta materia e qui esprimono la violenza della passione. In quella natura eterna e tenebrosa odi un mugghio “come fa mar per tempesta” e il rovescio della grandine e il cozzo delle moltitudini: moti disordinati violenti come i moti dell'animo. Vedi tombe ardenti laghi di sangue alberi che piangono e parlano la natura sforzata e snaturata dal peccatore. Gli strani accozzamenti producono l'effetto del maraviglioso e del fantastico ma il fantastico è presto vinto e ti piglia il raccapriccio e l'orrore. Il poeta prende in troppa serietà il suo mondo per darsi uno spasso di artista e sorprenderti con colpi di scena: tocca e passa; e non vuol fare effetto sulla tua immaginazione vuol colpire la tua coscienza. Dove il fantastico è più sviluppato è nella selva de' suicidi; ma anche lì vien subito la spiegazione e la maraviglia dà luogo a una profonda tristezza.

Ma il concetto non ha ancora la sua subiettività non è ancora anima. Un primo grado di questa forma è nel demonio. Cielo e inferno sono stati sempre popolati di legioni angeliche e sataniche che riempiono l'intervallo tra l'uomo e Dio tra l'uomo e Satana. È la storia del bene e del male che si sviluppa nella nostra anima un progressivo indiarsi o indemoniarsi. Diversi di nomi e di forme secondo le religioni e le civiltà i demòni hanno per base i diversi gradi del male e per forma il gigantesco e il mostruoso il puro terrestre il bestiale giunto all'umano e spesso preponderante come nella sfinge nella chimera in Cerbero. Il demonio di Dante non ha più la sua storia come in terra spirito tentatore accanto all'uomo e ribelle e rivale di Dio. Qui è immobilizzato come l'uomo; la sua storia è finita; cosa gli resta? Soffrire e far soffrire vittima e carnefice a un tempo simbolo esso stesso e immagine del peccato che flagella nell'uomo. Il Satana di Milton e Mefistofele che combattono contro Dio e contro l'uomo erano compiute persone poetiche. Altra è qui la situazione e altro è il demonio. Esso è il vinto di Dio e meno che uomo perchè non è dell'uomo che una sua parte sola il peccato. È piuttosto tipo specie simbolo che persona. È il più basso gradino nella scala degli esseri spirituali lo spirito tra l'umano e il bestiale in cui l'intelletto è ancora istinto e la volontà è ancora appetito. Figure vive e mobili della colpa ma figure semplice esteriorità: non carattere non passione non intelligenza non volontà. Fra gl'incontinenti e i violenti il demonio è tragico e serio: è azione mimica e tutta esterna passione tradotta in moti e gesti senza la parola salvo brevi imprecazioni. La natura ti dà figura e colore: qui la figura si muove e il colore si anima è la figura in azione. Il poeta ha scossa la polvere dalle antiche forme pagane e le ha rifatte e rinnovate. Come a costruire il suo inferno toglie alla terra le sue forme e strappandole dal circolo loro assegnato le compone diversamente e ti crea una nuova natura; così ad esprimere lo spirito toglie dalla mitologia tutte le forme demoniache Minos Caronte Cerbero Pluto Gerione le arpie le furie e le trasporta nel suo inferno: le trova vuote e libere spogliate di concetto di vita e di religione e le ricrea le battezza impressovi sopra il suo pensiero e la sua religione. Il demonio meno lontano dall'uomo è Caronte in cui vien fuori l'apparenza di un carattere: impaziente rissoso manesco che grida e batte. Il poeta si è ben guardato di sviluppare il comico che è in questo carattere: la figura di Caronte rimane severa e grave e non fa dissonanza con la solennità della natura infernale dove si trova collocata. Minos è il giudizio rappresentato in modo affatto esteriore e plastico e rapido come saetta:

Le altre figure sono schizzi appena disegnati; ingegnoso è il ritratto di Gerione che ha ispirato una delle più belle ottave dell'Ariosto.

Noi concepiamo oramai la costruzione de' singoli canti. Il poeta comincia col porci innanzi la natura del luogo e la qualità della pena; il demonio ora precede ora vien subito dopo; poi vedi peccatori presi insieme e misti non ancora l'individuo ma l'uomo collettivo gruppi di mezzo a' quali spesso si stacca l'individuo e tira la tua attenzione.

I gruppi sono l'espressione generale del sentimento che riempie i peccatori nella società infernale; sono la parentela del delitto dove trovi nello stesso lago di sangue i tiranni Ezzelino e Attila e gli assassini di strada Rinier da Corneto e Rinier Pazzo.

Come nella natura e nel demonio così ne' gruppi l'aspetto è dapprima severo e tragico. Essi esprimono il sublime dello spirito la disperazione. L'uomo ha bisogno di avere innanzi a sè qualche cosa a cui tenda; al pensiero succede pensiero; il cuore vive quando da sentimento germoglia sentimento; l'uomo vive quando è in un'onda assidua di pensieri e di sentimenti; la disperazione è l'annullamento della vita morale la stagnazione del pensiero e del sentimento la morte il nulla il caos le tenebre dello spirito un sublime negativo. Come il sublime delle tenebre è nella luce che muore il sublime della disperazione è nella morte della speranza:

L'espressione estetica della disperazione è la bestemmia violenta reazione dell'anima innanzi a cui tutto muore e che nel suo annichilamento involge l'universo:

La passione trasforma la faccia dell'uomo abitualmente tranquilla il peccato gli siede sulla fronte e fiammeggia negli occhi: momento fuggevole che Dante coglie e rende eterno ne' suoi gruppi. Gli avari stanno col pugno chiuso gl'irosi si lacerano le membra: violenza di moti appassionati niente che sia basso o vile: puoi abborrirli non puoi disprezzarli.

Immaginate una piramide. Nella larghissima base vedete la natura infernale. Più su è il demonio figura bestiale in faccia umana bestia talora in tutto mai in tutto uomo. Alzate ancora l'occhio e vedete gruppi nella violenza della passione. È la stessa idea che si sviluppa e si spiritualizza insino a che da questo triplice fondo si eleva sulla cima la statua l'individuo libero l'idea nella sua individuale realtà e più che l'idea se stesso nella sua libertà. È di mezzo a quella folla confusa a quei gruppi che escono i grandi uomini dell'inferno o piuttosto della terra; è da questa triplice base dell'eternità che esce fuori il tempo e la storia e l'Italia e più che altri Dante come uomo e come cittadino.

L'inferno degl'incontinenti e de' violenti è il regno delle grandi figure poetiche. Qui trovi come in una galleria di personaggi eroici Francesca Farinata Cavalcanti Pier delle Vigne Brunetto Latini Capaneo Dante il Fato Dio e la Fortuna. Sono in presenza forze colossali la energia della passione e la serenità del fato. Qui è Francesca eternamente unita al suo Paolo là è la Fortuna che non ode le imprecazioni degli uomini e beata si gode. Ora ti percote il suono della divina giustizia che in eterno rimbomba; ora ti stupisce Capaneo che tra le fiamme oppone sè a tutte le folgori di Giove. Su questo fondo tragico s'innalza la libera persona umana e vi si spiega in tutta la ricchezza delle sue facoltà. Qui usciamo dalle astrattezze mistiche e scolastiche e prendiamo possesso della realtà. La donna non è più Beatrice il tipo realizzato de' trovatori fluttuante ancora tra l'idea e la realtà; qui acquista carattere storia passioni una ricca e vivace personalità è Francesca da Rimini la prima donna del mondo moderno. L'uomo non è più il santo con le sue estasi e le sue visioni; qui ha la sua patria il suo uffizio il suo partito la sua famiglia le sue passioni e il suo carattere; è Farinata è Cavalcanti è Brunetto è Pier delle Vigne è Dante Alighieri alla cui fiera natura Virgilio applaude:

L'inferno dà loro una realtà più energica creando nuove immagini e nuovi colori. Pier delle Vigne giura “per le nuove radici del suo legno”. Farinata dice:

All'annunzio della morte del figlio Cavalcanti

Brunetto raccomanda il suo Tesoro nel quale si sente vivere ancora. Capaneo può dire: “Qual i' fui vivo tal son morto”. E Francesca ricorda il tempo felice nella miseria. L'inferno è il loro piedistallo sul quale si ergono col petto e con la fronte affermando la loro umanità. Nascono situazioni e forme novissime che danno rilievo alle figure e a' sentimenti.

Questo mondo tragico dove l'impeto della passione e la violenza del carattere mette in gioco tutte le forze della vita ha la sua perfetta espressione in questi grandi individui rimasti così vivi e giovani e popolari come Achille ed Ettore. È il mondo della grande poesia della epopea e della tragedia. E ora quale contrasto! Lasciamo appena le falde dilatate di foco e la rena che s'infiamma come esca sotto fucile e ci troviamo in una pozzanghera che fa zuffa con gli occhi e col naso. Lasciamo i tragici demòni dell'antichità i centauri e le arpie e incontriamo diavoli con le corna e armati di frusta e vilissimi uomini che alle prime percosse scappano senz'aspettar le seconde nè le terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata il primo che vediamo ha gli occhi bassi vergognoso di mostrarsi; e Dante così riverente e pietoso finora e anche sdegnoso diviene maligno e sarcastico e compone per la prima volta il labbro ad un sorriso sardonico. Chiama “salse pungenti” quel letamaio

che dagli uman privati parea mosso

 

. Un altro lo sgrida:

 

E Dante che lo vede col capo lordo tanto che non parea “s'era laico o cherco” gli ricorda crudelmente di averlo veduto in terra co' capelli asciutti. E quegli esprime il suo dolore “battendosi la zucca”. Tutto è mutato: natura demonio e uomo immagini e stile. Cadiamo in pieno plebeo. Chi sono questi uomini? Sono adulatori e meretrici dannati alla stessa pena: gli uni vendono l'anima le altre vendono il corpo. Sentite che noi passiamo in un altro mondo nel mondo de' fraudolenti.

Esteticamente il mondo de' fraudolenti è la prosa della vita; precipitata dal suo piedistallo ideale e divenuta volgarità. È la passione che si muta in vizio il carattere che diviene abitudine la forza che diviene malizia. La passione è poetica perchè ha virtù di concitare tutte le forze dell'anima sì ch'elle prorompano di fuori liberamente: il vizio è la passione fatta abitudine ripetizione degli stessi atti un fare perchè si è fatto; è l'artista divenuto artefice l'arte divenuta mestiere. L'uomo appassionato spiritualizza la sua azione ci mette dentro se stesso ma nel vizioso l'anima è sonnolenta la sua azione è stupida materia atto meccanico a cui lo spirito rimane estraneo. La passione produce il carattere la forte volontà che è la stessa passione in continuazione; il vizio ha compagna la fiacchezza e bassezza dell'anima non essendo altro la bassezza che l'abdicazione e l'apostasia della propria anima. I grandi caratteri sicuri di sè hanno a loro istrumento la forza impetuosi fino all'imprudenza semplici fino alla credulità; gli animi fiacchi hanno a loro istrumento la malizia coscienza della loro impotenza e pipistrelli notturni assaltano alle spalle e non osano guardare in viso.

In questo mondo il di fuori è mutato perchè mutato è il di dentro ove non trovi più caratteri e passioni ma vizio bassezza e malizia lo spirito oscurato e materializzato la dissoluzione della vita. A quei cerchi indeterminati a quella città rosseggiante di Dite nomi e figure terrene succede un non so che una cosa senza nome che il poeta chiama bizzarramente “Malebolge” una natura sformata e in dissoluzione ripe scoscese scogli mobili che fanno da ponticelli e giù valloni paludosi dove le acque finora impetuose e correnti stagnano e si putrefanno valloni angusti bolge valigie borse che stringendosi più e più vanno a finire in un pozzo: natura piccola in rovina e in putrefazione. Al demonio mitologico iroso e appassionato succede il diavolo cornuto essere grottesco o piuttosto i diavoli che vanno in frotte e si mescolano in ignobili parlari con la gente più abbietta e canzonano e sono canzonati maliziosi bugiardi plebei osceni. Al vivo movimento delle bufere e delle grandini e delle fiamme succede la materia in decomposizione quanti strazi di carne umana ti offrono i campi di battaglia e quante malattie ti offre lo spedale. Tali la natura il demonio le pene. Vedi ora l'uomo. La faccia umana è rimasta finora inviolata: innanzi all'immaginazione la passione invermiglia la faccia di Francesca e la grandezza dell'anima pare nella faccia dell'uomo che si leva dritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana sparisce: hai caricature e sconciature di corpi. Uomini cacciati in una buca capo in giù piedi in su; vólti travolti in su le spalle sì che il pianto scende giù per le reni; visi occhi e corpi imbacuccati e incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi; corpi altri smozzicati accismati altri marciti e imputriditi scabbiosi tisici idropici. Di questa figura umana deturpata e contraffatta l'immagine più viva è Bertram dal Bormio il cui busto si fa lanterna del suo capo che porta pesol per le chiome. In questo mondo prosaico e plebeo che comincia con Taide e finisce con mastro Adamo la materia ovvero la parte bestiale prevale tanto che spesso siamo in sul domandarci: - Costoro sono uomini o bestie? - Non sono ancora bestie e l'uomo già muore in loro:

Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la più profonda concezione di Malebolge è questa trasformazione dell'uomo in bestia e della bestia in uomo: hanno l'appetito e l'istinto della bestia hanno la coscienza dell'uomo. Si sanno uomini e sono bestie; e qui è la pena nella coscienza umana che loro è rimasta.

La forma estetica di questo mondo è la commedia rappresentazione de' difetti e de' vizi. Fra tanta fiacchezza della personalità il grande uomo l'individuo è gittato nell'ombra e vien su il descrittivo l'esteriorità. Nell'inferno tragico le descrizioni sono sobrie e rapide l'interesse principale è negli attori che prendono la parola: qui è un gregge muto visto da lontano. Virgilio dice a Dante: - Vedi là Mirra vedi Giasone vedi Manto. - Appena è se qualche epiteto ti segna in fronte alcuno de' più grandi personaggi come si fa di Giasone:

Prima dite: “Il canto di Francesca di Farinata di ser Brunetto Latini” ; ora dite: “Il canto de' ladri de' falsari de' truffatori”: vi sono gruppi non individui; vi è il descrittivo manca il drammatico. Manca la grandezza negli attori e manca la pietà negli spettatori. La figura umana così torta che il pianto degli occhi bagnava le natiche cava a Dante lacrime; l'“homo sum” si sente colpito in lui; ma Virgilio lo sgrida:

Abbonda il descrittivo; l'immaginazione di Dante è così robusta che avendo a fare con oggetti così fuori della natura non che sentirsi impacciata pare che scherzi: con tanta facilità e spontaneità esprime le più varie e strane attitudini: la fiamma parla come lingua d'uomo le zanche piangono e fremono. Il più grande sforzo dell'immaginazione umana è la trasformazione di uomini in bestie nel canto ventesimoquinto quantunque la soverchia minutezza generi sazietà.

Fra tanti gruppi sorge qua e là alcuno individuo in cui si sviluppa con più chiara coscienza il concetto di Malebolge. Un lato serio di questo concetto è lo spirito che varca il limite assegnatogli. Se la ragione potesse veder tutto

L'esperienza avea le sue colonne d'Ercole; la ragione avea pure le sue colonne. Questo concetto qui è serio non è sublime nè tragico; perchè l'uomo che con la temerità oraziana sforza la natura è qui non dirimpetto a Dio come Prometeo e Capaneo ma colpito e soggiogato senza che in lui paia vestigio di ribellione di orgoglio e di violenza:

L'uomo di Orazio è sublime perchè lo vedi nell'opera senti in lui la voluttà del frutto proibito malgrado Dio e la natura. Anfiarao è un puro nome; sublime di terrore è quel suo precipitare a valle mostrandocelo successivamente inabissarsi ma il grottesco vien subito dopo:

Ulisse che ha varcato i segni di Ercole è travolto nelle acque per giudizio di Dio “come a lui piacque”. Pure un po' dell'audacia di Ulisse è ancora in Dante che gli mette in bocca nobili parole e ti fa sentire quell'ardente curiosità del sapere che invadeva i contemporanei. Ti par di assistere al viaggio di Colombo. Il peccato diviene virtù. Se la logica ghibellina pone in inferno l'autore dell'agguato contro Troia radice dell'impero sacro romano la poesia alza una statua a questo precursore di Colombo che indica col braccio nuovi mari e nuovi mondi e dice a' compagni:

Ulisse è il grand'uomo solitario di Malebolge. È una piramide piantata in mezzo al fango. Il comico penetra da tutt'i lati traendosi appresso il lordo l'osceno il disgustoso: lo spirito divenuto malizia è qui decaduto degradato; e con lui si oscura la nobile faccia umana. Ulisse stesso per la sua malizia ha la sua figura coperta e fasciata dalle fiamme. Siamo in un mondo comico.

La regina delle forme comiche è la caricatura il difetto colto come immagine e idealizzato. Al che si richiede che il personaggio operi ingenuamente e brutalmente come non avesse coscienza del suo difetto a quel modo che si vede in Sancio Panza e in don Abbondio eccellenti caratteri comici. I dannati di Malebolge sono così fatti: essi sono cinici e perciò ridicoli come i diavoli nel canto ventesimosecondo rissosi abietti vanitosi bassamente feroci ne' loro atti. Così sono i ladri i truffatori i barattieri plebe in cui il vizio è così connaturato che non se ne accorge più. Tale è Nicolò terzo vano del suo papale ammanto che crede Dante venuto nell'inferno apposta per veder lui. Tali sono pure Sinone e maestro Adamo. Essi si mostrano nella loro naturalezza e possono essere rappresentati nella forma diretta e immediata isolando il difetto dagli accessorii e idealizzandolo divenuto un contromodello l'immagine opposta a quel tipo a quel modello di perfezione che ciascuno ha in mente: qui è la caricatura. Le concezioni di Dante sono di un comico plebeo della più bassa lega: sia esempio la rissa tra Sinone e maestro Adamo. Si rimane nel buffonesco l'infimo grado del comico. Quest'uomo così possente creatore d'immagini nell'inferno tragico qui si sente arido freddo in un mondo non suo. Le situazioni sono comiche ma il comico è rozzamente formato e non è artistico non ha la sua immagine che è la caricatura nè la sua impressione che è il riso. Due persone in rissa cadono in un lago d'acqua bollente che li divide. Situazione comica se mai ce ne fu. Il poeta dice:

Espressione vivace ma che non sveglia nessuna immagine e ti lascia freddo. Non ha saputo cogliere quel movimento quella smorfia che fanno quando si sentono scottare e si sciolgono. La pancia di mastro Adamo che sotto il pugno di Sinone “sonò come fosse un tamburo” è una felice caricatura; ma è una freddura il dire:

Manca spesso a Dante la caricatura e i suoi versi più comici non fanno ridere. Perchè a fare la caricatura bisogna fermare l'immaginazione nell'oggetto comico spassarcisi obbliarsi in quello alzarlo a contromodello. Dante non ha questo sublime obblio comico non ha indulgenza nè amabilità. Teme di sporcarsi tra quella gente e se ode se ne fa rimproverare da Virgilio e se ci sta se ne scusa:

Il suo riso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno; e spesso nella mano la sferza gli si muta in pugnale.

Il riso muore quando il personaggio comico ha coscienza del suo vizio e non che sentirne vergogna vi si pone al di sopra e ne fa il suo piedistallo. Allora non sei tu che gli fai la caricatura; ma è lui stesso il suo proprio artista che si orna del suo difetto come di un manto reale e se ne incorona e se ne fa un'aureola atteggiandosi e situandosi nel modo più acconcio a dire: - Miratemi -; più acconcio a dare spicco al suo vizio. La bestia non cela il suo vizio e non arrossisce; il rossore è proprio della faccia umana. L'uomo consapevole del suo difetto che vi si pone al di sopra rinuncia alla faccia umana e dicesi “sfacciato” o “sfrontato”. Qui la caricatura uccide se stessa il comico giunto alla sua ultima punta si scioglie; e n'esce un sentimento di supremo disgusto e ribrezzo che è il sublime del comico: la propria abbiezione predicata e portata in trionfo aggiunge al disgusto un sentimento che tocca quasi l'orrore. Qui Dante è nel suo campo. Il suo eroe è Vanni Fucci. Mastro Adamo è come animale senza coscienza della sua bassezza Vanni Fucci ha avuto la coscienza e l'ha soffocata; sono i due estremi nella scala del vizio; l'uno non è mai salito fino all'uomo; l'altro è passato per l'uomo ed è ricaduto nella bestia. Si sente bestia e si pone come tipo bestiale e sceglie le circostanze più acconce a darvi risalto:

Ecco l'uomo che fa le fiche a Dio il Capaneo di Malebolge l'umano divenuto bestiale e idealizzato come tale.

Ma l'umano non muore mai in tutto. L'uomo diviene bestia ma la bestia torna uomo. E con senso profondo Dante anche sulla faccia sfrontata di Vanni Fucci scoperto ladro gitta il rossore della vergogna:

L'uomo che ha coscienza del suo vizio e se ne vergogna in luogo di mostrarlo al naturale (ciò che produce la caricatura) cerca occultarlo sotto contraria apparenza: il poltrone fa il bravo. Nasce il contrasto tra l'essere e il parere: la situazione divien comica e la sua forma è l'ironia. Lo spettatore indulgente e che vuole spassarsi a sue spese finge di crederlo e di secondarlo; accetta come seria l'apparenza che si dà anzi la carica ancora di più; fa il bravo ed egli lo chiama un “Orlando” ma accompagnando le parole di un cotale ammiccar d'occhi che esprima scambievole intelligenza di un tuono di voce in falsetto di un riso equivoco che vuol dire: - Io ti conosco. - Perciò l'essenziale dell'ironia non è nell'immagine ma nel sottinteso: è il riflesso che succede allo spontaneo; immagine sottilizzata nel sentimento. Forma delicata perchè lo spettatore alla vista del difetto che altri cerca di mascherare non sente collera non gli strappa la maschera dal viso anzi se la mette egli stesso e serba una compostezza e una pulitezza equivoca ne' movimenti e ne' gesti. Forma di tempi civili assai rara nelle età barbare e nelle poesie primitive. Dante accigliato brusco tutto di un pezzo com'è ne' suoi ritratti ha troppa bile e collera e non è buono nè alla caricatura nè all'ironia. Ma dalla sua fantasia d'artista è uscita una di quelle creazioni che sono le grandi scoperte nella storia dell'arte un mondo nuovo: il “nero cherubino” che strappa a san Francesco l'anima di Guido da Montefeltro è il padre di Mefistofele. Egli crea il diavolo gli dà il suo concetto e la sua funzione. Il diavolo è l'ironia incarnata: non ci è uomo tanto briccone che il diavolo non sia più briccone di lui e capite che non è disposto a guastarsi la bile per le bricconerie degli uomini. L'uomo può ingannare un altro uomo ma non può ficcarla al diavolo perchè il diavolo nel suo senso poetico è lui stesso la sua coscienza che risponde con un'alta risata a' suoi sofismi e gli fa il controsillogismo e gli dice beffandolo:

Il brutto come il bello muore nel sublime. E il brutto è sublime quando offende il nostro senso morale ed estetico e ci gitta in violenta reazione. Scoppia la collera l'indignazione l'orrore: il comico è immediatamente soffocato. Quando veggo un difetto rivelarsi all'improvviso uso la caricatura. Quando veggo un difetto che cerca mascherarsi prendo la maschera anch'io e uso l'ironia. Ma quando quel difetto mi offende mi sfida mi provoca si mette dirimpetto a me come contraddizione al mio intimo senso la mia coscienza così audacemente negata e contraddetta reagisce: io strappo al vizio la maschera e lo mostro qual è nella sua laida nudità. La caricatura e l'ironia si risolvono in una forma superiore il sarcasmo la porta per la quale volgiamo le spalle al comico e rientriamo nella grande poesia.

Nel sarcasmo caricatura e ironia riappariscono ma per morire: nasce la caricatura ed è guastata; spunta la maschera ed è strappata. E la morte viene da questo che nella forma sarcastica del brutto ci è l'idea che l'uccide il suo contrario. Nel canto de' simoniaci il sarcasmo fa la sua splendida apparizione. Il comico muore sotto l'ira di Dante. L'antitesi tra quello che è di fuori e quello che è nella sua anima scoppia in ravvicinamenti innaturali come “calcando i buoni e sollevando i pravi” “Dio d'oro e d'argento”; e spesso in parole a doppio contenuto che è l'immagine del sarcasmo. Tale è la parola rimasa proverbiale con che è qualificata la servilità della Chiesa. Parimente chiama “adulterio” la simonia e “idolatria” l'avarizia parole nelle quali entrano come elementi la santità del matrimonio e il vero Dio: in una sola immagine c'è il brutto e ci è l'idea che lo condanna.

Ma il sarcasmo dee purificare e consumare se stesso. Finchè rimane nel particolare e nel personale il linguaggio è acre bilioso: hai Giovenale e Menzini. Il poeta non che rimanere imprigionato in quello spettacolo dee spiccarsene porcisi al di sopra allargare l'orizzonte essere eloquente voce di verità espressione impersonale della coscienza. Certo in quel canto de' simoniaci vive immortale la vendetta dell'uomo ingannato che anticipa a Bonifazio l'inferno e del ghibellino e del cristiano che vede nel papato temporale una pietra d'inciampo e di scandalo. Ma i sentimenti e le passioni personali se hanno ispirato il poeta e resa terribilmente ingegnosa la sua fantasia non penetrano nella rappresentazione. Bisogna sapere la storia per indovinare i terribili incentivi dell'alta creazione. Ciò che qui senti è la convinzione la buona fede del poeta la sincerità e l'impersonalità della sua collera: onde sgorga dal suo labbro eloquente tanta magnificenza d'immagini e di concetti. Prima Dante è in collera con Nicolò pinto in pochi tratti vano piccolo col cervello e co' sensi nel piede. E comincia col “tu” e l'assale corpo a corpo con ironia amara che si trasforma nel pugnale del sarcasmo:

Ma nel pendìo dell'ingiuria si contiene d'un tratto passaggio meritamente ammirato: la piccola persona di Nicolò scomparisce; sottentra il “voi” i papi il papato; le idee guadagnano di ampiezza senza perdere di energia e da ultimo la collera svanisce in una certa tristezza pura di ogni stizza; è un deplorare non è più un inveire:

Tale è Malebolge: miniera inesausta di caratteri comici concezione delle più originali dove il comico è posto ed è sciolto. Poco felice nel maneggio delle forme comiche il poeta è insuperabile quando se ne sviluppa mutato il riso in collera come nella sua invettiva nella pena di Bertram dal Bormio nella rappresentazione di Vanni Fucci. Rimane un fondo comico che aspetta ancora il suo artista. Pure in quella materia appena formata vive immortale il suo nero cherubino.

Nel pozzo de' traditori la vita scende di un grado più giù: l'uomo bestia diviene l'uomo ghiaccio l'essere petrificato il fossile. In questo regresso dell'inferno in questo cammino a ritroso dell'umanità siamo giunti a quei formidabili inizi del genere umano regno della materia stupida vuota di spirito il puro terrestre rappresentato ne' giganti figli della terra nella loro lotta contro Giove natura celeste e spirituale inferiore di forza fisica ma armato del fulmine:

Con questo mito concorda la storia biblica degli angeli ribelli. Qui all'ingresso trovi i giganti; alla fine Lucifero: mitologia e Bibbia si mescolano espressioni della stessa idea. La lotta è finita: i giganti sono incatenati; Lucifero è immenso e stupido carname il gradino infimo nella scala de' demòni. Il gigantesco è la poesia della materia; ma qui vuoto e inerte è prosa. Tra' giganti e Lucifero stanno i dannati fitti nel ghiaccio. Le acque putride di Malebolge ventate dalle enormi ali di Lucifero si agghiacciano s'indurano diventano mare di vetro di dentro a cui traspariscono come festuche i traditori contro i congiunti nella Caina contro la patria nell'Antenora contro gli amici nella Tolomea e contro i benefattori nella Giudecca. La pena è una ma graduata secondo il delitto. Il movimento si estingue a poco a poco la vita si va petrificando finchè cessa in tutto la lacrima la parola e il moto. L'immagine più schietta di questo mondo cristallizzato è il teschio dell'arcivescovo Ruggieri inanimato e immobile sotto i denti di Ugolino.

L'Ugolino è una delle più straordinarie e interessanti fantasie. E per lui che la vita e la poesia entra in questo mare morto dove la natura e il demonio e l'uomo è materia stupida e senza interesse. Come concetto morale il tradimento è la colpa più grave; ma qui manca l'organo della colpa: il grido della coscienza sembra agghiacciato insieme col colpevole. Questo grido può uscire dal petto concitato di Dante spettatore come è già avvenuto in Malebolge dove l'invettiva di Dante risolve il comico. Qui ci è di meglio. Tra questi esseri petrificati Dante gitta il suo Ugolino ghiacciato con gli altri come traditore egli pure ma col capo sul capo di Ruggieri perchè insieme egli è il suo tradito e il suo carnefice. È la vittima che qui alza il grido contro il traditore e gli sta eternamente co' denti sul capo saziando in quello il suo odio istrumento inconscio della vendetta di Dio. Così è nato l'Ugolino il personaggio più ricco più moderno più popolare di Dante dove l'analisi è più profonda e più sviluppata nelle sue straordinarie proporzioni così umano e vero.

Prendete ora una carta topografica dell'inferno e guardate questa piramide capovolta a forma d'imbuto. Vedete l'immensa base alla cima senza figura altra che di cerchi fra le tenebre eterne; e poi quei cerchi prendon figura di città rosseggiante di fiamme e la città di bolgia putrida e puzzolenta e la bolgia di pozzo entro il quale è petrificata la natura; in cima l'infinito alla fine il tristo buco

e voi avete così l'immagine visibile di questo inferno estetico. Gli è come nelle rivoluzioni. Nel primo entusiasmo tutto è grande; poi vien fuori il sanguinario il feroce l'orribile finchè da' più bassi fondi della società sale su il laido l'abietto e il plebeo. Questa decomposizione e depravazione successiva della vita è l'Inferno.

L'Inferno è l'uomo compiutamente realizzato come individuo nella pienezza e libertà delle sue forze. E può misurare la grandezza dell'opera chi vede gli abbozzi di Dino Compagni o lo scarno Ezzelino o le rozze formazioni de' misteri e delle leggende. L'individuo era ancora astratto e impigliato nelle formole nelle allegorie e nell'ascetismo. In quelle vuote generalità ci è la donna e l'uomo come genere come simbolo come l'anima; manca l'individuo. E manca tanto che spesso non ha un nome ed è la “mia donna” o “un giovine” “un santo uomo”. Non un nome solo era rimasto vivo nel mondo dell'arte fra tante liriche e leggende. Dante volea scrivere il mistero dell'anima; si cacciò tra allegorie e formole ed ecco uscirgli dalla fantasia l'individuo volente e possente nel rigoglio e nella gioventù della forza spezzato il nocciolo dove lo avea chiuso il medio evo. I pittori disegnavano santi e cupole i filosofi fantasticavano sull'ente; i lirici platonizzavano gli ascetici contemplavano e pregavano: Dante pensava l'inferno; e là tra' furori della carne e l'infuriar delle passioni trovava la stoffa di Adamo l'uomo com'è impastato con la sua grandezza e con la sua miseria e non descritto ma rappresentato e in azione e non solo ne' suoi atti ma ne' suoi motivi più intimi. Così apparvero sull'orizzonte poetico Francesca Farinata Cavalcanti la Fortuna Pier delle Vigne Brunetto Capaneo Ulisse Vanni Fucci il “nero cherubino” Nicolò terzo e Ugolino. Tutte le corde del cuore umano vibrano. Vedi attorno a questa schiera d'immortali turba infinita di popolo nella maggior varietà di attitudini di forme di sentimenti di caratteri che ti passano avanti alcuni appena sbozzati altri numero e nome altri segnati in fronte di qualche frase indimenticabile che li eterna come Taide Mosca Giasone Omero Aristotile papa Celestino Bonifazio Clemente Bruto Bocca degli Abati Bertram dal Bormio. Nel regno de' morti si sente per la prima volta la vita nel mondo moderno. Come è bella la luce il “dolce lome” a Cavalcanti! Quanta malinconia è in quella selva de' suicidi spogliata del verde! Come è commovente Brunetto che raccomanda a Dante il suo Tesoro e Pier delle Vigne che gli raccomanda la sua memoria! Come ride quel giardino del peccato innanzi a Francesca! Col vivo sentimento della dolce vita della bella natura è accompagnato il sentimento della famiglia. Quel padre che cade supino udendo la morte del figlio e Ugolino che dannato a morire di fame guarda nel viso a' figliuoli e Anselmuccio che gli domanda: - Che hai? - E Gaddo che gli dice: - Perchè non mi aiuti? - Sono scene solitarie della poesia italiana. Ciascuno è in una situazione appassionata. I sentimenti spinti alla punta idealizzano e ingrandiscono gli oggetti. Tutto è colossale e tutto è naturale E in mezzo torreggia Dante il più infernale il più vivente di tutti pietoso sdegnoso gentile crudele sarcastico vendicativo feroce col suo elevato sentimento morale col suo culto della grandezza e della scienza anche nella colpa coi suo dispregio del vile e dell'ignobile alto sopra tanta plebe così ingegnoso nelle sue vendette così eloquente nelle sue invettive.

Queste grandi figure là sul loro piedistallo rigide ed epiche come statue attendono l'artista che le prenda per mano e le gitti nel tumulto della vita e le faccia esseri drammatici. E l'artista non fu un italiano: fu Shakespeare.

Chi vuole ora concepire il Purgatorio si metta in quella età della vita che le passioni si scoloriscono e l'esperienza e il disinganno tolgono le illusioni e scemata la parte attiva e personale l'uomo si sente generalizzare si sente più come genere che come individuo. Spettatore più che attore la vita si manifesta in lui non come azione ma come contemplazione artistica filosofica religiosa. In quella calma delle passioni e de' sensi era posto l'ideale antico del savio l'ideale nuovo del santo fuso insieme in quel Catone che Dante chiama nel Convito anima nobilissima e la più perfetta immagine di Dio in terra. Catone è il savio antico pinto come i filosofi con quella sua lunga barba in quella calma e gravità della sua decorosa vecchiezza:

Ma è qualcosa di più; è il savio battezzato e santificato con la fronte radiante illuminata dalla grazia sì che pare un sole. Virgilio non comprende questo savio cristianizzato e parla al Catone di sua conoscenza ricordando la sua virtù la sua morte per la libertà la sua Marzia. E il nuovo Catone risponde: - Marzia che piacque tanto agli occhi miei non mi move più; ma se Donna del cielo ti guida non ci è mestier lusinga:

Che cosa è il Purgatorio? È il mondo dove questo doppio ideale è realizzato: il mondo di Catone o della libertà dove lo spirito si sviluppa dalla carne e cerca la sua libertà:

Libertà va cercando ch'è sì cara

come sa chi per lei vita rifiuta.

Altro concetto altra natura altro uomo altra forma altro stile. Non è più l'Iliade è l'Odissea è un nuovo poema. Paragonare Inferno e Purgatorio e maravigliarsi che qui non sieno le bellezze ammirate colà gli è come maravigliarsi che il purgatorio sia purgatorio e non inferno. O se pur vogliamo maravigliarci di qualche cosa maravigliamoci che il poeta abbia potuto così compiutamente dimenticare l'antico se stesso le sue abitudini di concepire di disporre di colorire e seppellito in questo nuovo mondo ricrearsi l'ingegno e la fantasia a quella immagine e con tanta spontaneità che pare non se ne accorga: obblio dell'anima nella cosa il secreto della vita dell'amore e del genio.

L'inferno e il regno della carne che scende con costante regresso sino a Lucifero. Il purgatorio e il regno dello spirito che sale di grado in grado sino al paradiso. È là che si sviluppa il mistero la Commedia dell'anima la quale dall'estremo del male si riscote e si sente e mediante l'espiazione e il dolore si purifica e si salva. Onde con senso profondo il purgatorio esce dall'ultima bolgia infernale e Lucifero principe delle tenebre e quello stesso per le spalle del quale Dante salendo esce a riveder le stelle.

Ci è un avanti-purgatorio dove la carne fa la sua ultima apparizione. Il suo potere non è più al di dentro: l'anima è già libera; della carne non resta che la mala abitudine. Gradazione finissima e altamente comica dalla quale è uscito l'immortale ritratto di Belacqua caricatura felicissima nella figura ne' movimenti nelle parole e tanto più comica quanto più Belacqua si sforza di rimaner serio usando un'ironia che si volge contro di lui.

Questo avanti-purgatorio è quasi una transizione tra l'inferno e il purgatorio: il peccato vi è e non v'è; e ancora nell'abitudine non è più nell'anima; il demonio ci sta sotto la forma del serpente d'Eva involto tra l'erbe e i fiori cacciato via da due angioli dalle vesti e dalle ali di color verde simbolo della speranza. Comparisce per scomparire quasi per far testimonianza che se ne va dalla scena per sempre. Innanzi alla porta del purgatorio scompare il diavolo e muore la carne e con la carne gran parte di poesia se ne va.

L'anima non appartiene più alla carne ma l'ha avuta una volta sua padrona e se ne ricorda. La carne non è più una realtà come nell'inferno ma una ricordanza. Ne' sette gironi rispondenti a' sette peccati mortali le anime ricordano le colpe per condannarle; ricordano le virtù per compiacersene.

Quel ricordare le colpe non è se non l'inferno che ricomparisce in purgatorio per esservi giudicato e condannato; quel ricordare le virtù non è se non il paradiso che preluce in purgatorio per esservi desiderato e vagheggiato: l'inferno ci sta in rimembranza; il paradiso ci sta in desiderio. Carne e spirito non sono una realtà: la tirannia della carne è una rimembranza; la libertà dello spirito è un desiderio.

Poichè la realtà non è più in presenza ma in immaginazione essa vi sta non come azione rappresentata e drammatica ma come immagine dello spirito a quel modo che noi riproduciamo dentro di noi la figura delle cose non presenti e pingiamo al di fuori quello spettro della mente. Questa realtà dipinta vien fuori nelle pareti e ne' bassirilievi del purgatorio. Nell'inferno e nel paradiso non sono pitture perchè ivi la realtà è natura vivente è l'originale di cui nel purgatorio hai il ritratto. Inferno e paradiso sono in purgatorio ma in pittura come il passato e l'avvenire delle anime non presenti agli occhi ma all'immaginativa. Quelle pitture sono il loro “memento” lo spettacolo di quello che furono di quello che saranno che le stimola mette in attività la loro mente si che ricordano altri esempli e si affinano si purgano.

Siamo dunque fuori della vita. Le passioni tornano innanzi alle anime ma non sono più le loro passioni sono fuori di esse contemplate in sè o in altri con l'occhio dell'uomo pentito. Anche le virtù sono estrinseche alle anime contemplate al di fuori come esempli e ammaestramenti. Le anime sono spettatrici contemplanti non attrici. Passioni buone o cattive non sono in presenza e in azione ma sono una visione dello spirito figurata in intagli e pitture.

Questa concezione così semplice e vera nella sua profondità è la pittura e la scoltura l'arte dello spazio idealizzata nella parola e fatta poesia. Perchè il poeta non dipinge ma descrive il dipinto. La parola non può riprodurre lo spazio che successivamente e perciò è inefficace a darti la figura come fa il pennello e lo scarpello. Nè Dante si sforza di dipingere entrando in una gara assurda col pittore. Ma compie e idealizza il dipinto mostrando non la figura ma la sua espressione e impressione: dinanzi all'immaginazione la figura diviene mobile acquista sentimento e parola.

Le aguglie di Traiano in vista si movono al vento; la vedovella è atteggiata di lagrime e di dolore; nell'attitudine di Maria si legge: “Ecce ancilla Dei”; l'angiolo intagliato in atto soave non sembrava immagine che tace:

Davide ballando sembra più e meno che re; e gli sta di contro Micol che ammirava

Erano i tempi di Giotto e parevano maravigliosi quei primi tentativi dell'arte. Quest'alto ideale pittorico di Dante fa presentire i miracoli del pennello italiano. Il poeta avea innanzi all'immaginazione figure animate parlanti dipinte da

Colui che mai non vide cosa nuova

ben più vivaci che non gliele potevano offrire i suoi contemporanei.

Più in la il dipinto sparisce: senza aiuto di senso per sua sola virtù lo spirito intuisce il bene e il male ricorda i buoni e i cattivi esempli vede da se stesso e in se stesso. La realtà non solo non ha la sua esistenza come cosa sensata il sensibile; ma neppure come figurativa in pittura; diviene una visione diretta dello spirito che opera già libero e astratto dal senso. Nasce un'altra forma dell'arte la visione estatica. L'anima vede farsi dentro di sè una luce improvvisa nella quale pullulano immagini sopra immagini come bolle d'acqua che gonfiano e sgonfiano e l'universo visibile si dilegua innanzi a questa luce interiore di modo che il “suono di mille tube” non basterebbe a rompere la contemplazione. Dante trova forme nuove ed energiche ad esprimere questo fenomeno. Le immagini “piovono” nell'alta fantasia; la mente è

... ... sì ristretta

dentro di se' che di fuor non venia

cosa che fosse allor da lei ricetta.

L'immaginativa ne “ruba” di fuori sì

che uom non s'accorge

perchè d'intorno suonin mille tube.

 

L'anima vòlta in estasi ficca gli occhi nell'immagine con ardente affetto:

Tra queste visioni bellissima è quella del martirio di santo Stefano: un quadro a contrasto dove tra la folla inferocita che grida: - Martira martira - è la figura del santo la persona già aggravata dalla morte e china verso terra ma gli occhi al cielo preganti pace e perdono: è il soprastare dell'anima nell'abbandono del corpo.

Siamo dunque in piena vita contemplativa. Il processo della santificazione si sviluppa. Nell'inferno i tumulti e le tempeste della vita reale appassionata dal furore de' sensi: qui entriamo in quel mondo di romiti e di santi in quel mondo de' misteri e delle estasi così popolare nel mondo di Girolamo di Francesco d'Assisi e di Bonaventura dove la pittura attingea le sue ispirazioni.

Nella visione estatica lo spirito ha già un primo grado di santificazione ha conquistato la sua libertà dal senso ha già il suo paradiso; ma è un paradiso interiore immagine e desiderio e non sarà realtà paradiso reale se non quando quella luce e quelle immagini vedute dallo spirito entro di sè sieno fuori di sè sieno cose e non immagini. Il purgatorio è il regno delle immagini uno spettro dell'inferno un simulacro del paradiso.

Nella visione estatica lo spirito è attivo e conscio; nel sogno è passivo e inconscio: è una forma di visione superiore non solo senza opera del senso ma senza opera dello spirito; è visione divina prodotta da Dio. Perciò il sogno

e l'anima

Nel sogno si rivela il significato delle visioni e delle apparenze del purgatorio. Che cosa significano quelle pitture e quelle estasi? che cosa è il purgatorio? È il regno dell'intelletto e del vero dove il senso è spogliato delle sue belle e piacevoli apparenze e mostrato qual'è brutto e puzzolento. L'apparenza è una sirena:

Ma una donna santa la Verità fende i drappi; e la mostra qual femmina balba e scialba e mostra il ventre:

Vinto il senso e l'apparenza si presenta a Dante in sogno l'immagine della vita non quale pare ma qual è la vera vita a cui sospira e che cerca nel suo pellegrinaggio. E vede la vita nella prima delle due sue forme la vita attiva lo affaticarsi nelle buone opere per giungere alla beatitudine della vita contemplativa. La sirena è rozzamente abbozzata: manca a Dante il senso della voluttà; senti nel verso stesso non so che intralciato e stanco. Lia è una delle sue più fresche creazioni personaggio tipico così perfetto nel suo genere come la Fortuna. La sua felicità non è ancora beatitudine come è della suora che vive guardando Dio il suo miraglio; ma appunto perciò è più interessante e poetica più umana più vicina a noi questa bella fanciulla che va tutta lieta pel prato e coglie fiori e se ne fa ghirlanda e si mira allo specchio. Tale è la prima immagine che il giovine incontra sovente ne' suoi sogni!

L'ultima forma sotto la quale si presenta la realtà è la visione simbolica dove la forma non significa più se stessa ma un'altra cosa. Il purgatorio finisce tra' simboli: è il paradiso che si offre all'anima sotto figura. Cristo è un grifone e il carro su cui sta è la Chiesa e Dante ha una serie di strane visioni che rappresentano simbolicamente la storia della Chiesa.

Così la realtà corpulenta e tempestosa dell'inferno si va diradando e sottilizzando per trasformarsi nella vera realtà lo spirito o il paradiso. Questo processo di carne a spirito è il purgatorio dove la forma diviene pittura estasi sogno simbolo. Il simbolo già non è più forma ma puro spirito lavoro intellettuale. Sotto la figura ci è la nuova e vera realtà pronta a svilupparsene e comparire essa direttamente.

L'uomo del purgatorio ha i sentimenti conformi a questo stato dell'anima. Il suo carattere è la calma interiore assai simile alla tranquilla gioia dell'uomo virtuoso che nella miseria terrena sulle ali della fede e della speranza alza lo spirito al paradiso. Le ombre sono contente nel fuoco gli affetti hanno dolci e temperati il desiderio puro d'inquietudine e d'impazienza. Ne nasce un mondo idillico che ricorda l'età dell'oro dove tutto è pace e affetto e dove si manifestano con effusione le pure gioie dell'arte i dolci sentimenti dell'amicizia. In questo mondo di pitture e scolture Dante si è coronato di artisti: Casella Sordello Guido Guinicelli Buonagiunta da Lucca Arnaldo Daniello Oderisi Stazio e ne ha cavato episodi commoventi che fanno vibrare le fibre più delicate del cuore umano. Ricorderò il suo incontro con Casella e il ritratto di Sordello e i cari ragionamenti dell'arte con Guinicelli e Buonagiunta e l'incontro di Stazio e Virgilio. È un lato della vita nuovo pur così vero in tempi che la vita intima della famiglia dell'arte e dell'amicizia era un rifugio e quasi un asilo fra le tempeste della vita pubblica. Come tocca il core l'amicizia di Dante e di Forese fratello di Corso Donati il principale nemico di Dante e quel domandar ch'egli fa di Piccarda! I movimenti improvvisi dell'affetto e della maraviglia sono colti con tanta felicità che rimangono anche oggi vivi nel popolo come è l'“o” lungo e roco delle anime che veggon l'ombra di Dante o il paragone delle pecorelle e la calma di Sordello

mutata subito in un sì vivace impeto di affetti e Stazio che corre incontro a Virgilio per abbracciarlo obliando di essere un'ombra e il cerchio dell'anime intorno a Dante

e Casella che se ne spicca e si gitta tra le braccia di Dante:

Questa intimità questo tenere nel cuore un cantuccio chiuso al mondo riservato alla famiglia agli amici all'arte alla natura quasi tempio domestico impenetrabile a' profani è il mondo rappresentato nel Purgatorio. Le ricordanze de' casi anche più tristi sono pure di amarezza raddolcite dalle speranze dell'ultimo giorno. Manfredi non ha una ingiuria per i suoi nemici chiede perdono ed ha già perdonato.

piangendo a quei che volentier perdona.

Buonconte di Montefeltro racconta le circostanze più strazianti della sua morte con una calma e una serenità che diresti indifferenza se non te ne rivelasse il secreto il sentimento espresso in questi versi:

Ciascuno ha conservato in quel cantuccio del cuore il suo tempio domestico. Ciascuno vuol essere ricordato a' suoi diletti. Come è caro quel Forese con quel “Nella mia”

E Buonconte ricorda la sua Giovanna e gli altri che si sono dimenticati di lui e Manfredi vuol essere ricordato a Costanza e Iacopo a' suoi fanesi che pregassero per lui: la sola Pia non ha alcun nome nel suo santuario domestico e non ha che Dante che possa ricordarsi di lei:

Questo mondo così affettuoso è penetrato di malinconia: sentimento nuovo che avrà tanta parte nella poesia moderna e generato qui nel Purgatorio. Questo sentimento ti prende a udir la Pia così delicata nella solitudine del suo cuore; eppure non era sola e ricorda la gemma pegno d'amore. La tenerezza e delicatezza de' sentimenti dispone l'animo alla malinconia: perchè malinconia non è se non dolce dolore dolore raddolcito da immagini care e tenere. Richiede perciò anime raccolte che vivano in fantasia sieno “pensose” non distratte dal mondo chiuse nella loro intimità La malinconia è il frutto più delicato di questo mondo intimo. Come ti va al core quell'ora che incomincia i tristi lai la rondinella presso alla mattina e quella squilla di lontano

e quell'ora della sera che i naviganti partono e s'inteneriscono pensando

Qui Dante gitta via l'astronomia che rende spesso così aride le sue albe e le sue primavere e rende tutte le dolcezze di una natura malinconica. Tra le scene più intime più penetrate di malinconia è il suo incontro con Casella. Cominciano espansioni di affetto. Nel primo impeto corrono ad abbracciarsi. Casella dice:

nel mortal corpo così t'amo sciolta.

Dante risponde: - Casella mio! - e lo prega a voler cantare come faceva in vita che col canto gli acquietava l'anima e ora l'anima sua è così affannata. E Casella canta una poesia di Dante e Dante e Virgilio e le anime fanno cerchio rapite dimentiche del purgatorio sgridate da Catone. Ma se Catone non perdona perdonano le muse. Quest'oblio del purgatorio questa musica che ci riconduce alle care memorie della vita la terra che scende nell'altro mondo e si impossessa delle anime sì che obliano di essere ombre e vogliono abbracciare gli amici e pendono dalla bocca di Casella questo è poesia. Ci si sente qua dentro la malinconia dell'esilio l'uomo che giovine ancora desiderava con la sua Bice e i suoi amici e le loro donne ritrarsi in un'isola e farne il santuario dei suoi affetti e obliarvi il mondo.

E c'è la malinconia propria del purgatorio quel vedere di là con mutati occhi le grandezze e gli affetti terreni quel disabbellirsi della vita quel cadere di tutte le illusioni:

Una delle figure più interessanti è Adriano. All'ultimo della grandezza dice:

Questo papa disilluso ha lunga e mala parentela e sono tutti morti per lui eccetto la buona Alagia:

Quest'ultimo verso è pregno di malinconia.

Questa calma filosofica che fa guardare dall'alto del purgatorio la vita e ne scopre il vano e il nulla restringe il circolo della personalità e della realtà terrena. Gli individui appariscono e spariscono appena disegnati; hanno la bellezza ma anche la monotonia e l'immobilità della calma. Sono uomini che discutono e conversano in una sala più che uomini agitati e appassionati. I grandi individui storici le grandi creature della fantasia scompariscono.

Più che negli individui la vita si manifesta nei gruppi: la vita qui è meno individuo che genere. La comune anima ha la sua espressione nel canto. Nell'inferno non ci son cori; perchè non vi è l'unità dell'amore. L'odio è solitario; l'amore è simpatia e armonia; la musica e il canto conseguono i loro effetti nella misurata varietà delle voci e degl'istrumenti. Qui le anime sono esseri musicali che escono dalla loro coscienza individuale assorte in uno stesso spirito di carità:

Le anime compariscono a gruppi e cantano salmi e inni espressione varia di dolore di speranza di preghiera di letizia di lodi al Signore. Quando giungono al purgatorio le odi cantare: “In exitu Israel de Aegypto”. Giungono nella valle ed ecco intonare il Salve Regina. La sera odi l'inno: “Te lucis ante terminum  Rerum creator poscimus”. Entrando nel purgatorio risuona il Te Deum. Sono i salmi e gl'inni della Chiesa cantati secondo le varie occasioni e di cui il poeta dice le prime parole. Ti par d'essere in chiesa e udir cantare i fedeli. Quei canti latini erano allora nella bocca di tutti erano cantati da tutti in chiesa; il primo verso bastava a ricordarli. Il poeta ha creduto bastar questo ad accendere ne' petti l'entusiasmo religioso. E forse bastava allora quando quei versi suscitavano tante rimembranze e immagini della vita religiosa. La poesia qui non è nella rappresentazione ma in quei lettori e in quei tempi. Un nome una parola basta in certi tempi a produrre tutto l'effetto: con quei tempi se ne va la loro poesia e restano cosa morta. Molte parti del poema dantesco aride liste di nomi e di fatti soprattutto le allusioni politiche allora così vive oggi son morte. E tutta questa lirica del purgatorio è cosa morta. Perchè Dante non crea dal suo seno quei sentimenti ma li trova belli e scritti ne' canti latini e si contenta di dirne le prime parole. Pure la situazione delle anime purganti è altamente lirica; la loro personalità non è individuale ma collettiva e l'espressione di quella comune anima svegliatasi in loro è l'onda canora de' sentimenti. Qui mancò la vena e la forza al gran poeta e si rimise a Davide di quello ch'era suo compito. Più che visioni e simboli e dipinti la vita del purgatorio era questa effusione lirica di dolore di speranza di amore di quell'incendio interiore che rende le anime affettuose concordi in uno stesso spirito di carità. Ha saputo così ben dipingerle queste anime ardenti che s'incontrano si baciano e vanno innanzi tirate su verso il cielo!

E che poteva e sapeva con pari felicità esprimere i loro sentimenti non solo il vago e l'indeterminato ma anche il proprio e il successivo ed essere il Davide del suo purgatorio lo mostra il suo “paternostro” rimaso canto solitario.

Le fuggitive apparizioni degli angeli sono quasi immagine anticipata del paradiso nel luogo della speranza. In essi non e alcuna subbiettività: sono forme eteree vestite di luce fluttuanti come le mistiche visioni dell'estasi e nondimeno ciascuna con propria apparenza e attitudine.

Molto per la pittura poco per la poesia. Manca la parola manca la personalità. Ci è il corpo dell'angiolo; non ci è l'angiolo. Nelle dolci note tra quelle forme d'angioli l'anima s'infutura “gusta le primizie del piacere eterno”. Di che prende qualità la natura del purgatorio una montagna scala al paradiso in principio faticosa a salire:

Il luogo è rallegrato da luce non propria ma riflessa dal sole e dalle stelle che sono il paradiso dantesco. La prima impressione della luce uscendo dall'inferno cava a Dante questa bella immagine:

La natura è l'accordo musicale e la voce di quel di dentro: qui natura angeli e anime sono un solo canto un solo universo lirico. Scena stupenda è nel canto settimo maravigliosa consonanza tra le ombre sedute quete che cantano “Salve Regina” e la vista allegra del seno erboso e fiorito dove stanno:

Salve Regina” in sul verde e in su' fiori

Le anime piangono e cantano e il luogo alpestre è lieto di apriche valli e di campi odorati: il quale contrasto ha termine quando l'anima si leva con libera volontà a miglior soglia tolte le “schiume della coscienza” con pura letizia. Così come nell'inferno si scende sino al pozzo ghiacciato della morte nel purgatorio si sale sino al paradiso terrestre immagine terrena del paradiso dove l'anima è monda del peccato o della carne e rifatta bella e innocente. Tutto è qui che alletti lo sguardo e lusinghi l'immaginazione: riso di cielo canti di uccelli vaghezza di fiori e tremolar di fronde e mormorare di acque descritto con dolcezza e melodia ma insieme con tale austera misura che non dà luogo a mollezza ed ebbrezza di sensi nè il diletto turba la calma.

Il purgatorio è il centro di questo mistero o commedia dell'anima; è qua che il nodo si scioglie. Dante più che spettatore è attore. Uscito dall'inferno appena all'ingresso del purgatorio l'angiolo incide sulla sua fronte sette “P” che sono i sette peccati mortali che si purgano ne' sette gironi. Da un girone all'altro una “P” scomparisce dalla fronte finchè van via tutte e puro e rinnovellato giunge al paradiso terrestre. Passa da uno stato nell'altro in sonno cioè a dire per virtù della grazia senza sua coscienza. È Lucia “nemica di ciascun crudele” che lo piglia dormente e sognante e lo conduce in purgatorio. Così la storia intima dell'anima i suoi errori le passioni i traviamenti i pentimenti sono storia esterna e simbolica: il dramma è strozzato nella sua culla. La crisi del dramma il punto in cui il nodo si scioglie e il pentimento l'anima che si riconosce e caccia via da sè il peccato e si pente e si vergogna e ne fa confessione. A questo punto il dramma si fa umano e ciò che avrebbe potuto far Dante si vede da quello che ha fatto qui; ma una storia intima personale drammatica dell'anima com'è il Faust non era possibile in tempi ancora epici simbolici mistici e scolastici.

Qui tutt'i personaggi del dramma si trovano a fronte. Di qua Dante Virgilio Stazio; di là Beatrice con gli angeli; in mezzo e il rio che li divide bipartito in due fiumi Lete l'obblio ed Eunoè la forza. Nell'uno l'anima si spoglia della scoria del passato; nell'altra attinge virtù di salire alle stelle.

Di là è Matilde che tuffa le anime pagato lo scotto del pentimento e le passa all'altra riva rifatte nell'antico stato d'innocenza. E lo specchio dell'anima rinnovellata è Matilde che danza e sceglie fiori in sembianza ancora umana celeste creatura con l'ingenua giocondità di fanciulla con la leggerezza di una silfide col pudico sguardo di vergine il viso radiante di luce. Tale era Lia affacciatasi al poeta in sogno il presentimento di Matilde il nunzio del paradiso terrestre.

La scena dove questo mistero dell'anima si scioglie ha le sacre e venerabili apparenze di un mistero liturgico una di quelle sacre rappresentazioni che si facevano durante le processioni. Vedi una Chiesa animata e ambulante in processione: sette candelabri che a distanza parevano sette alberi d'oro e dietro gente vestita di bianco che canta “Osanna” e le fiammelle lasciano dietro di sè lunghe liste lucenti e sotto questo cielo di luce sfila la processione. Ecco a due a due i profeti e i patriarchi dell'antico Testamento sono ventiquattro seniori coronati di giglio:

Segue la Chiesa in figura di carro trionfale a due ruote (i due testamenti) tra quattro animali (i quattro vangeli) tirato da un grifone simbolo di Cristo; a destra Fede Speranza e Carità; a sinistra Prudenza Giustizia Fortezza e Temperanza vestite di porpora; dietro due vecchi san Luca e san Paolo e dietro a loro quattro in umile paruta forse gli scrittori dell'Epistole e solo e dormente san Giovanni dall'Apocalisse:

Si ode un tuono. La processione si ferma. Comincia la rappresentazione. Virgilio guarda attonito non meno che Dante. Il senso di quella processione allegorica gli sfugge. La missione del savio pagano è finita. Hai innanzi la dottrina nuova la Chiesa di Cristo co' suoi profeti e patriarchi co' suoi evangelisti e apostoli co' suoi libri santi.

Fermata la processione uno canta e gli altri ripetono: “Veni sponsa de Libano” e sul carro si leva moltitudine di angioli che cantano e gittano fiori.

Benedictus qui venis

anibus o date lilia plenis. -

Tra questa nuvola di fiori appare donna sovra candido velo cinta d'oliva sotto verde manto vestita di colore di fiamma; appare come la Madonna nelle processioni sotto i fiori che le gittano dalle finestre i fedeli. Dante non la vede ma la sente: è Beatrice.

Quest'apoteosi di Beatrice questo primo apparire della sua donna ancora velata fra tanta gloria scioglie l'immaginazione dalla rigidità de' simboli e de' riti e le dà le libere ali dell'arte. Il dramma si fa umano; spuntano le immagini e i sentimenti:

L'apparire di Beatrice è lo sparire di Virgilio. Qui l'astrattezza del simbolo è superata. Ti senti innanzi ad un'anima d'uomo. Quella donna è la sua Beatrice l'amore della sua prima giovinezza; e Virgilio e il dolcissimo padre che sparisce quando più ne aveva bisogno quando era proprio come un fantolino in paura che si volge alla mamma; e si volge e non lo vede più e lo chiama tre volte per nome nella mente sbigottita. Il mistero liturgico si trasforma in un dramma moderno:

Dal pianto di Dante esce un felicissimo passaggio per introdurre in iscena Beatrice:

Gli occhi di Dante sono là verso la donna che lo chiama per nome:

E gli occhi cadono nella fontana e non sostenendo la propria vista cadono sull'erba:

Qui è la prima volta e sola che un'azione è rappresentata nel suo cammino e nel suo svolgimento come in un mistero e Dante vi rivela un ingegno drammatico superiore. I più intimi e rapidi movimenti dell'animo scappan fuori; i due attori Dante e Beatrice vi sono perfettamente disegnati; gli angioli fanno coro e intervengono. La scena è rapida calda piena di movimenti e di gradazioni fini e profonde. La vergogna di Dante senza lacrime e sospiri giunge a poco a poco sino al pianto dirotto. Dapprima sta li più attonito che compunto ma quando gli angioli nel loro canto hanno aria di compatirgli come se dicessero: “Donna perchè sì lo stempre?” scoppia il pianto. Quello che non potè il rimprovero ottiene il compatimento. Gradazione vera e profonda e rappresentata con rara evidenza d'immagine. Instando Beatrice: - Di' di' se questo è vero - tra confusione e vergogna esitando e incalzato gli esce un tale “sì” dalla bocca che si poteva vedere ma non udire:

I sentimenti dell'animo scoppiano con tanta ingenuità e naturalezza che rasentano il grottesco; quando Beatrice dice: “Alza la barba” il nostro dottore con linguaggio della scuola riflette:

Il berretto dottorale spunta tutto ad un tratto sul capo di Dante fra le lacrime e i sospiri e dà a questa magnifica storia del cuore un colorito locale.

Queste gradazioni corrispondono alle parole di Beatrice. Qui non ci è dialogo: è lei che parla: le risposte di Dante sono le sue emozioni. Pure non ci è monotonia ne declamazione: tutto esce da una situazione vera e finamente analizzata. “Regalmente proterva” la sua severità è raddolcita poi dal canto degli angioli. Beatrice non parla più a Dante: parla agli angioli e narra loro la storia di Dante. La situazione diviene meno appassionata ma più elevata: mai la poesia non s'era alzata a un linguaggio sì nobile; lo spiritualismo cristiano trovava la sua musa:

Poi si volta a Dante e il discorso diviene personale stringente implacabile nella sua logica. E una sola idea sotto varie forme ostinata insistente che vuole da Dante una risposta. - Sei uomo hai la barba: come potesti preferire a me le cose fallaci della terra

 - E quando Dante potè formare la voce viene la risposta:

Come si vede è l'antica lotta tra il senso e la ragione che qui ha il suo termine; è la vita tragica dell'anima fra gli errori e le battaglie del senso che qui si scioglie in commedia cioè in lieto fine con la vittoria dello spirito. L'idea è più che trasparente è manifestata direttamente nel suo linguaggio teologico. Ma l'idea e calata nella realtà della vita e produce una vera scena drammatica con tale fusione di terreno e di celeste di passione e di ragione di concreto e di astratto che vi trovi la stoffa da cui dovea sorgere più tardi il dramma spagnuolo.

Dante pentito tuffato nel fiume Lete e menato a Beatrice dalle virtù sue ancelle:

E Beatrice gli svela la sua faccia. Non è poesia che possa rendere quello che Dante vede quello che sente:

Compiuta la rappresentazione ricomincia la processione sino all'albero della vita dove antitesi a questa Chiesa gloriosa di Cristo apparisce in visione allegorica la Chiesa terrena trafitta dall'impero travagliata dall'eresia corrotta dal dono di Costantino smembrata da Maometto e in ultimo meretrice fra le braccia del re di Francia. Concetto stupendo questo apparire della vita terrena nell'ultimo del purgatorio germogliata dall'albero infausto del peccato di Adamo. Il terreno apparisce quando ci si dilegua per sempre dinanzi non solo in realtà ma in ricordanza. Siamo già alla soglia del paradiso.

Così finisce questa processione dantesca una delle concezioni più grandiose del poema anzi in sè sola tutto un poema dove ci vediamo sfilare davanti tutt'i grandi personaggi della Chiesa celeste immagine anticipata del regno di Dio un'apoteosi del cristianesimo entro di cui si rappresenta il più alto mistero liturgico la Commedia dell'anima.

Questa processione dove far molta impressione in quei tempi delle processioni de' misteri e delle allegorie quando gli angeli le virtù e i vizi e Cristo e Dio stesso entravano in iscena. Ma è appunto questo carattere liturgico e simbolico che qui scema in gran parte la bellezza della poesia. Questo difetto nuoce soprattutto nella rappresentazione della Chiesa terrena dove l'aquila la volpe e il drago e il gigante e la meretrice rimpiccoliscono un concetto così magnifico una storia così interessante.

Lo stesso contrasto si affaccia a Dante quando il mantovano Sordello sentendo Virgilio esser di Mantova esce dalla sua calma di leone:

E Dante pensa alla sua Firenze dove

Qui non è impigliato nelle allegorie. Scoppia il contrasto impetuoso eloquente e n'esce una poesia tutta cose dove si riflettono i più diversi movimenti dell'animo il dolore lo sdegno la pietà l'ironia una calma tristezza.

Il Purgatorio è il dolce rifugio della vecchiezza. Quando la vita si disabbella a' nostri sguardi quando le volgiamo le spalle e ci chiudiamo nella santità degli affetti domestici tra la famiglia e gli amici nelle opere dell'arte e del pensiero il Purgatorio ci s'illumina di viva luce e diviene il nostro libro e ci scopriamo molte delicate bellezze una gran parte di noi. Fu il libro di Lamennais di Balbo di Schlosser.

Viene il Paradiso. Altro concetto altra vita altre forme.

Il paradiso e il regno dello spirito venuto a libertà emancipato dalla carne o dal senso perciò il soprasensibile o come dice Dante il trasumanare il di la dall'umano. È quel regno della filosofia che Dante volea realizzare in terra il regno della pace dove intelletto amore e atto sono una cosa. Amore conduce lo spirito al supremo intelletto e il supremo intelletto è insieme supremo atto. La triade è insieme unità. Quando l'uomo è alzato dall'amore fino a Dio hai la congiunzione dell'umano e del divino il sommo bene il paradiso.

Questo ascetismo o misticismo non è dottrina astratta è una forma della vita umana. Ci è nel nostro spirito un di là ciò che dicesi il sentimento dell'infinito la cui esistenza si rivela più chiaramente alle nature elevate.

L'arte antica avea materializzato questo di là umanando il cielo e la filosofia partendo dalle più diverse direzioni era giunta a questa conclusione pratica che l'ideale della saggezza e perciò della felicità è posto nella eguaglianza dell'animo ciò che dicevasi “apatia” affrancamento dalle passioni e dalla carne: pagana tranquillità che vedi nelle figure quiete e serene e semplici dell'arte greca.

Questa calma filosofica trovi nelle figure eroiche del limbo:

Parlavan rado con passi soavi

Virgilio n'è il tipo più puro le cui impressioni vanno di rado al di là di un sospiro o di un movimento tosto represso. Questa calma è la fisonomia del purgatorio il carattere più spiccato di quelle anime dove l'aspirazione al cielo è senza inquietudine sicure di salirvi quandochessia. Ma già in quelle anime penetra un elemento nuovo l'estasi il rapimento la contemplazione; ci sta Catone ma irradiato di luce.

Col cristianesimo s'era restaurato nello spirito questo inquieto di là e divenne in breve molta parte della vita anzi la principale occupazione della vita. E si sviluppò un'arte e una letteratura conforme. Chi vede gli ammirabili mosaici del paradiso sotto le cupole di San Marco e di San Giovanni Laterano o le facce estatiche de' santi consumate dal fervore divino ha innanzi stampato il tipo di questo uomo nuovo. Quel di là il celeste il divino appare su quelle facce come appare nella Città di Dio di santo Agostino e nella Dieta salutis di san Bonaventura. A questa immagine avea composta la sua Gerusalemme celeste frate Giacomino da Verona nel secolo decimoterzo.

Questo di là intravveduto nelle estasi ne' sogni nelle visioni nelle allegorie del purgatorio eccolo qui nella sua sostanza è il paradiso. Il quale intravveduto nella vita ha una forma e può essere arte; ma non si concepisce come veduto ora nella sua purezza come regno dello spirito possa avere una rappresentazione. Il paradiso può essere un canto lirico che contenga. non la descrizione di cosa che è al di sopra della forma ma la vaga aspirazione dell'anima a “non so che divino” ed anche allora l'obietto del desiderio pur rimanendo “un incognito indistinto” riceve la sua bellezza da immagini terrene come nell'Aspirazione e nel Pellegrino di Schiller e in questi bei versi del Purgatorio imitati dal Tasso:

Per rendere artistico il paradiso Dante ha immaginato un paradiso umano accessibile al senso e all'immaginazione. In paradiso non c'è canto e non luce e non riso; ma essendo Dante spettatore terreno del paradiso lo vede sotto forme terrene:

Così Dante ha potuto conciliare la teologia e l'arte. Il paradiso teologico è spirito fuori del senso e dell'immaginazione e dell'intelletto; Dante gli dà parvenza umana e lo rende sensibile ed intelligibile. Le anime ridono cantano ragionano come uomini. Questo rende il paradiso accessibile all'arte.

Siamo all'ultima dissoluzione della forma. Corpulenta e materiale nell'Inferno pittorica e fantastica nel Purgatorio qui è lirica e musicale immediata parvenza dello spirito assoluta luce senza contenuto fascia e cerchio dello spirito non esso spirito. Il purgatorio come la terra riceve la luce dal sole e dalle stelle e queste l'hanno immediatamente da Dio sicchè le anime purganti come gli uomini veggono il sole e nel sole intravvedono Dio offertosi già alla fantasia popolare come emanazione di luce; ma i beati intuiscono Dio direttamente per la luce che move da lui senza mezzo:

Adunque il paradiso e la più spirituale manifestazione di Dio; e perciò di tutte le forme non rimane altro che luce di tutti gli affetti non altro che amore di tutt'i sentimenti non altro che beatitudine di tutti gli atti non altro che contemplazione. Amore beatitudine contemplazione prendono anche forma di luce; gli spiriti si scaldano ai raggi d'amore; la beatitudine o letizia sfavilla negli occhi e fiammeggia nel riso; e la verità è siccome in uno specchio dipinta nel cospetto eterno:

Gli affetti e i pensieri delle anime si manifestano con la luce; l'ira di san Pietro fa trascolorare tutto il paradiso.

Il paradiso ha ancora la sua storia e il suo progresso come l'inferno e il purgatorio. È una progressiva manifestazione dello spirito o di Dio in una forma sempre più sottile sino al suo compiuto sparire manifestazione ascendente di Dio che risponde a' diversi ordini o gradi di virtù. Sali di stella in stella come di virtù in virtù sino al cielo empireo soggiorno di Dio.

Ad esprimere queste gradazioni unica forma è la luce. Perciò non hai qui come nell'inferno o nel purgatorio differenze qualitative ma unicamente quantitative un più e un meno. Prima la luce non è così viva che celi la faccia umana; più si sale e più la luce occulta le forme come in un santuario. Come è la luce così è il riso di Beatrice un “crescendo” superiore ad ogni determinazione; la fantasia formando non può seguire l'intelletto che distingue. Bene il poeta vi adopera l'estremo del suo ingegno conscio della grandezza e difficoltà dell'impresa:

Dapprima caldo di questo mondo sua fattura allettato dalla novità o dal maraviglioso de' fenomeni che gli si affacciano le immagini gli escono vivaci peregrine; poi quasi stanco diviene arido e dà in sottigliezze; ma lo vedi rilevarsi e poggiare più e più a inarrivabile altezza sereno estatico: diresti che la difficoltà lo alletti la novità lo rinfranchi l'infinito lo esalti.

Il paradiso propriamente detto è il cielo empireo immobile e che tutto move centro dell'universo. Ivi sono gli spiriti ma secondo i gradi de' loro meriti e della loro beatitudine appariscono ne' nove cieli che girano intorno alla terra la luna Mercurio Venere il sole Marte Giove Saturno le stelle fisse e il primo mobile. Ne' primi sette cieli che sono i sette pianeti ti sta avanti tutta la vita terrena. La luna è una specie di avanti-paradiso. I negligenti aprono l'inferno e il purgatorio e aprono anche il paradiso. E i negligenti del paradiso sono i manchevoli non per volontà propria ma per violenza altrui. Il loro merito non è pieno perchè mancò loro quella forza di volontà che tenne Lorenzo sulla grata e fe' Muzio severo alla sua mano. Perciò in loro rimane ancora un vestigio della terra: la faccia umana. In Mercurio Venere il sole Marte Giove hai le glorie della vita attiva i legislatori gli amanti i dottori i martiri i giusti. In Saturno hai la corona e la perfezione della vita i contemplanti. Percorsi i diversi gradi di virtù comincia il tripudio o come dice il poeta il trionfo della beatitudine. Ed hai nelle stelle fisse il trionfo di Cristo nel primo mobile il trionfo degli angioli e nell'empireo la visione di Dio la congiunzione dell'umano e del divino dove s'acqueta il desiderio. Questa storia del paradiso secondo i diversi gradi di beatitudine ha la sua forma ne' diversi gradi di luce.

La luce veste e fascia delle anime è la sola superstite di tutte le forme terrene e non è vera forma ma semplice parvenza e illusione dell'occhio mortale. Essa è la stessa beatitudine la letizia delle anime che prende quell'aspetto agli occhi di Dante:

Queste parvenze dell'interna letizia si atteggiano si determinano si configurano ne' più diversi modi e non sono altro che i sentimenti o i pensieri delle anime che paion fuori in quelle forme. E n'esce la natura del paradiso luce diversamente atteggiata e configurata che ha aspetto or di aquila or di croci or di cerchio or di costellazione ora di scala con viste nuove e maravigliose. Queste combinazioni di luce non sono altro che gruppi d'anime che esprimono i loro pensieri co' loro moti e atteggiamenti. A rendere intelligibili le parvenze di questo mondo di luce il poeta si tira appresso la natura terrestre e ne coglie i fenomeni più fuggevoli più delicati e ne fa lo specchio della natura celeste. Così rientra la terra in paradiso non come sostanziale ma come immagine parvenza delle parvenze celesti. È la terra che rende amabile questo paradiso di Dante; è il sentimento della natura che diffonde la vita tra queste combinazioni ingegnose e simboliche. La terra ha pure la sua parte di paradiso ed è in quei fenomeni che inebbriano innalzano l'animo e lo dispongono alla tenerezza e all'amore: trovi qui tutto che in terra è di più etereo di più sfumato di più soave. E come l'impressione estetica nasce appunto da questo profondo sentimento della natura terrestre avviene che il lettore ricorda il paragone senza quasi più sapere a che cosa si riferisca. Questi paragoni di Dante sono le vere gemme del Paradiso:

Queste tre ultime terzine sono mirabili di spontaneità e di evidenza. Il poeta ha circonfuso le celesti sustanze di tutto ciò che in terra è più ridente e smagliante. Siamo nell'empireo. La virtù visiva è stanca ma si raccende alle parole di Beatrice sì che gli appare la riviera di luce e fortificata la vista in quella riviera in quei fiori inebbrianti in quell'oro in quei rubini in quelle vive faville Dante discerne ambo le corti del cielo nel santo delirio del loro tripudio. Ma in verità gli scanni de' beati sono meno poetici di queste due rive dipinte di mirabil primavera.

Ma la forma come parvenza dello spirito è un press'a poco un quasi un come “fioca e corta” al concetto. Questa impotenza della forma produce un sublime negativo che Dante esprime con l'energia intellettuale di chi ha vivo il sentimento dell'infinito:

La letizia che move le anime e “trascende ogni dolzore” non è se non beatitudine. E rende beate le anime l'entusiasmo dell'amore e la chiarezza intellettiva o come dice Dante “luce intellettual piena d'amore”. Esse hanno allegro il cuore e allegra la mente. Nel cuore è perenne desiderio e perenne appagamento. Nella mente la verità sta come “dipinta”.

La luce è forma inadeguata della beatitudine. Ti dà la parvenza ma non il sentimento e non il pensiero. Spuntano perciò due altre forme il canto e la visione intellettuale.

Quello che nel purgatorio è amicizia nel paradiso è amore ardore di desiderio placato sempre non saziato mai infinito come lo spirito. Stato lirico e musicale che ha la sua espressione nella melodia e nel canto. La medesimezza del sentimento spinto sino all'entusiasmo genera la comunione delle anime; la persona non è l'individuo ma il gruppo come è delle moltitudini nei grandi giorni della vita pubblica. I gruppi qui non sono cori che accompagnino e compiano l'azione individuale ma sono la stessa individualità diffusa in tutte le anime o se vogliamo chiamarli cori sono il coro di personaggi invisibili e muti di Cristo di Maria e d'Iddio. Ecco il coro di Maria:

Regina coeli” cantando sì dolce

Quella facella è l'angiolo Gabriele e il coro è angelico. Angioli e beati sono penetrati dello stesso spirito hanno vita comune se non che negli angioli la virtù è innocenza e la letizia è irriflessa: plenitudine volante tra' beati e Dio che il poeta ha rappresentato in alcuni bei tratti; è un andare e venire nel modo abbandonato e allegro della prima età tripudianti e folleggianti con una espansione che il poeta chiama “arte” e “gioco”:

L'amicizia o comunione delle anime è detta dal poeta “sodalizio”. I loro moti sono danze le loro voci sono canti; ma in quell'accordo di voci in quel turbine di movimenti la personalità scompare: è una musica in cui i diversi suoni si confondono e si perdono in una sola melode. Non ci è differenza di aspetto ma per dir così una faccia sola. Questa comunanza di vita è il fondo lirico del Paradiso ma è la sua parte fiacca perchè il poeta contento a citare le prime parole di canti ecclesiastici non ha avuta tanta libertà e attività di spirito da creare la lirica del paradiso rappresentando nel canto i sentimenti e gli affetti del celeste sodalizio. E dove potea giungere lo mostra la preghiera di san Bernardo che è un vero inno alla Vergine e l'inno a san Francesco d'Assisi e l'inno a san Domenico nella loro semplicità anche un po' rozza tutto cose e più schietti che i magniloquenti inni moderni.

I canti delle anime sono vuoti di contenuto voci e non parole musica e non poesia: è tutto una sola onda di luce di melodia e di voce che ti porta seco:

È l'armonia universale l'inno della creazione. La luce vincendo la corporale impenetrabilità e frammischiando i suoi raggi esprime anche al di fuori questa compenetrazione delle anime l'individualità sparita nel mare dell'essere. Il poeta signore anzi tiranno della lingua forma ardite parole a significare questa medesimezza amorosa degli esseri nell'essere: “inciela” “imparadisa” “india” “intuassi” “immei” “inlei” “s'infutura” “s'illuia” delle quali voci alcune dopo lungo obblio rivivono. La redenzione dell'anima è la sua progressiva emancipazione dall'egoismo della coscienza; la sua individualità non le basta; si sente incompiuta parziale disarmonica e sospira alla idealità nella vita universale. Questo è il carattere della vita in paradiso. Non solo sparisce la faccia umana ma in gran parte anche la personalità. Vivono gli uni negli altri e tutti in Dio.

Questo vanire delle forme e della stessa personalità riduce il paradiso a una corda sola a lungo andare monotona se non vi penetrasse la terra e con la terra altre forme ed altre passioni. La terra penetra come contrapposto a questa vita d'amore e di pace. È vita d'odio e di vana scienza e provoca le collere e i sarcasmi de' celesti.

Il contrapposto è colto in alcuni momenti altamente poetici. Accolto nel sole gloriosamente allato a Beatrice si affaccia al poeta tutta la vanità delle cure terrestri:

Un altro momento di alta poesia è quando il poeta dall'alto delle stelle fisse guarda alla terra:

La terra “che ci fa tanto feroci” veduta dal cielo gli pare un'aiuola. Il concetto abbellito e allargato dal Tasso ha qui una severità di esecuzione quasi ieratica. Il poeta si sente già cittadino del cielo e guarda così di passata e con appena un sorriso a tanta viltà di sembiante volgendone immediatamente l'occhio e mirando in Beatrice:

Pure è quest'aiuola che desta nel seno de' beati varietà di sentimenti e di passioni facendo vibrar nuove corde. Accanto all'inno spunta la satira in tutte le sue gradazioni il frizzo la caricatura l'ironia il sarcasmo. Qual frizzo che l'allusione di Carlo Martello così pungente nella sua generalità:

Beatrice dottissima in teologia si mostra non meno dotta nel maneggio della caricatura e dell'ironia frustando i predicatori plebei di quel tempo:

Or si va con motti e con iscede

a predicare e pur che ben si rida

gonfia 'l cappuccio e più non si richiede.

Giustiniano conchiude il suo nobilissimo racconto dei casi e della gloria dell'antica Roma con fiere minacce ai guelfi nemici dell'aquila imperiale. Papa e monaci sono i più assaliti. San Tommaso dette le lodi di san Francesco riprende i francescani e san Benedetto i benedettini e san Pietro il papa. Tutt'i re di quel tempo mandano sangue sotto il flagello di Dante. Non si può attendere da' santi alcuna indulgenza alle umane fralezze. La satira è acerba; la sua musa è l'indignazione e la sua forma ordinaria è l'invettiva. Le forme comiche sono uccise in sul nascere e si sciolgono nel sarcasmo. Il sarcasmo non è qui nè un pensiero nè un tratto di spirito ma pittura viva del vizio con parole anche grossolane come “cloaca” che mettano in vista il laido e il disgustoso. Il vizio è colto non in una forma generale e declamatoria ma là in quegli uomini in quel tempo sotto quelli aspetti con pienezza di particolari ed esattezza di colorito. Capilavori di questo genere sono la pittura de' benedettini e l'invettiva di san Pietro.

Questo contrapposto tra il cielo e la terra non è altro se non l'antitesi che è in terra tra i buoni e i cattivi e per scendere al particolare tra l'età dell'oro del cristianesimo e i tempi degeneri del poeta; è il presente condannato dal passato è il passato messo in risalto dal suo contrasto con la corruzione presente. Ci erano i benedettini ma ci era stato san Benedetto; ci era Bonifazio e Clemente ma ci era stato san Pietro e Lino e Cleto e Sisto e Pio e Calisto e Urbano. Gli uomini di quell'aurea età più illustri per santità e per scienza sono qui raccolti come in un pantheon; è il mondo eroico cristiano succeduto a quel mondo eroico pagano stato descritto nel Limbo e di cui Giustiniano fa il panegirico in paradiso.

Questa età dell'oro collocata nel passato e messa a confronto con la tristizia di quei tempi ha ispirato a Dante una delle scene più interessanti ed è la pittura dell'antica e della nuova Firenze fatta dal Cacciaguida uno de' suoi antenati. Ivi inno e satira sono fusi insieme: vedi l'ideale dell'età dell'oro e della domestica felicità con tanta semplicità di costumi con tanta modestia di vita e di rincontro vedi il villano di Aguglione e le sfacciate donne fiorentine. La conclusione di questa scena di famiglia prende proporzioni epiche: Dante si fa egli medesimo il suo piedistallo. Nella predizione che Cacciaguida gli fa del suo esilio è tanta malinconia e tanto affetto che ben si pare la profonda tristezza del vecchio e stanco poeta. L'esilio non è rappresentato ne' patimenti materiali: Dio riserba dolori più acuti ai magnanimi lasciare ogni cosa diletta più caramente e domandare il pane all'insolente pietà degli estranei: questo strazio di tanti miseri vive qui immortale ne' versi divenuti proverbiali del più misero e del più grande. Ma è un dolore virile: tosto rileva la fronte e dall'alto del suo ingegno e della sua missione poetica vede a' suoi piedi tutt'i potenti della terra.

La letizia delle anime non è solo amore ma visione intellettuale. La luce il riso non sono altro che manifestazione del loro perfetto vedere: perciò la luce e detta “intellettuale”. Beatrice spiega così il suo riso a Dante:

La beatitudine e la contemplazione e la contemplazione è appunto questa perfetta visione intellettuale. Perciò le anime non investigano non discutono e non dimostrano ma veggono e descrivono la verità non come idea ma come natura vivente. In terra ci è l'apparenza del vero e perciò diversità di sistemi filosofici come spiega Beatrice:

In paradiso la verità è tutta dipinta nel cospetto eterno; in Dio è legato con amore in un volume ciò che per l'universo si squaderna; vedere Dio è vedere la verità. E non è visione solo di cose ma di pensieri e di desidèri. I beati vedono il pensiero di Dante senza ch'egli lo esprima.

La scienza com'era concepita a' tempi di Dante sposata alla teologia avea una forma concreta e individuale materia contemplabile e altamente poetica. Un Dio personale che immobile motore produce amando l'idea esemplare dell'universo pura intelligenza e pura luce che penetra e risplende in una parte più e meno in un'altra sino alle ultime contingenze; gli astri dove si affacciano i beati influenti sulle umane sorti e governati da intelligenze da cui spira il moto e le virtù de' loro giri; il cielo empireo centro di tutt'i cerchi cosmici e soggiorno della pura luce; l'universo splendore della divinità dove appare squadernato ciò che in Dio è un volume; l'ordine e l'accordo di tutto il creato dalle infime incarnazioni fino alle nove gerarchie degli angioli; la caduta dell'uomo per il primo peccato e il suo riscatto per l'incarnazione e la passione del Verbo; la verità rivelata oscura all'intelletto visibile al cuore avvalorata dalla fede confortata dalla speranza infiammata dalla carità: in questa scienza della creazione il pensiero è talmente concretato e incorporato che il poeta può contemplarlo come cosa vivente come natura. Perciò la forma scientifica è qui meno un ragionamento che una descrizione come di cosa che si vede e non si dimostra. Il perfetto vedere de' beati è privilegio di Dante; nessuno gli sta del pari nella forza e chiarezza della visione. Spirito dommatico credente e poetico predica dal paradiso la verità assoluta e non la pensa la scolpisce. Diresti che pensi con l'immaginazione aguzzata dalla grandezza e verità dello spettacolo. Nascono ardite metafore e maravigliose comparazioni. L'accordo della prescienza col libero arbitrio è una delle concezioni più difficili e astruse; ma qui non è una concezione è una visione uno spettacolo: così potente è questa immaginazione dantesca:

Il poeta procede per deduzione guardando le cose dall'alto del paradiso da cui dechina via via fino alle ultime conseguenze: forma contemplativa e dommatica anzi che discorsiva e dimostrativa e propria della poesia presentando all'immaginazione vasti orizzonti in una sola comprensione:

Questa forma poetica della scienza questa visione intellettuale abbozzata nel Tesoretto è condotta qui a molta perfezione. È un certo modo di situare l'oggetto e metterlo in vista sì che l'occhio dell'immaginazione lo comprenda tutto. Se ci è cosa che ripugna a questa forma è lo scolasticismo con la barbarie delle sue formole e le sue astrazioni; ma l'immaginazione vi fa penetrare l'aria e la luce: miracolo prodotto dalle due grandi potenze della mente dantesca la virtù sintetica e la virtù formativa. Veggasi la stupenda descrizione che fa Beatrice del moto degli astri di poco inferiore alla storia del processo creativo il capolavoro di questo genere. Qui la scienza della creazione è abbracciata in un solo girar d'occhio con sì stretta e rapida concatenazione che tutto il creato ti sta innanzi come una sola idea semplice. Ci sono concetti difficilissimi ad esprimersi come l'unità della luce nella sua diversità e l'imperfezione della natura che non ti dà mai realizzato l'ideale. I concetti qui non sono astrazioni ma forze vive gli attori della creazione la luce il cielo la natura e non hai un ragionamento hai una storia animata con una chiarezza e vigore di rappresentazione che fa di Dio e della natura vere persone poetiche:

Queste tre terzine sono una maraviglia di chiarezza e di energia in dir cosa difficilissima. Nè minor potenza d'intuizione trovi nella fine quando paragonando l'ideale alla cera del suggello aggiunge:

Ed anche la mano di Dante trema che fra tante bellezze ci è non poca scoria. Non di rado vedi non il poeta ma il dottore che esce dall'università di Parigi pieno il capo di tesi e di sillogismi. Molte quistioni sono troppo speciali altre sono infarcite di barbarie scolastica: definizioni distinzioni citazioni argomentazioni. E questo è non per difetto di virtù poetica ma per falso giudizio. A lui pare che questo lusso di scienza sia la cima della poesia e se ne vanta e si beffa di quelli che lo hanno sin qui seguito in piccola barca. - Tornate indietro - egli dice - che il mio libro e per soli quei pochi che possono gustare il pan degli angioli; - e sono i filosofi e i dottori suoi pari. Perciò il Paradiso e poco letto e poco gustato. Stanca soprattutto la sua monotonia che par quasi una serie di dimande e di risposte fra maestro e discente.

La visione intellettuale è la beatitudine. L'esposizione della scienza riesce in cantici e inni le ultime parole del veggente si confondono con gli osanna del cielo:

Dio lodiamo

Santo santo santo !”

Così è sciolto questo mistero dell'anima. Adombrato ne' simboli e allegorie del Purgatorio qui il mistero è svelato è la Divina Commedia dell'anima il suo indiarsi nell'eterna letizia. La forza che tira Dante a Dio si che sale come rivo

è l'amore è Beatrice che all'alto volo gli veste le piume Beatrice è in sè il compendio del paradiso lo specchio dove quello si riflette ne' suoi mutamenti. Puoi dipingerla quando prega Virgilio o quando “regalmente proterva” rimprovera l'amante; ma qui è spiritualizzata tanto che è indarno opera di pennello. La stessa parola non è possente di descrivere quel riso e quella bellezza trasmutabile se non ne' suoi effetti su Dante e su' celesti. Ecco uno de' più bei luoghi:

Spiritualizzato il corpo spiritualizzata l'anima. L'amore è purificato: nulla resta più di sensuale. Dante che nel purgatorio sentì il tremore dell'antica fiamma qui ode Beatrice con un sentimento assai vicino alla riverenza. Quando ella si allontana ei non manda un lamento: ogni parte terrestre è in lui arsa e consumata. Le sue parole sono affettuose; ma è affetto di riverente gratitudine siccome nel piccolo cenno che gli fa Beatrice l'amore dell'uomo come ombra si dilegua nell'amore di Dio ella lo ama in Dio:

Come Dante non potè entrare nel paradiso terrestre a vedere il simbolo del trionfo di Cristo senza lo “scotto” del pentimento così non può ne' “gemelli” o stelle fisse contemplare il trionfo di Cristo che non dichiari la sua fede. Allora san Pietro lo incorona poeta e poeta vuol dire banditore della verità. San Pietro gli dice:

Così la Commedia ha la sua consacrazione e la sua missione. È la verità bandita dal cielo della quale Dante si fa l'apostolo e il profeta: è il “poema sacro”. Con quella stessa coscienza della sua grandezza che si fe' “sesto fra cotanto senno” qui si pone accanto a san Pietro e se ne fa l'interprete congiungendo in sè le due corone il savio e il santo l'antica e la nuova civiltà il filosofo e il teologo. Dichiarata la sua fede consacrato e incoronato Dante si sente oramai vicino a Dio. Avea già contemplata la divinità nella sua umanità il Dio-uomo. Il trionfo di Cristo la festa dell'Incarnazione sembra reminiscenza di funzioni ecclesiastiche co' suoi principali attori Cristo la Vergine Gabriello. Cristo e la Vergine sono come nel santuario invisibili; la festa è tutta fuori di loro e intorno a loro. Succede il trionfo degli angioli e poi nell'empireo il trionfo di Dio.

L'empireo è la città di Dio il convento de' beati il proprio e vero paradiso. Beatrice raggia sì che il poeta si concede vinto più che tragedo o comico superato dal suo tema e desiste dal seguir

Ivi è la luce intellettuale che fa visibile

La luce ha figura circolare come il giallo di una rosa le cui bianche foglie si distendono per l'infinito spazio e sono gli scanni de' beati. San Bernardo spiega e descrive il maraviglioso giardino. Il punto che più splende è là dove sono

dove è la Vergine e gli angioli. Quel punto è la pacifica orifiamma del paradiso la bandiera della pace. Il giardino la rosa l'orifiamma sono immagini graziose ma inadeguate. Queste metafore non valgono la stupenda terzina dove san Bernardo è rappresentato in forma umana e intelligibile:

Il paradiso appunto perchè paradiso non puoi determinarlo troppo e descriverlo senza impiccolirlo. La sua forma adeguata è il sentimento l'eterno tripudio: ciò che è ben colto in quella plenitudine volante di angeli che diffondono un po' di vita tra quella calma. Il vero significato lirico del paradiso è nell'inno di Dante a Beatrice e nell'inno di san Bernardo alla Vergine ne' quali è il paradiso guardato dalla terra con sentimenti e impressioni di uomo. I beati stessi diventano interessanti quando tra quella luce vedi spuntare

visi a carità suadi

ed atti ornati di tutte onestadi

o quando “chiudon le mani” implorando la Vergine.

Anche Dio ha voluto descrivere Dante e vede in lui l'universo e poi la Trinità e poi l'Incarnazione congiunzione dell'umano e del divino in cui si acqueta il desiderio il “disiro” e il “velle

Dante vede ma è visione di cui hai le parole e non la forma; ci è l'intelletto non ci è più l'immaginazione divenuta un semplice lume un barlume. La forma sparisce; la visione cessa quasi tutta; sopravvive il sentimento:

L'immaginazione morendo manda in questi bei versi l'ultimo raggio. All'“alta fantasia” manca la possa; e insieme con la fantasia muore la poesia.

Così finisce la storia dell'anima. Di forma in forma di apparenza in apparenza ritrova e riconosce se stessa in Dio pura intelligenza puro amore e puro atto. Ed è in questa concordia che l'anima acqueta il suo desiderio trova la pace. Nell'Inferno signoreggia la materia anarchica: le sue forme ricevono d'ogni sorte differenze spiccate distinte corpulente e personali. Nel Purgatorio la materia non è più la sostanza ma un momento: lo spirito acquista coscienza di sua forza e contrastando e soffrendo conquista la sua libertà: la realtà vi è in immaginazione rimembranza del passato da cui si sprigiona aspirazione all'avvenire a cui si avvicina; onde le sue forme sono fantasmi e rappresentazioni dell'immaginativa anzi che obbietti reali: pitture sogni visioni estatiche simboli e canti. Nel Paradiso lo spirito già libero di grado in grado s'india; le differenze qualitative si risolvono e tutte le forme svaporano nella semplicità della luce nella incolorata melodia musicale nel puro pensiero. Quel regno della pace che tutti cercavano quel regno di Dio quel regno della filosofia quel “di là” tormento e amore di tanti spiriti è qui realizzato. Il concetto della nuova civiltà di cui avevi qua e là oscuri e sparsi vestigi è qui compreso in una immensa unità che rinchiude nel suo seno tutto lo scibile tutta la coltura e tutta la storia. E chi costruisce così vasta mole ci mette la serietà dell'artista del poeta del filosofo e del cristiano. Consapevole della sua elevatezza morale e della sua potenza intellettuale gli stanno innanzi acuti stimoli all'opera la patria la posterità l'adempimento di quella sacra missione che Dio affida all'ingegno acuti stimoli ne' quali sono purificati altri motivi meno nobili l'amor della parte la vendetta le passioni dell'esule: ci è là dentro nella sua sincerità tutto l'uomo ci è quel d'Adamo e ci è quel di Dio. A poco a poco quel mondo della fantasia diviene parte del suo essere il suo compagno fino agli ultimi giorni e vi gitta come nel libro della memoria l'eco de' suoi dolori delle sue speranze e delle sue maledizioni. Nato a immagine del mondo che gli era intorno simbolico mistico e scolastico quel mondo si trasforma e si colora e s'impolpa della sua sostanza e diviene il suo figlio il suo ritratto. La sua mente sdegna la superficie guarda nell'intimo midollo e la sua fantasia ripugna all'astratto a tutto dà forma. Onde nasce quella intuizione chiara e profonda che è il carattere del suo genio. E non solo l'oggetto gli si presenta con la sua forma ma con le sue impressioni e i suoi sentimenti. E n'esce una forma che è insieme immagine e sentimento immagine calda e viva sotto alla quale vedi il colore del sangue il movere della passione. E con l'immagine tutto è detto e non vi s'indugia e non la sviluppa e corre lievemente di cosa in cosa e sdegna gli accessorii. A conseguire l'effetto spesso gli basta una sola parola comprensiva che ti offre un gruppo d'immagini e di sentimenti e spesso mentre la parola dipinge non fosse altro con la sua giacitura l'armonia del verso ne esprime il sentimento. Tutto è succo tutto è cose cose intere nella loro vivente unità non decomposte dalla riflessione e dall'analisi. Per dirla con Dante il suo mondo è un volume non squadernato. È un mondo pensoso ritirato in sè poco comunicativo come fronte annuvolata da pensiero in travaglio. In quelle profondità scavano i secoli e vi trovano sempre nuove ispirazioni e nuovi pensieri. Là vive involto ancora e nodoso e pregno di misteri quel mondo che sottoposto all'analisi umanizzato e realizzato si chiama oggi letteratura moderna.


 

VIII

IL CANZONIERE

Dante morì nel 1321. La sua Commedia riempie di sè tutto il secolo. I contemporanei la chiamarono “divina” quasi la parola sacra il libro dell'altra vita o come diceano il “libro dell'anima”. Un tal Trombetta quattrocentista la mette fra le opere sacre e i libri dell'anima “da studiarsi in quaresima” come le Vite de' santi Padri la Vita di san Girolamo. Il popolo cantava i suoi versi anche in contado e pigliava alla semplice la sua fantasia. I dotti ammiravano la scienza sotto il velo delle favole quantunque alcuni austeri come Cecco d'Ascoli quel velo non ce l'avrebbero voluto. E Fazio degli Uberti crede di far cosa più degna rimovendo ogni velo ed esponendoci arida scienza nel suo Dittamondodicta mundi”.

L'impressione non fu puramente letteraria. Ammiravano la forma squisita ma tenevano il libro più che poesia. Vedevano là entro il libro della vita o della verità e ben presto fu spiegato e comentato come la Bibbia e come Aristotile accolto con la stessa serietà con la quale era stato concepito.

Oscurissimo in molti particolari e per le allusioni politiche e storiche e pel senso allegorico il libro nel suo insieme è così chiaro e semplice che si abbraccia tutto di un solo sguardo. La scienza della vita o della creazione è colta ne' suoi tratti essenziali e rappresentata con perfetta chiarezza e coesione. L'armonia intellettuale diviene cosa viva nell'architettura così coerente e significativa nelle grandi linee così accurata ne' minini particolari. L'immaginazione anche più pigra concepisce di un tratto inferno purgatorio e paradiso. Il pensiero nuovo mistico e spiritualista lunga elaborazione dei secoli compariva qui perfettamente armonizzato e pieno di vita. In questo mondo intellettuale e dommatico così ben rispondente alla coscienza universale si sviluppava la storia o il mistero dell'anima nella più grande varietà delle forme sì che vi si rifletteva tutta la vita morale nel suo senso più serio e più elevato. Il sentimento della famiglia la viva impressione della natura l'amor della patria un certo senso d'ordine di unità di pace interiore che fa contrasto al disordine e alla licenza di quei costumi pubblici e privati la virtù dell'indignazione il disprezzo di ogni viltà e volgarità la virilità e la fierezza della tempra l'aspirazione ad un ordine di cose ideale e superiore il vivere in ispirito e in contemplazione come staccato dalla terra il sentimento della giustizia e del dovere la professione della verità piaccia o non piaccia con l'occhio volto a' posteri e quella fede congiunta con tanto amore quell'accento di convinzione quella coscienza che ha il poeta della sua personalità della sua grandezza e della sua missione; tutto questo appartiene a ciò che di più nobile ed elevato e nella natura umana. Anche quel non so che scabro e rozzo e quasi selvaggio ch'è nella superficie rendeva l'immagine di quella eroica e ancor barbara giovinezza del mondo moderno.

Ma l'impressione prodotta dalla Commedia rimaneva circoscritta nell'Italia centrale. La scuola del nuovo stile non avea fatto ancora sentire la sua azione nelle rimanenti parti d'Italia dove la lingua dominante era sempre il latino scolastico ed ecclesiastico. Malgrado l'esempio di Dante non era ancora stabilito che in rima si potesse scrivere d'altro che di cose d'amore. E in questa sentenza era anche Cino da Pistoia solo superstite di quella scuola immortale dalla quale era uscita la Commedia. Compariva sulla scena la nuova generazione.

Lo studio de' classici la scoperta di nuovi capilavori una maggior pulitezza nella superficie della vita la fine delle lotte politiche col trionfo de' guelfi la maggior diffusione della coltura sono i tratti caratteristici di questa nuova situazione. La superficie si fa più levigata il gusto più corretto sorge la coscienza puramente letteraria il culto della forma per se stessa. Gli scrittori non pensarono più a render le loro idee in quella forma più viva e rapida che si offrisse loro innanzi; ma cercarono la bellezza e l'eleganza della forma. Dimesticatisi con Livio Cicerone Virgilio parve loro barbaro il latino di Dante; ebbero in dispregio quei trattati e quelle storie che erano state l'ammirazione della forte generazione scomparsa e non poterono tollerare il latino degli scolastici e della Bibbia. Intenti più alla forma che al contenuto poco loro importava la materia pur che lo stile ritraesse della classica eleganza. Così sorsero i primi puristi e letterati in Italia e capi furono Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.

Nel Petrarca si manifesta energicamente questo carattere della nuova generazione. Fece lunghi e faticosi viaggi per iscoprire le opere di Varrone le storie di Plinio la seconda deca di Livio; trovò le epistole di Cicerone e due sue orazioni. Dobbiamo a' suoi conforti e alla sua liberalità la prima versione di Omero e di parecchi scritti di Platone. Scopritore instancabile di codici emendava postillava copiava: copiò tutto Terenzio. In questa intima familiarità co' più grandi scrittori dell'antichità greco-latina tutto quel tempo di poi che fu detto “il medio evo” gli apparve una lunga barbarie; di Dante stesso ebbe assai poca stima; gli stranieri chiamava “barbari”; gl'italiani chiamava “latin sangue gentile”; voleva una ristaurazione dell'antichità e che non fosse ancora fattibile ne accagiona la corruttela de' costumi. Era Petracco e si fece chiamare Petrarca; sbattezzò i suoi amici e li chiamò Socrati e Lelii ed essi sbattezzarono lui e lo chiamarono Cicerone. Conchiuse la sua vita scrivendo epistole a Cicerone a Seneca a Quintiliano a Tito Livio ad Orazio a Virgilio ad Omero co' quali viveva in ispirito e poco innanzi di morire scrisse una lettera alla posterità alla quale raccomanda la sua memoria.

Così appariva l'aurora del Rinnovamento. L'Italia volgeva le spalle al medio evo e dopo tante vicissitudini ritrovava se stessa e si affermava popolo romano e latino. Questo proclamava Cola da Rienzo dall'alto del Campidoglio. Guelfi e ghibellini divennero nomi vieti; gli scolastici cessero il campo agli eruditi e a' letterati; la teologia fu segregata dagli studi di coltura generale e divenne scienza de' chierici; la filosofia conquistò il primato in tutto lo scibile; le allegorie le visioni le estasi le leggende i miti i misteri separati dal tronco in cui vivevano divennero forme puramente letterarie e d'imitazione; tutto quel mondo teologico mistico nel concetto scolastico e allegorico nelle forme fu tenuto barbarie da uomini che erano già in grado di gustare Virgilio e Omero.

Questa nuova Italia che ripiglia le sue tradizioni e si sente romana e latina e si pone nella sua personalità di rincontro agli altri popoli tutti stranieri e barbari ispira al giovine Petrarca la sua prima canzone. Qui non ci è più il guelfo o il ghibellino non il romano o il fiorentino: c'è l'Italia che si sente ancora regina delle nazioni; ci è l'italiano che parla con l'orgoglio di una razza superiore e ricorda Mario come se fosse vivuto l'altro ieri e quella storia fosse la sua storia; ci è la viva impressione di quel mondo classico sul giovine poeta che ivi trova i suoi antenati e cerca di nuovo quell'Italia potente e gloriosa l'Italia di Mario. L'orgoglio nazionale e l'odio de' barbari è il motivo della canzone lo spirito che vi alita per entro. Vi compariscono già tutte le qualità di un grande artista. La chiarezza e lo splendore dello stile la fusione delle tinte l'arte de' chiaroscuri la perfetta levigatezza e armonia della dizione la sobrietà nel ragionamento la misura ne' sentimenti un dolce calore che penetra dappertutto senza turbare l'equilibrio e la serenità e l'eleganza della forma fanno di questa canzone uno de' lavori più finiti dell'arte. L'Italia ha avuto il suo poeta; ora ha il suo artista.

In questa risurrezione dell'antica Italia è naturale che la lingua latina fosse stimata non solo lingua de' dotti ma lingua nazionale e che la storia di Roma dovesse sembrare agl'italiani la loro propria storia. Da queste opinioni uscì l'Africa che al Petrarca dove parere la vera Eneide la grande epopea nazionale rappresentata in quella lotta ultima nella quale Roma vincendo Cartagine si apriva la via alla dominazione universale. Questo poema rispondeva così bene alla coscienza pubblica che Petrarca fu incoronato principe de' poeti ed ebbe tal grido e tali onori che nessun uomo ha avuto mai. Nuovo Virgilio volle emulare anche a Cicerone accettando volentieri legazioni che gli dessero occasione di recitare pubbliche orazioni. Scrisse egloghe trattati dialoghi epistole sempre in latino: lavori molto apprezzati da' contemporanei ma tosto dimenticati quando cresciuta la coltura e raffinato il gusto parve il suo latino così barbaro come barbaro era parso a lui il latino di Dante e de' Mussati de' Lovati e de' Bonati tenuti a' tempi loro quasi redivivi Orazii e Virgilii.

Ma la lingua latina potea così poco rivivere come l'Italia latina. Il latino scolastico avea pure alcuna vita perchè lo scrittore sforzava la lingua e l'ammodernava e ci mettea se stesso. Ma il latino classico non potea produrre che un puro lavoro d'imitazione. Lo scrittore pieno di riverenza verso l'alto modello non pensa ad appropriarselo e trasformarlo ma ad avvicinarvisi possibilmente. Tutta la sua attività è volta alla frase classica che gli sta innanzi nella sua generalità spoglia di tutte le idee accessorie che suscitava ne' contemporanei e dove è il più fino e il più intimo dello stile. Perciò schiva il particolare e il proprio corre volentieri appresso le perifrasi e le circonlocuzioni e arido nelle immagini povero di colori scarso di movimenti interni e dice non quanto o come gli sgorga dal di dentro ma ciò che può rendersi in quella forma e secondo quel modello: difetti visibili nell'Africa. Così si formo una coscienza puramente letteraria lo studio della forma in se stessa con tutti gli artifici e i lenocini della rettorica: ciò che fu detto “eleganza” “forma scelta e nobile”; maniera di scrivere artificiosa che pare anche nelle sue canzoni politiche come quella a Cola di Rienzo opera più di letterato che di poeta e perciò pregiata molto finchè in Italia durò questa coscienza artificiale.

In verità il Petrarca era tutt'altro che romano o latino come pur voleva parere: potè latinizzare il suo nome ma non la sua anima. Lo scrittore latino è tutto al di fuori ne' fatti e nelle cose è tutto vita attiva e virile diresti non abbia il tempo di piegarsi in sè e interrogarsi. Al Petrarca sta male l'abito di Cicerone; anche i contemporanei a sentirlo battevano le mani e ridevano. Non sentivano l'uomo in tutto quel rimbombo ciceroniano. L'uomo c'era ma più simile all'anacoreta e al santo che a Livio e a Cicerone più inclinato alle fantasie e alle estasi che all'azione. Natura contemplativa e solitaria la vita esterna fu a lui non occupazione ma diversione; la sua vera vita fu tutta al di dentro di sè: il solitario di Valchiusa fu il poeta di se stesso. Dante alzo Beatrice nell'universo del quale si fece la coscienza e la voce; egli calò tutto l'universo in Laura e fece di lei e di sè il suo mondo. Qui fu la sua vita e qui fu la sua gloria.

Pare un regresso: pure è un progresso. Questo mondo è più piccolo è appena un frammento della vasta sintesi dantesca ma è un frammento divenuto una compiuta e ricca totalità un mondo pieno concreto sviluppato analizzato ricerco ne' più intimi recessi. Beatrice sviluppata dal simbolo e dalla scolastica qui è Laura nella sua chiarezza e personalità di donna; l'amore scioltosi dalle universe cose entro le quali giaceva inviluppato qui non è concetto nè simbolo ma sentimento; e l'amante che occupa sempre la scena ti dà la storia della sua anima instancabile esploratore di se stesso. In questo lavoro analitico-psicologico la realtà pare sull'orizzonte chiara e schietta sgombra di tutte le nebbie tra le quali era stata ravvolta. Usciamo infine da' miti da' simboli dalle astrattezze teologiche e scolastiche e siamo in piena luce nel tempio dell'umana coscienza. Nessuna cosa oramai si pone di mezzo tra l'uomo e noi. La sfinge è scoperta: l'uomo è trovato.

Gli è vero che la teoria rimane la stessa. La donna è “scala al Fattore” l'amore è il “principio delle universe cose”. Ma tutto questo è accessorio è il convenuto; la sostanza del libro è la vicenda assidua de' fenomeni più delicati del cuore umano. Cresciuto in Avignone fra le tradizioni provenzali e le corti d'amore quando Francesco da Barberino avea già pubblicato i Documenti d'amore e i Reggimenti delle donne raccolta di tutte le leggi e costumanze galanti egli attinge nello stesso arsenale e spaccia la stessa rettorica allegorie concetti sottigliezze spiritose galanterie. Soprattutto tiene molto a questo che tutto il mondo sappia non essere il suo amore sensuale ma amicizia spirituale fonte di virtù. Dante chiama infamia l'accusa di avere espresso il suo amore troppo sensualmente e a cessare da sè l'infamia trasformò Beatrice nella filosofia e scrisse canzoni filosofiche. Ma le continue proteste e dichiarazioni del Petrarca non convincono nessuno; perchè e il corpo di Laura non come la bella faccia della sapienza ma come corpo che gli scalda l'immaginazione. Laura è modesta casta gentile ornata di ogni virtù; ma sono qualità astratte non è qui la sua poesia. Ciò che move l'amante e ispira il poeta è Laura da' capei biondi dal collo di latte dalle guance infocate da' sereni occhi dal dolce viso la quale egli situa e atteggia in mille maniere e ne cava sempre un nuovo ritratto che spicca in mezzo ad un bel paesaggio il verde del campo la pioggia de' fiori l'acqua che mormora fatta la natura eco di Laura.

Questo sentimento delle belle forme della bella donna e della bella natura puro di ogni turbamento è la musa di Petrarca. Diresti Laura un modello del quale il pittore sia innamorato non come uomo ma come pittore intento meno a possederlo che a rappresentarlo. E Laura è poco più che un modello una bella forma serena posta lì per essere contemplata e dipinta creatura pittorica non interamente poetica: non è la tale donna nel tale e tale stato dell'animo ma è la Donna non velo o simbolo di qualcos'altro ma la donna come bella. Non ci è ancora l'individuo: ci è il genere. In quella quietudine dell'aspetto in quella serenità della forma ci è l'ideale femminile ancora divino sopra le passioni fuori degli avvenimenti non tocco da miseria terrena che il poeta crederebbe profanare calandolo in terra e facendolo creatura umana. La chiama una dea ed è una dea; non è ancor donna. Sta ancora sul piedistallo di statua; non è scesa in mezzo agli uomini non si è umanata. Coloro i quali vogliono leggere nell'anima di questo essere muto e senza espansione e cercarvi il suo segreto fanno il contrario di quello che volle il poeta cercano la donna dov'egli vedeva la dea. Certo a' nostri occhi Laura dee parere una forma monotona e anche talora insipida; ma chi si mette in quei tempi mitici e allegorici troverà in Laura la creatura più reale che il medio evo poteva produrre.

La vita di Laura diviene umana appunto allora che è morta ed è fatta creatura celeste. Qui l'amore non può aver niente più di sensuale: è l'amore di una morta viva in cielo e può liberamente spandersi. Non vedi più i “capei d'oro” e le “rosee dita” e il “bel piede” dal quale l'“erbetta verde” e i “fiori di color mille” desiderano d'esser tocchi. Pure questa Laura non dipinta e più bella e soprattutto più viva perchè “meno altera” meno dea e più donna quando apparisce all'amante e siede sulla sponda del suo letto e gli asciuga gli occhi con quella mano tanto desiata; e salendo al cielo fra gli angioli si volge indietro come aspetti qualcuno; e nella suprema beatitudine desidera il bel corpo e l'amante ed entra con lui in dolci colloqui. Così il mistero di Laura si scioglie nell'altro mondo com'è nella Commedia: tutte le contraddizioni finiscono. Sciolta dalle condizioni del reale tolta di mezzo la carne divenuta creatura libera dell'immaginazione Laura par fuori con chiarezza acquista un carattere dove ci è la santa e ci è soprattutto la donna. Esseri taciturni e indefiniti mentre vivono Beatrice e Laura cominciano a vivere appunto quando muoiono.

E il mistero si scioglie anche nel Petrarca. In vita di Laura sorge l'opposizione tra il senso e la ragione tra la carne e lo spirito. Questo concetto fondamentale del medio evo se nel Petrarca è purificato della sua forma simbolica e scolastica rimane pur sempre il suo “credo” cristiano e filosofico. L'opposizione era sciolta teoricamente con l'amicizia platonica o spirituale legame d'anime puro di ogni concupiscenza; dalla quale astrazione non potea uscire che una lirica dottrinale e sbiadita senza sangue dove non trovi nè l'amante nè l'amata nè l'amore. Vi sono momenti nella vita del Petrarca abbastanza tranquilli e prosaici perchè egli si possa dare a questo spasso. Allora riproduce la scuola de' trovatori con tutt'i suoi difetti in una forma eletta e vezzosa che li pallia. E vi trovi il convenzionale il manierato le regole e le sottigliezze del codice d'amore soprattutto il concettoso dotato com'era di uno spirito acuto. Non coglie se stesso nel momento dell'impressione; l'impressione è passata e se la mette dinanzi e la spiega come critico o filosofo: hai un di là dell'impressione l'impressione generalizzata e spiegata come è nella più parte de' suoi sonetti in vita di Laura; antitesi freddure sottigliezze ragionamenti in forma pretensiosa e civettuola. Allora tutto è chiaro; tutto e spiegato con Platone e col codice d'amore; hai il solito contenuto lirico allora in voga sulla donna sull'amore pomposamente abbigliato. Trovi un maraviglioso artefice di verso un ingegno colto ornato acuto elegante: non trovi ancora il poeta e non l'artista. Ma nel momento delle impressioni tra le sue irrequietezze e agitazioni circuito di fantasmi par fuori la sua personalità: trovi il poeta e l'artista. Quello che sente è in opposizione con quello che crede. Crede che la carne è peccato; che il suo amore è spirituale; che Laura gli mostra la via “che al ciel conduce”; che il corpo è un velo dello spirito. E se in questo “credo” trovasse ogni suo appagamento avremmo Dante e Beatrice. Ma non vi si appaga: l'educazione classica e l'istinto dell'artista si ribella contro queste astrazioni di uno spiritualismo esagerato; si rivela in lui uno spirito nuovo il senso del reale e del concreto così sviluppato ne' pagani. Non vi si appaga l'artista e non vi si appaga l'uomo; perchè si sente inquieto non ben sicuro di quello che crede e vuol far credere e sente il morso del senso e tutte le ansietà di un amore di donna. Scoppia fuori la contraddizione o il mistero. Il suo amore non e così possente che lo metta in istato di ribellione verso le sue credenze nè la sua fede è così possente che uccida la sensualità del suo amore. Nasce un fluttuar continuo di riflessioni contraddittorie un sì ed un no un voglio e non voglio:

Nasce il mistero dell'amore che ti offre le più diverse apparenze senza che il poeta giunga ad averne chiara coscienza:

Manca al Petrarca la forza di sciogliersi da questa contraddizione e più vi si dimena più vi s'impiglia. Il canzoniere in vita di Laura è la storia delle sue contraddizioni. Ora gli pare che contraddizione non ci sia e unisce in pace provvisoria cielo e terra ragione e senso gli occhi che mostrano la via del cielo e gli occhi alfin dolci tremanti

Sono i suoi momenti di sanità e di forza di entusiasmo più artistico che amoroso dal quale escono le vivaci descrizioni del bel corpo e le tre “canzoni sorelle”. Ora si sente inquieto e si lascia ir dietro alla corrente delle impressioni e delle immagini e vede il meglio e al peggior s'appiglia come conchiude nella canzone

dove è rappresentata la lotta interna tra la ragione e il senso la ragione che parla e il senso che morde. E ci sono pure momenti che la ragione piglia il di sopra e si volge a Dio e si confessa e fa proposito di svellere dal suo cuore il “falso dolce fuggitivo”

Non c'è dunque nel Canzoniere una storia un andar graduato da un punto all'altro; ma è un vagar continuo tra le più contrarie impressioni secondo le occasioni e lo stato dell'animo in questo o quel momento della vita. Non ci è storia perchè nell'anima non ci è una forte volontà ne uno scopo ben chiaro; perciò è tutta in balìa d'impressioni momentanee tirata in opposte direzioni. Di che nasce un difetto d'equilibrio la discordia o la scissura interiore. Il reale comparisce la prima volta nell'arte condannato maledetto chiamato il “falso dolce fuggitivo”: pur desiderato di un desiderio vago che si appaga solo in immaginazione debolmente contraddetto e debolmente secondato. Minore è la speranza più vivo è il desiderio il quale mancatagli la realtà si appaga in immaginazione. Nasce una vita di sogni di estasi di fantasie di quello che l'animo desidera non con la speranza di conseguirlo anzi con la coscienza di non conseguirlo mai. Il poeta sogna e sa che sogna e gli piace sognare

Perchè se per averne più certezza rompe il corso dell'immaginazione sopraggiunge il disinganno. Così vive in fantasia fabbricandosi godimenti interrotti spesso dalla riflessione con un “ahi lasso!” in un flutto perenne d'illusioni e disillusioni. Il disaccordo interno è appunto in questo nella immaginazione che costruisce e nella riflessione che distrugge: malattia dello spirito nata appunto dall'esagerazione dello spiritualismo. Lo spirito non è sano perchè a forza di segregarsi dalla natura e dal senso si trova al fine di rincontro e ribelle l'immaginazione e l'immaginazione non è sana perchè ha di rincontro a sè e ribelle la riflessione che in un attimo le dissipa i suoi castelli incantati. Lo spirito rimane pura riflessione o ragione astratta e non ha forza di sottoporsi la volontà per il contrasto che trova nell'immaginazione. L'immaginazione rimane pura immaginazione e non ha forza sulla volontà non lavora a realizzare i suoi dolci fantasmi per il contrasto che trova nella riflessione. Se una delle due forze potesse soggiogar l'altra nascerebbe l'equilibrio e la salute; ma le due forze lottano senza alcun risultato non si giunge mai a un virile “io voglio” ci è al di dentro il sì e il no in eterna tenzone: perciò la vita non esce mai al di fuori in un risultato in un'azione rimane pregna di pensieri e immaginazioni tutta al di dentro:

Lo spirito consuma se stesso in un fantasticare inutile e in una inutile riflessione. È punito là dove ha peccato. Ha voluto assorbir tutto in sé; e ora si trova solo e si ciba di se stesso ed è egli medesimo il suo avoltoio. Stanco svogliato disgustato di una realtà a cui si sente estraneo il poeta come un romito volge le spalle al mondo e si riduce nella solitudine di Valchiusa e ne fa il suo eremo e rimane solo con se stesso a fantasticare “solo e pensoso” incalzato dal suo interno avoltoio:

Da questa situazione sono uscite le due più profonde canzoni del medio evo l'una poco nota l'altra assai popolare amendue poco studiate l'una che incomincia:

l'altra che incomincia:

Se il Petrarca avesse avuto piena e chiara coscienza della sua malattia di questa attività interna inutile e oziosa una specie di lenta consunzione dello spirito impotente ad uscir da sè e attingere il reale avremmo la tragedia dell'anima come Dante ne concepì la commedia (una tragedia nella quale il medio evo avrebbe riconosciuto la sua impotenza e la sua condanna) tra' dolori della contraddizione vedremmo il misticismo morire spuntare l'alba della realtà il senso o il corpo proscritto e dichiarato il peccato ripigliare la parte che gli tocca nella vita. Ma nel Petrarca la lotta è senza virilità. Gli manca la forza che abbondò a Dante d'idealizzarsi nell'universo; e rimanendo chiuso nella sua individualità gli manca pure ogni forza di resistenza: sì che la tragedia si risolve in una flebile elegia. Il poeta si abbandona facilmente e prorompe in lacrime e in lamenti. Acuto più che profondo non guarda negli abissi del suo male e si contenta descriverne i fenomeni condensati in immagini e in sentenze rimaste proverbiali. Tenero e impressionabile capace più di emozioni che di passioni non dimora lungamente nel suo dolore che vien presto l'alleviamento lo scoppio delle lagrime e de' lamenti. Artista più che poeta e disposto a consolarsi facilmente quando l'immaginazione abbia virtù di offrirgli un simulacro di quella realtà di cui sente la privazione:

La famiglia la patria la natura l'amore sono per il poeta com'era Dante cose reali che riempiono la vita e le danno uno scopo. Per il Petrarca sono principalmente materia di rappresentazione: l'immagine per lui vale la cosa. Ma come ci è insieme in lui la coscienza che è l'immagine e non la cosa la sua soddisfazione non è intera ci è in fondo un sentimento della propria impotenza ci e questo: - Non potendo avere la realtà mi appago del suo simulacro. - Onde nasce un sentimento elegiaco “dolce-amaro” la malinconia sentimento di tutte le anime tenere che non reggono lungamente allo strazio e non osano guardare in viso il loro male e si creano amabili fantasmi e dolci illusioni. Manca al suo strazio l'elevata coscienza della sua natura e la profondità del sentimento. Ci è anzi in lui la tendenza a dissimularselo cercando scampo nella benefica immaginazione. La fisonomia di questo stato del suo spirito è scolpita nella canzone:

cielo fosco e funebre che a poco a poco si rasserena ne' più cari diletti dell'immaginazione insino a che da ultimo divien luce di paradiso:

Il poeta è così attirato in questo mondo fabbricatogli dall'immaginazione che quando si riscuote domanda:

Il suo obblio il suo sogno era stato così tenace così simile alla realtà che gli parea essere in cielo non là dov'era. Questa dolce malinconia è la verità della sua ispirazione è il suo genio. Quando si sforza di uscirne spunta spesso il retore: le sue collere le sue ammirazioni non sono senza una esagerazione e ricercatezza che rivelano lo sforzo. Ma quando vi s'immerge e vi si annega la sua forma acquista il carattere della verità congiunta con la grandezza è un modello di semplicità e naturalezza.

Gli è che natura negandogli le grandi convinzioni e le grandi passioni e lo sguardo profondo di Dante ne aveva fatto un artista finito. L'immagine appaga in lui non solo l'artista ma tutto l'uomo. Senza patria senza famiglia senza un centro sociale in mezzo a cui viva altro che letterario ritirato nella solitudine dello studio e nell'intimo commercio degli antichi la verità e la serietà della sua vita e tutta in queste espansioni estetiche come la vita del santo e nelle sue estasi e contemplazioni. Dante è sbandito da Firenze ma la sua anima è sempre colà. Il Petrarca è costretto a dimostrare la sua italianità:

A Dante non fa bisogno di rettorica. Si sente italiano e ne ha tutte le passioni e ne senti il fremito e il tumulto nella sua poesia. Ciò che al contrario ti colpisce nel mondo personale e solitario del Petrarca è la privazione della realtà e un desiderio di essa scemo di forza che si appaga ne' docili sogni dell'immaginazione. Tutto converge nell'immaginazione; tutto gli si offre come un sensibile: il pensiero e il sentimento sono in lui contemplazione estetica bella forma. Ciò che l'interessa non è entusiasmo intellettuale nè sentimento morale o patriottico ma la contemplazione per se stessa in quanto è bella un sentimento puramente estetico. Laura piange; egli dice: - Quanto son belle quelle lacrime! - Laura muore; egli dice:

Fantastica sulla sua morte. Ed ecco Laura che prega sulla sua fossa

La bellezza per Dante è apparenza simbolica la bella faccia della sapienza: dietro a quella ci sta la vita nella sua serietà vita intellettuale e morale. Qui la bellezza emancipata dal simbolo si pone per se stessa sostanziale libera indipendente quale si sia il suo contenuto sia pure indifferente o frivolo o repugnante. Il contenuto già così astratto e scientifico anzi scolastico qui pare per la prima volta essenzialmente come bellezza schietta realtà artistica. Al Petrarca non basta che l'immagine sia viva come bastava a Dante; vuole che sia bella. Ciò che move il suo cervello a sviluppare e formare l'immagine non è l'idea come storia o filosofia o etica ma è il piacere estetico che in lui s'ingenera della sua contemplazione.

Questo sentimento della bella forma è così in lui connaturato che penetra ne' minimi particolari dell'elocuzione della lingua e del verso. Dante anche nei più minuti particolari di esecuzione guarda il di dentro e non lo perde mai di vista perchè è il di dentro che l'appassiona; il Petrarca rimane volentieri al di fuori e non resta che non l'abbia condotto all'ultima perfezion tecnica. Nelle immagini ne' paragoni nelle idee non cerca novità e originalità anzi attinge volentieri ne' classici e ne' trovatori intento non a cercare o trovare ma a dir meglio ciò che è stato detto da altri. L'obbiettivo della sua poesia non è la cosa ma l'immagine il modo di rappresentarla. E reca a tanta finezza l'espressione che la lingua l'elocuzione il verso finora in uno stato di continua e progressiva formazione acquistano una forma fissa e definitiva divenuta il modello de' secoli posteriori. La lingua poetica è anche oggi quale il Petrarca ce la lasciò nè alcuno gli è entrato innanzi negli artifici del verso e dell'elocuzione. Quel tipo di una lingua illustre che Dante vagheggiava nella prosa il Petrarca lo ha realizzato nella poesia dalla quale è sbandito il rozzo il disarmonico il volgare il grottesco e il gotico elementi che pur compariscono nella Commedia. È una forma bella non solo per rispetto all'idea ma per se stessa aulica aristocratica elegante melodiosa. La parola vale non solo come segno ma come parola. Il verso non è solo armonia o rispondenza con quel di dentro ma melodia elemento musicale in se stesso.

Ma questa bella forma non è un puro artificio tecnico o meccanico una vuota sonorità anzi vien fuori da una immaginazione appassionata e innamorata che ha il suo riposo il suo ultimo fine in se stessa. È una immaginazione chiusa in sè non trascendente che di rado si alza a fantasia o a sentimento anzi rifugge dal fantasma e tende spesso a produrre immagini finite ben contornate chiare e fisse. E se vi si appagasse sarebbe poesia assolutamente pagana e plastica. Ma il grande artista ne' momenti anche più geniali della produzione sente come un vuoto qualche cosa che gli manchi e non è soddisfatto ed è malinconico. Che gli manca?

Gli manca com'è detto il possesso e il godimento e la serietà e la forza della vita reale. Come artista si sente incompiuto; come immaginazione si sente isolato: vivere in immaginazione gli piace; pur sente che là non è la vita e vi trova sollievo non appagamento. Questo sentimento del vuoto che penetra ne' più cari diletti dell'immaginazione e li tronca bruscamente questa immaginazione che appunto perchè si sente immaginazione e non realtà produce le sue creature con la lacrima del desiderio negli occhi questo desiderio inestinguibile che pullula dal seno stesso dell'arte e la chiarisce ombra e simulacro e non cosa viva sono il fondo originale e moderno della poesia petrarchesca. L'immagine nasce trista perchè nasce con la coscienza di essere immagine e non cosa e lo strazio di questa coscienza è raddolcito perchè non ci essendo la cosa ci è l'immagine e così bella così attraente. Situazione piena di misteri di contraddizioni e di chiaroscuri che genera quel non so che “dolce amaro” detto malinconia un sentirsi consumare e struggere dolcemente:

La malinconia è la musa cristiana e il male di Dante e de' più eletti spiriti di quel tempo. Ma la malinconia del Petrarca e della nuova generazione che gli stava attorno e già di un'altra natura e accenna a tempi nuovi.

La malinconia di Dante ha radice nello spirito stesso del medio evo che poneva il fine della vita in un di là della vita nella congiunzione dell'umano e del divino che è la base della Divina Commedia. Le anime del purgatorio sono malinconiche perchè sospirano appresso ad un bene di cui hanno innanzi la sola immagine nelle pitture ne' simboli nelle visioni estatiche. Quei godimenti dell'immaginativa aguzzano più il desiderio. Non basta loro l'immagine: vogliono la realtà; e questo volere raddolcito alla presenza del simulacro genera la loro malinconia. Sono prive del paradiso ma lo veggono in immaginazione e sperano di salirvi quando che sia: perciò sono contente nel fuoco. La condizione delle anime purganti è molto simile a quella degli uomini nella vita terrena: è lo stesso tarlo che li rode. La vita corporale è un velo un simulacro di quel di là che la fede e la scienza offriva chiarissimo all'intelletto e all'immaginazione; perciò la vita corporale era in se stessa il peccato o la carne l'inferno il vasello o la prigione dove l'anima vive malinconica: il giorno della morte è per l'anima il giorno della vita e della libertà. Non che profondarsi nel reale e cercare di assimilarselo l'anima tende a separarsene e vivere in ispirito o in immaginazione fabbricandosi un simulacro di quel di là a cui spera di giungere: indi la tendenza all'ascetismo alla solitudine all'estasi e al misticismo. Questa era la malinconia di Caterina quando dicea: “Muoio e non posso morire”.

La stessa tendenza e la stessa malinconia è nel Petrarca. Anch'egli cerca fabbricarsi ombre e simulacri di Laura anch'egli cerca l'obblio e il riposo ne' sogni dell'immaginazione. Quando la santa e il poeta s'incontrarono in Avignone dovettero sentirsi sotto un aspetto parenti di spirito. Il poeta aveva la stessa inclinazione alla solitudine alla contemplazione al raccoglimento all'estasi alla malinconia. E se guardiamo all'apparenza c'era in tutti e due le stesse credenze e le stesse aspirazioni. Quel “muoio e non posso morire” corrisponde bene a questo grido del poeta:

Ma qui fiutate la rettorica e là avete l'espressione nuda ed energica di un sentimento che investe tutta l'anima e consuma la santa a trentatrè anni. Questa concentrazione ed unità delle forze intorno ad un punto solo in che è la serietà della vita mancò al Petrarca. Il suo mondo è pur quello di Caterina e di Dante mondato della sua scorza scolastica e simbolica ridotto in forma più chiara e artistica ma pur quello. Se non che questo mondo mistico non lo possiede tutto e sovrano e indiscusso nella mente non tira a sè tutte le forze della vita. È in lui visibile una dispersione e distrazione di forze come di uomo tirato in qua e in là da contrarie correnti che vorrebbe pigliar la sua via e non se ne sente la forza e vaga in balìa dei flutti scontento e riluttante. La bella unità di Dante che vedeva la vita nell'armonia dell'intelletto e dell'atto mediante l'amore è rotta. Qui ci è scompiglio interiore ribellione contraddizione:

La malinconia di Caterina è l'impazienza del morire di unirsi con Cristo; la malinconia di Dante è la dissonanza fra il mondo divino e la selva oscura la vita terrena malinconia piena di forza e di speranza che si scioglie nell'azione. La malinconia del Petrarca è la coscienza della sua interna dissonanza e della sua impotenza a conciliarla malinconia insanabile perchè il male non è nell'intelletto è nella volontà non certo ribelle ma debole e contraddittoria. Per palliare la dissonanza esce in mezzo la sofistica e la rettorica con le più smaglianti frasi con le più sottili distinzioni: intervalli di tregua che fanno risorgere più acuta la coscienza del male. Gli è che il medio evo è già nel suo petto in fermentazione penetrato di altri elementi senza che egli abbia una distinta coscienza di questo nuovo stato: accanto al cristiano ascetico ci è l'erudito il letterato l'artista il pagano l'uomo di mondo con tutti gl'istinti e le tendenze naturali che vogliono farsi valere. Si forma in lui un essere contraddittorio come ne' tempi di transizione che non è ancora l'uomo nuovo e non è più l'uomo antico.

La malinconia del Petrarca non è dunque più la malinconia del medio evo di un mondo formato e trascendente che rende quaggiù malinconico lo spirito per il suo legame a quel corpo ma è la malinconia di un mondo nuovo che oscuro ancora alla coscienza si sviluppa in seno al medio evo e ci sta a disagio e tende a sprigionarsene e non ne ha la forza per la resistenza che trova nell'intelletto. L'intelletto appartiene al medio evo alle cui dottrine ha tolta la ruvida scorza non la sostanza. Quel mondo nuovo plastico pagano reazione della natura contro il misticismo è ancora così debole così poco lineato che l'intelletto può condannarlo e maledirlo o assimilarselo con una sofistica apparenza di conciliazione e se cacciato dalla vita reale riapparisce nell'immaginazione può penetrare anche colà e dirgli: - Tu non sei che un fantasma.

Se in vita di Laura questo sentimento nuovo che sorge più vicino all'uomo e alla natura e dissimulato co' più ingegnosi sofismi quasi peccato che si cerchi di palliare dopo la morte di Laura purificato e trasformato si manifesta con più energia. Beatrice morta diviene per Dante la scienza la voce di quel mondo di là ov'era lo scopo della vita. La storia di Beatrice è sviluppo di idee e di dottrine nella lirica e nella Commedia. Il suo riso è luce intellettuale raggio dell'intelletto. La storia di Laura è profondamente umana e reale eco de' più delicati sentimenti delle più tenere emozioni delle più vivaci impressioni che colpiscono l'uomo in terra.

La poesia in vita di Laura è dominata dall'intelletto da una riflessione sofistica e rettorica che altera la purità de' sentimenti e sottilizza le immagini e raffredda le impressioni e con vani sforzi di conciliazione mette più in vista quel sì e quel no che battagliavano nella debole volontà del poeta. In morte di Laura ogni battaglia cessa e non ci è più vestigio di sofismi e di rettorica perchè la conciliazione cercata finora così ingegnosamente e non conseguita e già avvenuta per la natura delle cose. Laura morta diviene libera creatura dell'immaginazione non più persona autonoma e resistente ma docile fantasma. Il poeta ne fa la sua creatura può darle affetti e pensieri quali gli piaccia: può piangerla vederla parLare seco vivere seco in ispirito. La situazione è semplice e umana. È la donna amata sparita dalla terra che ti apparisce in sogno e ti asciuga gli occhi e ti prende per mano e ti parla: consolazioni malinconiche interrotte da una lacrima quando ti svegli. Dante si asciuga presto la lacrima e si gitta fra le onde agitate dell'esistenza e si rifà un ideale e lo chiama Beatrice. A lui manca il tempo di piangere perchè tiene nel suo petto due secoli ed ha la forza di comprenderli e realizzarli. Il Petrarca giunge qui che è già stanco e disgustato dell'esistenza vi giunge con l'anima di solitario e di romito e non ha altra forza che di piangere:

Piange la fine delle illusioni il vacuo dell'esistenza il perire di tutte le cose:

Così dopo vane speranze e vani timori quest'anima tenera e impressionabile rinunzia alla lotta e si abbandona e si separa da un mondo dove invano erasi sforzata di penetrare e si ritira nella solitudine della sua immaginazione con Laura chiamando partecipi de' suoi lamenti l'usignolo e il vago augelletto e la valle e il bosco e l'aura e l'onda. La scissura interna dà luogo ad una calma elegiaca; il cuore stanco si riconcilia con l'intelletto. Il passato cagione di gioie e di affanni gli pare un sogno; la vita gli pare insipida; vivere è un breve sonno; morire è svegliarsi tra gli spiriti eletti; quando gli occhi si chiudono allora si aprono nell'eterno lume; il mondo cristiano non contraddetto mai dal suo intelletto ora penetra nel suo cuore gli appare come un mondo nuovo che dipinge con accenti di maraviglia:

Ecco in che modo rappresenta questo nuovo stato nel suo inno alla Vergine:

Quest'uomo che gitta sul passato lo sguardo del disinganno che chiama la sua vita miseria e peccato che vede gli anni fuggiti con tanta rapidità senza alcun frutto ben si promette di fare un altro canzoniere alla Vergine ma e troppo tardi. - Omai son stanco! - Grida. E se ne' Trionfi cerca ingrandire il suo orizzonte e uscire da sè e contemplare l'umanità ciò che ne' suoi versi ha ancora qualche interesse è il suo passato che i vecchi hanno il privilegio di evocare rifarne qualche frammento; e soprattutto il sogno di Laura tanto imitato da poi.

Chi legge il Canzoniere non può non ricevere questa impressione di un mondo astratto rettorico sofistico quale fu foggiato da' trovatori dove appariscono sentimenti più umani e reali e forme più chiare e rilevate o se vogliamo guardare più alto di un mondo mistico-scolastico oltreumano ammesso ancora dall'intelletto ma repulso dal cuore e condannato dall'immaginazione. Se guardiamo alla forma quel mondo ha perduto il suo aspetto simbolico-dottrinale che lo teneva al di là della vita e dell'arte e si è umanizzato è divenuto immagine e sentimento; il tempio gotico si è trasformato in un bel tempietto greco nobilmente decorato elegante con luce uguale con perfetta simMetria ispirato da Venere dea della bellezza e della grazia. Il grottesco il gotico gli angoli le punte le ombre l'indefinito il dissonante il prolisso il superfluo il volgare il difforme tutto è cacciato via da questo tempio dell'armonia maraviglia d'arte che chiude un secolo e ne annunzia un altro. L'artista gode; l'uomo è scontento. Perchè sotto a questa bella forma così levigata e pulita vive un povero core d'uomo nutrito di desidèri e d'immagini a cui lo tira la natura da cui lo allontana la ragione senza la forza di uscire dalla contraddizione e senza la ferma volontà di realizzarle. L'uomo è minore dell'artista. L'artista non posa che non abbia data l'ultima finitezza al suo idolo; l'uomo non osa di guardarsi e abbozza i moti del proprio cuore e salta nelle più opposte direzioni quasi tema di fermarsi troppo di esser costretto a volere e a risolversi. Perciò quella bella superficie riman fredda; non ha al di sotto profondità di esplorazione o energia di volontà e di convinzione. La situazione poteva esser tragica rimane elegiaca; poesia di un'anima debole e tenera che si effonde malinconicamente in dolci lamenti assai contenta quando possa vivere in immaginazione e fantasticare: l'uomo svanisce nell'artista. Gli è che a quest'uomo mancava quella fede seria e profonda nel proprio mondo che fece di Caterina una santa e di Dante un poeta. Quel mondo giace nel suo cervello già decomposto e in fermentazione mescolato con altre divinità. Ciò che di più serio si move nel suo spirito è il sentimento dell'arte congiunto con l'amore dell'antichità e dell'erudizione. È in abbozzo l'immagine anticipata de' secoli seguenti di cui fu l'idolo. L'arte si afferma come arte e prende possesso della vita.

Così il medio evo quando appena cominciava a svilupparsi negli altri popoli presso di noi per una precoce cultura si dissolveva prima che avesse potuto esplicarsi in tutti gli aspetti dell'arte e produrre la forma drammatica. Dante che dovea essere il principio di tutta una letteratura ne fu la fine. Quel mondo così perfetto al di fuori è al di dentro scisso e fiacco: è contemplazione d'artista non più fede e sentimento. Questa dissonanza tra una forma così finita e armonica e un contenuto così debole e contraddittorio ha la sua espressione ne' sentimenti che prevalgono a' tempi di transizione la malinconia la tenerezza la delicatezza il molle e voluttuoso fantasticare. E l'illustre malato abbandonato a' flutti di questo doppio mondo di un mondo che se ne va e di un mondo che se ne viene e che con tanta dolcezza e grazia rappresenta una contraddizione a scioglier la quale gli manca la coscienza e la forza è Francesco Petrarca.


 

IX

IL DECAMERONE

Se ora apri il Decamerone letta appena la prima novella gli è come un cascar dalle nuvole e un domandarti col Petrarca: “Qui come venn'io o quando?”. Non è una evoluzione ma è una catastrofe o una rivoluzione che da un dì all'altro ti presenta il mondo mutato. Qui trovi il medio evo non solo negato ma canzonato.

Ser Ciapperello è un Tartufo anticipato di parecchi secoli con questa differenza che il Molière te ne fa venire disgusto e ribrezzo con l'intenzione di concitare gli uditori contro la sua ipocrisia dove il Boccaccio ci si spassa con l'intenzione meno d'irritarti contro l'ipocrita che di farti ridere a spese del suo buon confessore e de' creduli frati e della credula plebe. Perciò l'arma del Molière è l'ironia sarcastica; l'arma del Boccaccio è l'allegra caricatura. Per giungere a queste forme e a queste intenzioni bisogna andare fino al Voltaire. Giovanni Boccaccio sotto un certo aspetto fu il Voltaire del secolo decimoquarto.

Molti se la pigliano col Boccaccio e dicono ch'egli guastò e corruppe lo spirito italiano. Egli medesimo in vecchiezza fu preso dal rimorso e finì chierico condannando il suo libro. Ma quel libro non era possibile se nello spirito italiano non fosse già entrato il guasto se “guasto” s'ha a dire. Ove le cose di cui ride il Boccaccio fossero state venerabili poniamo pure ch'egli avesse potuto riderne i contemporanei ne avrebbero sentita indignazione. Ma fu il contrario. Il libro parve rispondere a qualche cosa che volea da lungo tempo uscir fuori dalle anime parve dire a voce alta ciò che tutti dicevano nel loro segreto e fu applauditissimo con tanto successo che il buon Passavanti se ne spaventò e vi oppose come antidoto lo Specchio di penitenza. Il Boccaccio fu dunque la voce letteraria di un mondo quale era già confusamente avvertito nella coscienza. C'era un segreto: egli lo indovinò e tutti batterono le mani. Questo fatto in luogo d'essere maledetto merita di essere studiato.

Il carattere del medio evo è la trascendenza un dì là oltreumano ed oltrenaturale fuori della natura e dell'uomo il genere e la specie fuori dell'individuo la materia e la forma fuori della loro unità l'intelletto fuori dell'anima la perfezione e la virtù fuori della vita la legge fuori della coscienza lo spirito fuori del corpo e lo scopo della vita fuori del mondo. La base di questa teologia filosofica è l'esistenza degli universali. Il mondo fu popolato di esseri o intelligenze sulla cui natura molto si disputò: sono esse idee divine? Sono generi e specie reali? Sono specie intelligibili? Questo edificio gemeva già sotto i colpi dei nominalisti cioè di quelli che negavano l'esistenza de' generi e delle specie e li chiamavano puri nomi e dicevano esistere solo il singolo l'individuo. Sulla loro bandiera era scritto un motto divenuto così popolare: “Non bisogna moltiplicare enti senza necessità”.

L'ascetismo era il frutto naturale di un mondo teocratico spinto all'esagerazione. La vita quaggiù perdeva la sua serietà e il suo valore. L'uomo dimorava con lo spirito nell'altra vita. E la cima della perfezione fu posta nell'estasi nella preghiera e nella contemplazione.

Così nacque la letteratura teocratica così nacquero le leggende i misteri le visioni le allegorie: così nacque la Commedia il poema dell'altra vita. Il pensiero non aveva intimità non calava nell'uomo e nella natura ma se ne teneva fuori tutto intorno alla natura e alle qualità degli enti che erano le stesse forze umane e naturali sciolte dall'individuo ed esistenti per sè stesse. Le astrazioni dello spirito divennero esseri viventi. E perchè le astrazioni frutto dell'intelletto inesauribile nelle sue distinzioni e suddistinzioni sono infinite questi esseri moltiplicarono nell'acuto intelletto degli scolastici. Come il mondo scolastico fu popolato di esseri astratti così il mondo poetico fu popolato di esseri allegorici l'uomo l'anima la donna l'amore le virtù i vizi. Non erano persone come le pagane divinità: erano semplici personificazioni.

Il sentimento come frutto di inclinazioni umane e naturali era peccato. Le passioni erano scomunicate. La poesia era madre di menzogne. Il teatro cibo del diavolo. La novella e il romanzo generi di letteratura profani. Tutto questo si chiamava il senso e il luogo comune di questo mondo ascetico era la lotta del senso con la ragione da fra Guittone a Francesco Petrarca. Il sentimento reietto come senso e costretto ad esser ragione strappato dal cuore umano divenne anch'esso un universale un fatto esteriore ora simbolico ora scolastico o come si diceva “platonico”. Il padre de' sentimenti l'amore divenne un fatto filosofico forza unitiva unità dell'intelletto e dell'atto. Così nacque la lirica platonica dal Guinicelli al Petrarca. Il senso e l'immaginazione si ribellavano contro questo platonismo. Ed è in questa ribellione ancorachè poco scrutata e poco accentuata che è la grandezza della lirica petrarchesca. Rappresentare i moti del cuore e della immaginazione nella loro naturalezza e intimità era vietato. E colui che più gustò di questo frutto proibito fu il Petrarca.

L'immaginazione era un istrumento dell'intelletto destinata a creare forme e simboli di concetti astratti. Lo sa il povero Dante. Nessuno ebbe mai l'immaginazione così torturata. E nacquero forme simboliche e intellettuali nella cui generalità scomparve l'individuo con la sua personalità. Erano forme tipiche generi e specie anzichè l'individuo. La regina delle forme la donna non potè sottrarsi a questa invasione degli universali e rimase un ideale più divino che umano bella faccia ma faccia della sapienza più amata che amante e amata meno come donna che come scala alle cose celesti. Così nacquero Beatrice e Laura.

Certo a nessuno è lecito parlare con poca riverenza di questo mondo dell'autorità che segna un momento interessantissimo nella storia dello spirito umano e che ha pure il suo fondamento nella vita. L'illuminismo o il misticismo la visione estatica è un portato naturale dello spirito nella sua alienazione dal corpo ciò che dicevasi a “vivere in astrazione”: momento di concitazione e di entusiasmo che l'uomo pare più che uomo e sembra in lui parli un dio o un demonio. Perciò quell'entusiasmo fu detto “furore divino” o “estro” qualità de' profeti e de' poeti che sono tutt'uno per Dante. Questa elevazione dell'anima in se stessa e al di sopra de' limiti ordinari della vita reale è il lato eroico dell'umanità il privilegio della giovinezza la condizione di tutte le società primitive quando cessati i bisogni materiali vi si sveglia lo spirito. Tutto ciò che ci fa disprezzare la vita e le ricchezze e i piaceri è degno di stima.

Ma è uno stato di tensione e di disquilibrio che non può aver durata. L'arte la coltura la conoscenza e l'esperienza della vita lo modificano e lo trasformano.

L'arte impossessandosi di questo mondo lo umanizza lo accosta all'uomo e alla natura lo mescola di altri elementi vi fa penetrare le passioni e i furori del senso. Non ci hai ancora equilibrio; non ci hai qualche cosa che sia la vita nella sua intimità insieme paradiso e inferno; ma già di rincontro al paradiso hai l'inferno di rincontro a Beatrice hai Francesca da Rimini e di rincontro a Dante simbolo dell'umanità hai Dante Alighieri l'individuo in tutta la sua personalità. Nel Canzoniere quel mondo si spoglia pure le sue forme natie teologiche scolastiche allegoriche e prende aspetto più umano e naturale.

E se fosse durato ancora un pezzo nella coscienza non è dubbio che l'arte vi si sarebbe compiutamente sviluppata e come la visione e la leggenda divenne la Commedia come Selvaggia divenne Beatrice e Beatrice Laura dal seno de' misteri sarebbe uscito il dramma e molti generi di letteratura ancora iniziali e abbozzati già nella Commedia sarebbero venuti a maturità come l'inno e la satira. Ma già quel mondo nel Canzoniere non ha più il calore dell'entusiasmo e della fede e in quelle forme così eleganti lascia una parte della sua sostanza. Il sentimento religioso morale politico vive fiaccamente nella coscienza del poeta; e il posto rimasto vuoto è occupato dall'arte.

Questo infiacchirsi della coscienza questo culto della bella forma fra tanta invasione di antichità greco-romana sono i due fatti caratteristici della nuova generazione che succede all'età virile e credente e appassionata di Dante. Quegli uomini non si appassionano più per le dottrine e non cercano il vero sotto i “versi strani”; la “bella veste” li appaga. I loro studi non hanno più a guida l'investigazione della verità ma l'erudizione: c'è il sapere per il sapere come l'arte per l'arte. I Fiori I Giardini I Conviti I Tesori dove la sapienza sacra e profana era usata a scopo morale danno luogo a raccolte semplicemente storiche ed erudite. Ci sono ancora gli scolastici che chiamano il Petrarca un insipiente ma le loro querele si sperdono nel plauso universale che pone il Petrarca accanto a Virgilio. E codesto Virgilio non è più il mago precursore del cristianesimo e neppure il savio “che tutto seppe” ma è il dolce ed elegante poeta. Dante s'incorona da sè in paradiso poeta profeta e apostolo: i contemporanei incoronano nel Petrarca l'autore dell'Africa della nuova Eneide. La coltura e l'arte sono i nuovi idoli dello spirito italiano.

Ma la coltura e l'arte non è il naturale fiorire di un mondo interiore anzi è accompagnata con l'infiacchirsi della coscienza e si pone già per se stessa come un fatto estrinseco che abbia il suo valore in sè e sia a un tempo mezzo e scopo. È una coltura e un'arte “formale” non riscaldata abbastanza dal contenuto. Ci è lì dentro lo stesso mondo di Dante ma c'è come ragione in lotta col sentimento e con l'immaginazione; lotta fiacca e inconcludente: scemato è il vigore della fede e della volontà.

Gli è che quel mondo mistico fuori della natura e dell'uomo appunto per la sua esagerazione non poteva avere alcun riscontro con la realtà. Ebbe la sua età dell'oro evocata da Dante con tanta malinconia; ma a lungo andare dovea rimanere pura teoria ammessa per tradizione e per abitudine e contraddetta nella vita pratica. Più alto era il modello più visibile era la contraddizione e più scandalosa. Nel secolo di Dante e di Caterina grandi sono i lamenti e le invettive per la corruttela de' costumi specialmente ne' papi e ne' chierici che con l'esempio contraddicevano alle loro dottrine. Queste invettive divennero il luogo comune della letteratura e ne odi l'eco un po' rettorica ne' versi eleganti del Petrarca contro l'avara Babilonia. Ma lo spettacolo divenuto abituale e generale non moveva più indignazione; e mentre Caterina ammoniva e il Petrarca satireggiava il mondo continuava sua via. Allato al misticismo vedevi il cinismo. Dirimpetto a Caterina vedevi Giovanna di Napoli.

La corruttela de' costumi non era negazione ardita delle dottrine cristiane anzi tutti si tenevano buoni cristiani ed erano zelantissimi contro gli eretici e molti facevano all'ultimo penitenza. Ma era qualche cosa di peggio: era indifferenza un oscurarsi del senso morale. Quel mondo viveva ancora nell'intelletto non creduto e non combattuto ozioso senza alcuna efficacia su' sentimenti e sulle azioni.

In questa condizione degli spiriti la coltura dovea avere un effetto deleterio. La parte leggendaria fantastica miracolosa di quel mondo dovea parere a quegl'ingegni così svegliati cosa così poco seria come le prediche de' frati contraddette dalla vita. Sparisce quel candore infantile di fede anche nelle cose più assurde che tanto ci alletta negli scrittori antecedenti. Le classi colte cominciano a separarsi dalla plebe e a prendersi spasso della sua credulità. Esser credente era prima un titolo di gloria de' più forti ingegni. Essere incredulo diviene ora indizio di animo colto.

D'altra parte la maggiore coltura generando un più vivo sentimento della natura e dell'uomo dovea affrettare la rovina di un mondo così astratto e così estrinseco alla vita. Il reale disconosciuto dovea prender la sua rivincita; la natura troppo compressa dovea reagire a sua volta. Così di rincontro a quello spiritualismo esagerato sorgeva una reazione inevitabile il naturalismo e il realismo nella vita pratica.

Indi è che la coltura in luogo di calare in quel mondo e modificarlo e trasformarlo e riabilitarlo nella coscienza come fu più tardi in Germania si collocò addirittura fuori di esso e lasciata la coscienza vuota impiegò la sua attività ne' piaceri dell'erudizione e dell'arte.

Così quel mondo si trovò fuori della coscienza senza lotta intellettuale anzi rimanendo ozioso padrone dell'intelletto. Ci erano anche allora i liberi pensatori soprattutto ne' conventi ma erano sforzi isolati scuciti. Una lotta più seria era stata iniziata da' ghibellini; ma la rotta di Benevento e il trionfo durevole de' guelfi avea posto fine alla discussione e all'esame. Gli uomini amavano meglio scoprire e postillare manoscritti e nelle cose di fede lasciar dire il papa e vivere a modo loro.

Questo fu il naturale effetto della vittoria guelfa. Finirono le lotte e le discussioni; successe l'indifferenza religiosa e politica fra tanto fiorire di coltura di erudizione di arte di commerci e d'industrie. Ci erano tutti i segni di un grande progresso: una più esatta conoscenza dell'antichità un gusto più fine e un sentimento artistico più sviluppato una disposizione meno alla fede che alla critica e all'investigazione minor violenza di passioni maggiore eleganza di forme: l'idolo di questa società dovea essere il Petrarca nel quale riconosceva e incoronava se stessa. Ma sotto a quel progresso v'era il germe di una incurabile decadenza l'infiacchimento della coscienza.

Il Canzoniere posto tra quei due mondi senza esser nè l'uno nè l'altro così elegante al di fuori così fiacco e discorde al di dentro è l'ultima voce letteraria rettorica ed elegiaca di un mondo che si oscurava nella coscienza. I contemporanei applaudivano alla bella forma e non cercavano e non si appassionavano pel contenuto come avveniva con la Commedia.

Quel mondo divenuto letterario e artistico anche un po' rettorico e convenzionale non rispondeva più alle condizioni reali della vita italiana. Quel misticismo quell'estasi dello spirito che si rivela un'ultima volta con tanta malinconia e tenerezza nel Petrarca era in aperta rottura con le tendenze e le abitudini di una società colta erudita artistica dedita a' godimenti e alle cure materiali ancora nell'intelletto cristiana non scettica e non materialista ma nella vita già indifferente e incuriosa degli alti problemi dell'umanità. Il linguaggio era lo stesso ma dietro alla parola non ci era più la cosa. Questo era il segreto di tutti quel qualche cosa non avvertito e non definito ma che pur si manifestava con tanta chiarezza nella vita pratica. E colui che dovea svelare il segreto e dargli una voce letteraria non usciva già dalle scuole: usciva dal seno stesso di una società che dovea così bene rappresentare.

Tutti i grandi scrittori erano usciti dall'università di Bologna Guinicelli Cino Cavalcanti Dante Petrarca.

Giovanni Boccaccio nato il 1313 nove anni dopo il Petrarca e otto prima della morte di Dante “non pienamente avendo imparato grammatica” come scrive Filippo Villani “volendo e costringendolo il padre per cagione di guadagno fu costretto ad attendere all'abbaco e per la medesima cagione a peregrinare”. Il padre era un mercante fiorentino e alla mercatura indirizzò il figlio. Quando i giovani appena cominciavano i loro studi nella università il nostro Giovanni faceva come si direbbe oggi il commesso viaggiatore in servigio del padre e il suo libro era la pratica e la conoscenza del mondo. Girando di città in città si mostrava più dedito alle piacevoli letture e a' passatempi che all'esercizio della mercatura e più uomo di spirito e d'immaginazione che uomo d'affari. Era chiamato “il poeta”. Venuto in Napoli a ventitrè anni menava vita signorile bazzicava in corte usava co' gentiluomini spendeva largamente amoreggiava scribacchiava leggicchiava. Dicesi che alla vista della tomba di Virgilio rimase pensoso e sentì la sua vocazione poetica. Fatto è che il buon padre visto che non se ne potea cavare un mercante pensò farne un giureconsulto e lo mise a studiare i canoni con gran rincrescimento del giovane che chiama sciupato il tempo messo a fare il mercante e ad imparare i canoni. Finalmente libero di sè si gittò agli studi letterari e come portava il tempo si die' al latino e al greco e si empì il capo di mitologia e di storia greca e romana. Ei menava la vita mezzo tra gli studi e i piaceri spesso viaggiando non più a mercatare ma a cercar manoscritti. Narrasi che al 7 aprile del 1341 siAsi nella chiesa di San Lorenzo invaghito di Maria figlia naturale di re Roberto: certo nella corte spensierata e licenziosa della regina Giovanna non potè prender lezione di buon costume nè di amori platonici. E volse lo studio e l'ingegno a rallegrare col suo spirito la corte e la sua non ingrata Maria che con nome poetico chiamò Fiammetta. Il Petrarca non era ancora comparso sull'orizzonte: tutto era pieno di Dante e tra' suoi più appassionati era il nostro poeta. Frutto della sua ammirazione fu la Vita di Dante uno de' suoi lavori giovanili. Ma egli poteva ammirarlo non comprenderlo perchè lo spirito di Dante non era in lui. Formatosi fuori della scuola alieno da ogni seria coltura scolastica e ascetica profano anzichè mistico ne' sentimenti e nella vita si foggiò un Dante a sua immagine. Chi vuol conoscere le opinioni e i sentimenti del nostro giovane legga quel libro e vi troverà già la stoffa da cui uscì il Decamerone. Nessuna originalità e profondità di pensiero nessuna sottigliezza di argomentazione; tutto vi è dimostrato anche le più comuni verità ma il fondamento della dimostrazione non è nell'intelletto è nella memoria; non hai innanzi un pensatore nè un disputatore ma un erudito. Vuol mostrare l'ingratitudine di Firenze verso Dante ed ecco uscir fuori Solone “il cui petto uno umano tempio di divina sapienza fu reputato” e la Siria la Macedonia la greca e la romana repubblica e Atene e Argo e Smirne e Pilos e Chios e Colofon e Mantova e Sulmona e Venosa e Aquino. “Tu sola ” conchiude il poeta “quasi i Cammilli i Publicoli i Torquati Fabrizi Catoni Fabi Scipioni ... in te fossero ... avendoti lasciato il tuo antico cittadino Claudiano cader dalle mani non hai avuto del presente poeta cura ma l'hai da te scacciato sbandito e privatolo se tu avessi potuto del tuo soprannome”. Volendo parlar di Dante comincia ab ovo dalla prima fondazione di Firenze. Spesso lascia lì Dante ed esce in lunghe digressioni tra le quali è notabile quella sulla natura della poesia. Secondo lui il linguaggio poetico fu trovato per porgere “sacrate lusinghe” alla divinità con parole lontane “da ogni altro plebeo e pubblico stile di parlare” e “sotto legge di certi numeri composte per li quali alcuna dolcezza si sentisse e cacciassesi il rincrescimento e la noia”. I poeti imitarono “dello Spirito santo le vestigie” perchè come nella divina Scrittura “la quale teologia appelliamo quando con figura di alcuna storia quando col senso di alcuna visione” si mostra l'“alto mistero della Incarnazione del Verbo divino la vita di quello le cose occorse nella sua morte e la resurrezione vittoriosa ... così i poeti ... quando con finzioni di vari iddii quando con trasmutazioni di uomini in varie forme quando con leggiadre persuasioni ne dimostrano le cagioni delle cose e gli effetti delle virtù e de' vizi”. Poi spiega ciò che lo Spirito santo volle mostrare nel rogo di Mosè nella visione di Nabuccodonosor nelle lamentazioni di Geremia; e ciò che i poeti vollero mostrare in Saturno Giove Giunone Nettuno e Plutone e nelle trasformazioni di Ercole in dio e di Licaone in lupo e nella bellezza degli Elisi e nell'oscurità di Dite. E ribattendo quelli che chiamano i poeti antichi “uomini insensati” inventori di favole “a niuna verità convenienti” conclude che “la teologia e la poesia quasi una cosa si posson dire” anzi che la “teologia niun'altra cosa è che una poesia d'Iddio” e “poetica finzione”. L'erudito poeta non si arresta qui e ci regala la favola di Dafne amata da Febo e in lauro convertita per darci spiegazione perchè i poeti avevano la corona d'alloro. Di quello che fu il mondo interiore di Dante qui non è alcun vestigio; invece il mondo esterno vi è sviluppato fino all'aneddoto fino al pettegolezzo. Ci si vede uno spirito curioso e profano che cerca il maraviglioso e lo straordinario negli accidenti umani disposto a spiegarli con la superficialità di un erudito e di un uomo di mondo o “del secolo” come si diceva allora. Spende le ultime pagine ad almanaccare sopra un sogno attribuito alla madre di Dante e vi fa pompa di tutta la sua erudizione. Sotto il suo sguardo profano Beatrice perde tutta la sua idealità e l'amore di Dante scacciato dalle sue regioni ascetiche e platoniche e scolastiche acquista una tinta romanzesca. Il nostro Giovanni non si fa capace come Dante a nove anni abbia potuto amare Beatrice. Il caso gli pare strano e ne cerca diverse spiegazioni. Forse fu “conformità di complessioni o di costumi”; forse anche “influenza da cielo”. Ma queste spiegazioni non lo appagano e si ferma in quest'altra che cava dall'esperienza. Dante secondo lui vide Beatrice in una festa il primo di maggio quando la “dolcezza del cielo riveste dei suoi ornamenti la terra e tutta per la varietà de' fiori mescolati tra le verdi fronde la fa ridente e per esperienza veggiamo nelle feste per la dolcezza de' suoni per la generale allegrezza per la delicatezza de' cibi e de' vini gli animi eziandio degli uomini maturi non che de' giovanetti ampliarsi e divenire atti a poter leggermente esser presi da qualunque cosa che piace”.

Dante dunque amò fanciullo per la stessa ragione che può amare un uomo maturo; i cibi e i vini delicati e l'allegrezza generale ecco ciò che dispose il suo animo all'amore. Beatrice era per Dante “angeletta bella e nova” senza contorni e senza determinazioni scesa di cielo a mostrare le bellezze e le virtù che le piovono dalle stelle. Tutto questo non entra al Boccaccio il quale vuol pure spiegarsi come la potè parere un'angioletta e si foggia nella profana immaginazione una bella immagine di fanciulla e la descrive così:

 

“Assai leggiadretta secondo la sua fanciullezza e ne' suoi atti gentilesca e piacevole molto con costumi e con parole assai più gravi e modeste che 'l suo picciolo tempo non richiedeva; ed oltre a questo aveva le fattezze del volto dilicate molto e ottimamente disposte e piene oltre alla bellezza di tanta onesta vaghezza che quasi un'angioletta era reputata da molti.”

Ecco un'angioletta di carne; eccoci dalle mistiche altezze di Dante caduti in piena fisiologia e notomia. Dante amò perchè tra vivande e sollazzi l'animo è disposto ad amare; e Beatrice parea quasi un'angioletta perchè era fatta così e così. Beatrice muore a ventiquattro anni. Il nostro biografo non se ne maraviglia perchè “un poco di soperchio di freddo o di caldo che noi abbiamo ... ci conduce” alla morte. I parenti e gli amici per consolare Dante gli diedero moglie:

“Oh menti cieche oh tenebrosi intelletti!” esclama il nostro scapolo e nemico dell'amore regolato. “Qual medico” egli aggiunge

 

“s'ingegnerà di cacciare l'acuta febbre col fuoco o 'l freddo delle midolla delle ossa col ghiaccio o colla neve? Certo niun altro se non colui il quale con nuova moglie crederà le amorose tribolazioni mitigare”.

 

E qui da uomo esperto della materia parla della natura e de' fenomeni dell'amore e dell'indole delle donne e delle noie e degli affanni de' mariti e compiange il povero Dante. Dipinge con tocchi sicuri e in certi punti è eloquente perchè qui è in casa sua. Udite questo periodo: “Possiamo pensare quanti dolori nascondono le camere li quali da fuori da chi non ha occhi la cui perspicacia trapassa le mura sono riputati diletti”. Ma Dante secondo ch'egli narra dimenticò presto moglie e Beatrice e si die' all'amore delle donne: ciò che l'indusse al gran viaggio nell'altro mondo ove se ne fece così aspramente rimproverare da Beatrice. Il quale amore non pare poi un così gran peccato al nostro scapolo: “Chi sarà tra' mortali giusto giudice a condannarlo? Non io”. Ed ecco venire innanzi l'erudito e citare parecchi casi di uomini illustri vinti dalle donne Giove Ercole Paride Adamo Davide Salomone Erode. Ti par di assistere a una parodia. Eppure niente è più serio. Il giovane è pieno di ammirazione verso Dante che chiama un “iddio fra gli uomini” e crede con questa Vita riparare alla ingratitudine di Firenze e alzargli un monumento.

La Vita di Dante è una rivelazione. Qui dentro si manifesta l'autore in tutta la sua ingenuità e spontaneità: vi trovi il nuovo uomo che si andava formando in Italia. Mette in un fascio mondo sacro e profano Bibbia e mitologia teologia e poesia: la teologia è una “poesia di Dio” una “finzione poetica”. Questa strana mescolanza era già comune al secolo; Dante stesso ne dava esempio. Ma dove Dante tirava il mondo antico nel circolo del suo universo e lo battezzava lo spiritualizzava il Boccaccio sbattezza tutto l'universo e lo materializza. In teoria ammette la religione e parla con riverenza della teologia che ci fa conoscere “la divina essenza e le altre separate intelligenze”. Ma in pratica questo mondo dello spirito rimane perfettamente estraneo alla sua intelligenza e al suo cuore. Misticismo platonicismo scolasticismo tutto il mondo dantesco non ha alcun senso per lui. Non solo questo mondo gli rimane estraneo come coltura ma ancora più come sentimento. E gli manca non solo il sentimento religioso ma fino quella certa elevatezza morale che talora ne fa le veci. Spento è in lui il cristiano e anche il cittadino. Non gli è mai venuto in mente che servire la patria e dare a lei l'ingegno e le sostanze e la vita è un dovere così stretto come è il provvedere al proprio sostentamento. Dietro al cittadino comincia a comparire il buon borghese che ama la sua patria ma a patto non gli dia molto fastidio e lo lasci attendere alla sua industria e non lo tiri per forza di casa o di bottega. De' guelfi e ghibellini è perduta la memoria tanto che il Boccaccio crede doverne spiegare il significato. E non si persuade come Dante siesi potuto mescolare nelle pubbliche faccende e ne reca la cagione alla sua vanità ed ha quasi l'aria di dirgli: - Ben ti sta. - Non voglio dire con questo che il Boccaccio fosse uomo dispregiatore della religione o della virtù o della patria. Sciolto era di costumi pure tutti i doveri comuni della vita li adempiva con la stessa puntualità e diligenza degli altri e molte legazioni gli furono commesse da' suoi concittadini. Ma l'età eroica era passata; la nuova generazione non comprendeva più le lotte e le passioni de' padri; il carattere era caduto in quella mezzanità che non è ancora volgarità e non è più grandezza; della religione della libertà dell'uomo antico c'erano ancora le forme ma lo spirito era ito. Di vita pubblica qualche apparenza era ancora in Toscana sede della coltura; nelle altre parti era vita di corte. L'erudizione l'arte gli affari i piaceri costituivano il fondo di questa nuova società borghese e mezzana della quale ritratto era il Boccaccio gioviale cortigiano erudito artista. Se la malinconia dell'estatico Petrarca ti presentava un simulacro dell'uomo antico la spensierata giovialità del Boccaccio è l'ingresso nel mondo a voce alta e beffarda della materia o della carne la maledetta il peccato; è il primo riso di una società più colta e più intelligente disposta a burlarsi dell'antica; è la natura e l'uomo che pure ammettendo l'esistenza di separate intelligenze non ne tien conto e fa di sè il suo mezzo e il suo scopo.

Questo tempo fu detto di transizione. Vivevano insieme nel seno degli uomini due mondi il passato nelle sue forme se non nel suo spirito ed un mondo nuovo che si affermava come reazione a quello fondato sulla realtà presa in se stessa e vuota di elementi ideali. Erano in presenza il misticismo con le sue forme ricordevoli del mondo soprannaturale e il puro naturalismo. Ma il misticismo indebolito già nella coscienza era divenuto abituale e tradizionale applaudito nel Petrarca non come il mondo sacro ma come un mondo artistico e letterario. Il naturalismo al contrario sorgeva allora in piena concordia con la vita pratica e co' sentimenti con tutti gli allettamenti della novità. Questo mutamento nello spirito dovea capovolgere la base della letteratura. Il romanzo e la novella rimasti generi di scrivere volgari e scomunicati presero il sopravvento. Al mondo lirico con le sue estasi le sue visioni e le sue leggende il suo entusiasmo succede il mondo epico o narrativo con le sue avventure le sue feste le sue descrizioni i suoi piaceri e le sue malizie. La vita contemplativa si fa attiva; l'altro mondo sparisce dalla letteratura; l'uomo non vive più in ispirito fuori del mondo ma vi si tuffa e sente la vita e gode la vita. Il celeste e il divino sono proscritti dalla coscienza vi entra l'umano e il naturale. La base della vita non è più quello che dee essere ma quello che è: Dante chiude un mondo; il Boccaccio ne apre un altro.

Mettiamo ora il piè in questo mondo del Boccaccio. Che vi troviamo? Opere latine di gran mole: una specie di dizionario storico ove hai tutte le antiche forme mitologiche usate da' poeti e con le loro spiegazioni allegoriche e i fatti degli uomini illustri e delle celebri donne libri tradotti in francese in tedesco in inglese in ispagnuolo in italiano di cui si fecero moltissime edizioni accolti con infinito favore da' contemporanei come una nuova rivelazione dell'antichità. Prima ci erano le enciclopedie e i “fiori” e i “giardini” ove si raccoglieva ciò che gli antichi pensarono in filosofia in etica in rettorica; il Boccaccio raccoglie quello che gli antichi immaginarono quello che operarono. Al mondo del puro pensiero succede il mondo dell'immaginazione e dell'azione. Vediamolo ora all'opera. Quest'uomo che ha pieno il capo di tanta erudizione greca e latina che ammira Dante perchè ha saputo molto bene imitare Virgilio Ovidio Stazio e Lucano e a cui di fiorentino è rimasto l'amore del bello idioma e il sentimento dell'arte è insieme il trovatore e il giullare della corte rallegrata dalle sue facezie e dai suoi racconti è l'erede della gaia scienza sa a menadito romanzi francesi italiani e provenzali e scrive per sollazzarsi e per sollazzare. Ci erano in lui parecchi uomini non ben fusi l'erudito l'artista il trovatore il letterato e l'uomo di mondo.

Ecco uscirgli dall'immaginazione il Filocolo. Il titolo è greco come più tardi è il Filostrato e come sarà il Decamerone. La materia è tratta da un romanzo spagnuolo ed è gli amori di Florio e Biancofiore. Ma si tratta della Spagna pagana al tempo di Roma pagana quando già vi penetrava il cristianesimo. La materia è tale che il giovane autore vi può sviluppare tutte le sue tendenze. Ai giovani innamorati e alle amorose donzelle consacra i “nuovi versi i quali - egli dice loro - non vi porgeranno i crudeli incendimenti dell'antica Troia nè le sanguinose battaglie di Farsaglia ma udirete i pietosi avvenimenti dell'innamorato Florio e della sua Biancofiore i quali vi fiano graziosi molto”. Probabilmente i giovani vaghi e le donne innamorate avrebbero desiderato una storia di amore più breve e meno dotta. Ma come resistere alla tentazione? Il giovane ci ficca dentro tutta la mitologia e ad ogni menoma occasione esce fuori con la storia greca e romana. Giulia uccisole il marito nell'ultima disperazione parlando all'uccisore cita Ecuba e Cornelia. Nè la mitologia ci sta a pigione come semplice colorito ma è la vera macchina del racconto come in Omero e Virgilio. E se Giove Pluto Venere Pallade e Cupido fossero personaggi vivi avremmo un grottesco non dispiacevole; ma sono personificazioni ampollose e rettoriche formate dalla memoria non dall'immaginazione. Ancora visto che teologia e poesia sono una stessa cosa la teologia è paganizzata e Dio diviene Giove e Lucifero diviene Pluto; sì che pagani e cristiani inimicandosi a morte usano le stesse forme e adorano gli stessi iddii. Macchinismo vuoto che s'intramette dappertutto e guasta il linguaggio naturale del sentimento introducendo ne' fatti e nelle passioni un'espressione artificiale e metaforica. Volendo dire giovani innamorati si dice: “i quali avete la vela della barca della vaga mente dirizzato a' venti che muovono dalle dorate penne ventilanti del giovane figliuolo di Citerea”. L'avvicinarsi della sera è espresso così: “I disiosi cavalli del sole caldi per lo diurno affanno si bagnavano nelle marine acque d'occidente”. Altrove è detto: “L'Aurora aveva rimossi i notturni fuochi e Febo avea già rasciutte le brinose erbe”. Nasce uno stile pomposo e freddo che invano l'autore cerca incalorire con le figure rettoriche in cui è maestro. Spesseggiano le interrogazioni le esclamazioni le personificazioni le apostrofi; il sentimento si sviluppa dalle cose e si pone per se stesso in una forma ampollosa e pretensiosa. Il prode Lelio è ucciso sul campo di battaglia e il poeta vi recita su questa magnifica tirata rettorica:

“Oh misera Fortuna quanto sono i tuoi movimenti vani e fallaci nelle mondane cose! Ove sono i molti tesori che tu con ampia mano gli avevi dati? Ove i molti amici? Ove la gran famiglia? Tu gli hai con subito giramento tolte tutte queste cose e il suo corpo senza sepoltura morto giace negli strani campi. Almeno gli avessi tu concedute le romane lacrime e le tremanti dita del vecchio padre gli avessero chiusi i morienti occhi e l'ultimo onore della sepoltura gli avesse potuto fare!”

Giulia sviene: “gli spiriti ... vagabondi pare che vadano per lo vicino aere”; e il poeta fa una lunga apostrofe a Lelio che al suo pericol correndo lei semiviva abbandona e dice di Amore:

“Deh! Quanto Amore si portò villanamente tra voi avendovi tenuti insieme con la sua virtù tanto tempo caramente congiunti; e ora nell'ultimo partimento non consentì che voi vi avessi insieme baciati o almeno salutati.”

I personaggi fanno spesso lunghe orazioni con tutti gli artifici della rettorica com'è la parlata di Pluto a' ministri infernali imitata dal Tasso. Spesso la sensualità si scopre tra le lacrime. Giulia si straccia i capelli e si squarcia le vesti; il giovane deplora quello “sconcio tirare” che traeva “i biondi capelli” “dell'usato modo e ordine” e aggiunge: “I vestimenti squarciati mostravano le colorite membra che in prima soleano nascondere”. Non mancano qua e colà tratti affettuosi e anche modi e forme di dire semplici ed efficaci; ma rimane il più spesso fuori dell'uomo e della natura inviluppato in perifrasi circonlocuzioni aggettivi orazioni descrizioni e citazioni: ci si sente una viva tendenza al reale guastata dalla rettorica e dall'erudizione. Accampandosi nel mondo antico e portandovi pretensioni erudite e rettoriche la letteratura se da una parte si emancipava da quel mondo teologico-scolastico che sorgeva come barriera tra l'arte e la natura s'intoppava dall'altra in una nuova barriera un mondo mitologico-rettorico.

Il successo del Filocolo alzò l'animo del giovane a più alto volo. Pensò qualche cosa come l'Eneide e scrisse la Teseide. Ma niente era più alieno dalla sua natura che il genere eroico niente più lontano dal secolo che il suono della tromba. Qui hai assedii battaglie congiure di dei e di uomini pompose descrizioni artificiosi discorsi tutto lo scheletro e l'apparenza di un poema eroico; ma nel suo spirito borghese non entra alcun sentimento di vera grandezza e Teseo e Arcita e Palemone e Ippolito ed Emilia non hanno di epico che il manto. Il suo spirito è disposto a veder le cose nella loro minutezza ma più scende ne' particolari più l'oggetto gli si sminuzza e scioglie sì che ne perde il sentimento e l'armonia. Le armi i modi del combattere i sacrifizii le feste tutta l'esteriorità è rappresentata con la diligenza e la dottrina di un erudito; ma dov'è l'uomo? E dov'è la natura? De' suoi personaggi carichi di emblemi e di medaglie antiche si è perduta la memoria. Ecco un campo di battaglia. Egli vede con molta chiarezza i fenomeni che ti presenta ma è la chiarezza di un naturalista scompagnata da ogni movimento d'immaginazione; ci è l'immagine manca il fantasma que' sottintesi e que' chiaroscuri che ti danno il sentimento e la musica delle cose:

È un'ottava prosaica dove un fenomeno comunissimo è sminuzzato con la precisione e distinzione di un anatomico non di un poeta. Il Tasso tutto condensa in un verso solo che ti presenta in unica immagine il campo di battaglia:

La stessa prosaica maniera trovi nell'ottava seguente:

Qui il sangue è talmente analizzato negli oggetti e congiunto con particolari così vuoti e insignificanti che se ne perde l'impressione. Alla grande maniera sobria rapida densa di Dante del Petrarca succede il prolisso il diluito e il volgare. Chi ricorda descrizioni simili nell'Ariosto e nel Tasso vi troverà le stesse cose ma vive e mobili piene di sentimento e di significato. Nel canto duodecimo descrive la bellezza di Emilia da' capelli fino alle anche anzi fino a' piedi e non si contenta di passare a rassegna tutte le parti del corpo chè di ciascuna fa minuta descrizione e non solo nel quale ma nel quanto sì che pare un geometra misuratore. Delle ciglia dice:

Ecco un'ottava similmente prosaica su' capelli:

Ottave e versi soffrono malattia di languore: così procede il suono fiacco e sordo.

La Teseide è indirizzata a Fiammetta e copertamente e sotto nomi greci espone una vera storia d'amore. Ma la gravità del soggetto e le intenzioni letterarie soperchiarono l'autore e lo tirarono in un mondo epico pel quale non era nato. Meglio riuscì nel Filostrato dove lo scheletro greco e troiano esattamente riprodotto nella sua superficie è penetrato di una vita tutta moderna. L'allusione non è in questo o quel fatto come nella Teseide ma è nello spirito stesso del racconto. I languori di Troilo gli artifici di Pandaro che è il mezzano le resistenze sempre più deboli di Griseida le gradazioni voluttuose di un amore fortunato le arti e le lusinghe di Diomede presso Griseida la sua vittoria e le disperazioni di Troilo questo non è epico e non è cavalleresco se non solo ne' nomi de' personaggi: è una pagina tolta alla storia secreta della corte napoletana è il ritratto della vita borghese collocata di mezzo fra la rozza ingenuità popolana e l'ideale vita feudale o cavalleresca. Qui per la prima volta l'amore squarciato il velo platonico si manifesta nella sua realtà ed autonomia separato da' suoi antichi compagni l'onore e il sentimento religioso; e non è già amore popolano ma borghese cioè a dire raffinato pieno di tenerezze e di languori educato dalla coltura e dall'arte. Mancati tutti gli alti sentimenti della vita pubblica e religiosa non rimane altra poesia che della vita privata. La quale è vil prosa quando il fine del vivere non è che il guadagno ed è nobilitata dall'amore. Vivere tra' godimenti di amore con l'animo lontano da ogni cupidigia di onori e di ricchezze questo è l'ideale della vita privata nella quale la parte seria e prosaica è rappresentata dal mercante. È un ideale che il Boccaccio trova nella sua propria vita quando volse le spalle alla mercatura e si diè a' piacevoli studi e all'amore. Descritti in morbidissime ottave i voluttuosi ardori di Troilo e Griseida il poeta calda ancora l'immaginazione così prorompe:

Ottave sconnesse e saltellanti assai inferiori alle bellissime che precedono; il poeta sa meglio descrivere che ragionare: pure ci senti per entro un po' di calore e la conclusione è felicissima: è un moto subito e vivace di immaginazione come di rado gl'incontra.

Sotto aspetto epico questo racconto è una vera novella con tutte le situazioni divenute il luogo comune delle storie d'amore i primi ardenti desiri l'intramessa di un amico pietoso e le ritrosie della donna le raffinate voluttà del godimento la separazione degli amanti le promesse e i giuramenti e gli svenimenti della donna la sua fragilità e i lamenti e i furori del tradito amante. Sotto vernice antica spunta il mondo interiore del Boccaccio una mollezza sensuale dell'immaginazione congiunta con una disposizione al comico e al satirico. L'infedeltà di Griseida lo fa uscire in questo ritratto della donna:

A Beatrice e Laura succede Griseida; all'amore platonico l'amore sensuale; al volo dell'anima verso la sua patria il cielo succede il tripudio del corpo. La reazione è compiuta. A Dante succede il Boccaccio.

La contraddizione prende quasi aria di parodia inconscia nell'Amorosa visione. La Commedia è imitata nel suo disegno e nel suo meccanismo. Anche il Boccaccio ha la sua visione. Anch'egli incontra la bella donna che dee guidarlo all'altura che è “principio e cagion di tutta gioia” via a salute e pace. Ma dove nella Commedia si va di carne a spirito sino al sommo Bene in cui l'umano è compiutamente divinizzato o spiritualizzato dove nella Commedia il sommo Bene è scienza e contemplazione: qui il fine della vita è l'umano e la scienza è il principio e l'ultimo termine è l'amore e la fine del sogno è in questi versi:

Il paradiso del Boccaccio è un tempio dell'umanità un nobile castello che ricorda il Limbo dantesco ricco di sale splendide e storiate come sono le pareti del purgatorio. Ed è tutta la storia umana che ti viene innanzi in quelle pitture. Dante invoca le muse l'alto ingegno; il Boccaccio invoca Venere:

Una scala assai stretta mena al castello e sulla piccola porta è questa scritta:

Eccoci nella prima sala. E vi son pinte le sette scienze e via via schiere di filosofi e poi di poeti a quel modo che fa Dante nel limbo. Tutto il canto quinto è consacrato a Virgilio e a Dante del quale dice:

Dalla sala delle Muse si passa nella sala della Gloria. E ti sfilano innanzi moltitudine di uomini venuti in fama quasi un quadro della storia del mondo. Da Saturno e Giove scendi all'età de' giganti e degli eroi; poi giungi agli uomini e alle donne illustri di Grecia e di Roma in ultimo viene la cavalleria ne' suoi due circoli di Arturo e Carlomagno sino all'ultimo cavaliere Federico secondo e l'occhio si stende a Carlo di Puglia Corradino Ruggieri di Loria e Manfredi. Il poeta dà libero corso alla sua vasta erudizione intento più a raccogliere esempli che a lumeggiarli: sicchè nessuno de' suoi personaggi è giunto a noi così vivo come è l'Omero e l'Aristotile del limbo dantesco o l'Omero del Petrarca.

Siamo infine nella sala di Amore e Venere. E come innanzi la storia qui vien fuori la mitologia e senti le prodezze amorose di Giove Marte Bacco e Pluto ed Ercole. Poi vengono gli amori di Giasone Teseo Orfeo Achille Paride Enea Lancillotto.

Scienza gloria amore ecco la vita quando non vi s'intrometta la Fortuna e colpisca Cesare o Pompeo nel sommo della felicità. Percorsi i circoli della vita comincia il tripudio o la beatitudine; e non sono già le danze delle luci sante nel trionfo di Cristo o degli angeli ma le voluttuose danze di un paradiso maomettano o le danze delle ninfe napolitane a Baia. Il poeta s'innamora e mentre in sogno si tuffa negli amorosi diletti e tiene fra le braccia la donna si sveglia e la sua guida gli dice:

E mentre la visione si dilegua ella lo raccomanda al “sir di tutta pace” all'Amore.

Con le stesse forme e con lo stesso disegno di Dante il Boccaccio riesce a un concetto della vita affatto opposto alla glorificazione della carne nella quale è il riposo e la pace. La “Divina Commedia” qui è cavata fuori del soprannaturale in cui Dante aveva inviluppata l'umanità e se stesso e il suo tempo ed è umanizzata trasformata in un real castello sede della coltura e dell'amore. Se non che il Boccaccio non vide che quelle forme contemplative e allegoriche naturale involucro di un mondo mistico e soprannaturale mal si attagliavano a quella vita tutta attiva e terrena ed erano disformi al suo genio superficiale ed esterno privo di ogni profondità ed idealità: perciò riesce monotono prolisso e volgare. Oggi a tanta distanza c'è difficile a concepire come non abbia trovato subito il suo genere che è la rappresentazione della vita nel suo immediato sciolta da ogni involucro non solo teologico e scolastico ma anche mitologico e cavalleresco. Ma lento è il processo dell'umanità anche nell'individuo che passa per molte prove e tentennamenti prima di trovare se stesso. Il Boccaccio amico delle muse stima co' suoi contemporanei che “le cose volgari non possono fare un uomo letterato” e che si richiedono “più alti studi”. E gli alti studi sono il latino e il greco la conoscenza dell'antichità. Il suo maggior titolo di gloria era l'ampia erudizione che lo rendeva superiore a Dante ed anche al suo “Silvano” il Petrarca. Trova innanzi a sè forme consacrate e ammirate le forme epiche di Virgilio e Stazio le forme liriche di Dante e di Silvano e in quelle forme vuol realizzare un mondo prosaico che gli si moveva dentro. Nei suoi primi lavori salta fuori tutto il suo mondo greco-romano mitologico e storico con grande ammirazione de' contemporanei. Gli amori di Troilo e Griseida d'Arcita e Palemone passarono le Alpi e fecondarono l'immaginazione di Chaucer; i quadri storici e mitologici della sua Visione ispirarono molti Saggi e molti Tempi dell'umanità. Chi legge i Reali di Francia e tante scarne traduzioni di romanzi francesi allora in voga può concepire che gran miracolo dovè parere la Teseide il Filostrato e il Filocolo. Anche nelle sue Rime si vede l'uomo nuovo alle prese con forme vecchie. Vi trovi il solito repertorio l'innamoramento i sospiri i desiri i pentimenti il volgersi a Dio e alla Madonna ma la bella unità lirica del mondo di Dante e del Petrarca è rotta ed ogni idealità è scomparsa. Dietro alle stesse forme è un diverso contenuto che mal vi si adagia. La donna in nome è ancora un'angioletta ma che angiolo! Ella sta non raccolta e modesta nella sua ingenuità infantile come Bice; o nella sua casta dignità come Laura; ma

tende lacci

Hai la donna vezzosa e civettuola della vita comune ed un amante distratto che ora esala sospiri profani in forme platoniche e tradizionali ora pianta lì la sua angioletta e si sfoga contro i suoi avversari e ragiona della morte e della fortuna o inveisce contro le donne:

Perchè meglio si comprenda questa disarmonia tra forme convenzionali e un contenuto nuovo guardiamo questo sonetto:

Il sonetto comincia bene in forma disinvolta e fresca ancorachè per la parte tecnica un po' trascurata. In quelle giovanette che cantano a mare e vanno a visitare le amiche e sono ammirate dalla gente vedi una scena tutta napolitana e ti corre innanzi Baia sede di secrete delizie che destano le furie gelose del poeta. Ma questa bella scena alla fine si guasta col solito “spirito” e col solito “Amore vago di commendare” e riesce in una freddura. Chi vuol vedere un sonetto affatto moderno dove l'autore si è sciolto da ogni involucro artificiale e ti coglie in atto la vita di Baia con le sue soavità e le sue licenze senta questo:

Qui senti il Boccaccio in quella sua mescolanza di sensuale e malizioso. Gli scherzi del venticello sono abbozzati con l'anima di un satiro che divora con gli occhi la preda e la chiusa cinica così inaspettata ti toglie a ogni idealità e ti gitta nel comico. Qui il Boccaccio trova se stesso. Fu chiamato “Giovanni della tranquillità” per quella sua spensierata giovialità che lo tenea lontano da ogni esagerazione delle passioni e tiravalo nel godimento e nel gusto della vita reale. E quantunque si doglia dell'epiteto come d'una ingiuria e lo rifiuti sdegnosamente pure è là il suo genio e la sua gloria e non dove sfoggia in forme rettoriche sentimento ed erudizione. Fu chiamato anche “uomo di vetro” per una cotal sua mobilità d'impressioni e di risoluzioni di cui sono esempio le Rime dove invano cerchi l'unità organica del Canzoniere e un disegno qualunque avvolto il poeta dalle onde delle impressioni e della vita reale e de' suoi studi e reminiscenze classiche. Pure tra molte volgarità trovi un elevato sentimento dell'arte o come egli dice “l'amor delle muse che lo trae d'inferno” come chiama la terra deserta dalle muse. “Vidi” egli canta

Da questo elevato sentimento dell'arte è uscito il sonetto sopra Dante scritto con una gravità e vigore di stile così insueto che farebbe quasi dubitare sia cosa sua:

La stessa disparità tra le forme e il contenuto troviamo nella Fiammetta e nel Corbaccio o Laberinto d'amore. Sono due generi nuovi e pel contenuto affatto moderni. La Fiammetta e un romanzo intimo e psicologico dove una giovane amata e abbandonata narra ella medesima la sua storia rivelando con la più fina analisi le sue impressioni. Il Corbaccio è la satira del sesso femminile fatta dal vendicativo scrittore canzonato da una donna. La scelta di questi argomenti è felicissima. L'autore volge le spalle al medio evo e inizia la letteratura moderna. Di un mondo mistico-teologico-scolastico non è più alcun vestigio. Oramai tocchiamo terra: siamo in cospetto dell'uomo e della natura. Abbiamo una pagina di storia intima dell'anima umana colta in una forma seria e diretta nella Fiammetta in una forma negativa e satirica nel Corbaccio. La letteratura non è più trascendente ma immanente cioè a dire vede l'uomo e la natura in se stessa e non in forme estrinseche e separate mitologiche e allegoriche. Ma il Boccaccio non sa trovare le forme convenienti a questo contenuto. Per rappresentarlo nella sua verità non aveva che a mettersi in immediata comunione con quello ed esprimere le sue impressioni così naturali e fresche come gli venivano. Ma s'accosta a questo mondo con l'animo preoccupato dall'erudizione dalla storia dalla mitologia e dalla rettorica e lo vede lo dipinge a traverso di queste forme. L'impressione giungendo nel suo spirito vi è immediatamente falsificata nè si riconosce più dietro a quel denso involucro che se non è teologico-scolastico è pur qualche cosa di più strano è mitologico-rettorico. Nasce una nuova trascendenza la cui radice non è nel naturale sviluppo del pensiero religioso e filosofico come l'antica ma nell'avviamento classico preso dalla coltura. Fiammetta abbandonata da Panfilo prima di fare i suoi lamenti vuol vedere come in Virgilio si lamenta Didone abbandonata pensando che a lei non è lecito di lamentarsi in altra guisa. E se vuol consolarsi cercando compagni al suo dolore ti fa un trattato di storia antica narrando tutti i casi infelici di amore degli antichi iddii ed eroi. E se sogna cerca in Ovidio la spiegazione de' sogni. Vuol dire che sente vergogna di palesare i suoi godimenti amorosi? E ti definisce la vergogna e ragiona lungamente de' suoi effetti sulle donne. Vuol esprimere gioia speranza timore dolore ira gelosia? E analizza ciascuno di questi sentimenti facendo tesoro di tutti i luoghi topici registrati da Aristotile. Bisogna vedere con che diligenza il Sansovino nota tutti i luoghi etici e patetici e le imitazioni e le erudizioni della Fiammetta a guida de' maestri e degli scolari. Dante Minerva oscura potè spesso tra le nebbie delle sue allegorie attingere il mondo reale perchè era artista e se è scolastico non è mai rettorico: il Boccaccio non può distrigarsi da quel mondo artificiale e coglier la natura perchè gli manca ogni serietà di vita interiore nel pensiero e nel sentimento e vi supplisce con le esagerazioni e le amplificazioni. Che dirò delle sue descrizioni così minute come le sue analisi e tutte di seconda mano non ispirate dall'impressione immediata della natura? Veggasi il suo inverno e la primavera e l'autunno e tutte le sue descrizioni della bellezza virile e femminile fatte con la squadra e col compasso. Così gli è venuto scritto un romanzo prolisso noioso in guisa che a sentir quegli eterni lamenti della Fiammetta che aspetta Panfilo siamo tentati di dire: - Panfilo torna presto! Che non la sentiamo più. -

Più conforme al suo genio è il Corbaccio satira delle donne. Ma come il burlato è lui le risa sono a sue spese specialmente quando si lamenta che una donna abbia potuto farla a lui che pure è un letterato. Vi mostra egli così poco spirito come nella lettera a Nicolò Acciaioli che il Petrarca grecizzando chiamava Simonide dove leva le alte strida perchè invitato alla corte di Napoli gli sia toccata quella cameraccia e quel lettaccio ed esce in vitupèri in minacce in pettegolezzi resi ancora più ridicoli da quella forma ciceroniana. Come qui minaccia e vitupera e inveisce alla latina così nel Corbaccio satireggia con la storia co' luoghi comuni degli antichi poeti narrando fatti o allegorie e ammassando noiosi ragionamenti. L'ordito è semplicissimo. Il Boccaccio beffato da una donna si vuole uccidere ma il timore dell'inferno ne lo tiene e pensa più saviamente a vivere e a vendicarsi non col ferro ma come i letterati fanno con “concordare di rime” o “distender di prose”. Fra questi pensieri si addormenta e si trova in sogno nel “laberinto d'amore” o valle incantata una specie di selva dantesca dove gli appare un'ombra ed è il marito della donna che nel purgatorio espia la troppa pazienza avuta con lei. Costui gli espone tutte le cattive qualità delle donne a cominciare dalla sua. E quando si è bene sfogato lo conduce sopra di un monte altissimo onde vede il laberinto metter capo nell'inferno. Questa vista guarisce il Boccaccio del mal concetto amore. Come si vede la satira non è rappresentazione artistica ma esposizione in forma di un trattato di morale de' vizi femminili. Nondimeno trovi qua e là di bei motti e novellette graziose e descrizioni vivaci dei costumi delle donne con l'uso felicissimo del dialetto fiorentino com'è la donna in chiesa che “incomincia una dolente filza di paternostri dall'una mano nell'altra e dall'altra nell'una trasmutandogli senza mai dirne niuno” o la donna che con le sue gelosie non dà tregua al marito e “di ciarlare mai non resta mai non molla mai non fina: dàlle dàlle dàlle dalla mattina infino alla sera e la notte ancora non sa restare”. Nelle sue gelose querele si rivela il vero genio del Boccaccio una forza comica accompagnata con rara felicità di espressione attinta in un dialetto così vivace e già maturo pieno di scorciatoie di frizzi di motti di grazie. Citiamo alcuni brani:

“Credi tu ch'i' sia abbagliata e ch'i' non sappia a cui tu vai dietro? A cui tu vogli bene? E con cui tutto il dì favelli? Misera me che è cotanto tempo ch'io ci venni e pur una volta ancora non mi dicesti - Amor mio ben sia venuta. - Ma alla croce di Dio io farò di quelle a te che tu fai a me. Or son io così sparuta? Non son io così bella come la cotale? Ma sai che ti dico? Chi due bocche bacia l'una convien che gli puta. Fàtti costà se Iddio m'aiuti tu non mi toccherai: va' dietro a quelle di cui tu se' degno chè certo tu non eri degno d'aver me e fai bene ritratto di quello che tu sei ma a fare a far sia.

Questa è lingua già degna di Plauto e il Corbaccio è sparso di cotali scene degne di colui che aveva già scritto il Decamerone. Fra' tanti peccati che il marito tradito e l'amante burlato attribuiscono alla donna c'è pur questo che “le sue orazioni e i suoi paternostri sono i romanzi franceschi” e “tutta si stritola quando legge Lancillotto o Tristano nelle camere segretamente”. E anche “legge la canzone dello indovinello e quella di Florio e di Biancefiore e simili altre cose assai”. Sono preziose rivelazioni sulla letteratura profana e proibita allora in voga. Ma se peccato c'è il maggior peccatore era il Boccaccio per l'appunto che per piacere alle donne scrivea romanzi. Pure è lecito credere ch'elle leggevano con più gusto la nuda storia francesca di Florio e Biancefiore che l'imitazione letteraria fatta dal Boccaccio detta Filocolo dove Biancefiore (Blanchefleur) è chiamata all'italiana “Biancofiore”. Alle donne caleva poco di mitologia e storia antica e se tanta erudizione e artificio rettorico potea parere cosa mirabile al suo maestro di greco Pilato e a' latinisti e grecisti che erano allora i letterati le donne che cercavano ne' libri il piacer loro facevano de' suoi scritti poca stima e “ciò che peggio era per lui Aristotile Tullio Virgilio e Tito Livio e molti altri illustri uomini creduti suoi amici e domestici come fango scalpitavano e schernivano”. In verità le donne col loro senso naturale erano migliori giudici in letteratura che Leonzio Pilato e tutti i dotti.

Quelli che chiamarono “tranquillo” il nostro Giovanni espressero un concetto più profondo che non pensavano. La tranquillità è appunto il carattere del nuovo contenuto che egli cercava sotto forme pagane. La letteratura del medio evo è tutt'altro che tranquilla; anzi il suo genio è l'inquietudine un cercare continuo il di là senza speranza di attingerlo. Il suo uomo è sospeso da terra con gli occhi in alto accesi di desiderio. L'uomo del Boccaccio è al contrario assiso in ozio idillico con gli occhi volti alla madre terra alla quale domanda e dalla quale ottiene l'appagamento. Ma al Boccaccio non piace esser chiamato “tranquillo” inconsapevole che la sua forza è lì dov'è la sua natura. E si prova nel genere eroico e cavalleresco e nelle confessioni della Fiammetta tenta un genere lirico-tragico. Tentativi infelici di uomo che non trova ancora la sua via. L'indefinito è negato a lui che descrive la natura con tanta minutezza di analisi. Il sospiro è negato a lui che numera ad uno ad uno i fenomeni del sentimento. L'eroico e il tragico non può allignare in un'anima idillica e sensuale. E quando vi si prova riesce falso e rettorico. Perciò non gli riesce ancora di produrre un mondo cioè una totalità organica armonica e concorde. Nel suo mondo epico-tragico-cavalleresco penetra uno spirito eterogeneo e dissolvente che rende impossibile ogni formazione artistica il naturalismo pagano: spirito invitto perchè è il solo che vive al di dentro di lui il solo che si possa dire il suo mondo interiore. E quando gli riesce di coglierlo nella sua semplicità e verità come gli si move al di dentro allora trova se stesso e diviene artista. Questo mondo gittato come frammento discorde e caotico ne' suoi romanzi epici e tragici par fuori in tutta la sua purezza nel Ninfale fiesolano e nel Ninfale d'Ameto.

Qui l'autore volgendo le spalle alla cavalleria e a' tempi eroici rifà con l'immaginazione i tempi idillici delle antiche favole e dell'età dell'oro quando le deità scendevano amicamente nella terra popolata di ninfe di pastori di fauni e di satiri. La mitologia non è qui elemento errante fuori di posto in mondo non suo è lei tutto il mondo.

Questo mondo mitologico primitivo è un inno alla natura. Nel Ninfale fiesolano la ninfa sacra a Diana vinta dalla natura manca al suo voto ed è trasmutata in fonte. L'anima del racconto è il dolce peccato nel quale cadono Africo e Mensola non per corruzione o depravazione di cuore ma per l'irresistibile forza della natura nella piena semplicità ed innocenza della vita; sì che saputo il fatto ne viene compassione alla stessa Diana. Indi a poco sopraggiunge Atalante e con la guida del figlio della colpa nato da Mensola distrugge gli asili sacri a Diana e marita le ninfe per forza ed edifica Fiesole ed introduce la civiltà e la coltura. Così il mondo mitologico perisce con le sue selvatiche istituzioni e comincia il viver civile conforme alle leggi della natura e dell'amore.

Il racconto è diviso in sette parti o canti ed è in ottava rima. L'autore non costretto a gonfiare le gote nè a raffinare i sentimenti si fa cullare dolcemente dalla sua immaginazione in questo mondo idillico e descrive paesaggi e scene di famiglia e costumi pastorali con una facilità che spesso è negligenza non è mai affettazione o esagerazione. La tromba è mutata nella zampogna suono più umile ma uguale e armonioso: l'ottava procede piana e naturale talora troppo rimessa; e non mancano di bei versi imitativi. Africo e Mensola debbono dividersi chè l'ora è tarda; e il poeta dice:

Altrove dice:

Frequente è in lui l'uso dello sdrucciolo in mezzo al verso e quell'entrare de' versi l'uno nell'altro che slega e intoppa le sue ottave eroiche ma dà a queste ottave idilliche un aspetto di naturalezza e di grazia. Il suo periodo poetico saltellante e imbrogliato nella Teseide qui è corrente e spedito assai prossimo al linguaggio naturale e familiare:

Africo dorme; e il padre dice alla moglie Alimena:

Manca il rilievo: per soverchia naturalezza si casca nel triviale e nel volgare. Più tardi verrà il grande artista che calerà in questo mondo della natura e dell'amore appena sbozzato e pur ora uscito alla luce e gli darà l'ultima e perfetta forma.

Simile di disegno ma in più larghe proporzioni è il Ninfale d'Ameto. È il trionfo della natura e dell'amore sulla barbarie de' tempi primitivi. E il barbaro qui non è la ninfa sacrata a Diana che per violenza di natura rompe il voto ma è il pastore abitatore della foresta co' fauni e le driadi che scendendo al piano lascia l'alpina ferita e prende abito civile. Il luogo della scena comincia in Fiesole negli antichissimi tempi detta Corito quando vi abitavano le ninfe e non era venuto ancora Atalante a cacciarle via e introdurvi costumi umani. Così l'Ameto si collega col Ninfale fiesolano. Il pastore Ameto erra e caccia su pel monte e per la selva quando un dì affaticato giunge co' suoi cani al piano presso il Mugnone; e riposando e trastullandosi co' cani gli giunge all'orecchio un dolce canto e guidato dalla melodia scopre più giovanette intorno alla bellissima Lia. Sono ninfe non sacrate a Diana ma a Venere. Lia racconta nella sua canzone la storia di Narciso “bellissimo e crudo cacciatore” che rifiutando il caro amore delle donne e innamorato della sua immagine fu convertito in fiore. Ameto parte pensoso recando seco l'immagine di Lia. Venuta la primavera torna al piano e cerca e chiama Lia descrivendo la sua bellezza e offrendole doni:

Si avvicinano i giorni sacri a Venere e nel suo tempio traggono pastori e fauni e satiri e ninfe e Ameto trova la sua Lia fra bellissime ninfe delle quali contempla le bellezze parte a parte fatto giudice esperto e amoroso. E tutti fan cerchio a un pastore che canta le lodi di Venere e di Amore. Sopravvengono altre ninfe le quali “non umane pensava ma dèe” e contempla rapito celesti bellezze e di pastore si sente divenuto amante dicendo: “Io usato di seguire bestie amore poco avanti da me non saputo seguendo non so come mi convertirò in amante seguendo donne”. Le belle ninfe gli siedono intorno ed egli scioglie un inno a Giove e canta la sua conversione. Questi sono gli antecedenti del romanzo sparsi di vaghissime descrizioni di bellezze femminili in quella forma minuta e stancante che è il vezzo dell'autore. Lia propone che ciascuna ninfa canti la sua storia e canti la deità reverita da lei acciocchè “oziose come le misere fanno non passino il chiaro giorno”. Sedute in cerchio e posto in mezzo Ameto come loro presidente o antistite cominciano i loro racconti. Sono sette ninfe: Mopsa Emilia Adiona Acrimonia Agapes Fiammetta e Lia ciascuna consacrata a una divinità Pallade Diana Pomena Bellona Venere delle quali si cantano le lodi. Ne' racconti delle ninfe vedi la vittoria dell'amore e della natura sulla ferina salvatichezza degli uomini e all'ozio bestiale tener dietro le arti di Pallade di Diana di Astrea di Pomena e di Bellona la cultura e l'umanità. Ti vedi innanzi svilupparsi tutto il mondo della cultura e cominciare da Atene ed in ultimo posare in Etruria dove l'autore con giusto orgoglio pone il principio della nuova cultura. Da ultimo apparisce una luce una e trina entro la quale guardando Ameto Mopsa gli occhi asciugandoli da quelli levò l'oscura caligine sì che nella luce triforme ravvisa la celeste e santa Venere madre di amore puro e intellettuale. Tuffato nella fonte da Lia gittati i panni selvaggi e lavato di ogni lordura si sente “di bruto fatto uomo” e “vede chi sieno le ninfe le quali più all'occhio che all'intelletto erano piaciute e ora all'intelletto piacciono più che all'occhio; discerne quali sieno i templi quali le dee di cui cantano e chenti sieno i loro amori e non poco in sè si vergogna de' concupiscevoli pensieri avuti”. Le ninfe le quali non sono altro che le scienze e le arti della vita civile tornano alla celeste patria e Ameto canta la sua redenzione dallo stato selvaggio.

Questo disegno evidentemente è uscito da una testa giovanile ancora sotto l'azione di tutti i diversi elementi di quella cultura. Palpabili sono le reminiscenze della Divina Commedia. Lia e Fiammetta ricordano Matilde e Beatrice. Il concetto nella sua sostanza è dantesco: è l'emancipazione dell'uomo il quale percorse le vie del senso e dell'amore sensuale è dalla scienza innalzato all'amore di Dio. Anche la forma allegorica è dantesca non essendo quelle apparizioni che simboli di concetti e figure di quelle separate intelligenze che presiedono alle stelle e regolano i moti dell'animo. Tutto questo si trova inviluppato in un mondo mitologico che è la sua negazione animato da un naturalismo spinto sino alla licenza: Apuleio e Longo contendono con Dante nel cervello dello scrittore. Il romanzo che nell'intenzione dovrebbe essere spirituale è nel fatto soverchiato da un vivo sentimento della bella natura e de' piaceri amorosi. Si vede il giovane che sta con Dante in astratto ma ha pieno il capo di mitologia di romanzi greci e franceschi di avventure licenziose e fa di tutto una mescolanza. Se qualche cosa in questa noiosa lettura ti alletta è dove lo scrittore si abbandona alla sua natura com'è la comica descrizione che Acrimonia fa del suo vecchio marito nel quale intravvedi già il povero dottore a cui Paganino rubò la moglie e com'è qua e là qualche pittura e sentimento idillico. Pure in un mondo così dissonante e scordato si sviluppa chiaramente un entusiasmo giovanile per la coltura e l'umanità. Ci si sente il secolo che scuote da sè la rozza barbarie e s'incammina fidente verso un mondo più colto e polito. Ameto si spoglia il ruvido abito del medio evo e guidato dalle muse prende aspetto gentile e umano. Le ombre del misticismo si diradano nel tempio di Venere. Dante canta la redenzione dell'anima nell'altro mondo. Il Boccaccio canta la fine della barbarie e il regno della coltura. È lo spirito nuovo da cui più tardi uscirà Lorenzo de' Medici e Poliziano.

Gittando ora un solo sguardo su questi lavori si possono raccogliere con chiarezza i caratteri della nuova cultura. Le teorie in astratto rimangono le stesse e il Boccaccio pensa come Dante. Ma nel fatto lo spirito abbandona il cielo e si raccoglie in terra: perde la sua idealità e la sua inquietudine e diviene tranquillo calato tutto e soddisfatto nella materia della sua contemplazione. A un mondo lirico di aspirazioni indefinite espresso nella visione e nell'estasi succede un mondo epico che ha ne' fatti umani e naturali il suo principio e il suo termine. Il poeta in luogo d'idealizzare realizza cioè a dire fugge le forme sintetiche e comprensive che gittano lo spirito in un di là da esse e cerca una forma nella quale l'immaginazione si trovi tutta e si riposi. Non ci è più il “forse” e il “parere” non una forma appena abbozzata quasi velo di qualcos'altro ma una forma terminata e chiusa in sè e corpulenta nella quale l'oggetto è minutamente analizzato nelle singole parti: alla terzina succede l'analitica ottava. Rimangono ancora le terzine e le visioni e le allegorie i sonetti e le canzoni ma come forme prettamente convenzionali e d'imitazione sciolte dallo spirito che le ha generate: il passato per lungo tempo si continua come morta forma in un mondo mutato. Succedono forme giovani e nuove più conformi a un contenuto epico. Sul mondo inquieto delle allegorie e delle visioni si alza il sereno e tranquillo mondo pagano con le sue deità umanizzate con la sua natura animata col suo vivo sentimento della bellezza con la sua disinteressata contemplazione artistica. Queste tendenze non trovano soddisfazione in un contenuto eroico e cavalleresco perchè la serietà di una vita eroica e cavalleresca è ita via insieme col medio evo e non è più nella coscienza e non può essere altro che imitazione letteraria e artificio rettorico. Più conveniente a quelle forme è la vita idillica ne' cui tranquilli ozi nella cui semplicità e chiarezza l'anima agitata dalle lotte politiche e turbata dalle ombre di un mondo trascendente si raccoglie come in un porto e si riposa. L'idillio è la prima forma nella quale si manifesta questa nuova generazione fiacca e stanca pur colta ed erudita che chiama barbara la generazione passata e celebra i nuovi tempi della coltura e dell'umanità invocando Venere e Amore.

Specchio di questa società nelle sue fluttuazioni nelle sue imitazioni nelle sue tendenze è il Boccaccio. I suoi tentennamenti e le sue dissonanze provengono dalla coesistenza nel suo spirito d'elementi vecchi e nuovi vivi e morti mescolati. Un doppio involucro mistico e mitologico circonda come una nebbia questo mondo della natura.

Fra questi tentennamenti si andò formando il Decamerone. Il Boccaccio lascia qui cavalleria mitologia allegoria e tutto il suo mondo classico tutte le sue reminiscenze dantesche e si chiude nella sua società e ci vive e ci gode perchè ivi trova se stesso perchè vive anche lui di quella vita comune. Par così facile attingere la società in questa forma diretta e immediata: pur si vede quanto laboriosa gestazione è necessaria perchè esca alla luce il mondo del tuo spirito.

Quel mondo esisteva prima del Decamerone. In Italia abbondavano romanzi e novelle e “canzoni latine” canti licenziosi. Le donne come abbiam visto leggevano secretamente tra loro questi libri profani e i novellatori intrattenevano le liete brigate con racconti piacevoli e licenziosi. Il fondo comune de' romanzi erano le avventure de' cavalieri della Tavola rotonda e di Carlomagno Nell'Amorosa visione il Boccaccio cita un gran numero di questi eroi ed eroine Artù Lancillotto Galeotto Isotta la bionda Chedino Palamides Lionello Tristano Orlando Uliviero Rinaldo Guttifré Roberto Guiscardo Federico Barbarossa Federico secondo. Egli medesimo scrisse romanzi per far piacere alle donne e rifatto il romanzo di Florio e Biancofiore cercò un teatro più conforme a' suoi studi classici ne' tempi eroici e primitivi delle greche tradizioni. Pure le novelle doveano riuscire più popolari e più gradite perchè più conformi a' tempi e a' costumi. E se ne raffazzonavano o inventavano di ogni sorta serie e comiche morali e oscene variate e abbellite da' novellatori secondo i gusti dell'uditorio. La novella era dunque un genere vivente di letteratura lasciato in balia dell'immaginazione e come materia profana e frivola trascurata dagli uomini colti. Rivale della novella era la leggenda co' suoi miracoli e le sue visioni. Gli uomini colti si tenevano alto in una regione loro propria e lasciavano a' frati i Fioretti di san Francesco e la Vita del beato Colombino e a' buontemponi la semplicità di Calandrino e le avventure galanti di Alatiel.

In questo mondo profano e frivolo entrò il Boccaccio con non altro fine che di scrivere cose piacevoli e far cosa grata alla donna che gliene avea data commissione. E raccolse tutta quella materia informe e rozza trattata da illetterati e ne fece il mondo armonico dell'arte.

Dotte ricerche sonosi fatte sulle fonti dalle quali il Boccaccio ha attinte le sue novelle. E molti credono si tolga qualche cosa alla sua gloria quando sia dimostrato che la più parte de' suoi racconti non sono sua invenzione quasi che il merito dell'artista fosse nell'inventare e non piuttosto nel formare la materia. Fatto è che la materia così nella Commedia e nel Canzoniere come nel Decamerone non uscì dal cervello di un uomo anzi fu il prodotto di una elaborazione collettiva passata per diverse forme insino a che il genio non l'ebbe fissata e fatta eterna.

Ci erano in tutti i popoli latini novelle sotto diversi nomi ma non c'era la novella e tanto meno il novelliere in cui i singoli racconti fossero composti ad unità e divenissero un mondo organico. Questo organismo vi spirò dentro il Boccaccio e di racconti diversi di tempi di costumi e di tendenze fece il mondo vivente del suo tempo la società contemporanea della quale egli aveva tutte le tendenze nel bene e nel male.

Non è il Boccaccio uno spirito superiore che vede la società da un punto elevato e ne scopre le buone e cattive parti con perfetta e severa coscienza. È un artista che si sente uno con la società in mezzo a cui vive e la dipinge con quella mezza coscienza che hanno gli uomini fluttuanti fra le mobili impressioni della vita senza darsi la cura di raccogliersi e analizzarle. Qualità che lo distingue sostanzialmente da Dante e dal Petrarca spiriti raccolti ed estatici. Il Boccaccio è tutto nel mondo di fuori tra' diletti e gli ozi e le vicissitudini della vita e vi è occupato e soddisfatto e non gli avviene mai di piegarsi in sè di chinare il capo pensoso. Le rughe del pensiero non hanno mai traversata quella fronte e nessun'ombra è calata sulla sua coscienza. Non a caso fu detto “Giovanni della tranquillità”. Sparisce con lui dalla nostra letteratura l'intimità il raccoglimento l'estasi la inquieta profondità del pensiero quel vivere dello spirito in sè nutrito di fantasmi e di misteri. La vita sale sulle superficie e vi si liscia e vi si abbellisce. Il mondo dello spirito se ne va: viene il mondo della natura.

Questo mondo superficiale appunto perchè vuoto di forze interne e spirituali non ha serietà di mezzi e di scopo. Ciò che lo move non è Dio nè la scienza non l'amore unitivo dell'intelletto e dell'atto la grande base del medio evo; ma è l'istinto o l'inclinazione naturale: vera e violenta reazione contro il misticismo. Ti vedi innanzi una lieta brigata che cerca dimenticare i mali e le noie della vita passando le calde ore della giornata in piacevoli racconti. Era il tempo della peste e gli uomini con la morte innanzi si sentivano sciolti da ogni freno e si abbandonavano al carnevale della loro immaginazione. Di questo carnevale il Boccaccio aveva l'immagine nella corte ove avea passati i suoi più bei giorni attingendo le sue ispirazioni in quel letame sul quale le Muse e le Grazie sparsero tanti fiori. Un congegno simile trovi già nell'Ameto un decamerone pastorale: se non che ivi i racconti sono allegorici e preordinati ad un fine astratto: non c'è lo spirito della Divina Commedia ma ce n'è l'ossatura. Qui al contrario i racconti non hanno altro fine che di far passare il tempo piacevolmente e sono veri mezzani di piacere e d'amore il vero Principe Galeotto titolo italiano del novelliere velato pudicamente da un titolo greco. I personaggi evocati nell'immaginazione da diversi popoli e tempi appartengono allo stesso mondo vuoto al di dentro corpulento al di fuori. Personaggi attori spettatori e scrittore sono un mondo solo il cui carattere è la vita tutta al di fuori in una tranquilla spensieratezza.

Questo mondo è il teatro de' fatti umani abbandonati al libero arbitrio e guidati ne' loro effetti dal caso. Dio o la provvidenza ci sta di nome quasi per un tacito accordo nelle parole di gente caduta nella più profonda indifferenza religiosa politica e morale. E non c'è neppure quella intima forza delle cose che crea la logica degli avvenimenti e la necessità del loro cammino; anzi l'attrattivo del racconto è proprio nell'opposto mostrando le azioni umane per il capriccio del caso riuscire a un fine affatto contrario a quello che ragionevolmente si potea presupporre. Nasce una nuova specie di maraviglioso generato non dall'intrusione nella vita di forze oltrenaturali sotto forma di visioni o miracoli ma da uno straordinario concorso di accidenti non possibili ad essere preveduti e regolati. L'ultima impressione è che signore del mondo è il caso. Ed è appunto nel vario giuoco delle inclinazioni e delle passioni degli uomini sottoposte a' mutabili accidenti della vita che è qui il deus ex machina il dio di questo mondo.

E poichè la macchina è il maraviglioso l'imprevisto il fortuito lo straordinario l'interesse del racconto non è nella moralità degli atti ma nella loro straordinarietà di cause e di effetti. Non già che il Boccaccio sconosca il mondo morale e religioso ed alteri le nozioni comuni intorno al bene od al male ma non è questo di che si preoccupa e che lo appassiona. Poco a lui rileva che il fatto sia virtuoso o vizioso: ciò che importa è che possa stuzzicare la curiosità con la straordinarietà degli accidenti e dei caratteri. La virtù posta qui a fare effetto sull'immaginazione manca di semplicità e di misura e diviene anch'essa un istrumento del maraviglioso condotta ad una esagerazione che scopre nell'autore il vuoto della coscienza ed il difetto di senso morale. Esempio notabile è la Griselda il personaggio più virtuoso di quel mondo. La quale per mostrarsi buona moglie soffoca tutti i sentimenti della natura e la sua personalità e il suo libero arbitrio. L'autore volendo foggiare una virtù straordinaria che colpisca di ammirazione gli uditori cade in quel misticismo contro di cui si ribella e che mette in gioco collocando l'ideale della virtù femminile nell'abdicazione della personalità a quel modo che secondo l'ideale teologico la carne è assorbita dallo spirito e lo spirito è assorbito da Dio. Si rinnova il sacrificio di Abramo e il Dio che mette la natura a così crudel prova è qui il marito. Similmente la virtù in Tito e Gisippo è collocata così fuori del corso naturale delle cose che non ti alletta come un esempio ma ti stupisce come un miracolo. Ma virtù eccezionali e spettacolose sono rare apparizioni e ciò che spesso ti occorre è la virtù tradizionale di tempi cavallereschi e feudali una certa generosità e gentilezza di re di principi di marchesi reminiscenze di storie cavalleresche ed eroiche in tempi borghesi. La qual virtù è in questo che il principe usa la sua potenza a protezione de' minori e soprattutto degli uomini valenti d'ingegno e di studi e poco favoriti dalla fortuna come furono Primasso e Bergamino verso i quali si mostrarono magnifici l'abate di Cligny e Can Grande della Scala. Così è molto commendato il primo Carlo d'Angiò il quale potendo rapire e sforzare due bellissime fanciulle figliuole di un ghibellino amò meglio dotarle magnificamente e maritarle. La virtù in questi potenti signori è di non fare malvagio uso della loro forza anzi di mostrarsi liberali e cortesi. Già cominciava in quel mondo a parer fuori una classe di letterati che viveva alle spese di questa virtù celebrando con giusto cambio una magnificenza della quale assaporavano gli avanzi. L'anima altera di Dante mal vi si piegava nè gli fu ultima cagione d'amarezza quel mendicare la vita a frusto a frusto e scendere e salire per le altrui scale. Ma i tempi non erano più all'eroica e il Petrarca si lasciava dotare e mantenere da' suoi mecenati e il Boccaccio vivea de' rilievi della corte di Napoli comicamente imbestiato quando il mantenimento non era dicevole a un par suo disposto da' buoni o da' cattivi cibi al panegirico o alla satira. Tale è il tipo di ciò che in questo mondo boccaccevole è chiamato la virtù una liberalità e gentilezza d'animo che dalle castella penetra nelle città e fino ne' boschi asilo de' masnadieri della quale sono esempio Natan e il Saladino e Alfonso e Ghino di Tacco e il negromante di Ansaldo. Questo se non è propriamente senso morale è pur senso di gentilezza che raddolcisce i costumi e spoglia la virtù del suo carattere teologico e mistico posto nell'astinenza e nella sofferenza le dà aspetto piacevole più conforme ad una società colta e allegra. Vero è che siccome il caso regolatore di questo mondo ne fa di ogni maniera talora l'allegria che vi domina è funestata da tristi accidenti che turbano il bel sereno. Ma è una nuvola improvvisa la quale presto si scioglie e rende più cara la vista del sole o come dice la Fiammetta è una “fiera materia data a temperare alquanto la letizia”. Volendo guardare più profondamente in questo fenomeno osserviamo che la gioia ha poche corde e sarebbe cosa monotona noiosa e perciò poco gioiosa come avviene spesso ne' poemi idillici se il dolore non vi si gittasse entro con le sue corde più varie e più ricche d'armonia traendosi appresso un corteggio di vivaci passioni l'amore la gelosia l'odio lo sdegno l'indignazione. Il dolore ci sta qui non per sè ma come istrumento della gioia stuzzicando l'anima tenendola in sospensione e in agitazione insino a che per benignità della fortuna o del caso comparisce d'improvviso il sereno. E quando pure il fatto sorta trista fine com'è in tutt'i racconti della giornata quarta l'emozione è superficiale ed esterna esaltata e raddolcita in descrizioni discorsi e riflessioni e non condotta mai sino allo strazio com'è nel fiero dolore di Dante. Sono fugaci apparizioni tragiche in questo mondo della natura e dell'amore provocate appunto dalla collisione della natura e dell'amore non con un principio elevato di moralità ma con la virtù cavalleresca “il punto d'onore”. Di che bellissimo esempio oltre il Gerbino è il Tancredi che testimone della sua onta uccide l'amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d'oro: la quale messa sopra esso acqua avvelenata quella si bee e così muore. Il motivo della tragedia è il punto d'onore perchè ciò che move Tancredi è l'onta ricevuta non solo per l'amore della figliuola ma ancora più per l'amore collocato in uomo di umile nazione. Ma la figliuola dimostra vittoriosamente al padre la legittimità del suo amore e della sua scelta invocando le leggi della natura e il concetto della vera nobiltà posta non nel sangue ma nella virtù; e l'ultima impressione è la condanna del padre indarno pentito e piangente sul morto corpo della figliuola il quale apparisce non come giusto vendicatore del suo onore offeso ma come ribelle verso la natura e l'amore. L'effetto estetico è la compassione verso il padre e la figliuola l'una di alto animo l'altro umano e di benigno ingegno vittime tutti e due non per difetto proprio ma per le condizioni del mondo in mezzo a cui vivono. La conclusione ultima è la rivendicazione delle leggi della natura e dell'amore verso gli ostacoli in cui s'intoppano. Sicchè la tragedia è qui il suggello e la riprova del mondo boccaccevole e il dolore fugace che vi fa la sua comparsa presentato nella sua forma più mite e tenera vicina alla compassione è come il condimento della gioia a lungo andare insipida quando sia abbandonata a se stessa.

La base della tragedia è mutata. Non è più il terrore che invade gli spettatori incontro a un fato incomprensibile che si manifesta nella catastrofe come ne' greci e neppure l'espiazione per le leggi di una giustizia superiore come nell'inferno dantesco; ma è il mondo abbandonato alle sue forze naturali e cieche nel cui conflitto rimane l'amore come una specie di diritto superiore incontro a cui tutti hanno torto. La natura che nel mondo dantesco è il peccato qui è la legge ed ha contro di sè non un mondo religioso e morale di cui non è vestigio ancorchè ammesso in astratto e in parola ma la società come si trova ordinata in quel complesso di leggi di consuetudini che si chiamano l'“onore”. Il conflitto è tutto però al di fuori nell'ordine de' fatti prodotti dal diverso urto di queste forze e terminati dalla benignità o malvagità del caso o della fortuna; e non sale a vera opposizione interna che sviluppi le passioni e i caratteri. Il poeta non è un ribelle alle leggi sociali e tantomeno un riformatore; prende il mondo com'è e se le sue simpatie sono per le vittime dell'amore non biasima per ciò coloro che dall'onore sono mossi ad atti crudeli anch'essi degni di stima vittime anch'essi. Così esalta Gerbino che volle romper la fede data dal re suo zio anzi che mancare alle leggi dell'amore ed esser tenuto vile; ma non biasima il re che lo fece uccidere “volendo anzi senza nipote rimanere ch'essere tenuto re senza fede”. Ne nasce in mezzo all'agitazione de' fatti esteriori una calma interna una specie di equilibrio dove l'emozione non penetra se non quanto è necessario a ravvivare e variare l'esistenza. Perciò in questo mondo borghese e indifferente e naturale la tragedia rimane esteriore e superficiale naufragata qui come un frammento galleggiante nella vastità delle onde. Il movimento non ha radice nella coscienza nelle forti convinzioni e passioni stimolate dal contrasto ma si scioglie in un giuoco di immaginazione in una contemplazione artistica de' vari casi della vita che sorprendano e attirino la tua attenzione. Per dirla con un solo vocabolo comprensivo virtù e vizi qui non hanno altro significato che di “avventure” ovvero casi straordinari tirati in iscena dal capriccio del caso. Gli uditori non vi prendono altro interesse che di trovarvi materia a passare il tempo con piacere; e del loro piacere è mezzana la stessa virtù e lo stesso dolore.

Un mondo il cui dio è il caso e il cui principio direttivo è la natura non è solo spensierato e allegro ma è anche comico. Già quel non prendere in nessuna serietà gli avvenimenti e farne un giuoco di pura immaginazione quell'intreccio capriccioso de' casi quell'equilibrio interno che si mantiene sereno tra le più crudeli vicissitudini sono il terreno naturale su cui germina il comico. Un'allegrezza vuota d'intenzione e di significato è cosa insipida è appunto quel riso che abbonda nella bocca degli stolti. Perchè il riso abbia malizia o intelligenza dee avere una intenzione e un significato dee esser comico. E il comico dà a questo mondo la sua fisonomia e la sua serietà.

Questa società è essa medesima una materia comica perchè niente è più comico che una società spensierata e sensuale da cui escono i tipi di don Giovanni e di Sancio Panza. Ma è una società che rappresentava a quel tempo quanto di più intelligente e colto era nel mondo e ne aveva coscienza. Una società siffatta aveva il privilegio di esser presa sul serio da tutto il mondo e di poter ridere essa di tutto il mondo. In effetti due cose serie sono in queste novelle l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina che si fa riconoscere e rispettare da' più potenti signori e una certa alterezza borghese che prende il suo posto nel mondo e si proclama nobile al pari de' baroni e de' conti. Questi sono i caratteri di quella classe a cui apparteneva il Boccaccio istruita intelligente che teneva sè civile e tutto l'altro barbarie. E il comico qui nasce appunto da questo: è la caricatura che l'uomo intelligente fa delle cose e degli uomini posti in uno strato inferiore della vita intellettuale. La società colta aveva innanzi a sè i frati ed i preti o come dice il Boccaccio le cose cattoliche orazioni confessioni prediche digiuni mortificazioni della carne visioni e miracoli; e dietro stava la plebe con la sua sciocchezza e la sua credulità. Sopra questi due ordini di cose e di persone il Boccaccio fa sonare la sferza.

Materia del comico è dunque l'efficacia delle orazioni come il “paternostro” di san Giuliano il modo di servire Dio nel deserto la vita pratica de' frati de' preti e delle monache in contraddizione con le loro prediche l'arte della santificazione insegnata a fra Puccio i miracoli e le apparizioni de' santi come l'apparizione dell'angelo Gabriello e la semplicità della plebe trastullo dei furbi. Visibile soprattutto è la reazione della carne contro gli eccessivi rigori di un clero che proscriveva il teatro e la lettura de' romanzi e predicava i digiuni e i cilizi come la via al paradiso. È una reazione che si annunzia naturalmente con la licenza e il cinismo. La carne scomunicata si vendica e chiama “meccanici” i suoi maldicenti cioè gente che giudica grossamente secondo l'opinione volgare. Così il mondo dello spirito in quelle sue forme eccessive è divenuto per questa gente il mondo volgare. È immaginabile con che voluttà la carne dopo la lunga compressione si sfoghi con che delizia ti ponga innanzi ad uno ad uno i suoi godimenti scegliendo i modi e le frasi più scomunicate e talora volgendo a senso osceno frasi e immagini sacre. È il mondo profano in aperta ribellione che ha rotto il freno e fa la caricatura al padrone cadutogli di sella. Su questo fondo comico s'intreccia una grande varietà di accidenti di cui sono gli eroi i due protagonisti immortali di tutte le commedie chi burla e chi si fa burlare i furbi e i gonzi e di questi i più martoriati e i più innocenti i mariti. E fra tanti accidenti si sviluppa una grande ricchezza di caratteri comici de' quali alcuni sono rimasti veri tipi come il cattivello di Calandrino e lo scolare vendicativo che sa dove il diavolo tien la coda. I caratteri seri sono piuttosto singolarità che tipi individui perduti nella minutezza ed eccezionalità della loro natura come Griselda Tito il conte di Anguersa madama Beritola Ginevra e la Salvestra e l'Isabetta e la figlia di Tancredi. Ma i caratteri comici sono la parte viva e intima e sentita di questo mondo e riflettono in sè fisonomie universali che incontrate nell'uso comune della vita come compar Pietro e maestro Simone e fra Puccio e il frate montone e il giudice squasimodeo e monna Belcolore e Tofano e Gianni Lotteringhi e tutte le varietà perchè “infinita è la turba degli stolti”. Così questo mondo spensierato e gioviale si disegna prende contorni acquista una fisonomia diviene la “commedia umana”.

Ecco a così breve distanza la commedia e l'anticommedia la “Divina Commedia” e la sua parodia la “commedia umana”! E sullo stesso suolo e nello stesso tempo Passavanti Cavalca Caterina da Siena voci dell'altro mondo soverchiate dall'alto e profano riso di Giovanni Boccaccio. La gaia scienza esce dal suo sepolcro col suo riso incontaminato; i trovatori e i novellatori spenti da' ferri sacerdotali tornano a vita e ripigliano le danze e le gioiose canzoni nella guelfa Firenze; la novella e il romanzo proscritti proscrivono alla lor volta e rimangono padroni assoluti della letteratura. Certo questo mutamento non viene improvviso come appare un moto di terra: lo spirito laicale è visibile in tutta la letteratura e si continua con tradizione non interrotta come s'è visto insino a che nella Divina Commedia prende arditamente il suo posto e si proclama anch'esso sacro e di diritto divino e Dante laico assume tono di sacerdote e di apostolo. Ma Dante il fa con tanta industria che tutto l'edificio stia in piedi e la base rimanga salda. La sua “commedia” è una riforma; la “commedia” del Boccaccio è una rivoluzione dove tutto l'edificio crolla e sulle sue rovine escono le fondamenta di un altro.

La Divina Commedia uscì dal numero de' libri viventi e fu interpretata come un libro classico poco letta poco capita pochissimo gustata ammirata sempre. Fu divina ma non fu più viva. E trasse seco nella tomba tutti quei generi di letteratura i cui germi appaiono così vivaci e vigorosi ne' suoi schizzi immortali la tragedia il dramma l'inno la laude la leggenda il mistero. Insieme perirono il sentimento della famiglia e della natura e della patria la fede in un mondo superiore il raccoglimento e l'estasi e l'intimità le caste gioie dell'amicizia e dell'amore l'ideale e la serietà della vita. In questo immenso mondo crollato prima di venire a maturità e produrre tutti i suoi frutti ciò che rimase fecondo fu Malebolge il regno della malizia la sede della umana commedia. Quel Malebolge che Dante gitta nel loto e dove il riso è soverchiato dal disgusto e dalla indignazione eccolo qui che mena sulla terra la sua ridda infernale abbigliato dalle Grazie e si proclama esso il vero paradiso come capì don Felice e non capì il povero frate Puccio. In effetti qui il mondo è preso a rovescio. “Commedia” per Dante è la beatitudine celeste. “Commedia” pel Boccaccio è la beatitudine terrena la quale tra gli altri piaceri dà anche questo di passare la malinconia spassandosi alle spalle del cielo. La carne si trastulla e chi ne fa le spese è lo spirito.

Se la reazione contro uno spiritualismo esagerato e lontanissimo dalla vita pratica fosse venuta da lotte vivaci nelle alte regioni dello spirito il movimento sarebbe stato più lento o più contrastato come negli altri popoli ma insieme più fecondo. Il contrasto avrebbe fortificata la fede negli uni e le convinzioni negli altri e generata una letteratura piena di vigore e di sostanza alla quale non sarebbe mancata nè la passione di Lutero nè l'eloquenza di Bossuet nè il dubbio di Pascal nè le forme letterarie possibili solo dove la vita interiore è forte e sana. Così il movimento sarebbe stato insieme negativo e positivo il distruggere sarebbe stato insieme l'edificare. Ma le audacie del pensiero punite inesorabilmente troncata col sangue l'opposizione ghibellina rimaso il papato arbitro e vicino e sospettoso e vigile quel mondo religioso così corrotto ne' costumi come assoluto nelle dottrine e grottesco nelle forme al contatto con una coltura così rapida e con lo spirito fatto adulto e maturo dallo studio degli antichi scrittori non potè esser preso sul serio dalla gente colta che pure è quella che ha in mano l'indirizzo della vita nazionale. Nacque a questo modo la scissura tra la gente colta e tutto il rimanente della società che pure era la gran maggioranza rimasa passiva e inerte in mano al prete di Varlungo a donno Gianni a frate Rinaldo e a frate Cipolla. Sicchè per la gente istruita quel mondo divenne il mondo del volgo o de' meccanici e saperne ridere era segno di coltura: ne ridevano anche i chierici che volevano esser tenuti uomini colti. Così coesistevano l'una accanto all'altra due società distinte senza troppo molestarsi. La libertà del pensiero era negata; vietato mettere in dubbio la dottrina astratta; ma quanto alla pratica era un altro affare si viveva e si lasciava vivere trastullandosi tutti e sollazzandosi nel nome di Dio e di Maria. Gli stessi predicatori ne davano esempio cercando di divertire il pubblico con motti e ciance ed iscede; cosa che al buon Dante muoveva lo stomaco e che faceva ridere il Boccaccio scrivendo nella conclusione del suo Novelliere: “se le prediche de' frati per rimorder delle lor colpe gli uomini il più oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggono estimai che quegli medesimi non stesser male nelle mie novelle scritte per cacciar la malinconia delle femmine.”

L'indignazione di Dante era caduta: sopravvenne il riso come di cose oramai comuni. Non si move la bile se non in quelli che credono e veggono profanata la loro credenza ne' fatti: è la bile de' santi e di tutti gli uomini di coscienza. Ma quella colta società vuota di senso religioso e morale non era disposta a guastarsi la bile per i difetti degli uomini. Le “sfacciate donne fiorentine” qui allettano e lasciviano e fanno “quadri viventi” come si dice e si fa oggidì. Il traffico delle cose sacre occasione allo scisma della credente Germania e che Dante nella nobile ira sua chiama “adulterio” qui è materia di amabili frizzi senza fiele e senza malizia. La confessione suggerisce l'idea di equivoci molto ridicoli ne' quali sono i laici e le laiche che la fanno a' preti uomini “tondi” e “grossi” come si mostra nel confessore di ser Ciappelletto e nel frate Bestia carattere comico de' meglio disegnati. Il foggiar miracoli come quel di Masetto l'ortolan Alberto o di frate Cipolla il fabbricar santi e renderli miracolosi come è di ser Ciappelletto è rappresentato con l'allegria comica di gente colta e incredula. Profanazioni simili fanno ridere perchè le cose profanate non ispirano più riverenza.

Questa società tal quale sorpresa calda calda nell'atto della vita è trasportata nel Decamerone: quadro immenso della vita in tutte le sue varietà di caratteri e di accidenti i più atti a destare la maraviglia sul quale spicca Malebolge tirato dall'inferno e messo sul proscenio il mondo sensuale e licenzioso della furberia e della ignoranza entro cui si move senza mescolarvisi un mondo colto e civile il mondo della cortesia riflesso di tempi cavallereschi vestito un po' alla borghese spiritoso elegante ingegnoso gentile di cui il più bel tipo è Federigo degli Alberighi. Gli abitanti naturali di questo mondo sono preti e frati e contadini e artigiani e umili borghesi e mercatanti con un corteggio femminile corrispondente e le alte risa plebee di questo perpetuo carnevale coprono le donne e i cavalieri le armi e gli amori le cortesie e le imprese di quel mondo dello spirito della coltura dell'ingegno e della eleganza allegro anch'esso ma di un'allegrezza costumata e misurata magnifico negli atti avvenente nelle forme e nel parlare e ne' modi decoroso. Questi due mondi le cui varietà si perdono nello sfondo del quadro vivono insieme producendo un'impressione unica e armonica di un mondo spensierato e superficiale tutto al di fuori nel godimento della vita menato in qua e in là da' capricci della fortuna.

Questo doppio mondo così armonizzato nelle sue varietà riceve la sua intonazione dall'autore e dalla lieta brigata che lo introduce in iscena. L'autore e i suoi novellatori appartengono alla classe colta e intelligente. Essi invocano spesso Dio parlano della Chiesa con rispetto osservano tutte le forme religiose fanno vacanza il venerdì perchè in quel giorno il nostro Signore per la “nostra vita morì” cantano canzoni platoniche e allegoriche e menano vita allegra ma costumata e quale a gentili persone si richiede. Lo spirito l'eleganza la coltura le muse rendono questa società amabile come oggi si riscontra ne' circoli più eleganti. Specchio suo è quel mondo della cortesia reminiscenza feudale abbellita dalla coltura e dallo spirito alla cui immagine si dipinge la colta e ricca borghesia. E come quel mondo feudale avea i suoi buffoni e giullari questa società ha anch'essa chi la rallegri. E i suoi buffoni e giullari sono quell'infinito mondo che le si schiera innanzi preti frati contadini artigiani di cui prende spasso traendo piacere così dai babbei come dai furbi. In questo comico non ci è punto una intenzione seria e alta come correggere i pregiudizi assalire le istituzioni combattere l'ignoranza moralizzare riformare: nel che sta la superiorità del comico di Rabelais e di Montaigne che è la reazione del buon senso contro un mondo artificiale e convenzionale. Lì il riso è serio perchè lascia qualche cosa nella coscienza; qui il riso è per il riso per passare malinconia per cacciare la noia. Quel mondo plebeo è guardato come fa un pittore il modello senz'altra intenzione che di pigliarne i contorni e i lineamenti e mettere in vista ciò che può meglio trastullare la nobile brigata. Nell'immenso naufragio sopravviveva la coscienza letteraria e il sentimento artistico fortificato dallo spirito e dalla coltura; ed è da quella coscienza che sono usciti questi capolavori modelli idealizzati a uso e piacere di una società intelligente e sensuale dal geniale artista idolo delle giovani donne a cui sono intitolati.

L'ideale comico rimasto come il suggello dell'immortalità su questi modelli è nella rappresentazione diretta di questa società così com'è nella sua ignoranza e nella sua malizia messa al cospetto di una società intelligente che sta lì a bella posta per applaudire e batter le mani. Il motivo comico non esce dal mondo morale ma dal mondo intellettuale. Sono uomini colti che ridono alle spalle degli uomini incolti che sono i più. Perciò il carattere dominante che rallegra la scena è una certa semplicità di spirito di nature inculte messa in risalto quando si trova a contatto con la furberia: ciò che costituisce il fondo del carattere sciocco. Con la sciocchezza è congiunta spesso la credulità la vanità la millanteria la volgarità de' desidèri. La furberia dà il rilievo a questo carattere sì che lo metta in vista nel suo aspetto ridicolo. Ma la furberia è anch'essa comica non certo allo sciocco ma agl'intelligenti uditori che la comprendono. Così i due attori concorrono ciascuno per la parte sua a produrre il riso. Qui è il fondamento della commedia boccaccevole. Si vede la coltura in quel suo primo fiorire mostrar coscienza di sè volgendo in gioco l'ignoranza e la malizia delle classi inferiori. Il comico ha più sapore quando i beffati sono quelli che ordinariamente beffano quando cioè i furbi che burlano i semplici sono alla lor volta burlati dagl'intelligenti com'è il confessore burlato dalla sua penitente.

Il comico talora vien fuori per un improvviso motto o facezia che illumina tutta una situazione e provoca il riso di un tratto e irresistibilmente: ciò che oggi si direbbe un “tratto di spirito”. Sono brevi novelle il cui sapore come nel sonetto è tutto nella chiusa. Di questo genere è la novella del giudeo che guardando a Roma la corruzione cristiana si converte al cristianesimo. La chiusa sopraggiunge così improvvisa e così disforme alle premesse che l'effetto è grande. E ce n'è parecchie altre di questo stampo e non molto felici perchè l'autore lavora sopra un motto già trovato e noto. Tali sono le novelle della marchesana di Monferrato di Guglielmo Borsiere e di maestro Alberto. Questi fuochi incrociati di motti e di frizzi che brillano con tanto splendore ne' circoli eleganti e bastano ad acquistarti riputazione di uomo di spirito sono la parte più appariscente ma più elementare dello spirito. La fucina dove si fabbricavano motti facezie proverbi epigrammi frizzi era la scuola de' trovatori e della “gaia scienza”. Moltissimi di questi motti si erano già accasati nel dialetto fiorentino e con molti altri usciti dall'immaginazione di un popolo così svegliato e arguto. Il Decamerone ne è seminato. Ma questi motti appunto perchè entrati già nel corpo della lingua non sono altro che parole e frasi un dizionario morto e raccoglierli e infilarli come fa il Burchiello non è da uomo di spirito. Sono i colori del comico non sono il comico esso medesimo. Sono il patrimonio già acquistato dello spirito nazionale e perciò mancanti di quella freschezza e di quell'imprevisto che è la qualità essenziale dello spirito; nè possono conseguire un effetto estetico se non associandosi a qualche cosa di nuovo e d'inaspettato trovato allora allora che ti vengono sotto la penna. Ciò fa che il Burchiello è insipido e il Boccaccio è spiritoso; perchè per il Boccaccio i motti e i frizzi non sono scopo a sè stessi ma un semplice mezzo di stile il colorito.

Lo spirito nel suo senso elevato è nel comico quello che il sentimento è nel serio una facoltà artistica. E come il sentimento così lo spirito è un grande condensatore dando una velocità di percezione che ti faccia cogliere di un tratto sotto contrarie apparenze il simile o il dissimile. Dove la sagacia giunge per via di riflessione lo spirito giunge di un salto e intuitivamente. I figli di Ugolino nell'esaltazione del sentimento dicono: “Tu ne vestisti queste misere carni e tu le spoglia”. Qui il sentimento opera nel serio quello che nel comico lo spirito; congiunge improvvisamente e in una sola frase idee e immagini diverse. Ma per giungere a questa produzione geniale è necessario che lo spirito sia anch'esso un sentimento il sentimento del ridicolo cioè a dire che stando in mezzo al suo mondo ne provi tutte le emozioni e ci viva entro e ci si spassi pigliandovi lo stesso interesse che altri piglia nelle cose più serie della vita. Pure l'emozione dee esser quella di uno spettatore intelligente anzi che di un attore mescolato in mezzo a' fatti sì che tu guardi quella calma e prontezza e presenza di animo che ti tenga superiore allo spettacolo: ond'è che il vero uomo di spirito fa ridere e non ride lui. È questa calma superiore che rende lo spirito padrone del suo mondo e glielo fa foggiare a sua guisa annodando le fila sviluppando i caratteri disegnando le figure distribuendo i colori.

Lo spirito del Boccaccio è meno nell'intelletto che nell'immaginazione meno nel cercar rapporti lontani che nel produrre forme comiche. Lo studio che i suoi antecessori pongono a spiritualizzare lui lo pone a incorporare. E cerca l'effetto non in questo o quel tratto ma nell'insieme nella massa degli accessorii tutti stretti come una falange. Gli antecessori fanno schizzi: egli fa descrizioni. Quelli cercano l'impressione più che l'oggetto: egli si chiude e si trincera nell'oggetto e lo percorre e rivolta tutto. Perciò spesso hai più il corpo e meno l'impressione; più sensazione che sentimento; più immaginazione che fantasia; più sensualità che voluttà. Mancano i profumi a' suoi fiori mancano i raggi alla sua luce. È una luce opaca per troppa densità e ripetizione di se stessa. Questa maniera nelle cose serie è insopportabile come nel Filocolo e nell'Ameto con quelle interminabili descrizioni e orazioni dove ti senti come arenato e che non vai innanzi E ti offende anche talora nel Decamerone quando per esempio si fa parlare Tito o la figliuola di Tancredi con tutte le regole della rettorica e della logica. Ma nel comico questa maniera è una delle sue forme più naturali e la prima a comparire nell'arte dopo quella esplosione rudimentale di motti e di proverbi. Perchè il comico è il regno del finito e del senso e le prime sue impressioni sono singolarizzate nelle minute pieghe degli oggetti; dove nel serio le prime impressioni ti danno allegorie e personificazioni forme generalizzate nell'intelletto. Questa prima forma del comico è la caricatura.

La quale è la rappresentazione diretta dell'oggetto fatta in modo che sia messo in vista il suo lato difettoso e ridicolo. Certo basterebbe metterti sott'occhio il difetto e lasciarti indovinare tutto il resto. Un solo tratto di spirito illumina tutto il corpo e te lo presenta all'immaginazione. Ma il Boccaccio non se ne contenta e come fa il pittore ti disegna tutto il corpo scegliendo e distribuendo in modo gli accessorii e i colori che ne venga maggior luce sul lato difettoso. Di che nasce che il ridicolo non rimane isolato su quel punto ma si spande su tutta l'immagine di cui ciascuna parte concorre all'effetto apparecchiando graduando e producendo una specie di “crescendo” nella scala del comico. Il riso perchè vi sei ben preparato e disposto di rado ti viene improvviso e irresistibile come in quei brevi tratti che ti presentano rapporti inaspettati anzi spesso più che riso è una gioia uguale che ti tiene in uno stato di pacata soddisfazione. Non ridi ma hai la faccia spianata e contenta e ti si vede il riso sotto le guance non tale però che debba per forza scattar fuori in quella forma contratta e convulsa. Il quale effetto nasce da questo che l'autore non ti presenta una serie di rapporti usciti dall'intelletto ma una serie di forme uscite dall'immaginazione. E sono forme piene carnose togate minutamente disegnate. L'autore come obbliato in questo mondo dell'immaginazione ha aria di non aggiungervi niente del suo egli che ne è il mago. E tu ci stai dentro come incantato. L'autore non si distrae mai non mette il capo fuori per fare una smorfia che provochi il riso non tratta il suo argomento come cosa frivola e piglia e lascia e torna. Quella è la sua idea fissa e lo incalza e lo tiene e tiraselo appresso e non gli dà fiato se non sia uscita tutta fuori. E tu non ti distrai ti senti come dondolato deliziosamente nella tua contemplazione nè il riso che talora ti coglie t'interrompe chè subito ti ci rituffi entro e corri e corri e il corso è finito e tu corri ancora dolcemente naufragato. Ma non è il mondo orientale dove l'immaginazione quasi fatta ebbra dall'oppio salta fremente dalle braccia dell'amore pe' vasti campi dell'infinito e ti fa provare quel sentimento che dicesi voluttà e che è l'infinito nel senso quel vago e indefinito e musicale che tra gli abbracciamenti ti rivela Dio. Questo è un mondo prettamente sensuale chiuso e appagato in forme precise e rotonde da cui niente è che ti stacchi e ti rapisca in alte regioni. Appunto perchè questi fiori non mandano profumi e queste luci non gittano raggi tu hai sensazioni e non sentimenti immaginazione e non fantasia sensualità e non voluttà. Il rêve scompare. L'estasi non tiene più assorti i tuoi sguardi. Hai trovato già il tuo paradiso in quella realtà piena e attraente. Diresti che la carne in questo suo primo riapparire nel mondo ti si sveli nel suo tripudio tutta nuda ed empia di lusinghe e di vezzi il tuo paradiso. Perciò la forma di questo paradiso è cinica anche più dove un senso ironico di modestia è una civetteria che riaccende il senso.

Poichè la forma di questo mondo è la caricatura uscita da una immaginazione abbondante minuta disegnatrice hai innanzi non punte e rialzi ma l'oggetto intero nelle sue più fine gradazioni. Breve ne' preliminari e nella dipintura astratta di personaggi l'autore alza subito il sipario e ti trovi in piena azione che si movono e parlano. E già fin da' primi lineamenti ti balza innanzi il motivo comico che ti si sviluppa a poco a poco per via di gradazioni l'una entrata nelle altre con effetto crescente. Il Boccaccio vi spiega quella qualità che i francesi mirando alla forza nel suo calore e nella sua facilità chiamano “verve” e noi chiamiamo “brio” mirando alla forza nella sua allegra genialità. Di che maraviglioso esempio è la novella di Alibech e l'altra di ser Ciappelletto. A render più piccante la caricatura serve l'ironia che qui è forma non sostanziale ma accessoria. Ed è un'apparente bonomia un'aria d'ingenuità con la quale il narratore fa il pudico e lo scrupoloso e non vuol dire e pur dice e non vuol credere e pur crede e si fa la croce con un sogghigno. Questa ironia è come una specie di sale comico che rende più saporito il riso a spese del “paternostro” di san Giuliano e de' miracoli di ser Ciappelletto.

Essendo base di questo mondo la descrizione cioè l'oggetto non ne' suoi raggi e ne' suoi profumi cioè a dire nelle sue impressioni ma nel suo corpo singolarizzato ed individuato ha bisogno di forme piene e ricche e così nascono le due forme della nuova letteratura l'ottava rima nella poesia e il periodo nella prosa.

Abbiamo già vista la nona rima svilupparsi con magnificenza orientale nel poema l'Intelligenzia. L'ottava rima non è inventata dal Boccaccio come non è sua invenzione il periodo. Ma è lui che le dà un corpo e l'intonazione. Prima di lui l'ottava rima è un accozzamento slegato e fortuito dove diversi oggetti sono ficcati insieme a caso che potrebbero assai bene star da sè. Stanno lì dentro oggetti nudi non ci e un solo oggetto sviluppato e addobbato. L'ottava rima è un meccanismo non è ancora un organismo. Il Boccaccio ha fatto dell'ottava una totalità organica ed è l'oggetto che si sviluppa a poco a poco nelle sue gradazioni. Ben trovi ne' suoi poemi ottave felici; ma in generale elle sono impigliate mal costruite e in sul più bello ti cascano. Nel genere eroico ti riesce sforzato e teso; nel genere idillico ti riesce volgare e abbandonato. Gli è che l'ottava nell'ampiezza e magnificenza delle sue costruzioni è la maggiore idealità della forma poetica e richiede un'attività geniale che manca al Boccaccio errante in un mondo artificiale e convenzionale. Il difetto è tutto al di dentro nell'anima; ciò che freddamente è concepito nasce debole e mal congegnato e non ci vale artificio.

Qui al contrario l'autore è a casa sua: pinge un mondo in cui vive a cui partecipa con la più grande simpatia e tutto in esso gitta via ogni involucro artificiale. Ci è in lui qualche cosa più che il letterato ci è l'uomo che vi guazza entro e vi si dimena e vi si strofina e vi lascivia. E n'esce una forma che è quel mondo esso medesimo di cui sente gli stimoli nella carne e nell'immaginazione. Così è venuta fuori quella forma di prosa che si chiama il “periodo boccaccevole”.

A quel tempo il grande movimento letterario che aveva il suo centro a Firenze si era di poco allargato fuori di Toscana. La restaurazione dell'antichità che presentava all'immaginazione nuovi orizzonti il mondo greco che allora spuntava appena involto in quel vago chiaroscuro che accresce le illusioni tirava a sè l'attenzione La lingua di Dante non era ancora lingua italiana: la chiamavano “idioma fiorentino”. La lingua era sempre il latino nè era mutata l'opinione che di sole cose frivole e amorose si potesse scrivere in “latino volgare” come si chiamavano i dialetti. Il Boccaccio dice di sè che scrive in “idioma fiorentino” e quelli che usavano il volgare dice che scrivevano in “latino volgare”. Il tipo di perfezione era sempre il latino e l'ideale vagheggiato dalla classe erudita era un volgare nobile o illustre secondo quel modello configurato un volgare alzato a quella stessa perfezione di forma. Questo tentò Dante nel Convito con piena fede che il volgare fosse acconcio ad esprimere le più gravi speculazioni della scienza non altrimenti che il latino e quello scolastico latino volgare o “volgare latino” nudo e tutto ossa e nervi parve per la prima volta magnificamente addobbato nelle larghe pieghe della toga romana. Ma la pece scolastica s'era appiccata anche a Dante e quella barbarie delle scuole sta così in quelle ampie forme a disagio come un contadino vestito a festa in abito cittadinesco. Non ci è fusione ci è punte e contrasti.

Il Boccaccio non era uscito dalle scuole e quando più tardi studiò filosofia e un po' anche teologia il suo spirito era già formato nell'esperienza della vita comune nell'uso del suo volgare e nello studio de' classici. Come il Petrarca ha in abbominio gli scolastici ne' quali vede proprio il contrario di quella elegante coltura greca e romana vede la barbarie e la rozzezza. Regnano nel suo spirito divinità Virgilio e Ovidio e Livio e Cicerone e non ci è Bibbia che tenga e non ci è san Tommaso. Quando vuol dipingere alcun lato serio morale o scientifico del suo mondo la sua imitazione è un artificio esterno e meccanico perchè ha più immaginazione che sentimento e più intelletto che ragione. La sua forma è decorosa nobile spesso disimpacciata ma troppo uguale e placida e talora ti fa sonnecchiare. Il periodo è un rumor d'onde uniforme mosse faticosamente da mare stanco e sonnolento. Manca l'ispirazione supplisce la rettorica e la logica. Il che avviene perchè il Boccaccio separato dalle immagini e gittato nel vago del sentimento o nell'astratto del discorso perde il piede e va giù. Tratta le idee come fossero corpi e analizza e minuteggia che è uno sfinimento. Le idee sono luoghi comuni annacquati in un viavai di piccoli e oziosi accessorii distinzioni riserve condizioni “se” “ma” “avvegnachè” e “conciossiacosachè”. Uno studio soverchio di esattezza una notomia minuta di ogni pensieruzzo mette più in vista la volgarità e insipidezza dell'idea. La forma si stacca visibilmente dalla cosa e appare un meccanismo ingegnoso lavorato accuratamente e sempre quello. Cosa c'è sotto? Il luogo comune. Questo fu chiamato più tardi forma letteraria. E non c'è cosa più contraria alla scienza che è parola e non frase e mal si riconosce nelle circonlocuzioni nelle perifrasi e ne' pleonasmi. In questo artificio ci è un progresso: ci è quell'arte de' nessi e delle gradazioni che mancava alla prosa e rivela uno spirito adulto educato dai classici. Ma ci è il difetto opposto un volere di ogni idea fare una catena cominciata e terminata in sè ciò che è un pantano e non acqua corrente. Il Boccaccio odia gli scolastici; ma il suo periodo non è che sillogismo mascherato una frase generica come “umana cosa è aver compassione degli affiitti” che per molti andirivieni riesce in qualche volgare moralità. Il formulario è divenuto un meccanismo ben congegnato; ma il fondo è lo stesso. Vedi lo scolastico vestito a nuovo e più alla moda. Se l'ampio giro del periodo boccaccevole è una catena artificiale dove la scienza perde la sua semplicità ed elasticità e la sua libertà di movimento non è meno assurdo nell'espressione del sentimento la forza più libera e indisciplinabile dello spirito che spezza tutti i legami della logica e sbalza fuori con rapidità. I bruschi e tragici movimenti dell'animo qui sono come cristallizzati tra congiunzioni parentesi e ragionamenti. Manca ogni subbiettività: ti è difficile guardare al di dentro nella coscienza; i casi sono straordinari i fatti interessanti le situazioni drammatiche e non ti viene la lacrima e non ti senti commosso perchè l'anima non si manifesta che in frasi comuni e rigirate. Veggasi la novella di madama Beritola e l'altra del conte d'Anguersa ove tra' più pietosi accidenti e mutazioni della fortuna non si muta la forma sempre attillata e guantata. Pure qua e là si sente una certa non dirò commozione ma emozione di una immaginazione calda e n'escono movimenti sentimentali come nelle ultime parole della figliuola di Tancredi e in alcuni tratti della Griselda.

Questa forma di periodo che si affà così poco alla scienza e al sentimento dove appare un mero meccanismo foggiato alla latina acquista senso e moto quando il teatro della vita è nell'immaginazione cioè a dire quando l'autore si trova nel vivo dell'azione non con idee e sentimenti ma con oggetti innanzi ben determinati. Tale è la descrizione della peste o del combattimento di Gerbino. Perchè il fatto non è come l'idea uno e semplice ma come il corpo è un multiplo un insieme di circostanze e di accessorii. Questo insieme è il periodo il quale nella sua evoluzione è ciò che in pittura si chiama “un quadro”. Aggruppare le circostanze subordinarle coordinarle intorno ad un centro ombreggiare lumeggiare è arte somma nel Boccaccio. La descrizione quando sta per sè in astratto e separata dall'azione non riscalda abbastanza l'immaginazione e riesce fronzuta com'è spesso nelle introduzioni. Ma quando ci è qualche cosa che si move e cammina e rassomiglia ad un'azione l'immaginazione si mette in moto anche lei e assiste pacata allo spettacolo disegnando e facendo quadri in quelle larghe forme che si chiamano periodi. Questa maniera di narrare a quadri non è certo l'andamento naturale dell'azione che perde l'impeto e l'attrito arrestata ne' suoi movimenti più rapidi dall'occhio tranquillo di una immaginazione disegnatrice. E perciò non è maniera conveniente alla storia e non è prosa ma è arte in forma prosaica e narrazione poetica. Que' quadri e periodi ti danno non pur l'ordine e il legame e il significato de' fatti ma le movenze le attitudini le gradazioni: onde nasce quell'effetto d'insieme che dicesi “fisonomia” o “espressione”.

Ma dove il periodo boccaccevole diviene una creazione sui generis un organismo vivente è nel lato comico e sensuale del suo mondo. E non è già che vi adoperi maggiore artificio o finezza; ma è che qui ci è la musa vale a dire tutto un mondo interiore la malizia la sensualità la mordacità un vero sentimento comico e sensuale. Ed è questa sentimentalità la sola che la natura abbia concessa al Boccaccio che penetra in quei flessuosi giri della forma e ne fa le sue corde. Il suo periodo è una linea curva che serpeggia e guizza ne' più libidinosi avvolgimenti con rientrature e spezzamenti e spostamenti e riempiture e sono vezzi e grazie o civetterie di stile che ti pongono innanzi non pur lo spettacolo nella sua chiarezza prosaica ma il suo motivo sentimentale e musicale. Quelle onde sonore quelle pieghe ampie della forma latina piena di gravità e di decoro dove si sente la maestà e la pompa della vita pubblica trasportata dal foro nelle pareti di una vita privata oziosa e sensuale diventano i lubrici volteggiamenti del piacere stuzzicato dalla malizia. In bocca a Tito a Gisippo senti la rettorica imitazione di un mondo fuori della coscienza: l'aria è pur quella ma cantata da un borghese che non ne ha il sentimento e sbaglia spesso il motivo. Qui al contrario in questo mondo erotico e malizioso hai la stess'aria penetrata da un altro motivo che la soggioga e se l'assimila; e quelle forme magniloquenti che arrotondivano la bocca degli oratori arrotondiscono il vizio e gli danno gli ultimi finimenti e allettamenti. I latini nell'espressione del comico gittavano via le armi pesanti e vestivano alla leggiera: il Boccaccio concepisce come Plauto e scrive come Cicerone. Pure il suo concepire è così vivo e vero che Cicerone si trasforma nella sua immaginazione in una sirena vezzosa che tutta in sè si spezza e si dimena. Ma spesso tutto dentro nel soggetto gitta via i viluppi e i contorcimenti e salta fuori snello rapido diritto incisivo. Maestro di scorciatoie e di volteggiamenti la sua immaginazione covata da un sentimento vero spazia come padrona tra forme antiche e moderne e le fonde e ne fa il suo mondo e vi lascia sopra il suo stampo. Sarebbe insopportabile questo mondo e profondamente disgustoso se l'arte non vi avesse profuse tutte le sue veneri inviluppando la sua nudità in quelle ampie forme latine come in un velo agitato da venti lascivi. L'arte è la sola serietà del Boccaccio sola che lo renda meditativo fra le orgie dell'immaginazione e gli corrughi la fronte nella più sfrenata licenza come avveniva a Dante e al Petrarca nelle loro più alte e pure ispirazioni. Di che è uscito uno stile dove si trovano fusi i vari uomini che vivevano in lui il letterato l'erudito l'artista il cortigiano l'uomo di studio e di mondo uno stile così personale così intimo alla sua natura e al suo secolo che l'imitazione non è possibile e rimane monumento solitario e colossale fra tante contraffazioni.

Che cosa manca a questo mondo?

Mondo della natura e del senso gli manca quel sentimento della natura e quel profumo voluttuoso che gli darà il Poliziano.

Mondo della commedia gli manca quell'alto sentimento comico nelle sue forme umoristiche e capricciose che gli darà l'Ariosto.

E che cosa è questo mondo?

È il mondo cinico e malizioso della carne rimasto nelle basse sfere della sensualità e della caricatura spesso buffonesca inviluppato leggiadramente nelle grazie e ne' vezzi di una forma piena di civetteria un mondo plebeo che fa le fiche allo spirito grossolano ne' sentimenti raggentilito e imbellettato dall'immaginazione entro del quale si move elegantemente il mondo borghese dello spirito e della coltura con reminiscenze cavalleresche.

È la nuova “Commedia” non la “divina” ma la “terrestre Commedia”. Dante si avvolge nel suo lucco e sparisce dalla vista. Il medio evo con le sue visioni le sue leggende i suoi misteri i suoi terrori e le sue ombre e le sue estasi è cacciato dal tempio dell'arte. E vi entra rumorosamente il Boccaccio e si tira appresso per lungo tempo tutta l'Italia.


 

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L'ULTIMO TRECENTISTA

L' ultima voce di questo secolo è Franco Sacchetti l'uomo “discolo e grosso”. Di mezzana coltura d'ingegno poco al di là del comune ma di un raro buon senso di poca iniziativa e originalità ma di molta se.nplicità e naturalezza era nella sua mediocrità la vera eco del tempo. Gli facea cerchio la turba de' rimatori ripetizione stanca del passato il lucchese Guinigi e Matteo da San Miniato e Antonio da Ferrara e Filippo Albizi e Giovanni d'Amerigo e Francesco degli Organi e Benuccio da Orvieto e Antonio da Faenza e Astorre pur da Faenza e Antonio Cocco e Angelo da San Geminiano e Andrea Malavolti e Antonio Piovano e Giovanni da Prato e Francesco Peruzzi e Alberto degli Albizi e Benzo de' Benedetti che lo chiama “eroe gentile” e parecchi altri. E il nostro eroe gentile riceveva e mandava sonetti cambiando lodi con lodi. Ultime voci de' trovatori italiani. Luoghi comuni e forma barbara annunziano un mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi ma insipidi e freddi come un'avemaria ripetuta meccanicamente tutt'i giorni. Per questo lato il Sacchetti continua il passato fa perchè gli altri fanno pensa così perchè gli altri così pensano piglia il mondo come lo trova senza darsi la pena di esaminarlo. Questa è la sua parte morta. Ma ci è una parte viva quella a cui partecipa e che suona nel suo spirito quella in cui apparisce la sua personalità. Ed è appunto quel mondo di cui il Boccaccio è così vivace espressione.

Franco è il “vero uomo della tranquillità”. Il Boccaccio sdegnava l'epiteto e talora voleva sonare la tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche. Franco non ha pretensioni e si mostra com'è ed è contento di esser così. È uomo stampato all'antica in tempi corrotti buon cristiano e insieme nemico degl'ipocriti e mal disposto verso i preti e i frati diritto ed intero nella vita alieno dalle fazioni benevolo a tutti talora mordace ma senza fiele modesto estimatore di sè e lontanissimo di mettersi allato a' grandi poeti di quel tempo che erano secondo lui e i contemporanei Zanobi da Strada il Petrarca e il Boccaccio. Quali erano i desidèri del nostro brav'uomo? Menare una vita tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo del mondo quando in villa o in città potea darsi buon tempo fra le allegre brigate motteggiando novellando sonetteggiando. Ci è in lui dell'idillico e del comico. Ama la villa perchè in città

e nelle sue cacce nelle sue ballate senti non di rado la freschezza dell'aura campestre come è quella così briosa delle “donne che givano cogliendo fiori per un boschetto” e l'altra delle “montanine” di una grazia così ingenua. In città è un burlone pieno il capo di motti di facezie di fatterelli e te li snocciola come gli escono con tutto il sapore del dialetto e con un'aria di bonomia che ne accresce l'effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo di un andare svelto e allegro dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l'uomo che ci piglia gusto e vi si sollazza e sta già con l'immaginazione nella lieta brigata dove i versi saranno cantati tra musica e ballo. Veggasi la ballata del “pruno” e il madrigale del “falcone”.

Le novelle del Sacchetti hanno per materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e domestico: frizzi burle amorazzi ipocrisie fratesche aneddoti pettegolezzi vengon fuori bassa vita popolana in forma popolana. Alcuni le pregiano più che il Decamerone per lo stile semplice e naturale e rapido non privo di malizia e di arguzia fiorentina. Ma la naturalezza del Sacchetti è quella dell'uomo a cui le muse sono avare de' loro doni. Non è artista e neppure d'intenzione. Gli manca ogni sorta d'ispirazione Quel mondo con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone è qui un materiale grezzo appena digrossato. Perciò delle sue trecento novelle si ricorda appena qualche aneddoto: nessun personaggio è rimasto vivo.

Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon umore ci è una nota malinconica che all'ultimo manda più lugubre suono. Non piace al brav'uomo un mondo in cui chi ha più danari vale più e grida che “vertù con pecunia non si acquista” e che “gentilezza e virtù son nella mota”. Dipinge al vivo gli avvocati de' suoi tempi:

Ora se la piglia con le vecchie. Ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire portate a Firenze da altri paesi. Grida contro la turba de' rimatori e de' cantori:

E quando muore il Boccaccio “copioso fonte di eleganza” esclama:

Questa canzone di cui abbiamo citati alcuni brani è l'elogio funebre del Trecento pronunziato dal più candido e simpatico de' suoi scrittori l'ultimo trecentista. Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro e gli si affaccia la grande figura di Dante e l'Africa col suo “alto poeta” e Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone ma co' dotti e magni volumi latini De' viri illustri Delle donne chiare e “il terzo”:

Buccolica; il quarto: Monti e fiumi;

Degl'iddii e lor costumi.

Oimè! Dante è morto. Morto è Boccacci. Petrarca muore. Chi rimane? E l'ultimo trecentista guarda intorno e risponde: - Nessuno. - Ricorda le infauste profezie nunzie di sciagure fra il sessanta e l'ottanta e gli pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre grandi e tanti altri dottissimi teologi filosofi legisti astrologi è perita per sempre? O risurgerà dopo cinquecento anni come fu della medicina? O non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è dato all'abaco e alle arti meccaniche: “nuda è l'adorna scuola” da tutte sue parti:

La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a' sollazzi e al guadagno e non cura virtù e spregia le muse e non ci è chi sappia leggere Dante e gli studi sono mutati in forni. Il poeta accomiata la canzone in questo modo:

Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo. Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari finisce come un'aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova una nuova èra. Il Trecento finisce come un tristo tramonto così tristo e oscuro che il buon Franco pensa: - Chi sa se tornerà il sole? -

Antonio da Ferrara sparsasi voce della morte del Petrarca intuona anche lui un poetico Lamento. Piangono intorno al grand'uomo Gramatica Rettorica Storia Filosofia e lo accompagnano al sepolcro di Parnaso

Virgilio Ovidio Giovenale e Stazio

Lucrezio Persio Lucano e Orazio

e Gallo.

 

E Pallas Minerva venuta dall'angelico regno conserva la sua corona. In ultimo della mesta processione spunta l'autore col suo nome cognome e soprannome:

È anche un brav'uomo costui vede anche lui tutto nero:

Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri dove non trovi alcuna profondità di vista e non forza di mente o di sentimento. Pur vi trovi ancorchè in forma pedantesca la fisonomia del secolo negli ultimi giorni della sua esistenza.

Quella nota malinconica è la stessa forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio e volse a Maria gli ardori del Petrarca e rattristò le ultime ore di Franco Sacchetti e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da Siena. Perchè quella forza contraddetta e negata nella vita occupava ancora l'intelletto e tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente comparirà talora come un rimorso e chiamerà gli uomini alla penitenza.

“La fede va mancando” grida il ferrarese. e gli studi “si convertono in forni” nota il fiorentino. Non si potea meglio dipingere la fisonomia che andava prendendo il secolo e che comunicava alla nuova generazione. Possiamo disegnarla in brevi tratti.

Come il popolo grasso piglia il sopravvento in Firenze così nelle altre parti d'Italia la borghesia si costituisce si ordina diviene una classe importante per industrie per commerci per intelligenza e per coltura. E lo stacco si fa profondo tra la plebe e la classe colta. La coltura non è privilegio di pochi ma si allarga e si diffonde e fa del popolo italiano il più civile di Europa.

La vita pubblica e la vita religiosa rimane stazionaria fra l'universale indifferenza. Continuano le stesse forme ma sciolte dallo spirito che le rendea venerabili quelle persone quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il motivo comico delle liete brigate.

La vita privata viene su. Ed è vita socievole spensierata condita dallo spirito. Gli uomini si uniscono in compagnie o brigate non per discutere ma per sollazzarsi in città e in villa. E si sollazzano a spese delle classi inculte. Trovatori cantori e novellatori non sono più il privilegio delle castella e delle corti. L'allegria feudale si spande anche nelle case de' ricchi borghesi e i racconti e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri e in una forma spesso licenziosa e cinica. La licenza del linguaggio era il solletico dell'allegria.

Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il campo. L'allegra vita della città si specchiava in forme liriche svelte e graziose rispetti strambotti frottole ballate e madrigali. L'allegra vita de' campi avea pur le sue forme le “cacce” e gl'idilli. L'anima di questa letteratura è lo spirito comico e il sentimento idillico.

La forma dello spirito comico è la caricatura penetrata di un'ironia maliziosa ma non maligna. La forma idillica è la descrizione della bella natura penetrata di una molle sensualità. Traspare da tutta questa letteratura una certa quiete e tranquillità interiore come di gente spensierata e soddisfatta.

Giovanni Boccaccio è il grande artista che apre questo mondo allegro della natura. Il misticismo perisce ma ben vendicato traendosi appresso religione moralità patria famiglia ogni semplicità e dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la voluttà idillica e l'allegria comica. Sono le due divinità della nuova letteratura.

Ma come l'antica letteratura vede i suoi ideali attraverso un involucro allegorico-scolastico così la nuova non può trovare se stessa se non attraverso l'involucro del mondo greco-latino.

La vita del Boccaccio è in compendio la vita letteraria italiana come si andrà sviluppando. Comincia scopritore instancabile di manoscritti e tutto mitologia e storia greca e romana. Non è ancora un artista è un erudito. La sua immaginazione erra in Atene e in Troia. Tenta questo e quel genere e non trova mai se stesso. Quel mondo è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene toglie la vista immediata. Imita Dante imita Virgilio petrarcheggia e platoneggia come il buon Sacchetti. Scrive magni volumi latini ammirazione de' contemporanei. E si scopre artista quando gittato via tutto questo bagaglio scrive per sollazzo abbandonato alla genialità dell'umore. Dove cerca il piacere trova la gloria.

Questa vita ne' suoi tentennamenti nelle sue imitazioni nelle sue pedanterie ne' suoi ideali è la storia della nuova letteratura.


 

 

XI

“LE STANZE”

Siamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati e i Boccacci si moltiplicano l'impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre o per dir meglio quella tale corrente elettrica che incerti momenti investe tutta una società e la riempie dello stesso spirito. Quella stessa attività che gittava l'Europa crociata in Palestina e più tardi spingendola verso le Indie le farà trovare l'America tira ora gl'italiani a disseppellire il mondo civile rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie. Quella lingua era la lingua loro e quel sapere era il loro sapere: agl'italiani pareva avere racquistato la conoscenza e il possesso di sè stessi essere rinati alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata il “Rinascimento”.Nè questo era un sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era capitale del mondo gli stranieri erano barbari gl'italiani erano sempre gli antichi romani erano sangue latino e la loro lingua era il latino e la lingua parlata era chiamata il “latino volgare” un latino usato dal volgo. Questo sentimento legato in Dante con le sue opinioni ghibelline ispirava più tardi l'Africa e latinizzava anche le facezie del Boccaccio. Ora diviene il sentimento di tutti e dà la sua impronta al secolo. La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi i Guarini i Filelfi i Bracciolini che furono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in oriente e in occidente vengono le letture i comenti le traduzioni. Il latino è già così diffuso che i classici greci si volgono in latino perchè se ne abbia notizia come i dugentisti volgevano in volgare i latini. Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche le donne. Grande stimolo è non solo la fama ma il guadagno. Diffusa la coltura i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri letterari nelle grandi città: a Roma a Napoli a Firenze più tardi a Ferrara intorno agli Estensi. E quei centri si organizzano e diventano accademie Sorge la pontaniana a Napoli l'Accademia platonica a Firenze quella di Pomponio Leto e di Platina a Roma. Illustri greci caduta Costantinopoli traggono a Firenze. Gemistio spiega Platone a' mercatanti fiorentini. Marsilio Ficino il traduttore di Platone lo predica dal pulpito come la Bibbia. Pico della Mirandola morto a trentun anno stupisce l'Italia con la sua dottrina ed oltrepassando il mondo greco cerca in Oriente la culla della civiltà.

I caratteri di questa coltura sono palpabili.

Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità. Il centro del movimento non è più solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il mezzodì dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria e il Panormita fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro. Roma è il convegno di tutti gli eruditi attirati dalla liberalità di Nicolò quinto. La coltura acquista una fisonomia nazionale diviene italiana. Anche il volgare trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina si scosta dagli elementi locali e municipali e prende aria italiana.

Ma è l'Italia de' letterati col suo centro di gravità nelle corti. Il movimento è tutto sulla superficie e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O per dir meglio popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche mancata è ogni lotta intellettuale ogni passione politica. Hai plebe infinita cenciosa e superstiziosa la cui voce è coperta dalla rumorosa gioia delle corti e de' letterati esalata in versi latini. A' letterati fama onori e quattrini; a' principi incensi tra il fumo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò Alfonso il magnanimo Cosimo padre della patria e più tardi Lorenzo il magnifico e Leone decimo e i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diventa il protettore del dimani. Erranti per le corti si vendevano all'incanto.

Questa fiacchezza e servilità di carattere accompagnata con una profonda indifferenza religiosa morale e politica di cui vediamo gli albori fin da' tempi del Boccaccio è giunta ora a tal punto che è costume e abito sociale e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo. Una certa ipocrisia c'è quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla rappresentazione della vita ti è innanzi nella sua nudità. È una letteratura senza veli e più sfacciata in latino che in volgare.

Ne nasce l'indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s'ha a dire ma come s'ha a dire. I più sono secretari di principi pronti a vestire del loro latino concetti altrui. La bella unità della vita come Dante l'aveva immaginata la concordia amorosa dell'intelletto e dell'atto è rotta. Il letterato non ha obbligo di avere delle opinioni e tanto meno di conformarvi la vita. Il pensiero è per lui un dato venutogli dal di fuori quale esso sia: a lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è un ricco emporio di frasi di sentenze di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie: forme vuote e staccate da ogni contenuto. Così nacque il letterato e la forma letteraria.

Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi la scienza. Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la forma. Sorge la critica circondata di grammatiche e di rettoriche; il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi in una eguale adorazione: si giudicano si classificano pigliano posto. Questi lavori filologici ed eruditi sono la parte più seria e più durevole di questa coltura. Spiccano fra tutti le Eleganze di Lorenzo Valla. Il titolo ti dà già la fisonomia del secolo.

Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria co' suoi vari centri in tutta Italia sono una certa stanchezza di produzione l'inerzia del pensiero l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti l'uomo e la natura guardati a traverso di quelle forme. È una nuova trascendenza il nuovo involucro. Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente perchè non è l'immagine che gli sta innanzi ma la frase di Orazio o di Virgilio vede il mondo non nella sua vista immediata ma come si trova rappresentato da' classici a quel modo che Dante vedea Beatrice a traverso di Aristotile e di san Tommaso.

Ma non ci è guscio che tenga incontro all'arte. Dante potè spesso rompere quel guscio perchè era artista. E se in questa cultura fossero elementi seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni non è dubbio che vedremmo venire il grande artista destinato a farne sentire il suono pur tra queste forme latine. Ciò che ferve nell'intimo seno di una società tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino che questo non sia avvenuto. E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme se il mondo interiore della coscienza s'è infiacchito la colpa è de' classici che paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo il mondo di Omero e di Virgilio di Tucidide e di Livio non è un mondo fiacco e frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurne che l'esterno meccanismo e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto gli è che il vuoto era nell'anima loro e nessuno dà ciò che non ha. Un cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più artificiali e più ripugnanti.

Leggete questi latinisti. Cosa c'è lì dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico in una forma elegante e vezzosa. Questo studio dell'eleganza nelle forme accompagnato co' tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni della città era in iscorcio tutta la vita del letterato.

Così quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e da disputazioni sottili il latino fu scolastico. E ora che il naturalismo idillico e comico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico il latino è idillico dico il latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la flebile elegia. In questo latino elegante il dolore è elegiaco e il piacere è idillico. La vita è tutta al di fuori è un riso della natura e dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi. Sulle rive di Mergellina il Pontano canta gli Amori e i Bagni di Baia ora tutto vezzeggiativi e languori ora motteggevole e faceto. Mergellina Posilipo Capri Amalfi le isole le fonti le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose e allegrano le nozze della sua Lepidina. La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i deliziosi profumi dell'eleganza. La sua musa come la sua colomba “fugit insulsos et parum venustos” “odit sorditiem” nega i suoi doni a quelli che sono “illepidi atque inelegantes” e “gaudet nitore” e rassomiglia alla sua “puella” di cui nessuna “vivit mundior elegant'orve”. Spirito ed eleganza questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta che cantava i suoi ozi e passava il tempo tra Quintiliano Cicerone Virgilio e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti l'eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea la Lepidina tra' susurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre con più immaginazione nel Pontano con più sentimento nel Poliziano. Piace la “cerula” ninfa Posilipo e la “candida” Mergellina e quel voler essere uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante una sensualità dell'immaginazione. Il Pontano è figurativo tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è più semplice più vicino alla natura e te ne dà l'impressione:

 

Hic resonat blando tibi pinus amata susurro;

hic vaga coniferis insibilat aura cupressis:

hic scatebris salit et bullantibus incita venis

pura coloratos interstrepit unda lapillos.

 

Questo latino maneggiato con tanta sveltezza modulato con tanta grazia non cade nel vuoto come lingua morta e questi canti non sono stimati lavori di pura erudizione e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la “lingua nostra”; nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino e metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto. Dante stesso era detto “poeta da calzolai e da fornai”. Non pareva impossibile continuare il latino come i greci continuavano il greco parlare la lingua universale la lingua della scienza e della coltura essere intesi da tutti gli uomini istrutti.

Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze dove il volgare avea messo salde radici illustrato da tanta gloria nè potea parer vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta nettamente distinta non era e popolo grasso e popolo minuto erano ancora il popolo con una comune fisonomia. Grandissima l'ammirazione de' classici; frequentissimi gli Studi del Landino del Crisoloro del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone e di Aristotile (discussioni erudite senza conclusione e serietà pratica); si applaudiva al Poliziano quando cantava la bellezza o la morte dell'Albiera o gli occhi di Lorenzo “purus apollinei sideris nitor” come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il Filelfo spiegava Dante e il Landino sponeva il Petrarca e Leonardo Bruni sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma e Lorenzo de' Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini chiamava “unico” Dante celebrava la facondia e la vena del Boccaccio e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori i grammatici i pedanti che dicevano Dante uno spropositato un ignorante “rerum ommum ignarum” e che scrivea così male in latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristoforo Landino nel suo studio dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio pigliando a esporre il Petrarca insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole di grammatica e di rettorica. Certo il vezzo del latino introduceva nel volgare caduto in mano a' pedanti vocaboli e frasi e giri di cui si sentono gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola e non potè alterare le forme del volgare così come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo. Nè l'uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del Boccaccio e in volgare Feo Belcari scrivea le vite de' santi e le rappresentazioni e si continuavano i rispetti gli strambotti le frottole le cacce le ballate tutt'i generi di lirica popolare legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati le mascherate le giostre le serenate le rappresentazioni i giuochi le sfide. Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua legata così intimamente con la vita.

La forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva la vita pubblica e privata divenuta parte inseparabile della società nelle sue usanze e ne' suoi sentimenti. Onde se gli uomini colti trasportati dalla corrente comune scrivevano in latino per procacciarsi fama nell'uso vario della vita adoperavano il volgare condotto ormai al suo maggior grado di grazia e di finezza parlato e scritto bene generalmente. Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare. Il mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato non era potuto più risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e più del Boccaccio ed era tenuto rozzo e barbaro e continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima. Al contrario era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano la “gaia scienza” e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le laude erano intonate come i rispetti e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi allora in voga. La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata Zinevra “sei anni andata tapinando per lo mondo”. Spesso c'entra il comico e il buffonesco e ti par d'essere in piazza a sentir le ciane che si accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.

La leggenda è un racconto maraviglioso animato da uno spirito mistico e ascetico con le sue estasi le sue visioni i suoi miracoli. Ci è al di sotto la fede che fa muovere i monti e ti tiene al di sopra de' sensi anzi sforza i sensi e dà loro le ali dell'immaginazione. Questo mondo miracoloso dello spirito fatto così palpabile come fosse corpo è rappresentato senza alcuno artificio che lo renda verisimile anzi con la più grande ingenuità essendo quelle verità incontrastate pel narratore e pe' lettori. Questa impressione ti fanno le leggende del Passavanti e le Vite del Cavalca.

Questo è il mondo stesso che comparisce nelle rappresentazioni o misteri di questo secolo. Sono antiche rappresentazioni messe a nuovo intonacate imbiancate a uso di un pubblico più colto. Santo Abraam Alessio Abramo Eugenia e Maddalena i santi e i padri e i romiti del Cavalca ti sfilano innanzi. Con la natia rozzezza è ita via anche la semplicità e l'unzione e ogni sentimento liturgico e ascetico. Il miracolo ci sta come miracolo cioè a dire come una macchina del maraviglioso a quel modo che è la fortuna nelle novelle del Boccaccio. Il motivo drammatico è l'effetto che fanno sugli spettatori certe grandi mutazioni e improvvise nello stato de' personaggi morale o materiale: perciò non gradazioni non ombre non sfumature; i contorni sono chiari e decisi; l'azione è tutta esteriore e superficiale e si ferma solo quando una mutazione improvvisa provoca esplosioni liriche di gioia di dolore di maraviglia. Ci è quella lirica superficiale e quella chiarezza epica che è propria del Boccaccio. La lirica è sacra di nome e non ha quell'elevazione dell'anima verso un mondo superiore che senti in Dante o in Caterina: ci è la preghiera non ce n'è il sentimento. L'azione è pedestre e borghese di una prosaica chiarezza non animata dal sentimento non trasformata dall'immaginazione. E il mondo dantesco vestito alla borghese i cui accenti di dolore sono elegia le cui mistiche gioie sono idilli mancato è il senso del terribile e del sublime mancata è l'indignazione e l'invettiva: se alcuna serietà rimane ancora in queste spettacolose rappresentazioni apparecchiate con tanta pompa di scene e di decorazioni è reminiscenza ed eco di un mondo indebolito nella coscienza. Ci erano ancora le confraternite che a grandi spese davano di queste rappresentazioni; ma i fratelli non erano più i contemporanei di Dante e non gli autori e non gli spettatori. Si andava alle rappresentazioni come alle feste carnascialesche per sollazzarsi. E si sollazzavano come si conviene a gente colta e artistica co' piaceri dello spirito e dell'immaginazione. Il mistero era per essi un piacevole esercizio dell'immaginazione una ricreazione dello spirito. Con la coscienza vuota e con la vita tutta esterna e superficiale il dramma era così poco possibile come la tragedia o l'eloquenza sacra o come rifare la visione o la leggenda. Se quelle rappresentazioni fra tanto liscio e intonaco rimasero stazionarie e non poterono mai acquistare la serietà e profondità di un vero mondo drammatico fu perchè mancò all'Italia un ingegno drammatico come affermano alcuni quasi l'ingegno fosse un frutto miracoloso generato senza radici e venuto espressamente dal cielo? O fu come affermano altri perchè il latino attirò a sè gli uomini colti e il mistero fu trascurato come cosa del popolo quasi che autori de' misteri non fossero gli uomini più colti di quel tempo o il latino che non potè uccidere il volgare potesse uccidere l'anima di una nazione quando un'anima ci fosse stata? La verità è che il povero latino non potè uccider nulla perchè nulla ci era niuna serietà di sentimento religioso politico morale pubblico e privato da cui potesse uscire il dramma. Quel mondo spensierato e sensuale non ti potea dare che l'idillico e il comico; e in tanto fiorire della coltura con tanta disposizione ed educazione artistica non potea produrre che un mondo simile a sè un mondo di pura immaginazione. Il mistero è un aborto è una materia sacra che non dice più nulla alla mente ed al cuore senza alcuna serietà di motivi e trasformata da uomini colti in un puro giuoco d'immaginazione dove angioli e demoni paradiso e inferno hanno così poca serietà come Apollo e Diana e Plutone. La serietà e solennità della materia era in flagrante contraddizione con quella forma tutta senso e tutta superficie e con quel mondo spensierato e allegro della pura immaginazione idillico-comico-elegiaco. Il mistero ci fu quale poteva realizzarlo l'Italia in questa disposizione dello spirito e ci fu l'ingegno quale poteva essere allora l'ingegno italiano. Quel mistero fu l'Orfeo e quell'ingegno fu Angiolo Poliziano.

Il Poliziano è la più spiccata espressione della letteratura in questo secolo. Ci è già l'immagine schietta del letterato fuori di ogni partecipazione alla vita pubblica vuoto di ogni coscienza religiosa o politica o morale cortigiano amante del quieto vivere e che alterna le ore tra gli studi e i lieti ozi. Ebbe in Lorenzo un protettore un amico e divenne la sua ombra il suo compagno ne' sollazzi pubblici e secreti. Cominciò la vita voltando l'Iliade in latino grecista e latinista sommo. Dettava epigrammi latini con la facilità di un improvvisatore. Si traeva da tutta Europa a sentirlo spiegare Omero e Virgilio. E non si ammirava solo l'erudito ma l'uomo di gusto e il poeta che ispirato vi aggiungeva le sue emozioni e le sue impressioni e i suoi carmi. Il suo studio e la sua villetta di Fiesole sono il compendio di questa vita tranquilla e placida spenta a quarant'anni.

Il Poliziano aveva uno squisito sentimento della forma nella piena indifferenza di ogni contenuto. Il tempio era vuoto: vi entrò Apollo e lo empì d'immagini e di armonie. Il mondo antico s'impossessò subito di un'anima dove ogni vestigio del medio evo era scomparso. Il Boccaccio senti che è ancora medio evo e lo vedi alle prese co' canoni e le scienze sacre e le forme dantesche: il vecchio e il nuovo Adamo combattono in lui come nel Petrarca: erano tempi di transizione. Nel Poliziano tutto è concorde e deciso: non ci è più lotta. Teologia scolasticismo simbolismo il medio evo nelle sue forme e nel suo contenuto di cui vedevi ancora la memoria prosaica nelle laude e ne' misteri è un mondo in tutto estraneo alla sua coltura e al suo sentire. Quello è per lui la barbarie. E non ha bisogno di cacciarlo dalla sua anima: non ve lo trova. Il sentimento della bella forma già così grande nel Petrarca e nel Boccaccio in lui è tutto; e quel mondo della bella forma appresso al quale correvano faticosamente il Boccaccio e il Petrarca fin da' primi anni è il mondo suo e ci vive come fosse nato là dentro e ne ha non solo la conoscenza ma il gusto. Questo era la coltura l'umanità il risorgimento orgoglio di una società erudita artistica idillica sensuale quale il Boccaccio l'avea abbozzata e che ora si specchia nel Poliziano come nel suo modello ideale. Perchè questa generazione caduta così basso fiacca di tempra e vuota di coscienza aveva pure la sua idealità il suo divino ed era l'orgoglio della coltura il sentimento della forma. Le sue mascherate le cacce le serenate le giostre le feste tanta parte di quella vita oziosa e allegra erano nobilitate dalle arti dello spirito e da' piaceri dell'immaginazione. E se il cardinale Gonzaga rientrando nella patria bandisce pubbliche feste e cerca nella poesia il loro ornamento e decoro il giovane Poliziano gli scrive in due giorni l'Orfeo. E che cosa è l'Orfeo? Come gli venne in mente Orfeo? Giovanni Boccaccio nel Ninfale e nell'Ameto canta la fine della barbarie e il regno della coltura o dell'umanità. Il rozzo Ameto educato dalle arti e dalle muse apre l'animo alla bellezza e all'amore e di bruto si sente fatto uomo. Atalante trasforma il bosco di Diana in città e vi marita le ninfe e v'introduce costumi civili. Orfeo è il grande protagonista di questo regno della coltura venuto dall'antichità giovine e glorioso ne' carmi di Ovidio e di Virgilio. Questo fondatore dell'umanità col suono della lira e con la dolcezza del canto mansuefà le fiere e gli uomini e impietosisce la morte e incanta l'inferno. È il trionfo dell'arte e della coltura su' rozzi istinti della natura consacrato dal martirio quando sforzando le leggi naturali è dato in balìa all'ebbro furore delle baccanti. Dopo lungo obblio nella notte della seconda barbarie Orfeo rinasce tra le feste della nuova civiltà inaugurando il regno dell'umanità o per dir meglio dell'umanismo. Questo è il mistero del secolo è l'ideale del Risorgimento. Le sacre rappresentazioni cacciate dalle città menano vita oscura nei contadi e cadono in così profondo obblio che giacciono ancora polverose nelle biblioteche.

L'Orfeo è un mondo di pura immaginazione. I misteri avevano la loro radice in un mondo ascetico fatto tradizionale e convenzionale pur sempre reale per una gran parte degli spettatori. Qui tutti sanno che Orfeo le driadi le baccanti le furie Plutone e il suo inferno sono creature dell'immaginazione. A quel modo che nelle giostre i borghesi camuffati da cavalieri riproducevano il mondo cavalleresco i nuovi ateniesi dovevano provare una grande soddisfazione a vedersi sfilare innanzi co' loro costumi e abiti le ombre del mondo antico. Che entusiasmo fu quello quando Baccio Ugolini vestito da Orfeo e con la cetra in mano scendeva il monte cantando in magnifici versi latini le lodi del cardinale! “Redeunt saturnia regna.” Sembravano ritornati i tempi di Atene e Roma; salutavano con immenso grido di applauso Orfeo nunzio alle genti della nuova èra della nuova civiltà. Nel medio evo si dicea “vivere in ispirito” ed era il ratto dell'anima alienata da' sensi in un mondo superiore. Ciò che una volta ispirava il sentimento religioso oggi ispira il sentimento dell'arte la sola religione sopravvissuta e si vive in immaginazione. I ricchi a quel modo che decorano i palagi degli avi decorano con l'arte i loro piaceri.

E che decorazione è quest'Orfeo! Dove sotto forme antiche vive e si move quella società idealizzata nell'anima armoniosa del poeta. È un mondo mobile e superficiale a celeri apparizioni e mentre fissi lo sguardo il fantasma ti fugge: la parola è come ebbra e si esala nel suono e nel canto; il pensiero è appena iniziale incalzato dalle onde musicali; la tragedia è un'elegia; l'inno è un idillio; e n'esce un mondo idillico-elegiaco penetrato di un dolce lamento che non ti turba anzi ti lusinga e ti accarezza insino a che questo bel mondo dell'arte ti si disfà come nebbia e ti svegli violentemente tra il furore e l'ebbrezza dei sensi. Il canto di Aristeo il coro delle driadi il ditirambo delle baccanti sono le tre tappe di questo mondo incantato la cui quiete idillica penetrata di flebile e molle elegia si scioglie nel disordine bacchico. La lettura non basta a darne un'adeguata idea. Bisogna aggiungervi gli attori e le decorazioni e il canto e la musica e l'entusiasmo e l'ebbrezza di una società che ci vedea una così viva immagine di se stessa. Il suo ideale il suo Orfeo è una lieve apparizione ondeggiante tra' più delicati profumi a cui se troppo ti accosti ti fuggirà come Euridice. È un mondo che non ha altra serietà se non quella che gli dà l'immaginazione; le passioni sono emozioni gli avvenimenti sono apparizioni i personaggi sono ombre; la vita danza e canta e non si ferma e non puoi fissarla. La stessa leggerezza penetra nelle forme flessibili variamente modulate e come tutta un'orchestra di metri entranti gli uni negli altri in una sola armonia. Il settenario rammorbidisce l'endecasillabo; la ballata dà le ali all'ottava; le rime si annodano ne' più voluttuosi intrecci. Ora è il dialetto nella sua grazia ora è la lingua nella sua maestà; qui lo sdrucciolo ti tira nella rapida corsa là il tronco ti arresta e ti culla; con una facilità e un brio che pare il poeta giuochi con i suoi strumenti.

Così Orfeo il figlio di Apollo e di Calliope rinacque; così divenne il nunzio del Risorgimento. Le edizioni moltiplicarono; penetrò dalle corti nel contado; se ne fecero imitazioni; comparve la Istoria e favola d'Orfeo; e anche oggi nelle valli toscane ti giunge la melodia di Orfeo dalla dolce lira una storia in ottava rima. Personaggio indovinato comparso proprio alla sua ora nel mondo moderno segnacolo e vessillo del secolo.

L'Orfeo nacque tra le feste di Mantova; e tra le feste di Firenze nacquero le Stanze. Quel mondo borghese della cortesia così ben dipinto nel Decamerone riproducea nelle sue giostre il mondo profano de' romanzi e delle novelle la cavalleria. I poeti celebrano a suon di tromba “le gloriose pompe e i fieri ludi” di questi mercanti improvvisati cavalieri e vestiti all'eroica: non ci era più la realtà; ce n'era l'immaginazione. Le giostre erano in fondo una rappresentazione teatrale e i giostranti erano attori che rappresentavano i personaggi de' romanzi spettacolo continuato oggi nelle corse con questo progresso che gli attori sono i cavalli. Ridicoli sono i poeti che narrano le alte geste de' giostranti come fossero Orlando e Carlomagno con le frasi ampollose de' romanzi e descrivono minutamente gli abiti le fogge le divise gli stemmi gli scontri con una serietà frivola. Anche Giuliano de' Medici fece la sua giostra e divenne l'eroe di quel poemetto che i posteri hanno chiamato le Stanze.

Comincia a suon di tromba. Il poeta vuol celebrare le gloriose imprese:

Ma i fatti egregi e i gran nomi sono dimenticati. E che cosa è rimasto? Le Stanze: forme vaganti di cui nessuno cerca il legame ciascuna compiuta in sè. Nella giovine mente del poeta non ci è il romanzo: ci è Stazio e Claudiano con le loro Selve ci è Teocrito ed Euripide ci è Ovidio con le sue Metamorfosi ci è Virgilio con la sua Georgica ci è il Petrarca con la sua Laura; ci è tutto un mondo d'immagini fluttuanti sciolte disseminate come le stelle nel cielo all'occhio semplice del pastore. Questo è il mondo che vien fuori in un legame artificiale e meccanico delle cui fila interrotte nessuno si cura: perchè la giostra non è il motivo di questo mondo è la semplice occasione. La sua unità non è in un'azione frivola e incompiuta debole trama. La sua unità è in se stesso nello spirito che lo move ed è quel vivo sentimento della natura e della bellezza che dal Boccaccio in qua è il mondo della coltura.

La primavera la notte la vita rustica la caccia la casa di Venere il giardino d'Amore gl'intagli non sono già episodi sono questo mondo esso medesimo nella sua sostanza animato da un solo soffio. Sono l'apoteosi di Venere e d'Amore della bella natura la nuova divinità.

E la natura non ha già quel vago che ti fa pensoso e ti tiene in una dolce malinconia; non sei nel regno de' misteri e delle ombre nel regno musicale del sentimento: sei nel regno dell'immaginazione. Venere è nuda Iside ha alzato il velo. Non hai più gli schizzi di Dante hai i quadri del Boccaccio; non hai più la faccia di Giotto hai la figura del Perugino; non hai più il terzetto nel suo raccoglimento hai l'ottava rima nella sua espansione. Ci è quel sentimento idillico e sensuale che ispirò il Boccaccio e di cui senti la fragranza nella Lepidila e nel Rusticus: l'anima sta come rilassata in dolce riposo non fantasticando ma figurando parte a parte e disegnando quasi voglia assaporare goccia a goccia i suoi piaceri. E non è la descrizione minuta anatomica spesso ottusa del Boccaccio; chè mentre la natura ti si offre distinta come un bel paesaggio non sai onde o come ti giungono mormorii concenti note come la voce di una divinità nascosta nel suo grembo. La sensualità filtrata fra tanta dolcezza di note lascia in fondo la sua parte grossolana ed esce fuori purificata; e non è la musa civettuola del Boccaccio è la casta musa del Parnaso che copre la sua nudità e vi gitta sopra il suo manto verginale. Nel Boccaccio è la carne che accende l'immaginazione: nel Poliziano l'immaginazione è come un crogiuolo dove l'oro si affina. La sensuale e volgare Griseida si spoglia in quel crogiuolo la sua parte terrea e diviene la gentile Simonetta bellezza nuda sviluppata da ogni velo allegorico dantesco e petrarchesco a contorni precisi e finiti pur divina nella sua realtà:

Tra il poeta e il suo mondo non ci è comunione diretta: ci stanno di mezzo Virgilio Teocrito Orazio Stazio Ovidio che gli prestano le loro immagini e i loro colori. Ma egli ha un gusto così fine e un sentimento della forma così squisito che ciò che riceve esce con la sua stampa come una nuova creazione. Ci è nel suo spirito una grazia che ingentilisce il volgare naturalismo del suo tempo e una delicatezza che gli fa cogliere del suo mondo il più bel fiore. L'insignificante il rozzo il plebeo non entra nella sua immaginazione: ciò che sta lì dentro è tutto elegante e profumato e non cessa che non l'abbia reso con l'ultima finitezza e perfezione. Le sue reminiscenze mitologiche e classiche sono semplici mezzi di colorito e di rilievo: gli sta innanzi Venere Diana e la tale e tale frase di Ovidio o di Virgilio; ma il suo spirito va al di là della frase attinge le cose nella loro vita e le rende con evidenza e naturalezza. Perciò raro connubio l'eleganza in lui non è mai rettorica e si accompagna con la naturalezza perchè ha delle cose una impressione propria e schietta. La mammola la rosa l'ellera la vite il montone la capra gli uccelli le aurette l'erba e il fiore tutto si anima e si configura e prende le più vaghe e gentili attitudini innanzi a questa immaginazione idillica. Ciò che prova non è sensualità è voluttà sensazione alzata a sentimento che fonde il plastico e te ne fa sentire la musica interiore. Ottiene potentissimi effetti con la massima semplicità de' mezzi spesso col solo allogare gli oggetti ora aggruppando ora distinguendo e tutto animando come persone vive. Tale è la mammoletta verginella con gli occhi bassi e vergognosa e l'ellera che va carpone co' piedi storti o l'erba che si maraviglia della sua bellezza bianca cilestre pallida e vermiglia. Il sentimento che n'esce non ha virtù di tirarti dalle cose e lanciarti in infiniti spazi; anzi ti chiude nella tua contemplazione e vi ti tiene appagato come fosse quella tutto il mondo e non pensi di uscirne e la guardi parte a parte nella grazia della sua varietà. Perchè il motivo dell'ispirazione non è lo spirito nella sua natura trascendente e musicale quale si mostra in Dante ma il corpo e non come un bel velo una bella apparenza ma terminato e tranquillo in se stesso quale si mostra nel periodo e nell'ottava le due forme analitiche e descrittive del Boccaccio divenute la base della nuova letteratura. L'ottava del Boccaccio diffusa pedestre insignificante qui si fissa prende una fisonomia. Ciascuna stanza è un piccolo mondo dove la cosa non lampeggia a guisa di rapida apparizione ma ti sta riposata innanzi come un modello e ti mostra le sue bellezze. Non è un periodo congegnato a modo di un quadro dove il protagonista emerga tra minori figure; ma è come una serie dove ti vedi sfilare avanti le parti ad una ad una di quel piccolo mondo. Diresti che in questa bella natura tutto è interessante e non ci è principale ed accessorio: maniera di ottava accomodata al genio di un uomo che non ammette l'insignificante e l'indifferente e tutto vuole sia oro e porpora. Perciò non hai fusione ma successione che è la cosa come ti si spiega innanzi prima che il tuo spirito la scruti e la trasformi. La stanza non ti dà l'insieme ma le parti; non ti dà la profondità ma la superficie quello che si vede. Pure le parti sono così bene scelte e la serie è ordita con una gradazione così intelligente che all'ultimo te ne viene l'insieme prodotto non dalla descrizione ma dal sentimento. Vuol descrivere la primavera e ti dà una serie di fenomeni:

Questi fenomeni sono così bene scelti legati con tanto accordo di pause e di tono armonizzati con suoni così freschi e soavi che sembrano le voci di un solo motivo e te ne viene non all'occhio ma all'anima l'insieme ed è quel senso d'intima soddisfazione che ti dà la primavera la voluttà della natura. In Dante non ci è voluttà ma ebbrezza: così è trascendente. Nel Boccaccio non ci è voluttà ma sensualità. La voluttà è la musa della nuova letteratura è l'ideale della carne o del senso è il senso trasportato nell'immaginazione e raffinato divenuto sentimento. Qui è una voluttà tutta idillica un godimento della natura senz'altro fine che il godimento con perfetta obblivione di tutto l'altro; senti le prime e fresche aure di questo mondo della natura assaporato da un'anima il cui universo era la villetta di Fiesole illuminata e abbellita da Teocrito e da Virgilio. Da questa doppia ispirazione un intimo godimento della natura accompagnato con un sentimento puro e delicato della forma e della bellezza sviluppato ed educato da' classici è uscito il nuovo ideale della letteratura l'ideale delle Stanze una tranquillità e soddisfazione interiore piena di grazia e di delicatezza nella maggior pulitezza ed eleganza della forma; ciò che possiamo chiamare in due parole: “voluttà idillica”. Il contenuto di questo ideale è l'età dell'oro e la vita campestre con tutto il corteggio della mitologia ninfe pastori fauni satiri driadi divinità celesti e campestri in una scala che dal più puro e più delicato va sino al lascivo e al licenzioso. La forma è il descrittivo ammollito e liquefatto in dolci note musicali quale apparisce nell'Orfeo e nelle Stanze i due modelli di questa letteratura che iniziata nel Boccaccio andrà fino al Metastasio.

La quale non è lavoro solitario di letterato nel silenzio del gabinetto ma è lo spirito stesso della società come si andava atteggiando còlto nelle costumanze e feste pubbliche. Centro di questo movimento è Lorenzo de' Medici col suo coro di dotti e di letterati il Ficino il Pico i fratelli Pulci il Poliziano il Rucellai il Benivieni e tutti gli accademici. La letteratura vien fuori tra danze e feste e conviti.

Lorenzo non avea la coltura e l'idealità del Poliziano. Avea molto spirito e molta immaginazione le due qualità della colta borghesia italiana. Era il più fiorentino tra' fiorentini non della vecchia stampa s'intende. Cristiano e platonico in astratto e a scuola in realtà epicureo e indifferente sotto abito signorile popolano e mercante da' motti arguti e dalle salse facezie allegro compagnevole mezzo tra' piaceri dello spirito e del corpo usando a chiesa e nelle bettole scrivendo laude e strambotti alternando orgie notturne e disputazioni accademiche corrotto e corruttore. Era classico di coltura toscano di genio invescato in tutte le vivezze e le grazie del dialetto. Maneggiava il dialetto con quella facilità che governava il popolo lasciatosi menare da chi sapeva comprenderlo e secondarlo nel suo carattere e nelle sue tendenze. Chi comprende l'uomo è padrone dell'uomo. Portò a grande perfezione la nuova arte dello Stato quale si richiedeva a quella società divenute le feste e la stessa letteratura mezzi di governo. Alla violenza succedeva la malizia più efficace: il pugnale del Bandini uccise un principe non il principato; la corruzione medicea uccise il popolo; o per dire più giusto Lorenzo non era che lo stesso popolo studiato compreso e realizzato l'uno degno dell'altro. Tal popolo tal principe. Quella corruzione era ancora più pericolosa perchè si chiamava “civiltà” ed era vestita con tutte le grazie e le veneri della coltura.

Il giovine Lorenzo odorando ancora di scuola tra il Landino e il Ficino dantesco petrarchesco platonico con reminiscenze e immagini classiche entra nella folla de' rimatori i quali continuavano il mondo tradizionale de' sonetti e delle canzoni. Ce n'erano a dozzina e in tutte le parti d'Italia: l'uomo colto esordiva col sonetto uso giunto fino a' tempi nostri. Molti canzonieri uscirono in questo secolo; appena è se oggi si ricordi Giusto de' Conti e il Benivieni. Continuare il Petrarca dovea significare realizzarlo sviluppare quell'elemento sensuale idillico elegiaco che giace sotto il suo strato platonico e che è l'elemento nuovo. Ma il povero Petrarca era malato e i sonettisti esalano sospiri poetici dall'anima vuota e indifferente. Del Petrarca rimane il cadavere: immagini e concetti scastrati dal mondo in cui nacquero e campati in aria senza base. Non c'è più un mondo organico ma un accozzamento fortuito e monotono di forme divenute convenzionali. Manca l'immaginazione e la malinconia e l'estasi i veri fattori del mondo petrarchesco: restano le astrattezze platoniche e le acutezze dello spirito congiunta l'insipidezza con le vuote sottigliezze come nelle rime tanto celebrate del Ceo del Notturno del Serafino del Sasso del Cornazzano del Tebaldeo. Lorenzo comincia lui pure con qualche cosa come la Vita nuova e narra il suo innamoramento con le occasioni e le spiegazioni de' suoi sonetti in una prosa grave e ampia alla maniera latina pur disinvolta e franca. Anche nel suo Canzoniere appariscono forme e idee convenzionali; anche vi domina lo spirito di cui avea sì gran dovizia. Ma c'è lì una sua impronta; ci è un sentimento idillico e una vivacità d'immaginazione che alcuna volta ti rinfresca e ti fa andare avanti con pazienza. Non ci è sonetto o canzone che si possa dire una perfezione; ma c'è versi assai belli e qua e là paragoni immagini concetti che ti fermano.

Il sonetto e la canzone sono quasi forme consacrate e inalterabili dove nessuno osa mettere una mano profana. Rimangono perciò immobili senza sviluppo. Il nuovo spirito si fa via nella nuova forma l'ottava rima o la stanza. Vi apparisce l'amore idillico-elegiaco proprio del tempo; la forma condensata del Petrarca si scioglie e si effonde ne' magnifici giri dell'ottava; non più concetti e sottili rapporti; hai narrazioni vivaci e fiorite descrizioni. Anche dove il concetto è dantesco come nelle stanze del Benivieni che lasciato il primo casto amore e corso appresso alla sirena si sente trasformato in lonza la forma è lussureggiante e vezzosa e più simile a sirena che a casta donna. Modello di questo genere è la Selva d'Amore di Lorenzo composizione a stanze d'un fare largo e abbondante alquanto sazievole il cui difetto è appunto il soverchio naturalismo una realtà minuta osservata e riprodotta esattamente ne' suoi caratteri esterni non fatta dall'arte mobile e leggiera non idealizzata. Tra le sue più ammirate descrizioni è quella dell'età dell'oro dove è patente questo difetto. Vedi l'uomo in villa che tutto osserva e anima con l'immaginazione la natura senza averne il sentimento. Ci è l'osservatore manca l'artista.

Bella e parimente sazievole è la descrizione degli effetti che gli occhi della sua donna producono sulla natura. La soverchia esattezza nuoce all'illusione e addormenta l'immaginazione. Veggasi questa ottava:

Ci si vede un uomo che in un fatto così pieno di concitazione rimane tranquillo in uno stato prosaico e osserva e spiega il fenomeno e lo rende con evidenza ma non ne riproduce il sentimento: c'è l'esattezza manca il calore e l'armonia. Veggasi ora l'artista il Poliziano:

Anche Lorenzo descrive le rose come fa il Poliziano; ma si paragoni. Ciò che in Lorenzo è naturalismo è idealità nel Poliziano. Nell'uno è il di fuori abbellito dall'immaginazione l'altro nel di fuori ti fa sentire il di dentro. Lorenzo dice:

Minuta analisi con perfetta esattezza di osservazione e con proprietà rara di vocaboli. Vedete ora nel Poliziano queste rose animarsi come persone vive: ne senti la fragranza la grazia la freschezza:

In questo genere narrativo e descrittivo di cui il Boccaccio nel Ninfale dava l'esempio il poeta non è obbligato a platonizzare e sottilizzare intorno alle sue poetiche fiamme per tutta una vita. Finge amori altrui e in luogo di chiudersi nella natura e ne' fenomeni dell'amore fino alle più raffinate acutezze trae colori nuovi e freschi dalla qualità degli avvenimenti e dalla natura e condizioni dei personaggi che introduce sulla scena. La donna cala dalle nubi e acquista una storia umana. Come son care queste ricordanze di donna amata che torna a casa e non vi trova il suo amore!

L'Ambra il Corinto Venere e Marte la Nencia sono poemetti di questo genere. Soprastà per calore ed evidenza di rappresentazione l'Ambra graziosa invenzione ispirata da Ovidio e dal Boccaccio. Ma il capolavoro è la Nencia che pare una pagina del Decamerone. Qui Lorenzo lascia la mitologia e gli amori sentimentali e idillici ed entra nel vivo della società rappresentando gli amori di Vallera e Nencia due contadini con un tono equivoco che non sai se dica da senno o da burla e scopre il borghese disposto a pigliarsi beffe della plebe. Tutta Firenze fu piena della Nencia; era la città che metteva in caricatura il contado. L'idillio vi si accompagna con quel sale comico che si sente nel prete di Varlungo e monna Belcolore e che è la vera genialità di Lorenzo: basta ricordare i Beoni. Chi ama i paragoni ragguagli la Beca la Nencia e la Brunettina tre ritratti di contadine. Nella Beca del Pulci senti il puzzo del contado: la caricatura è sfacciatamente volgare e licenziosa. Nella Nencia hai l'idealità comica: una caricatura fatta con brio e con grazia con un'aria perfetta di bonomia e di sincerità. Nella Brunettina del Poliziano hai il ritratto ideale della contadina rimossa ogni intenzione comica. È la Venere del contado con morbidezza di tinte assai ben fuse vezzosa e leggiadra nella maggior correzione ed eleganza del disegno. Notabile è soprattutto la verità del colorito e la perfetta realtà.

Tra le feste si ravviva la poesia popolare. Vedevi Lorenzo andar per le vie come re Manfredi sonando e cantando tra' suoi letterati. Il poeta della Nencia qui è nel suo vero terreno divenuto la voce di quella società licenziosa e burlevole. La trasformazione è compiuta: giungiamo sino alla parodia fatta con intenzione. I Beoni o il Simposio è una parodia della Divina Commedia e dei Trionfi non pur nel disegno ma nelle frasi: le sacre immagini dell'Alighieri sono torte a significare le sconcezze e turpitudini dell'ebbrezza. Tra questi passatempi poetici è da porre la Caccia col falcone fatti frivoli e insignificanti ma raccontati con lepore e con grazia in stanze sveltissime con tutt'i sali e le vivezze del dialetto. Così si passava allegramente il tempo:

Che è la fine e insieme il significato di questa pittura di costumi.

Lo stesso spirito è nelle ballate e ne' canti carnascialeschi: una sensualità illuminata dall'allegria e dall'umor comico. Il mondo convenzionale de' trovatori è ito via e insieme il suo vocabolario. Ti senti in mezzo a un popolo festevole e motteggiatore che ha rotto il freno e si dà balìa. Un'allegria spensierata e licenziosa è il motivo di questi canti: l'amore non è un affetto ma un divertimento un modo di stare allegri. Il motto comune è la brevità della vita l'orrore della vecchiezza il dovere di coglier la rosa mentre è fiorita quel tale: “Edamus et bibamus: post mortem nulla voluptas”. Aggiungi la caricatura de' predicatori di morale e delle cose sacre com'è la confessione di Lorenzo e la sua preghiera a Dio contro i mal parlanti. In questo mondo rappresentato dal vero e nell'atto della vita così di fuga e tra le impressioni non hai concetti raffinati ma pittura vivace di costumi e di sentimenti come l'ansia dell'aspettare nella canzone:

 

o il dispetto contro i gelosi:

o quel volere e disvolere della donna nella canzonetta sulla pazzia e nell'altra tirata giù tutta di un fiato così rapida e piena di cose:

Questo carnevale perpetuo si manifesta ne' Canti e Trionfi carnascialeschi in tutta la sua licenza. Uscivano di carnovale come si costuma anche oggi carri magnificamente addobbati ora rappresentazioni mitologiche com'è il Trionfo di Bàcco e Arianna co' suoi satiri e Sileno e Mida ora corporazioni di arti e mestieri com'è il canto de' “cialdonai” o de' “calzolai” o delle “filatrici” o de' “bericuocolai” ora pitture sociali come il canto delle “fanciulle” o delle “giovani donne” o de' “romiti” o de' “poveri”. Il motivo generale è l'amor licenzioso stuzzicato spesso da equivoci e allusioni che mettono in moto l'immaginazione. È il cinismo del Boccaccio giunto in piazza e portato in trionfo. La rappresentazione della vita e de' costumi e delle condizioni sociali e l'allegra caricatura che sono l'anima di questo genere di letteratura com'è nel “carnevale” di Goethe si perdono ne' bassi fondi della oscenità plebea. Cosa ora possono essere le sue Laude se non parodie? Concetti antitesi sdolcinature e freddure.

In questa pozzanghera finirono le serenate le mattinate le dipartite le ritornate le lettere gli strambotti le cacce le mascherate le frottole le ballate venute a mano de' letterati. Il mondo del Boccaccio e del Sacchetti perde i suoi vezzi e le sue leggiadrie ne' sonetti plebei del canonico Franco e suoi pari che non avevano neppure l'arguzia e la festività di Lorenzo.

Il popolo era meno corrotto de' suoi letterati. Ne' suoi canti non trovavi certo l'amore platonico e ascetico e i concetti raffinati ma neppure gli equivoci osceni di Lorenzo e le brutture del Franco.

La più schietta voce di questa letteratura popolare è Angelo Poliziano. Rado capita negli equivoci. Scherza motteggia ma con urbanità e decenza come ne' suoi consigli alle donne:

e nel “ritratto della vecchia” e in quella ballata graziosissima:

Nelle sue ballate senti la gentilezza e la grazia delle “montanine” di Franco Sacchetti massime quando il fondo è idillico come nella ballata dell'“augelletto” e nell'altra:

Nelle sue canzoni e canzonette nelle sue Lettere e ne' suoi rispetti non trovi novità d'idee o d'immagini o di situazioni e neppure un'impronta personale e subbiettiva come nel Petrarca. Ci trovi il segretario del popolo che traduce in forme eleganti il repertorio comune de' canti popolari dall'un capo all'altro d'Italia. Perciò non hai qui la freschezza e originalità delle stanze idilliche: spesso ci senti la fretta e la distrazione come di chi scriva di fuga e per occasione. Vedi ritornare le stesse idee con lievi mutamenti com'è il fuggire del tempo e il coglier la rosa fiorita. Il dizionario delle idee popolari è piccolo volume e non s'ingrandisce in mano al Poliziano. Quelle poche idee si aggirano intorno a situazioni generiche e semplici come sono la bellezza del damo o della dama la gelosia la dipartita l'attendere lo sperare l'incitare la disperazione e i pensieri di morte le dichiarazioni e le disdette. Sono l'espressione di un essere collettivo non del tale e tale individuo. E così sono nel Poliziano. I nomi mutano secondo l'argomento come la dipartita e la ritornata e anche secondo il tempo come la serenata o il notturno o la mattinata; ma le forme sono le stesse. Sono per lo più stanze in rime variamente alternate come nelle ballate e ne' rispetti fatte svelte e leggiere nelle canzonette ove domina il settenario o l'ottonario. Spesso non hai che un solo motivo variamente modulato e con graziose ripigliate come fosse un trillo o un gorgheggio:

La ripigliata è il vezzo del rispetto toscano. Ci si vede il cervello in riposo fra onde musicali e come viene l'idea non corre a un'altra ma ci si ferma e la trattiene deliziosamente nell'orecchio finchè non le abbia data tutta la sua armonia. Questo palpare e accarezzare l'idea compiuta già come idea ma non ancora compiuta come suono è proprio della poesia popolare povera d'idee ricca d'immagini e di suoni. La parola è nel popolo più musica che idea. Ciò che si diceva allora: “cantare a aria” qual si fosse il contenuto o come dice un poeta “siccome ti frulla”. Così cantavasi “Crocifisso a capo chino” una lauda con la stess'aria di una canzone oscena.

Tra queste impressioni nacque la “canzone di maggio” il saluto della primavera:

cantata dalle villanelle che venivano a Firenze anche due secoli dopo come afferma il Guadagnoli. Vi si nota la fina eleganza di un uomo che fa oro ciò che tocca congiunta con una perspicuità che la rende accessibile anche alle classi inculte. Se Lorenzo esprime della vita popolare il lato faceto e sensuale con l'aria di chi partecipa a quella vita ed è pur disposto a pigliarne spasso; il Poliziano anche nelle sue più frivole apparenze le gitta addosso un manto di porpora elegante spesso gentile e grazioso sempre. Alla idealità del Poliziano si accosta alquanto solo il Trionfo di Bacco e Arianna.

Lorenzo e il Poliziano sono il centro letterario de' canti popolari sparsi in tutta Italia non solo in dialetto ma anche in volgare e di alcuni ci sono rimasti i primi versi come: “O crudel donna che lasciato m'hai”; “Giù per la villa lunga / la bella se ne va”; “Chi vuol l'anima salvare / faccia bene a' pellegrini” ecc. Vi si mescolavano laude racconti e poemetti spirituali con le stesse intonazioni. Li portavano ne' più piccoli paesi i rapsodi o poeti ambulanti e i ciechi con la loro chitarra o mandòla in collo che vivevano di quel mestiere. E si chiamavano “cantastorie” quando i loro canti erano romanzette o romanze racconti di strane avventure intercalati di buffonerie e motti licenziosi. Questa letteratura profana e proibita a' tempi del Boccaccio come s'è visto era il passatempo furtivo anche delle donne colte ed eleganti. Erano alla moda “romanzi franceschi” con le loro traduzioni imitazioni e raffazzonamenti in volgare. In questo secolo moltiplicarono co' rispetti e le ballate anche i romanzi. Della cavalleria si vedeva l'immagine sfarzosa nelle corti e alcuna lontana reminiscenza ne davano le compagnie di ventura. Cavaliere e cavallo era ancora il tipo della storia l'ideale eroico celebrato nelle giostre e riflesso ne' romanzi. Se ne scrivevano in dialetto e in volgare. Tra gli altri che venner fuori sono degni di nota l'Aspromonte l'Innamoramento di Carlo l'Innamoramento di Orlando Rinaldo la Trebisonda i Fioretti de' paladini il Persiano la Tavola rotonda il Troiano la Vita di Enea la Vita di Alessandro di Macedonia il Teseo il Pompeo romano il Ciriffo Calvaneo. Il maggiore attrattivo era la libertà delle invenzioni: si empivano le carte di fole e di sogni come dice il Petrarca; e chi le dicea più grosse era stimato più. Questo elemento fantastico penetrò anche ne' misteri come nelle laude era penetrato il canto popolare. Le rappresentazioni presero una tinta romanzesca: l'effetto non potendosi più trarre da un sentimento religioso che faceva difetto si cercava nella varietà e nel maraviglioso degli accidenti com'è il San Giovanni e Paolo di Lorenzo.

Il romanzo adunque era penetrato in tutti gli strati della società e dalle corti scendeva fino ne' più umili villaggi e di là risaliva alle corti. La plebe aveva i suoi cantastorie la corte aveva i suoi novellatori. E non si contentavano di riferire i fatti come erano trasmessi dalle cronache e dalle tradizioni ma vi aggiungevano del loro non solo nel colorito e negli accessorii ma nella invenzione. Il Boccaccio recitava i suoi romanzi a corte e tra liete brigate come immagino fossero recitate le sue novelle. Il suo Florio il Teseo il Troilo lasciarono poco durevole vestigio perchè argomenti poco popolari e guasti dall'erudizione e dalla mitologia. Ma l'impulso da lui dato fu grande; e la ballata la novella il romanzo ciò che chiamasi letteratura profana divennero l'impronta del secolo da Franco Sacchetti a Lorenzo de' Medici. La cavalleria propriamente detta avea per suo centro gli eroi della Tavola rotonda e i paladini di Carlomagno. In antico la Tavola rotonda avea molta popolarità e Tristano e Isotta tennero per qualche tempo il primato. Il Boccaccio nell'Amorosa visione cita gli eroi principali di queste tradizioni normanne come nomi già noti e volgari. Ma la Francia era più nota e i “romanzi franceschi più diffusi” e Carlomagno avea un certo legame con l'Italia come un eroe religioso protettore del papa e vincitore de' saracini e precursore delle crociate. Era già comparso l'Innamoramento di Orlando. E Matteo Boiardo ci die' l'Orlando innamorato una vasta tela in sessantanove canti interrotta dalla morte.

Il Boiardo conte di Scandiano crebbe nella corte estense divenuta un centro letterario importante accanto a Napoli Roma e Firenze. Ivi la letteratura nasceva pure fra le giostre gli spettacoli e le danze. Il Boiardo uomo coltissimo dotto di greco e di latino studiosissimo di Dante e del Petrarca era rimasto estraneo al movimento impresso dal Boccaccio alla letteratura toscana. Ne' suoi sonetti canzoni e ballate è facile a vedere non so che astratto e rigido come di uomo ben composto negli atti e nella persona pure impacciato. È in lui una serietà di motivi che in quel secolo della parodia si può chiamare un anacronismo. Gli piace recitare i suoi canti tra liete brigate e averne le lodi; ma i passatempi e gli scherzi non sono il suo elemento e crederebbe profanare i suoi eroi a pigliarsene gioco. Racconta con la serietà d'Omero e fu salutato allora l'“Omero italiano”. Certo non crede alle sue favole e non ci credono i suoi colti uditori e la comune incredulità scappa fuori alcuna volta in qualche tratto ironico; ma questo riso della coltura a spese della cavalleria non è il motivo e un accessorio fuggevole del racconto. Cosa dunque aveva più di serio la cavalleria nella coscienza italiana? Di vivo non era rimasto altro che le pompe e le cerimonie e le feste delle corti. Quelle forme erano così vuote come le cerimonie chiesastiche scomparso ogni sentimento eroico e religioso anzi negato e parodiato. Invano si studia il Boiardo di togliere alla plebe il romanzo e dargli le serie proporzioni di un'epopea.

Il mondo omerico è un organismo vivente dove sentimenti pensieri costumi e avvenimenti sono perfettamente realizzati e armonizzati: il mondo cavalleresco mancati tutt'i suoi motivi interiori è qui sotto forme epiche il mondo plebeo dell'immaginazione un maraviglioso sciolto dalle leggi dello spazio e del tempo senza serietà di scopo e di mezzi tra castelli incantati e colpi di spada. Come Elena nell'Iliade qui è Angelica che move intorno a sè Europa e Asia; salvo che Elena è un semplice antecedente rimasto ozioso nel racconto e Angelica è la vera motrice dell'immensa macchina è il maraviglioso in permanenza la maga. Il miracolo continua: non lo fanno i santi; lo fanno i maghi e le maghe. E il miracolo non è la macchina o l'istrumento ma è fine a se stesso. Voglio dire che il miracolo non è un mezzo per conseguire uno scopo serio e sviluppare un'azione interessante come nelle leggende e ne' primitivi poemi cavallereschi animati dalla fede; non essendo nel mondo del Boiardo altra serietà che il miracolo stesso il fine di sorprendere gli uditori con la straordinarietà degli avvenimenti. I motivi delle azioni non sono a cercare nella serietà di un mondo religioso morale eroico divenuto convenzionale e tradizionale come il mondo cristiano ma nel libero gioco delle passioni e de' caratteri sotto l'influsso di potenze occulte. Onde nasce un mondo pieno di vivacità e di mobilità dove tutte le forze dell'individuo non frenate da leggi e da autorità superiori si sviluppano nel pieno rigoglio della natura e producono effetti così maravigliosi come le stregonerie e gl'incanti. Orlando e Rinaldo ti fanno maravigliare non meno che Malagigi e Angelica. Un mondo così essenzialmente fantastico e insieme così poco serio per il poeta e per gli uditori è in fondo quel mondo della cortesia calato dal Boccaccio in mezzo alla borghesia e fatto moderno e ritirato dal Boiardo alle sue aure natie. Il ferrarese ha creduto renderlo cosa seria dandogli forma nobile e decorosa purgata dalle licenze e da' disordini de' romanzi plebei; ma è appunto quest'apparenza di serietà che toglie attrattivo al suo racconto. Ne' romanzi plebei il maraviglioso fa un effetto serio sugl'ignoranti e ingenui uditori; ma i colti “signori e cavalieri” alla cui presenza recitava il Boiardo i suoi canti non potevano vedere in quei fantastici racconti che un puro giuoco d'immaginazione disposti a spassarsi della plebe che faceva gli occhioni e apriva la bocca. Quel mondo dunque non poteva divenire borghese se non trasportato nell'immaginazione e accompagnato da un sogghigno. E tutte e due queste condizioni mancano nell'Orlando innamorato. Il Boiardo ha molta vena inventiva: avvenimenti e personaggi pullulano sotto la sua penna. Certo non è tutto cosa sua; raccoglie di qua e di là; trova innanzi a sè un immenso materiale agglomerato da' secoli: ma quella materia la fa sua scegliendo combinando padroneggiandola. Il suo intento direi quasi la sua vanità è di sorprendere gli uditori con la ricchezza e varietà de' suoi intrecci menandoseli appresso tra le più strane avventure. Ma al Boiardo mancano tutte le grandi qualità dell'artista e soprattutto quelle due che sono essenziali alla rappresentazione di questo mondo l'immaginazione e lo spirito. Ben tenta talora lo scherzo; ma rimane un tentativo abortito: non ha brio non facilità non grazia. Gli manca lo spirito e gli manca ancora quell'alta immaginazione artistica che si chiama fantasia. Vede chiaro disegna preciso come fosse un mondo storico; e appunto perciò in un mondo così fantastico rimane pedestre e minuto e non ti sottrae al reale non ti ruba i contorni non ti tira per forza in una regione incantata. A questo grande inventore di magie la natura negò la magia più desiderabile la magia dello stile. Le più originali concezioni le più interessanti situazioni ti cascano sul più bello: sei nel fantastico e ti trovi nel volgare e Angelica ti si trasforma in una donnicciuola e Orlando in un babbeo. Il che avviene senza intenzione comica unicamente per la soverchia crudezza de' colori a cui mancano le gradazioni e le mezze tinte. Così quel mondo che nella sua intima natura dovea essere fantastico e comico ti riesce spesso nella rappresentazione prosaico e volgare. Non una sola situazione non una figura è rimasta viva. Dicesi che il nobil conte facesse suonare a festa le campane del villaggio quando gli venne trovato il nome di Rodamonte quasi l'importanza fosse ne' nomi o ne' fatti. E non è Rodamonte che è rimasto vivo è Rodomonte.

Se il Boiardo recitava i suoi canti a' signori ferraresi Luigi Pulci rallegrava le feste e i conviti di Lorenzo recitando le stanze del suo Morgante. Qui ritroviamo la fisonomia letteraria del tempo nelle sue gradazioni dal Burchiello “sgangherato e senza remi” come lo chiama Battista Alberti sino a Lorenzo de' Medici. Il Pulci discende in diritta linea dal Boccaccio e dal Sacchetti e ne sviluppa le tendenze con più energia che non il Poliziano e non Lorenzo.

Piglia il romanzo come lo trova per le vie un miscuglio di santo e di profano di buffonesco e di serio. E non pensa a dargli un carattere eroico anzi niente più gli ripugna che la tromba. Ti dà un mondo rimpiccinito fatto borghese: gli eroi sono scesi dal piedistallo hanno perduta la loro aureola e ti camminano innanzi semplici mortali. Niente è più volgare che Carlo o Gano. Carlo è un rimbambito Gano è un birbante destituito di ogni grandezza: volgare lui volgari i suoi intrighi. Rinaldo è un ladrone di strada Ulivieri è un cacciatore di donne e la sua Meridiana non è in fondo che una femminella. Di caratteri e passioni non è a far parola: è un mondo superficiale e mobilissimo e vai di palo in frasca e non ti raccapezzi. Gano trama la rovina de' paladini Forisena si gitta dalla finestra Babilonia rovina Carlo è scoronato da Rinaldo; tutti questi grandi avvenimenti scappan fuori appena abbozzati come non fossero opera di uomini ma di qualche bacchetta magica rappresentati con la stessa indifferenza e leggerezza di colorito con la quale Morgante si mangia un elefante e sfracella il capo a una balena. È la cavalleria com'era concepita e trasformata dalla plebe. Il cantastorie è in fondo un giullare o piuttosto un buffone plebeo che abbassa quel mondo al suo livello e de' suoi uditori e invocati gravemente Dio e i santi e la Madonna si abbandona a' suoi lazzi e ti fa sbellicar dalle risa. Il buffone personaggio accessorio ne' racconti e nelle commedie è qui il personaggio principale è lo spirito stesso del racconto. La parte più seria del romanzo è certo la morte di Orlando; e anche lì quanti lazzi! Ecco il principio della grande battaglia:

Nell'inferno si fa gran festa che attendono i pagani; Lucifero “trangugiava a ciocche le anime che piovean de' seracini”; e san Pietro attende le anime de' cristiani:

Osanna! -

I campi di battaglia svegliano immagini tolte ad imprestito da' macellai e da' cucinieri; i colpi di spada sono in modo così grossolano esagerati che la morte stessa diviene ridicola; i miracoli sono così strani e così caricati che perdono ogni serietà come è Orlando morto trasformato in colomba che si posa sulla spalla di Turpino e gli entra in bocca con tutte le penne.

Se il buffone fosse di buona fede seriamente credulo e sciocco avremmo il grottesco com'è ne' romanzi primitivi. Ma qui il buffone è un uomo colto che parla a un colto uditorio e non è il buffone ma fa il buffone contraffacendo il cantastorie e la plebe che gli crede. Sicchè ci troviamo in quella stessa disposizione di animo che ispirò la Belcolore e la Nencia: è il borghese che si spassa alle spalle della plebe. E te ne accorgi alla finta serietà con che il poeta quando le dice assai grosse chiama in testimonio Turpino o dove nelle cose più gravi fa boccacce e t'esce fuori con una smorfia e si burla del suo argomento e de' suoi personaggi. La parodia è ancora più comica perchè dissimulata con molta cura di rado rilevata e posta il più sovente nella natura stessa del fatto senza alcuno artificio di forma come è Morgante che uccide una balena ed è ucciso da un granchiolino o Margutte che scoppia dalle risa e muore. E riderà in eterno nota l'angiolo Gabriello trasformato l'individuo in tipo. La rappresentazione è anch'essa conforme a questa parodia plebea. La plebe non analizza e non descrive; ma ha l'intuito sicuro e la percezione viva e coglie ciò che vede alla naturale e così in grosso e non ci si ferma e passa oltre. La forma qui è tutta esteriore e rapida; si movono insieme “le lance e la penna”; l'autore mentre move la penna vede le lance moversi vede quello che scrive; le figure si staccano dal fondo e ti balzano innanzi vivide e tu le cogli in una sola girata d'occhio. L'ottava non ha periodo e le rime non hanno gioco: è un incalzare di versi senza posa frettolosi poco curati gli uni addossati agli altri e spesso tutto il quadro è un verso solo. Al che aiuta il dialetto maneggiato maestrevolmente soprattutto per la proprietà de' vocaboli. Tutto è plebeo: azioni passioni e linguaggio. Un capolavoro di questa vita plebea è il sacco di Sarragozza col supplizio di Gano e di Marsilio. - “E io voglio fare il boia” - dice l'arcivescovo Turpino. Uno di quei tratti che illuminano tutta una situazione. La risposta di Rinaldo a Marsilio che vuol farsi cristiano all'ultima ora è quale potrebbe suonare in bocca di un becero.

Il romanzo è una commedia che contro l'intenzione dell'autore si volge in tragedia. Ma la tragedia è da burla e non ce n'è il sentimento. Lo spirito del racconto è il basso comico un comico vuoto e spensierato che imputridisce nelle acque morte di un'immaginazione volgare e non si alza a fantasia. Maggiore spirito è in Lorenzo e nel Boccaccio che si mescolano fra la plebe e non sono plebe e la guardano alcun poco dall'alto. Ma il Pulci ancorchè uomo colto per i sentimenti e le inclinazioni è plebe e a forza di rappresentare la parte del buffone plebeo diviene egli medesimo quel cotale. Perciò gli mancano tutte le alte qualità di un artista comico: la grazia la finezza la profondità dell'ironia e ti riesce spesso grossolano superficiale inculto e negletto anche nella forma. Ha non solo la grossolanità ma anche l'angustia di un'immaginazione plebea non essendoci ne' suoi personaggi molta ricchezza di carattere quella varietà di movenze di sentimenti e d'istinti che fa dell'uomo un piccolo mondo. Rinaldo Orlando Ulivieri Astolfo Sansonetto Ricciardetto i paladini sono tutti a uno stampo e non ci è differenza in loro che della forza. Malagigi è insignificante. Gano Falserone Bianciardino Marsilio Caradoro Manfredonio Falcone Salincorno tutt'i pagani sono esseri superficiali e spesso puri nomi. I più accarezzati dall'autore sono i due personaggi del suo cuore Morgante e Margutte. Morgante è lo scudiere di Orlando ed è il vero protagonista lo spirito del racconto. Non è il cavaliere è lo scudiere l'eroe di questa storia plebea il cui spirito penetra dappertutto e si continua anche dopo la sua morte. Morgante rappresenta il lato eroico e cavalleresco della plebe ghiotto millantatore ignorante di poca malizia ma buono fedele e coraggioso. Il suo battaglio è l'emulo di Durindana. Margutte è la plebe nella sua degenerazione e corruzione ignobile beffardo ladro fraudolento assai vicino all'animale. Questi due esseri accoppiati insieme si compiono e si spiegano. Se ci fosse maggiore stacco tra queste figure volgari e i cavalieri nel loro antagonismo o dualismo sarebbe la vera parodia come è di Sancio Panza e don Chisciotte. Ma lo spirito plebeo penetra ancora fra' cavalieri e Margutte e Morgante sono non una parte ma il tutto l'alto modello a cui più o meno è informata la storia intitolata a buona ragione Il Morgante.

Una concezione originale è Astarotte. Il diavolo cornuto di Dante che già riceve una prima trasformazione nel suo nero cherubino il bravo loico che ha tutta l'aria di un dottore di Bologna qui prende aria paesana ed è un buon compagnone. Come il nero cherubino arieggia agli scolastici Astarotte è il nuovo spirito del secolo motteggiatore ironico e libero pensatore che fa il teologo e l'astrologo e spiega la Bibbia a modo suo e battezza asini Dionisio e Gregorio; chè

ognuno erra

Astarotte che è stato un serafino e de' principali sa molte cose che non sanno “i poeti i filosofi e i morali” e dice la verità e non fa come gli spiriti folletti che si aggirano per l'aria e ingannano gli uomini “facendo parere quel che non è”:

Vedesi la filosofia messa a fascio con l'astrologia e le altre arti di gabbare gli uomini.

Ma Astarotte promette di dire la verità e tiene la promessa come un diavolo d'onore:

E sa la verità non per ragione ma per esperienza come di cose che vede e tocca confermandole anche con l'autorità della Scrittura. Dove ci vuol ragione come nella quistione della prescienza la quale “l'umana gente avvolge di tanti errori” dice: - “Nol so: però non ti rispondo” -. Ma quanto a' fatti afferma ardito e sicuro. E afferma che salvo i giudei e i saracini piacciono a Dio quelli che osservano la loro religione come fecero gli antichi romani su' quali piovve tanta grazia celeste; che al di là delle colonne d'Ercole è l'altro emisperio abitato come questo e ben vi si può ire; che quella gente è parte della famiglia di Adamo anch'essa redenta altrimenti Dio sarebbe stato partigiano; che gli animali pinti nel padiglione di Luciana non sono tutti e compie la lista descrivendo un gran numero di animali poco noti. Rinaldo avido d'imparare si propone di lanciarsi pe' mari ignoti e scoprire il nuovo mondo rivelato da Astarotte: la poesia indovina Cristoforo Colombo o piuttosto la scienza perchè il dotto Astarotte era in fondo il celebre Toscanelli amico e suggeritore del Pulci.

Questa concezione è una delle più serie della nostra letteratura e delle meglio disegnate e sviluppate del Morgante. Ci è lì il secolo nelle sue intime tendenze non ancora ben chiare che volge le spalle alle forme scolastiche e alle contemplazioni ascetiche e diffida de' ragionamenti astratti e si gitta avido nella esplorazione della natura e dell'uomo. Il mondo gli si allarga innanzi e mentre gli uni ricalcano le vie della storia e rifanno Atene e Roma gli altri lasciando teologia filosofia e astrologia e fatture e altre “opinioni sciocche” mostre ingannevoli degli spiriti folletti percorrono la terra in tutt'i versi e già sono con l'immaginazione al di là dell'oceano. Il secolo comincia a prender possesso della terra; la storia naturale la fisica la nautica la geografia prendono il posto delle quistioni sugli enti e sull'esistenza degli universali - i fatti e l'esperienza occupano le menti più che i ragionamenti sottili. Aggiungi l'ironia quel prender le cose così alla leggiera e sdrucciolandovi appena quell'aria già scettica e miscredente ancorachè non ci sia ancora negazione e scetticismo e avrai l'immagine del secolo il ritratto di Astarotte. Ma l'autore sembra quasi non accorgersi della stupenda concezione e abborraccia dappertutto anche qui. Gli manca la coscienza seria e intelligente delle nuove vie nelle quali entra il secolo; gli manca quell'elevatezza d'animo che rende eloquente l'uomo quando gli lampeggiano innanzi nuovi orizzonti. L'Ulisse di Dante è sublime; il suo Rinaldo è insignificante. E l'Astarotte riesce l'eco volgare e confusa di un secolo ancora inconsapevole di sè.

Il Pulci il Boiardo il Poliziano Lorenzo il Pontano e tutti gli eruditi e i rimatori di quell'età non sono che frammenti di questo mondo letterario ancora nello stato di preparazione senza sintesi.

Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto dico Leon Battista Alberti pittore architetto poeta erudito filosofo e letterato; fiorentino di origine nato a Venezia educato a Bologna cresciuto a Roma e a Ferrara vivuto lungamente a Firenze accanto al Ficino al Landino al Filelfo; caro a' papi a Giovan Francesco signore di Mantova a Lionello d'Este a Federigo di Montefeltro; celebrato da' contemporanei come “uomo dottissimo e di miracoloso ingegno” “vir ingenii elegantis acerrimi iudicii exquisitissimaeque doctrinae” dice il Poliziano. Destrissimo nelle arti cavalleresche compì i suoi studi a Bologna dalle lettere sino alle leggi datosi poi con ardore alle matematiche e alla fisica. Deesi a lui la facciata di Santa Maria Novella la cappella di San Pancrazio il palazzo Rucellai la chiesa di Sant'Andrea in Mantova e di San Francesco primon Rimini. Sono suoi trovati la camera ottica il reticolo de' pittori e l'istrumento per misurare la profondità del mare detto “bolide albertiana”. Nelle sue Piacevolezze matematiche trovi non pochi problemi di molto interesse e nei suoi libri Dell'architettura che gli procacciarono il nome di “Vitruvio moderno” hai cenni di parecchie invenzioni o fatte o intravedute. I suoi Rudimenti e i suoi Elementi di pittura e la sua Statua contengono preziosi insegnamenti tecnici di queste arti.

Fu così pratico del latino che un suo scherzo comico scritto a venti anni e intitolato Philodoxeos venne da tutti gli eruditi attribuito a un antico scrittore latino e da Alberto d'Eyb a Carlo Marsuppini professore di rettorica a Firenze e segretario della repubblica. E non minor pratica ebbe del volgare in prosa e in verso addestratosi anche nel maneggio del dialetto quando con Cosimo de' Medici e gli altri sbanditi fu richiamato in Firenze. Ne' suoi Intercenali o “intrattenimenti della cena” ne' suoi Apologhi nel suo Momo scritto a Roma il 1451 dove rappresenta se stesso piacevoleggia con urbanità. Scrisse i soliti sonetti e canzoni: e chi non ne scrivea allora? O chi non ne scrisse poi? Meglio riuscirono le sue Egloghe e le sue Elegie amorosi idilli come era la voga dal Boccaccio in qua. Era in voga anche Platone e platonizzò. Ma al suo ingegno così pratico così lontano dalle astrazioni non potea piacere il misticismo platonico che facea andare in visibilio il suo amico Ficino e lo seguì come artista ne' suoi dialoghi della Tranquillità dell'animo e della Famiglia il cui terzo libro fu lungo tempo attribuito al Pandolfini e del Teogenio o della vita civile e rusticana. Tali sono pure l'Ecatomfilea la Deifira la Cena di famiglia la Sofrona la Deiciarchia. Il dialogo è la sua maniera prediletta un certo discorrere alla familiare e alla buona così alieno dalle pedanterie scolastiche e che trovi anche dove parla uno solo come nelle sue Efebie nella sua epistola sull'Amore nella sua Amiria. Chi misura l'ingegno dalla quantità delle opere e dalla varietà delle cognizioni dee tenerlo ingegno così miracoloso come fu tenuto a quel tempo. Certo egli fu l'uomo più colto del suo tempo e l'immagine più compiuta del secolo nelle sue tendenze.

Battista ha già tutta la fisonomia dell'uomo nuovo come si andava elaborando in Italia. La scienza svestite le sue forme convenzionali è in lui amabile e familiare. Lascia le discussioni teologiche e ontologiche. Materia delle sue investigazioni è la morale e la fisica con tutte le sue attinenze cioè l'uomo e la natura così com'è secondo l'esperienza il nuovo regno della scienza. È un artista perchè non solo studia e comprende ma contempla vagheggia ama l'uomo e la natura. Anima idillica e tranquilla alieno dalle agitazioni politiche ritirato nella pace e nell'affetto della famiglia abitante in ispirito più in villa che in città non curante di ricchezze e di onori vuoto di ogni cupidigia e ambizione si formò una filosofia conforme di cui è base l'“aurea mediocritas” una moderazione ed eguaglianza d'animo che ti tenga fuori di ogni turbazione. Il suo amore della natura campestre non ha nulla di sentimentale e d'indefinito che t'induca a fantasticare; anzi tutto è disegnato partitamente con la sagacia di un osservatore intelligente e con l'impressione fresca di uomo che se ne senta ricreare l'occhio e riposare l'anima. E non è la natura in se stessa che lo alletta com'è ne' “quadretti di genere” del Poliziano ma è l'uomo nella natura: il paesaggio è un fondo appena abbozzato sul quale vedi muoversi la vita campestre in quella sua temperanza e tranquillità dov'è posto l'ideale della felicità. Il vero protagonista è perciò l'uomo com'era concepito allora sottratto alle tempeste della vita pubblica che cerca pace e riposo nel seno della famiglia e tra' campi tutto alle sue faccende e a' suoi onesti diletti. Ma è insieme l'uomo colto e civile e umano che disputa e ragiona nel cerchio degli amici e con la famiglia attorno porgendo utili ammaestramenti intorno all'arte della vita. La quale arte si può ridurre in questa sentenza: che l'uomo dee tener lontane da sè le passioni e le turbazioni dello spirito e serbar regola e modo in tutte le cose. Questo equilibrio interno metà epicureo è quella pace che Dante cercava nell'altro mondo e che Battista ti offre in questo mondo il nuovo principio etico generato dagli antichi moralisti e che Lorenzo Valla chiama argutamente la “voluttà”. Il concetto ascetico che l'uomo non può conseguire vera felicità in terra è alieno dal Quattrocento che non nega e non afferma il cielo e si occupa della terra. Battista non ti dà una filosofia con deduzioni rigorose non cessa di essere un buon cristiano e riverente alla religione; e non sospetta egli e non sospettavano i contemporanei a quali pericolose conseguenze traeva quello indirizzo. Non è il filosofo: è l'artista e il pittore della vita come gli si porgeva. I suoi ragionamenti non movono da princìpi filosofici ma dalle sentenze de' moralisti antichi dagli esempli della storia e soprattutto dalla sua esperienza della vita. Il suo uomo non è un'astrazione un'idea formata da concezioni anticipate ma è preso dal vero nella vita pratica co' suoi costumi e le sue inclinazioni. Pinge e descrive più che non ragiona; e non è un descrivere letterario o rettorico ma rapido evidente concentrato come chi ha innanzi agli occhi il modello e n'è vivamente impressionato. Onde riesce pittore di costumi e di scene di famiglia o campestri o civili impareggiabile. E non hai già la vuota esteriorità come spesso è in Lorenzo; ma dentro è il nuovo ideale dell'uomo savio e felice che par fuori nella calma decorosa e composta de' lineamenti a cui fa spesso da contrapposto la faccia disordinata dell'uomo sregolato e turbato. È l'onesto borghese idealizzato che succede al tipo ascetico o cavalleresco del medio evo un borghese purgato ed emendato toltagli l'aria beffarda e licenziosa. Di questo ideale immagine parlante è lo stesso Battista di cui suprema virtù era la pazienza delle ingiurie anche più gravi e de' mali più stringenti della vita: “protervorum impetum patientia frangebat” dice di sè: ottimo rimedio a non guastarsi il sangue. Questa pazienza o uguaglianza dell'animo è la genialità della nuova letteratura impressa sulla fronte tranquilla del Boccaccio del Sacchetti del Poliziano e del nostro Battista e che gl'innamora delle forme terse e riposate il cui interno equilibrio si manifesta nella bellezza e nella grazia. Questo amore della bella forma non solo in sè tecnicamente ma come espressione dell'interna tranquillità è la musa di Battista. Scrivendo di sè dice:

 

“Praecipuam et singularem voluptatem capiebat spectandis rebus in quibus aliquod esset specimen formae ac decus. Senes praeditos dignitate aspectus et integros atque valentes iterum atque iterum demirabatur delitiasque naturae sese venerari praedicabat... Quicquid ingenio esset hominum cum quadam effectum elegantia id “prope divinum” dicebat... Gemmis floribus ac locis praesertim amoenis visendis nonnumquam ab aegritudine in bonam valetudinem rediit.”

Quest'uomo che alla vista della bella natura si sente tornar sano che sta lì a contemplare l'aspetto decoroso di una vecchiezza sana e intera che chiama divina l'opera elegante dell'ingegno e sente voluttà a contemplare le belle forme aggiunge a questa squisita idealità un senso così profondo del reale che gli rende familiari gli arcani della natura e anche della storia come mostrò nelle lettere a Paolo Toscanelli dove predice con molta sagacia parecchi avvenimenti le future sorti di principi e di pontefici e i moti delle città. Indi è che nelle sue pitture trovi precisione tecnica verità di colorito e grande espressione: è una realtà finita ed evidente che mostra nelle sue forme impressioni e sentimenti. Veggasi nel Governo della famiglia la pittura della vita villica e la descrizione del convito e quella maravigliosa scena di famiglia dove Agnolo veggendo la sua donna tutta pinta e impomiciata dice: “Tristo a me! E ove t'imbrattasti così il viso? Forse t'abbattesti a qualche padella in cucina? Laveraiti chè quest'altri non ti dileggino. - Ella m'intese e lagrimò. Io le die' luogo ch'ella si lavasse le lagrime e il liscio”. Dello stesso genere è la pittura de' giocatori nella Cena di famiglia e nella Deiciarchia e il ritratto nel Teogenio della vita quieta e felice di Genipatro nel quale intravvedi Battista:

“Truovomi ancora per la età riverito pregiato riputato; consigliansi meco; odonmi come padre; ricordanmi; lodanmi in suoi ragionamenti; approvano seguono i miei ammonimenti; e se cosa mi manca vedomi presso al porto ove io riposi ogni stracchezza della vita se ella forse a me fusse qual certo ella non è grave. Nulla truovo per ancora in vita che mi dispiaccia e questo mi conosco oggidì più felice che mai poi che in cosa niuna a me stesso dispiaccio... Godo testè qui ragionando con voi; godo solo leggendo questi libri; godo pensando e commentando queste e simili cose quali io vi ragiono e ricordandomi la mia ben trascorsa vita e investigando fra me cose sottili e rare sono felice. E parmi abitare fra gl'iddii quando io investigo e ritruovo il sito e forze in noi de' cieli e suoi pianeti. Somma certo felicità viversi senza cura alcuna di queste cose caduche e fragili della fortuna con l'animo libero da tanta contagione del corpo; e fuggito lo strepito e fastidio della plebe in solitudine parlarsi con la natura maestra di tante maraviglie seco disputando della cagione ragione modo e ordine di sue perfettissime e ottime opere riconoscendo e lodando il padre e procreatore di tanti beni.”

Parti udire Cicerone a discorrere della vecchiezza e dell'amicizia e delle lettere e dell'uomo felice: senti in questo Teogenio quella superiorità dell'intelligenza sulla forza e sulla fortuna e della coltura sulla barbarie e la rozzezza plebea; quella beatitudine dell'uomo ritirato nello studio nella famiglia ne' campi; quell'ardore delle scoperte quel culto dell'arte che è la fisonomia del secolo. Animate da questo spirito sono pure le ultime pagine della Tranquillità dell'animo ove Battista pinge maravigliosamente se stesso. Nell'Ecatomfilea ti arrestano ritratti di ancora maggior freschezza ed evidenza com'è la pittura degli amanti troppo giovani o troppo vecchi e dell'amore degli uomini “che fioriscono in età ferma e matura”: pittura che ha ispirato le belle ottave dell'Ariosto. De' vagheggini perditempo dice:

“Parmi poca prudenzia amare questi oziosi e inerti i quali per disagio di faccende fanno l'amore suo quasi esercizio e arte e con sue parrucchine frastagli ricamuzzi e livree segni della loro leggerezza vagosi e frascheggiosi per tutto discorrono. Fuggiteli figliuole mie fuggiteli; però che questi non amano ma così logorano passeggiando il dì non seguendo voi ma fuggendo tedio.”

La storia dell'amore e della gelosia di Ecatomfila sembra un bel frammento di un romanzo fisiologico perduto e per finezza e verità di osservazione è molto innanzi alla Fiammetta del Boccaccio la cui imitazione è visibile nella Ecatomfilea e più nella Deifira e nella Epistola di un fervente amante: pianti e querele amatorie dove il buon Battista uscendo della sua natura come il Boccaccio dà nella rettorica. Per trovare il grande scrittore devi cogliere Battista quando pinge o descrive come nell'epistola sopra l'amore reminiscenza del Corbaccio e la pittura delle donne e l'altra dell'amante pari alle più belle del Corbaccio. E per finirla vedi nella Tranquillità dell'animo la descrizione del duomo di Firenze con tanta idealità nella massima precisione degli accessorii:

“... questo tempio ha in sè grazia e maestà e ... mi diletta ch'io veggo in questo tempio giunta una gracilità vezzosa con una sodezza robusta e piena: tale che da una parte ogni suo membro pare posto ad amenità e dall'altra parte comprendo che ogni cosa qui è fatta ed offirmata a perpetuità... Qui senti in queste voci il sacrificio e in questi quali gli antichi chiamavano misteri una soavità maravigliosa... Ei possono in me questi canti ed inni della Chiesa quello a che fine ei dicono che furon trovati: troppo m'acquietano da ogni altra perturbazione d'animo e commovuomi a certa non so quale io la chiami lentezza d'animo piena di riverenza verso di Dio. E qual cuore sì bravo si trova che non mansueti se stesso quando ei sente su bello ascendere e poi discendere quelle intere e vere voci con tanta tenerezza e flessitudine? Affermovi questo che mai sento in quei misteri e cerimonie funerali invocare da Dio aiuto ... alle nostre miserie umane che io non lacrimi.”

Come son vere queste impressioni! E con quanta felicità rese! “Gracilità vezzosa” “lentezza d'animo” sono forme nuove pregne d'idealità. Il sentimento religioso cacciato dalla coscienza si trasforma in sentimento artistico e move l'animo come architettura e come musica.

Pittore egregio Battista non è del pari felice quando ragiona o quando narra. I suoi ragionamenti non sono originali e non profondi e sembrano uscire più dalla memoria che dall'intelletto; e la sua novella di Lionora de' Bardi vivace rapida rimane una pura esteriorità lontana assai dal suo modello il Boccaccio.

Volle Battista raggiungere nella prosa quella idealità che il Poliziano poi raggiunse nella poesia. Amendue maneggiano maestrevolmente il dialetto ma abborrono dal plebeo rozzo e licenzioso e mirano a dare alla forma un aspetto signorile ed elegante. Come il Poliziano vagheggiò una poesia illustre così Battista continua la prosa illustre di Dante e del Boccaccio. Patente è su di lui l'influsso che esercita la prosa latina e la maniera del Boccaccio. Ne' suoi trattati e dialoghi trovi prette voci latine come “bene est” “etiam” “idest” “praesertim”; e parole e costruzioni e giri latini come “proibire” e “vietare” e participii presenti e infiniti con costruzione latina e “affirmare” “asseguire” “conditore di leggi” “duttore” “valitudine” e moltissimi altri vocaboli simili. Anche nel collocamento delle parole e nell'intreccio del periodo latineggia. Ma non è un barbaro che ti faccia strane mescolanze; anzi è uno spirito colto ed elegante che ha nella mente un tipo e cerca di realizzarlo. Mira a un parlare di gentiluomo se non con latina maestà certo con gravità elegante ed urbana. E come è un toscano anzi un fiorentino la latinità è temperata dalla vivezza e grazia paesana. Se guardiamo a' trecentisti il congegno del periodo l'arte de' nessi e de' passaggi una più stretta concatenazione d'idee una più intelligente distribuzione degli accessorii una più salda ossatura ti mostra qui una prosa più virile e uno spirito più coltivato fatto maturo dalla educazione classica. Pure se per queste qualità Battista avanza i trecentisti è inferiore al Boccaccio e rimane molto al di qua dalla perfezione. La prosa non è nata ancora: ci è una prosa d'arte dove lo scrittore è più intento alla forma che alle cose e mira principalmente all'eleganza alla grazia e alla sonorità. Come arte i ritratti di Battista sono ciò che la prosa ti dà di più compìto in questo secolo. Ma sono frammenti e tutti quasi vogliono gli ultimi tocchi e nessuno si può dir cosa così perfetta come è un quadro del Poliziano.

Cosa dunque rimane vivo di Battista? Niuna cosa intera come il Decamerone fra le trentacinque sue opere. Rimangono di bei frammenti quadri staccati. Il secolo finisce e non hai ancora il libro del secolo quello che lo riassume e lo comprende ne' suoi tratti sostanziali Se hassi a dir “secolo” un'età sviluppata e compiuta in sè in tutte le sue gradazioni come un individuo il primo secolo comprende il Dugento e il Trecento il cui libro fondamentale è la Commedia e il secondo secolo comincia col Boccaccio ed ha il suo compimento la sua sintesi nel Cinquecento. Il Petrarca è la transizione dall'uno all'altro.

Il Quattrocento è un secolo di gestazione ed elaborazione. È il passaggio dall'età eroica all'età borghese dalla società cavalleresca alla società civile dalla fede e dall'autorità al libero esame dall'ascetismo e simbolismo allo studio diretto della natura e dell'uomo dalla barbarie scolastica alla coltura classica. Hai un mutamento profondo nelle idee e nelle forme di cui il secolo non si rende ben conto. Hai perciò un immenso repertorio di forme e di concetti: hai frammenti manca il libro; hai l'analisi manca la sintesi. Il secolo ha tendenze varie e spiccate; ma non ne ha la coscienza. Nella sua coscienza ci è questo solo chiaro e distinto che la perfezione è ne' classici e che a quel modello bisogna conformarsi: onde lo studio dell'eleganza della bella forma in qualsivoglia contenuto. Perciò il grande uomo del secolo per confessione de' contemporanei fu Angiolo Poliziano che nelle Stanze si accostò più a quell'ideale classico.

Ma questo grande movimento che più tardi si manifestò in Europa come lotta religiosa fu in Italia generalmente indifferenza religiosa morale e politica con l'apoteosi della coltura e dell'arte. Il suo dio è Orfeo e il suo ideale è l'idillio sono le Stanze. L'eleganza e il decoro delle forme è accompagnato con la licenza de' costumi ed uno spirito beffardo di cui i frati i preti e la plebe fanno le spese. Non era una borghesia che si andava formando: era una borghesia che già aveva avuta la sua storia e fra tanto fiore di coltura e d'arte si dissolveva sotto le apparenze di una vita prospera e allegra. A turbare i baccanali sorse sullo scorcio del secolo frate Geronimo Savonarola e parve l'ombra scura e vindice del medio evo che riapparisse improvviso nel mondo tra frati e plebe e gitta nel rogo Petrarca Boccaccio Pulci Poliziano Lorenzo e gli altri peccatori e rovescia il carro di Bacco e Arianna e ritta sul carro della Morte tende la mano minacciosa e con voce nunzia di sciagure grida agli uomini: - Penitenza! Penitenza! - Tra questo canto de' morti:

La borghesia gaudente e scettica chiamò quella gente i “piagnoni” e quella gente pretese dal suo frate qualche miracolo; e poichè il miracolo non fu potuto fare si volse contro al frate. Nessuna cosa dipinge meglio quale stacco era fra una borghesia colta e incredula e una plebe ignorante e superstiziosa. Su questi elementi non poteva edificar nulla il frate. Voleva egli restaurare la fede e i buoni costumi facendo guerra a' libri a' dipinti e alle feste come se questo fosse la causa e non l'effetto del male. Il male era nella coscienza e nella coscienza non ci si può metter niente per forza. Ci vogliono secoli prima che si formi una coscienza collettiva; e formata che sia non si disfà in un giorno. Chi mi ha seguito e ha visto per quali vie lente e fatali si era formata questa coscienza italiana può giudicare qual criterio e quanto buon senso fosse nell'impresa del frate. Nella storia c'è l'impossibile come nella natura. E il frate che voleva rimbarbarire l'Italia per guarirla era alle prese con l'impossibile.

Savonarola fu una breve apparizione. L'Italia ripigliò il suo cammino piena di confidenza nelle sue forze orgogliosa della sua civiltà. Quaranta anni di pace la lega medicea tra Napoli Firenze e Milano l'invenzione della stampa la digestione già fatta del mondo latino l'apparizione e lo studio del mondo greco la vista in lontananza del mondo orientale l'audacia delle navigazioni e l'ardore delle scoperte e tanto splendore e gentilezza di corti a Napoli a Firenze a Urbino a Mantova a Ferrara tanta prosperità e agiatezza e allegria della vita tanta diffusione ed eleganza della coltura e amore dell'arte avevano ravvivate le forze produttive indebolite nella prima metà del secolo e creato un movimento così efficace di civiltà che non potè essere impedito o trattenuto dalle più grandi catastrofi. Spuntava già la nuova generazione intorno al Boiardo al Pulci a Lorenzo al Poliziano. E i giovani si chiamavano Nicolò Machiavelli Francesco Guicciardini Ludovico Ariosto Leonardo da Vinci Michelangelo Raffaello Bembo Berni tutta una falange predestinata a compiere l'opera de' padri. L'un secolo s'intreccia talmente nell'altro che non si può dire dove finisca l'uno dove l'altro cominci. Sono una continuazione un correre non interrotto intorno allo stesso ideale.


 

XII

IL CINQUECENTO

Di questo ideale di cui adombra i lineamenti Giovanni Boccaccio non hai finora che segni indizi frammenti. Il suo lato positivo è una sensualità nobilitata dalla coltura e trasformata nel culto della forma come forma il regno solitario dell'arte nell'anima tranquilla e idillica: di che trovi l'espressione filosofica nell'Accademia platonica massime nel Ficino e nel Pico e l'espressione letteraria nell'Alberti e nel Poliziano a cui con pari tendenza ma con minore abilità tecnica e artistica si avvicina il Boiardo. Il protagonista di questo mondo nuovo è Orfeo e il suo modello più puro e perfetto sono le Stanze. Accanto al Poliziano pittore della natura sta Battista Alberti pittore dell'uomo. Attorno a questi due spuntano egloghe elegie poemetti bucolici rappresentazioni pastorali e mitologiche: la beata Italia in quegli anni di pace e di prosperità s'interessava alle sorti di Cefalo e agli amori di Ergasto e di Corimbo. Le accademie le feste le colte brigate erano un'Arcadia letteraria alla quale in quel vuoto ozio degli spiriti il pubblico prendeva una viva partecipazione. A Napoli a Firenze a Ferrara si vivea tra novelle romanzi ed egloghe. Gli uomini già cospiratori oratori partigiani patrioti ora vittime ora carnefici sospiravano tra ninfe e pastori. E mi spiego l'infinito successo che ebbe l'Arcadia del Sannazzaro la quale parve a' contemporanei l'immagine più pura e compiuta di quell'ideale idillico. Ma di questo Virgilio napolitano non è rimasta viva che qualche sentenza felicemente espressa come:

Nè della sua Arcadia è oggi la lettura cosa tollerabile e per la rigidità e artificio della prosa monotona nella sua eleganza e per un cotal vuoto e rilassatezza di azione e di sentimento che esprime a maraviglia quell'ozio interno che oggi chiameremmo noia e allora era quella placidità e tranquillità della vita dove ponevano l'ideale della felicità.

Il lato negativo di questo ideale era il comico una sensualità licenziosa e allegra e beffarda che in nome della terra metteva in caricatura il cielo e rappresentava col piglio ironico di una coltura superiore le superstizioni le malizie le dabbenaggini i costumi e il linguaggio delle classi meno colte. Da questa coltura sensuale cinica e spiritosa uscì quell'epiteto i “piagnoni” che fu a Savonarola più mortale della scomunica papale. I canti carnascialeschi sono il tipo del genere: il suo poeta è il Boccaccio il suo storico è il Sacchetti il suo istrione è il Pulci il suo centro è Firenze. A questo lato negativo si congiunge il Pomponazzi che spezza ogni legame tra cielo e terra negando l'immortalità dell'anima. Era il vero motto il segreto del secolo la coscienza filosofica di una società indifferente e materialista che si battezzava platonica predicava contro i turchi e gli ebrei voleva il suo papa il suo Alessandro sesto che così bene la rappresentava e non poteva perdonare al Pomponazzi di dire ad alta voce i suoi segreti quando ella medesima non si aveva fatta ancora la domanda: - Cosa sono? E dove vado?

Questa società tra balli e feste e canti e idilli e romanzi fu un bel giorno sorpresa dallo straniero e costretta a svegliarsi. Era verso la fine del secolo. Il Pontano bamboleggiava in versi latini e il Sannazzaro sonava la sampogna e la monarchia disparve come per intrinseca rovina al primo urto dello straniero. Carlo ottavo correva e conquistava Italia col gesso. Trovava un popolo che chiamava lui un barbaro nel pieno vigore delle sue forze intellettive e nel fiore della coltura ma vuota l'anima e fiacca la tempra. Francesi spagnuoli svizzeri lanzichenecchi insanguinarono l'Italia insino a che caduta con fine eroica Firenze cesse tutta in mano dello straniero. La lotta durò un mezzo secolo e fu in questi cinquant'anni di lotta che l'Italia sviluppò tutte le sue forze e attinse quell'ideale che il Quattrocento le aveva lasciato in eredità.

All'ingresso del secolo incontriamo Machiavelli e l'Ariosto come all'ingresso del Trecento trovammo Dante. Machiavelli aveva già trentun anno e ventisei ne aveva l'Ariosto. E sono i due grandi ne' quali quel movimento letterario si concentra e si riassume attingendo l'ultima perfezione.

Gittando un'occhiata sull'insieme è patente il progresso della coltura in tutta Italia. Il latino e il greco è generalmente noto e non ci è uomo colto che non iscriva corretto ed anche elegante in lingua volgare che oramai si comincia a dire senz'altro lingua italiana. Ma fuori di Toscana il tipo della lingua si discosta dagli elementi locali e nativi e si avvicina al latino producendo così quella forma comune di linguaggio che Dante chiamava aulica e illustre. I letterati sdegnando i dialetti e vagheggiando un tipo comune e riconoscendo nel latino la perfezione e il modello secondo l'esempio già dato dal Boccaccio e da Battista Alberti atteggiarono la lingua alla latina. E non pur la lingua ma lo stile mirando alla gravità al decoro all'eleganza con grave scapito della vivacità e della naturalezza. Questo concetto della lingua e dello stile creazione artificiosa e puramente letteraria ebbe seguito anche in Toscana come si vede ne' mediocri quale il Varchi o il Nardi e anche ne' sommi come nel Guicciardini e fino talora nel Machiavelli. La quale forma latina di scrivere sposata nel Boccaccio e nell'Alberti alla grazia e al brio del dialetto così nuda e astratta ha la sua espressione pedantesca negli Asolani del Bembo e giunge a tutto quel grado di perfezione di cui è capace nel Galateo del Casa e nel Cortigiano del Castiglione. Ma in Toscana quella forma artificiale di lingua e di stile incontrò dapprima viva resistenza e senti negli scrittori il sapore del dialetto quella non so quale atticità che nasce dall'uso vivo e che ti fa non solo parlare ma sentire e concepire a quella maniera come si vede nelle Novelle del Lasca ne' Capricci del bottaio e nella Circe del Gelli nell'Asino d'oro e ne' Discorsi degli animali di Agnolo Firenzuola. Ma anche in questi hai qua e là un sentore della nuova maniera ciceroniana e boccaccevole come non mancano fra gli altri italiani uomini d'ingegno vivace che si avvicinano alla spigliatezza e alla grazia toscana quale si mostra Annibal Caro negli Straccioni nelle Lettere nel Dafni e Cloe. La lotta durò un bel pezzo tra la fiorentinità e quella forma comune e illustre che battezzavano lingua italiana cioè a dire tra la forma popolare o viva ed una forma convenzionale e letteraria. Anche in Toscana gli uomini colti non si contentavano di dire le cose alla semplice e alla buona come faceva il Lasca e Benvenuto Cellini ma avevano innanzi un tipo prestabilito e cercavano una forma nobile e decorosa. La borghesia voleva il suo linguaggio e lo stacco si fece sempre più profondo tra essa e il popolo.

Fioccavano i rimatori. Da ogni angolo d'Italia spuntavano sonetti e canzoni. Le ballate i rispetti gli stornelli le forme spigliate della poesia popolare andarono a poco a poco in disuso. Il petrarchismo invase uomini e donne. La posterità ha dimenticati i petrarchisti e appena è se fra tanti rimatori sopravviva con qualche epiteto di lode il Casa il Costanzo Vittoria Colonna Gaspara Stampa Galeazzo di Tarsia e pochi altri capitanati da Pietro Bembo boccaccevole e petrarchista tenuto allora principe della prosa e del verso.

Certo prose e versi erano nel loro meccanismo di una buona fattura e l'ultimo prosatore o rimatore scrivea più corretto e più regolato che parecchi pregiati scrittori de' secoli scorsi. E perchè tutti scrivevano bene e tutti sapevano tirar fuori un sonetto o un periodo ben sonante moltiplicarono gli scrittori e furono tentati tutt'i generi. Comparvero commedie tragedie poemi satire orazioni storie epistole tutto a modo degli antichi. Il Trissino scrivea l'Italia liberata e la Sofonisba Luigi Alamanni faceva il Giovenale e monsignor della Casa contraffaceva Cicerone. A' misteri successero commedie e tragedie con magnifica rappresentazione. E non solo le forme del dire latine ma anche la mitologia s'incorporava nella lingua: e si giurò per gl'“iddii immortali” e Apollo le muse Elicona il Parnaso Diana Nettuno Plutone Cerbero le ninfe i satiri divennero luoghi comuni in prosa ed in verso. Sapere il latino non era più un merito: tutti lo sapevano come oggi il francese e mescolavano il parlare di parole latine per vezzo o per maggiore efficacia. Ci erano gl'improvvisatori che nelle corti lì su due piedi fabbricavano epigrammi e facezie come oggi si fa i brindisi e ne avevano in merito qualche scudo o qualche bicchiere di buon vino che Leone decimo dava annacquato al suo “archipoeta” un improvvisatore di distici quando il distico mal riusciva. E c'erano anche non pochi che conoscevano ottimamente il latino e lo scrivevano con rara perfezione come il Sannazzaro il Fracastoro e il Vida i cui poemi latini sono ciò che di più elegante siesi scritto in quella lingua ne' tempi moderni. Aggiungi le odi ed elegie del Flaminio.

Latinisti e rimatori erano le due più grosse schiere de' letterati. Nelle loro opere l'importante è la frase un certo artificio di espressione che riveli nell'autore coltura e conoscenza de' classici. I lettori non meno colti ed eruditi rimanevano ammirati trovando nel loro libro le orme del Boccaccio o del Petrarca di Virgilio o di Cicerone. Pareva questa imitazione il capolavoro dell'ingegno. E mi spiego come uomini assai mediocri furono potuti tenere in così gran pregio quali Pietro Bembo il caposcuola e monsignor Guidiccioni e Bernardo Tasso e simili noiosissimi. Ma la frase in tanta insipidezza del fondo non poteva essere sufficiente alimento all'attività di una borghesia così svegliata ed eccitata che decorava la sua sensualità e il suo ozio co' piaceri dello spirito. Salse piccanti si richiedevano fatti maravigliosi e straordinari intrecciati in modo che stimolassero la curiosità e tenessero viva l'attenzione. L'intrigo diviene la base delle novelle de' romanzi delle commedie e delle tragedie un intrigo così avviluppato che è assai vicino al garbuglio. Si cerca ne' fatti il nuovo e lo strano che stuzzichi l'immaginazione il buffonesco e l'osceno nella commedia il mostruoso e l'orribile nella tragedia. Dall'una parte ci è la frase vacua sonorità dall'altra il fatto il vacuo fatto uscito dal caso; e come la frase oltrepassa l'eleganza ed è pretensiosa come nel Bembo o leziosa e civettuola come nel Firenzuola o nel Caro così il fatto per voler troppo stuzzicare diviene osceno o mostruoso e sempre assurdo. Il realismo abbozzato dal Boccaccio sviluppato nel Quattrocento corre ora a passo accelerato alle ultime conseguenze: la dissoluzione morale e la depravazione del gusto. Ci è nella società italiana una forza ancora intatta che in tanta corruzione la mantiene viva ed è nel pubblico l'amore e la stima della coltura e negli artisti e letterati il culto della bella forma il sentimento dell'arte. In quella forma letteraria e accademica vedevano gl'italiani una traduzione della lingua viva il parlare quotidiano idealizzato secondo quel modello dove ponevano la perfezione ed eran larghi non pur di lodi ma di quattrini e di onori a questi artefici della forma. I centri letterari moltiplicarono; comparvero nuove accademie; e le più piccole corti divennero convegni di letterati i più oscuri principi volevano il segretario che ponesse in bello stile le loro lettere e letterati e artisti che li divertissero. Il centro principale fu a Roma nella corte di Leone decimo dove convenivano d'ogni parte novellatori improvvisatori buffoni latinisti artisti e letterati come già presso Federico secondo. Anche i cardinali avevano segretari e parassiti di questa risma; anche i ricchi borghesi come il conte Gambara di Brescia il Chigi i Sauli a Genova i Sanseverino a Milano. Intorno a Domenico Veniero in Venezia si aggruppavano Bernardo Tasso Trifon Gabriele il Trissino il Bembo il Navagero Speron Speroni; a Vittoria Colonna facevano cerchio in Napoli il vecchio Sannazzaro e il Costanzo il Rota il Tarsia. Da questi noti s'indovini la caterva de' minori. Pensioni donativi impieghi abbazie canonicati era la manna che piovea sul loro capo. E c'era anche la gloria: onorati festeggiati divinizzati e senza discernimento confusi i sommi e i mediocri. Furono chiamati “divini” con Michelangelo e l'Ariosto Pietro Aretino e il Bembo e Bernardo Accolti detto anche l'“unico”. Costui fatto duca usciva con un corteggio di prelati e guardie svizzere; dove giungeva s'illuminavano le città si chiudevano le botteghe si traeva ad udire i suoi versi dimenticati: tanti onori non furono fatti al Petrarca. I letterati acquistarono coscienza della loro importanza: pitocchi e adulatori divennero insolenti e si posero in vendita e la loro storia si può riassumere in quel motto di Benvenuto Cellini: “Io servo a chi mi paga”. Come si facevano statue quadri tempi per commissioni così si facevano storie epigrammi satire sonetti a richiesta e spesso l'ingiuria era via a vendere a più caro prezzo la lode. In quest'aria viziata gli uomini anche meno corrotti divenivano servili e ciarlatani per far valere la merce. Non ci è immagine più straziante che vedere l'ingegno appiè della ricchezza e udir Machiavelli chiedere qualche ducato a Clemente settimo e l'Ariosto gridare al suo signore che non aveva di che rappezzarsi il manto e veder Michelangelo quando

sdegnose parole di Alfieri. Soverchiavano i mediocri con l'audacia la ciarlataneria l'intrigo e la bassezza ora addentandosi ora strofinandosi temuti e corteggiati. Vecchia storia; ed è a credere che la cosa fosse pure così a' tempi di Federico o di Roberto. Se non che allora la dottrina era merce rara e richiedeva molta fatica ad acquistarla; dove ora la coltura e il sapere era diffuso e lo scrivere in prosa e in verso era divenuto un vero meccanismo facile a imparare che teneva luogo d'ispirazione e per la somiglianza esteriore confondeva nella stessa lode sommi e mediocri. Di grandi uomini è pieno quel secolo se si dee stare a' giudizi de' contemporanei. Francesco Arsilli nella sua elegia De poëtis urbanis ti dà la lista di cento poeti latini nella sola corte di Leone decimo e lo stesso Ariosto celebra nomi oggi dimenticati. Bernardo Tasso il Rucellai l'Alamanni il Giovio lo Scaligero il Muzio il Doni il Dolce il Franco e altri infiniti furono tenuti cime d'uomini che oggi nessuno più legge. Pure ne' più anche ne' mediocrissimi era viva la fede nella loro arte e lo studio di rendervisi perfetti. Venale era il Giovio e ossequioso cortigiano era Bernardo Tasso ma quando prendevano la penna c'era qualche cosa nel loro animo che li nobilitava ed era lo studio della perfezione il prendere sul serio il loro mestiere.

Quest'era la sola forza la sola virtù rimasta intatta. La corruzione e la grandezza del secolo non era merito o colpa di principi o letterati ma stava nella natura stessa del movimento ond'era uscito che ora si rivelava con tanta precisione generato non da lotte intellettuali e novità di credenze come fu in altri popoli ma da una profonda indifferenza religiosa politica morale accompagnata con la diffusione della coltura il progresso delle forze intellettive e lo sviluppo del senso artistico. Qui è il germe della vita e qui è il germe della morte; qui è la sua grandezza e la sua debolezza.

Questo movimento è già come in miniatura tutto raccolto presso il Boccaccio il quale se riproduce con vivacità le apparenze non ne ha coscienza e non sa qual mondo nuovo sia in fermentazione sotto le sue ciniche caricature. Del qual mondo nuovo appariscono i frammenti dal Sacchetti al Pulci che ne fissano il lato negativo e comico mentre il suo ideale trasparisce già nell'Alberti nel Boiardo nel Poliziano. La violenta reazione del Savonarola non fa che accrescere forza e celerità al movimento e dargli coscienza di sè. Il secolo decimosesto nella sua prima metà non è che questo medesimo movimento scrutato profondamente rappresentato nel suo insieme e condotto per le varie sue forme sino al suo esaurimento. È la sintesi che succede all'analisi.

Qual è il lato positivo di questo movimento? È l'ideale della forma amata e studiata come forma indifferente il contenuto.

E qual è il suo lato negativo? È appunto l'indifferenza del contenuto una specie di eccletismo negli uni come Raffaello Vinci Michelangelo il Ficino il Pico che abbracciano ogni contenuto perchè ogni contenuto appartiene alla coltura all'arte e al pensiero; eccletismo accompagnato negli altri da una satira allegra e senza fiele di quei princìpi e forme e costumi del passato ancora in credito presso le classi inculte.

Ciò che è divino in questo movimento è l'ideale della forma o per trovare una frase più comprensiva è la coltura presa in se stessa e deificata. Il lato comico e negativo non è esso medesimo che una rivelazione della coltura.

Il “limbo” di Dante e l'Amorosa visione del Boccaccio fanno già presentire quest'orgoglio di un'età nuova che comprendeva e glorificava tutta la coltura. Orfeo annunzia al suono della lira la nuova civiltà che ha la sua apoteosi nella Scuola di Atene ispirazione dantesca di Raffaello rimasta così popolare perch'ivi è l'anima del secolo la sua sintesi e la sua divinità. Questa Scuola d'Atene con i tre quadri compagni che comprendono nel loro sviluppo storico teologia poesia e giurisprudenza è il poema della coltura di così larghe proporzioni come il paradiso di Dante aggiuntovi il limbo. Il quadro diviene una vera composizione come lo vagheggiava Dante ne' suoi dipinti del purgatorio: il suo santo Stefano e il suo Davide hanno un riscontro nel Cenacolo nella Sacra famiglia nella Trasfigurazione nel Giudizio poemi sparsi qua e là di presentimenti drammatici. Il pittore vagheggia la bellezza nella forma come l'Alberti o il Poliziano e studia possibilmente a non alterare con troppo vivaci commozioni la serenità e il riposo de' lineamenti: perciò riescono figure epiche anzi che drammatiche. Quel non so che tranquillo e soddisfatto che senti nelle stanze del Poliziano e ti avvicina più al riposo della natura che all'agitazione della faccia umana quella “pace tranquilla senz'alcuno affanno” è l'impronta di queste belle forme: salvo che quella pace non è già “simile a quella che nel cielo india” un ideale musicale come Beatrice e Laura ma vien fuori da uno studio del reale ne' suoi più minuti particolari. Senti che il pittore ha innanzi un modello accuratamente studiato e contemplato con amore che nella sua immaginazione si compie e prende quella purezza e riposo di forma che Raffaello chiamava “una certa idea”. In questa certa idea ci entra pure alcun poco il classico il convenzionale e la scuola; difetti appena visibili ne' lavori geniali usciti da una sincera ispirazione dove domina il sentimento della bellezza e lo studio del reale. Così nacquero le Madonne del secolo nella cui fisonomia non è l'inquietudine l'astrazione e l'estasi della santa ma la ingenua e idillica tranquillità della verginità e dell'innocenza. Queste facce si vanno sempre più realizzando insino a che nella immaginazione veneziana di Tiziano pigliano una forma quasi voluttuosa.

La stessa larghezza di concezione nella purezza e semplicità de' lineamenti trovi nell'architettura: il gotico è debellato dal Brunelleschi; si collega insieme l'ardito e il semplice Michelangiolo e Palladio. Chi ricordi in che guisa l'Alberti rappresenta il duomo di Firenze può concepire il San Pietro la vasta mole che è il medio evo nella sua materia e il mondo nuovo ne' suoi motivi la vera e profonda sintesi di tutto quel gran movimento che ti offriva nell'apparenza lo stesso mondo del passato quelle forme quei nomi quei costumi que' concetti e quella materia pure sostanzialmente trasformato ne' suoi motivi uscito dalla coscienza e divenuto un puro ideale artistico l'ideale della forma. Questa materia antica penetrata di uno spirito nuovo nella sua vasta comprensione epica dove trovi fusi tutti gli elementi della nuova civiltà ti dà anche la letteratura nell'Orlando furioso. La Scuola di Atene il San Pietro l'Orlando furioso sono le tre grandi sintesi del secolo.

L'Orlando furioso ti dà la nuova letteratura sotto il suo duplice aspetto positivo e negativo. È un mondo vuoto di motivi religiosi patriottici e morali un mondo puro dell'arte il cui obbiettivo è realizzare nel campo dell'immaginazione l'ideale della forma. L'autore vi si travaglia con la più grande serietà non ad altro inteso che a dare alla sua materia l'ultima perfezione così nell'insieme come ne' più piccoli particolari. Il poeta non ci è più ma ci è l'artista che continua il Petrarca il Boccaccio il Poliziano e chiude il ciclo dell'arte nella poesia. Ma poichè in fine questo mondo così bello edificato con tanta industria non è che un giuoco d'immaginazione vi penetra un'ironia superiore che se ne burla e vi si spassa sopra col più allegro umore. La parte plebea che nel Decamerone occupa il proscenio qui giace ne' bassi fondi con la sua oscenità e la sua buffoneria e sorge a galla il mondo della cortesia e del valore ne' suoi più bei colori ma accompagnato da questo sentimento che è un bel sogno: la realtà si fa valere e disfà il castello incantato. È la visione severa di un'anima ricca che si effonde in amabili fantasie elegiaca nelle sue turbazioni idillica nelle sue gioie con non altro fine e non altra serietà che la produzione artistica. Nelle arti figurative la produzione è accompagnata con un perfetto obblio dell'anima nella sua creatura: Raffaello è tutto intero nella sua opera e non guarda mai fuori e realizza la sua idea con quella serietà con la quale Dante costruisce l'altro mondo. L'ideale della forma che si esprime con tanta serietà nelle arti non ha ancora la coscienza che esso è mera forma mero giuoco d'immaginazione. Ma qui l'arte si manifesta e si sente pura arte e sa che il mondo reale non è quello e accompagna con un sorriso la sua produzione. In questo sorriso in questa presenza e coscienza del reale tra le più geniali creazioni è il lato negativo dell'arte il germe della dissoluzione e della morte.

Intorno a questo mondo ariostesco pullulano poemi e romanzi e novelle. Lascio stare il Girone e l'Avarchide dell'Alamanni prette imitazioni senza alcuna serietà. Dirò un motto di due che tentarono vie nuove il Trissino e Bernardo Tasso. A tutti e due spiacque il sorriso ariostesco. Orlando e Rinaldo parvero al Trissino non altrimenti che al cardinale d'Este delle “corbellerie” fole e capricci di cervello ozioso. Cercando nella storia le sue ispirazioni e in Omero il suo modello scrisse l'Italia liberata dà' Goti. Nella sua intenzione dovea essere un poema eroico e serio come l'Iliade che chiamasse l'Italia ad alti e virili propositi. Ma il Trissino non era che un erudito non poeta e non patriota e non potea trasfonder negli altri un eroismo che non era nella sua anima e nemmeno nella sua arida immaginazione. Di eroico non c'è nel suo poema che le armi e le divise: manca l'uomo. La sua punizione fu il silenzio e la dimenticanza e il poveruomo non volendo recarne la colpa a difetto d'ingegno se la piglia con l'argomento e prorompe:

Ma l'argomento cavalleresco non valse a salvare dal naufragio Bernardo Tasso che nel suo Floridante e nel suo Amadigi più noto vagheggiò una rappresentazione epica più conforme a' precetti dell'arte e lontana da ciò ch'egli diceva licenza ariostesca. Non piacque al pubblico ma piacque a Speron Speroni come il Girone era piaciuto al Varchi. E il pubblico avea ragione; chè non s'intendeva di Aristotile e di Omero e non poteva pigliare sui serio gli eroi cavallereschi si chiamassero Orlando o Amadigi. Bernardo è tutto fiori e tutto mèle così artificiato e prolisso lui come il Trissino negletto e arido tutti e due noiosi. Piacque invece l'Orlando innamorato rifatto dal Berni dove la soverchia e uniforme serietà del testo è temperata da forme ed episodi comici appiccativi dal Berni. Ma il comico non passa la buccia e non penetra nell'intimo stesso di quel mondo e non lo trasforma e il Berni mi fa l'effetto di quel buffone nelle commedie posto lì per far ridere il pubblico co' suoi lazzi mentre gli attori accigliati conservano la lor posa tragica.

Scrivere romanzi diviene un mestiere: l'epopea ariostesca è smembrata e i suoi episodi diventano romanzi. Sei ne scrive Lodovico Dolce tra' quali Le prime imprese di Orlando. Il Brusantini ferrarese canta Angelica innamorata il Bernia canta Rodomonte il Pescatore Ruggiero e Francesco de' Lodovici Carlo Magno. Romanzi con la stessa facilità composti applauditi e dimenticati. Accanto agl'imitatori del Petrarca e del Boccaccio sorgono gl'imitatori dell'Ariosto.

Il mondo ariostesco nel suo lato positivo si collega con l'idillio e nel suo lato negativo con la satira e la novella.

Dal Petrarca e dal Boccaccio al Poliziano l'idillio è la vera musa della poesia italiana la materia nella quale lo spirito realizza l'ideale della pura forma l'arte come arte. In quella grande dissoluzione sociale la poesia lascia le città e trova il suo ideale ne' campi tra ninfe e pastori fuori della società o piuttosto in una società primitiva e spontanea.

Là trovi quell'equilibrio interiore quella calma e riposo della figura quella perfetta armonia de' sentimenti e delle impressioni che chiamavano l'“ideale della bellezza” o della “bella forma”. Questo spiega la grande popolarità delle Stanze dove questo ideale si vede realizzato con grande perfezione. Sono imitazioni la Ninfa tiberina del Molza e il Tirsi del Castiglione. Nella Ninfa tiberina hai di belle stanze: Euridice in fuga con alle spalle l'innamorato Aristeo è così dipinta:

Maniera corretta e nulla più. Manca in queste stanze il movimento il brio il sentimento o piuttosto la voluttà idillica del Poliziano. La stessa parca lode è a fare de' due poemi idillici le Api del Rucellai e la Coltivazione dell'Alamanni. Ci è la naturalezza manca il sangue.

L'idillio fu la moda dell'Italia ne' suoi anni di pace e di prosperità. Era il riposo voluttuoso di una borghesia stanca di lotte e ritirata deliziosamente nella vita privata fra ozi e piaceri eleganti. Ora tra il rumore delle armi fra tante avventure e agitazioni della vita sottentra il romanzo cavalleresco. L'idillio cessa di essere un genere vivo e va a raggiungere il platonismo e il petrarchismo. Gli angeli e il paradiso Giove e Apollo le piagge apriche e i vaghi colli i languori di Tirsi e le smanie di Aristeo fanno lega insieme e n'esce un vasto repertorio di luoghi comuni dove attingono poeti e poetesse: chè di poetesse fu anche fecondo il secolo.

Il Quattrocento ondeggiava tra l'idillio e il carnevale: ozio di villa e ozio di città. La quiete idillica era il solo ideale superstite nella morte di tutti gli altri presso una società sensuale e cinica la cui vita era un carnevale perpetuo. Celebri diventano il carnevale di Venezia e il carnevale di Roma. I canti carnascialeschi fanno il giro d'Italia. La buffoneria l'equivoco osceno lo scherzo grossolano diventano un elemento importante della letteratura in prosa e in verso l'impronta dello spirito italiano. Le accademie sono il semenzaio di lavori simili. Esse rassomigliano quelle liete brigate di buontemponi e fannulloni che ispirarono il Decamerone modello del genere. Sono letterati ed eruditi in pieno ozio intellettuale che fanno per sollazzarsi versi e prose sopra i più frivoli argomenti tanto più ammirati per la vivacità dello spirito e l'eleganza delle forme quanto la materia è più volgare. Strani sono i nomi di queste accademie e di questi accademici come lo Impastato il Raggirato il Propaginato lo Smarrito ecc. E recitano le loro dicerie o come dicevano “cicalate” sull'insalata sulla torta sulla ipocondria inezie laboriose. Simili cicalate fatte in verso erano dette “capitoli”: il Casa canta la gelosia il Varchi le ova sode il Molza i fichi il Mauro la bugia il Caro il naso lungo; si cantano le cose più volgari e anco più turpi e spesso con equivoci e allusioni oscene al modo di Lorenzo il maestro del genere. Il carnevale dalla piazza si ritira nelle accademie e diviene più attillato ma anche più insipido. Tra queste accademie era quella dei Vignaiuoli a Roma dove recitavano il Mauro il Casa il Molza il Berni tra prelati e monsignori. Il Berni piacque fra tutti e si disputavano i suoi capitoli e se li passavano di mano in mano.

Francesco Berni “maestro e padre del burlesco stile” detto poi “bernesco” è l'eroe di questa generazione erede di Giovanni Boccaccio e di Lorenzo nella sua sensualità ornata dalla coltura e dall'arte. Nella sua ammirazione per questo “primo e vero trovatore” dello stile burlesco il Lasca dice:

Buontempone amico del suo comodo e del dolce far niente la sua divinità è l'ozio più che il piacere:

troppo il movea...

Ma il poveruomo è costretto a lavorare per guadagnarsi la vita e fa il segretario come tutti quasi i letterati di quel tempo a' servigi di questo e quel cardinale:

Dietro a' capricci del suo padrone una volta non ne può più chè ha sonno e dee stare lì a guardarlo giocare la primiera:

La morte di papa Leone gitta il terrore tra' letterati che vedono mancare la mangiatoia e più quando il successore è Adriano sesto spagnuolo oltramontano avaro contadino e non so quanti altri epiteti gli appicca nella sua indignazione il Berni:

idest nemico del sangue italiano”.

Era in fondo un brav'uomo senza fiele un buon compagnone col quale si passava piacevolmente un quarto d'ora anima tranquilla e da canonico vuota di ambizioni e di cupidigie e di passioni e anche d'idee. Sapea di greco e più di latino e fece anche lui i suoi bravi versi latini e i suoi sonetti petrarcheschi come portava il tempo. Scrivea il più spesso a “sfogamento di cervello il maggior suo passatempo”. Non cercava l'eleganza per fuggire fatica e gli veniva “il sudor della morte” quando si dovea “metter la giornea” e rispondere “per le consonanze o per le rime” a lettere eleganti. Lo scrivere stesso gli era fatica. “A vivere avemo sino alla morte - dice al Bini - a dispetto di chi non vuole e il vantaggio è vivere allegramente come conforto a far voi attendendo a frequentar quelli banchetti che si fanno per Roma e scrivendo soprattutto il manco che potete; quia haec est victoria quae vincit mundum”. Si qualifica “asciutto di parole poco cerimonioso e intrigato in servitù”: ottime scuse alla sua pigrizia. E quando lo assediano e lo tormentano e si dolgono che non risponda e non li ami e li dimentichi gli viene la stizza:

E qui si calma la stizza e vince la pigrizia e la lettera finisce con un eccetera. Benedetta pigrizia che lo fa parlare “come gli viene alla bocca” e gli fa scriver lettere che sono “un zucchero di tre cotte” intarsiate di brevi motti latini per vezzo le più saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de' segretari che se ne scrissero tante e così sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza chè volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda. - Fateci un capitolo sulla primiera!

“Compare - scrive il poveruomo - io non ho potuto tanto schermirmi che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e commento della primiera e siate certo che l'ho fatto non perchè mi consumassi d'andare in istampa nè per immortalarmi come il cavalier Casio ma per fuggire la fatica mia e la malevolenzia di molti che domandandomelo e non lo avendo mi volevano mal di morte. Avendogliel' a dare mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e l'uno e l'altro non mi piaceva troppo per non m'affaticare e non m'obbligare.”

Eccolo dunque costretto a fare il capitolo e poi a stamparlo; eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse sulle anguille i cardi la peste le pesche la gelatina e sopra Aristotile il quale

Così venner fuori capitoli sonetti epistole dove vivono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno. Il successo fu grande. Dicono perchè era fiorentino e maneggiava assai bene la lingua. Ed è un dir poco. Il vero è che il Berni ha una intuizione immediata e netta delle cose che rende vive e fresche con facilità e con brio. Tra lui e la cosa non ci è nessun mezzo o imitazione o artificio di stile o repertorio; egli l'attinge direttamente secondo l'immagine che gli si presenta nel cervello. E l'immagine è la cosa stessa in caricatura guardata cioè da un punto che la scopra tutta nel suo aspetto comico. Il quale aspetto balza improvviso innanzi alla nostra immaginazione perchè non esce fuori a pezzi e a bocconi da una descrizione ma ti sta tutto avanti per virtù di somiglianze o di contrasti inaspettati. Tale è la pittura di maestro Guazzaletto e la mula di Florimonte e la bellezza della sua donna contraffazione della Laura petrarchesca. In questi ritratti a rapporti non hai niente che stagni o langua; hai una produzione continua che ti tien desto e ti sforza a ire innanzi insino a che il poeta trionfalmente ti accomiata:

Fin qui avevamo visto dal Boccaccio al Pulci messa in caricatura plebe e frati; e anche il Berni ci si prova nella Catrina e nel Mogliazzo imitazioni caricate di parlari e costumi plebei inferiori per grazia e spontaneità alla Nencia. Ma la materia ordinaria del Berni è la caricatura della borghesia in mezzo a cui viveva. Non è più la coltura che ride dell'ignoranza e della rozzezza è la coltura che ride di se stessa: la borghesia fa la sua propria caricatura. Il protagonista non è più il cattivello di Calandrino ma è il borghese vano poltrone adulatore stizzoso sensuale e letterato la cui immagine è lo stesso Berni che mena in trionfo la sua poltroneria e sensualità. L'attrattivo è appunto nella perfetta buona fede del poeta che ride de' difetti propri e degli altrui come di fragilità perdonabili e comuni delle quali è da uomo di poco spirito pigliarsi collera. Il guasto nella borghesia era già così profondo e tanto era oscurato il senso morale che non si sentiva il bisogno dell'ipocrisia e si mostravano servili e sensuali uomini per altre parti commendevoli; com'erano moltissimi letterati e il nostro Berni “il dabbene e gentile” Berni dice il Lasca che si dipinge a quel modo con piena tranquillità di coscienza e non pensa punto che gliene possa venire dispregio. Quando certi vizi diventano comuni a tutta una società non generano più disgusto e sono magnifica materia comica e possono stare insieme con tutte le qualità di un perfetto galantuomo. Il Berni è poltrone e sensuale e cortigiano e non lo dissimula ciò che farebbe ridere a sue spese anzi lo mette in evidenza cogliendone l'aspetto comico come fa un uomo di spirito che non crede per questo ne scapiti la sua riputazione. Questa credenza o perfetta buona fede lo mette in una situazione netta e schiettamente comica sì ch'egli contempla e vagheggia il suo difetto senz'alcuna preoccupazione di biasimo e con perfetta libertà di artista. È sottinteso che in questi ritratti berneschi non è alcuna profondità o serietà di motivi; appena la scorza è incisa: ci è la borghesia spensierata e allegra che non ha avuto ancora tempo di guardarsi in seno ed è tutto al di fuori nella superficie delle cose. Questa superficialità e spensieratezza è anch'essa comica è parte inevitabile del ritratto. Perciò la forma comica sale di rado sino all'ironia e rimane semplice caricatura un movimento e calore d'immaginazione com'è generalmente ne' comici italiani a cominciare dal Boccaccio. Dove non è immaginazione artistica il comico non si sviluppa ed il difetto rimane prosaico e perciò disgustoso come è in tutti gli scrittori di proposito osceni. Ne' ritratti del Berni entra anche l'osceno ingrediente di obbligo a quel tempo; ma non è lì che attinge la sua ispirazione non vi si piace e non vi si avvoltola. Ciò che l'ispira non è il piacere dell'osceno o la seduzione del vizio ma è un piacere tutto d'immaginazione e da artista che senti nel brio e nella facilità dello stile e che mettendo in moto il cervello gli fa trovare tanta novità di forme d'immagini e di ravvicinamenti come è il ritratto della sua cameriera e l'altro un vero capolavoro della sua famiglia. Ecco perchè il Berni è tanto superiore a' suoi imitatori ed emuli freddamente osceni e buffoni. Pure la buffoneria oscena diviene l'ingrediente de' banchetti delle accademie e delle conversazioni e invade la letteratura quasi condimento e salsa dello spirito: la statua di Pasquino diviene l'emblema della coltura. Ci erano capitoli e sonetti: sorgono poemi interi berneschi com'è la Vita di Mecenate del Caporali di una naturalezza spesso insipida e volgare e il suo Viaggio al Parnaso e la Gigantea dell'Arrighi e la Nanea del Grazzini o i Nani vincitori de' giganti. Di tanti poeti berneschi si nomina oggi appena il Caporali. Nondimeno questa lirica bernesca è la sola viva in questo secolo. Gli stessi poeti petrarcheggiando annoiano e si fanno leggere piacevoleggiando; perchè i loro sospiri d'amore escono da un repertorio già vecchio di concetti e di frasi e non corrispondono allo stato reale della società e della loro anima; dove in quel piacevoleggiare ci è il secolo ci è loro e non ci è ancora modelli o forme convenzionali e qualche cosa dee pur venire dal loro cervello.

I canti carnascialeschi come i rispetti e le ballate e le serenate erano legati con la vita pubblica; ora il circolo della vita si restringe: la vita letteraria è nelle accademie e tra' convegni privati. Per le piazze si aggirano ancora i cantastorie e si sentono canzoni plebee. Ma la coltura se ne allontana e la trovi in corte o nell'accademia o nelle conversazioni centri di allegria spensierata e licenziosa; però da gente colta che sa di greco e di latino che ammira le belle forme e cerca ne' suoi divertimenti l'eleganza o come dicevasi il “bello stile”. Vi si recitavano capitoli sonetti poemi burleschi poemi di cavalleria e novelle. Come però l'arte è una merce rara e la produzione era infinita il pubblico diveniva meno severo e pur d'esser divertito non mirava tanto pel sottile nel modo. In sostanza questa borghesia spensierata e oziosa era sotto forme così linde vera plebe mossa dagli stessi istinti grossolani e superficiali la curiosità la buffoneria la sensualità e quando quest'istinti erano accarezzati accettava tutto anche il mediocre anche il pessimo: il che era segno manifesto di non lontana decadenza.

Questa letteratura comica o negativa si sviluppa in modo prodigioso. Accanto a' capitoli e a' romanzi moltiplicano le novelle. Il cantastorie diviene l'eroe della borghesia. E tutti hanno innanzi lo stesso vangelo il Decamerone. Il petrarchismo era una poesia di transizione che in questo secolo è un così strano anacronismo come l'imitazione di Virgilio o di Cicerone. Ma il Decamerone portava già ne' suoi fianchi tutta questa letteratura era il germe che produsse il Sacchetti il Pulci Lorenzo il Berni l'Ariosto e tutti gli altri.

Quasi ogni centro d'Italia ha il suo Decamerone. Masuccio recita le sue novelle a Salerno il Molza scrive a Roma il suo decamerone e il Lasca le sue Cene a Firenze e il Giraldi a Ferrara i suoi Ecatommiti o cento favole e Antonio Mariconda a Napoli le sue Tre giornate e Sabadino a Bologna le sue Porretane e quattordici novelle scrive il milanese Ortensio Lando e Francesco Straparola scrive in Venezia le sue Tredici piacevoli notti e Matteo Bandello il suo novelliere e le sue diciassette novelle il Parabosco. A Roma si stampano le novelle del Cadamosto da Lodi e di monsignor Brevio da Venezia. A Mantova si pubblicano le novelle di Ascanio de' Mori mantovano e a Venezia escono in luce le Sei giornate di Sebastiano Erizzo gentiluomo veneziano e le dugento novelle di Celio Malespini gentiluomo fiorentino e i Giunti a Firenze pubblicano i Trattenimenti di Scipione Bargagli. Aggiungi la Giulietta di Luigi da Porto vicentino e l'Eloquenza attribuita a Speron Speroni.

Tutti questi scrittori dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento si professano discepoli e imitatori del Boccaccio. Chi se ne appropria lo spirito e chi le invenzioni anche e la maniera. I toscani presso i quali il Boccaccio è di casa scrivono con più libertà e ci hanno una grazia e gentilezza di dire loro propria che copre la grossolanità de' sentimenti e de' concetti: tale è il Lasca e il Firenzuola nelle novelle inserite ne' suoi Discorsi degli animali e nel suo Asino d'oro. Gli altri procedono più timidi e riescono pesanti come il Giraldi e il Brevio e il Bargagli o scorretti e trascurati come il Parabosco o lo Straparola o il Cadamosto. Il linguaggio è quell'italiano comune che già si usava dalla classe colta nello scrivere e talora anche nel parlare tradotto in una forma artificiosa e alla latina che dicevasi letteraria e solcato di neologismi barbarismi latinismi e parole e frasi locali salvo ne' più colti come è il Molza per speditezza e festività vicino a' toscani.

Quel bel mondo della cortesia che nel Decamerone tiene sì gran parte rifuggitosi ne' poemi cavallereschi scompare dalla novella. E neppure ci è quello stacco tra borghesia e plebe quella coscienza di una coltura superiore che si manifesta nella caricatura della plebe quell'allegrezza comica a spese delle superstizioni e de' pregiudizi frateschi e plebei che tanto ti alletta nelle novelle fiorentine e fino nella Nencia. Questo mondo interiore scompare anch'esso. La novella attinge tutta la società ne' suoi vizi nelle sue tendenze ne' suoi accidenti con nessun altro scopo che d'intrattenere le brigate con racconti interessanti. L'interesse è posto nella novità e straordinarietà degli accidenti come sono i mutamenti improvvisi di fortuna o burle ingegnose per far danari o possedere l'amata o casi maravigliosi di vizi o di virtù. Re principi cavalieri dottori mercanti malandrini scrocconi tutte le classi vi sono rappresentate e tutt'i caratteri comici e seri e tutte le situazioni dalla pura storia sino al più assurdo fantastico. Sono migliaia di novelle arsenale ricchissimo dove hanno attinto Shakespeare Molière e altri stranieri.

La più parte di queste novelle sono aridi temi magri scheletri in forma affettata insieme e scorretta. L'interessante è stimolare la curiosità del pubblico e le sue tendenze licenziose e volgari. Perciò hai da una parte il comico e dall'altra il fantastico.

Nel comico salvo i toscani ne' quali supplisce la grazia del dialetto i novellieri mostrano pochissimo spirito. Una delle novelle meglio condotte è la “scimia” del Bandello la quale si abbiglia co' panni di una vecchia morta e par dessa e spaventa quelli di casa. Il fatto è in sè comico ma l'esposizione è arida e superficiale e i sentimenti e le impressioni comiche ci sono appena abbozzate. C'è una novella di Francesco Straparola assai spiritosa d'invenzione dove si racconta il modo che tenne un marito per rendere ubbidiente la moglie e la sciocca imitazione fattane dal fratello novella che suggerì al Molière la Scuola de' mariti. Ma di spiritoso non c'è che l'invenzione forse neppur sua: così triviale e abborracciata è l'esposizione. Un villano che fa la scuola ad un astrologo è anche un bel concetto del Lando ma scarso di trovati e situazioni comiche. Pure il Lando è scrittor vivace e rapido e nelle descrizioni efficace e pittoresco. Il villano predice la pioggia; ma l'astrologo vede il cielo sereno.

“Alzato il viso guatava d'ogni intorno e diligentemente ogni cosa contemplando s'avvide essere il cielo tutto bello il sole temperato il monte netto da nuvoli e appresso s'accorse che l'austro nel soffiare era dolcissimo e cominciò attentamente a considerare in qual segno fosse il sole e in qual grado che cosa stesse nel mezzo del cielo e qual segno stessegli in dritta linea opposto. Nè potendo in verun modo conoscere che pioggia dovesse dal cielo cadere al villano rivolto disse con ira e con isdegno: - Dio e la Natura potrebbono far piovere ma la Natura sola non lo potrebbe fare.”

Sopravvenuta più tardi pioggia dirottissima descrive le sue rovine e i suoi effetti in questo modo:

“Rovinarono torri sbarbicaronsi molte querce caddero bellissimi palagi tremò tutta la riviera dell'Adige parve che il cielo cadesse e che tutta la macchina mondana fosse per disciogliersi.”

Tutta la novella è scritta in questa prosa spedita e animata e si legge volentieri ma il sentimento comico vi fa difetto nè vi supplisce una lingua poetica e senza colore locale.

Gran vantaggio ha sopra di lui il Lasca non di spirito o di coltura o di arte ma di lingua essendo il dialetto toscano ricco di sali e di frizzi e di motti e di modi comici un istrumento già formato e recato a perfezione dal Boccaccio al Berni. Materia ordinaria del Lasca è la semplicità degli uomini “tondi e grossi” fatta giuoco de' tristi e degli scrocconi. È la novella ne' termini che l'aveva lasciata il Boccaccio. Il suo Calandrino è Gian Simone o Guasparri rigirati e beffati da scrocconi che si prevalgono della loro credulità. Il Boccaccio mette in iscena preti e frati il Lasca astrologi guardando meno alle superstizioni religiose che alle credenze popolari nell'“orco tregenda e versiera” negli spiriti e ne' diavoli. Oggi abbiamo i magnetisti e gli spiritisti; allora c'erano i maghi o gli astrologi con la stessa pretensione di conoscere l'avvenire e di guarire gl'infermi e conoscere i fatti altrui e farti comparire i morti o le persone lontane: materia inesausta di ridicolo non altrimenti che i miracoli de' frati. Se il Boccaccio mette in gioco il mondo soprannaturale della religione il Lasca si beffa del mondo soprannaturale della scienza. Il fantastico regna ancora qua e colà in Italia; ma a Firenze era morto sotto l'ironia del Boccaccio del Sacchetti di Lorenzo e del Pulci nè i piagnoni poterono risuscitarlo. Il nostro Lasca non ha lo spirito e la finezza del Boccaccio non ha ironia ed è grossolano nelle sue caricature; ma è facile pieno di brio e di vena evidente e trova nel dialetto immagini e forme comiche belle e pronte senza che si dia la pena di cercarle. Ecco la magnifica pittura dell'astrologo Zoroastro:

“... era uomo di trentasei in quarant'anni di grande e di ben fatta persona di colore ulivigno nel viso burbero e di fiera guardatura con barba nera arruffata e lunga infino al petto ghiribizzoso molto e fantastico; aveva dato opera all'alchimia era ito dietro e andava tuttavia alla baia degl'incanti; aveva sigilli caratteri filattiere pentacoli campane bocce e fornelli di varie sorte da stillare erba terra metalli pietre e legni; aveva ancora carta non nata occhi di lupo cerviero bava di cane arrabbiato spina di pesce colombo ossa di morti capestri d'impiccati pugnali e spade che avevano ammazzato uomini la chiavicola e il coltello di Salomone e erba e semi colti a vari tempi della luna e sotto varie costellazioni e mille altre favole e chiacchiere da far paura agli sciocchi; attendeva all'astrologia alla fisonomia alla chiromanzia e cento altre baiacce; credeva molto nelle streghe ma soprattutto agli spiriti andava dietro e con tutto ciò non aveva mai potuto vedere ne fare cosa che trapassasse l'ordine della natura benchè mille scerpelloni e novellacce intorno a ciò raccontasse e di farle credere s'ingegnasse alle persone; e non avendo nè padre nè madre e assai benestante sendo gli conveniva stare il più del tempo solo in casa non trovando per la paura nè serva nè famiglio che volesse star seco e di questo infra sè maravigliosamente godea; e praticando poco andando a casa con la barba avviluppata senza mai pettinarsi sudicio sempre e sporco era tenuto dalla plebe per un gran filosofo e negromante.”

È un periodo interminabile tirato giù felicemente dove come in un quadro ti sta dinanzi tutta la persona in una ricchezza di accessorii espressi con una proprietà di vocaboli che si può trovar solo in un fiorentino. “Struggersi d'amore” è un sentimento serio che il Lasca traduce in comico aggiungendovi le immagini del dialetto: “la farà in modo innamorar di voi ch'ella non vegga altro dio e si consumi e strugga de' fatti vostri come il sale nell'acqua e ... vi verrà dietro più che i pecorini al pane insalato”. Parlando del banchetto che tenne l'astrologo con i suoi compagni di giunteria lo Scheggia il Pilucca e il Monaco alle spese del candido Gian Simone dice: “E fecero uno scotto da prelati con quel vino che smagliava”. Se il Lasca dee molto al dialetto ha pure un pregio proprio che lo mette accanto al Berni una intuizione chiara e viva delle cose che te le dà scolpite in rilievo. Tale è il viaggio per aria del Monaco come Zoroastro dà a credere al dabben Simone:

“[Zoroastro] si stese in terra boccone e disse non so che parole e rittosi in piede e fatto due tomboli s'arreco da un canto del cerchio inginocchioni e guardando fisso nel vaso ... disse: - Il Monaco nostro ha già riavuto il resto e vassene con l'insalata verso Pellicceria per andarsene a casa; ma in questo istante io l'ho fatto invisibilmente alzare ai diavoli da terra: oh eccolo che egli e già sopra il Vescovado: oh che gli vien bene egli è già sopra la piazza di Madonna: oh ora egli è sopra la vecchia di Santa Maria Novella: testè entra in Gualfonda: oh eccolo a mezza la strada! Oh egli è già presso a meno di cinquanta braccia: oh eccolo eccolo già rasente alla finestra! Or ora sarà nel cerchio in pianelle in mantello in cappuccio e con l'insalata e con le radici in mano.” Il nostro speziale chè colui che chiamavano “il Lasca” nell'accademia degli Umidi era appunto lo speziale Anton Maria Grazzini dipinge con tanto rilievo gli oggetti perchè li vede chiarissimi nell'immaginazione e non si ha a travagliare intorno alla forma e non v'usa alcuno artificio scrive parlando. Nè è meno evidente e parlante nel dialogo. Simone passata la paura e uscitogli tutto l'amore di corpo non vuol più dare all'astrologo i venticinque fiorini promessigli. E dice allo Scheggia:

“- Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito ... tutto l'amor di corpo e della vedova non mi curo più niente... Oh che vecchia paura ebb'io per un tratto! e' mi si arricciano i capelli quando vi ci penso sicchè pertanto licenzia e ringrazia Zoroastro. - Lo Scheggia udite le di colui parole diventò piccino piccino... e parendogli rimanere scornato disse: - Oimè Gian Simone che è quello che voi mi dite? Guardate che il negromante non si crucci. Che diavol di pensiero e il vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente come Zoroastro intenda questo di voi ch'egli non si adiri tenendosi uccellato e che poi non vi faccia qualche strano gioco. Bella cosa e da uomini dabbene mancar di parola! ...Tanto è Gian Simone egli non è da correrla così a furia: se egli vi fa diventare qualche animalaccio voi avrete fatto poi una bella faccenda. - Colui era già per la paura diventato nel viso un panno lavato e rispondendo allo Scheggia disse: - Per lo sangue di tutt'i diavoli che fo giuro d'assassino che domattina la prima cosa io me ne voglio andare agli Otto e contare il caso e poi farmi bello e sodare non so chi mi tiene che non vada ora. - Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto diventò nel viso di sei colori e fra sè disse: - Qui non è tempo da battere in camicia facciamo che il diavolo non andasse a processione -; e a colui rivolto dolcemente prese a favellare e disse: - Voi ora Gian Simone entrate bene nell'infinito e non vorrei per mille fiorini d'oro in beneficio vostro che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto. Ora non sapete che l'ufficio degli Otto ha potere sopra gli uomini e non sopra i demòni? Egli ha mille modi di farvi quando voglia gliene venisse capitar male che non si saperrebbe mai.”

Cosa manca al Lasca? La mano che trema. Scioperato spensierato balzano vispo e svelto ci è in lui la stoffa di un grande scrittor comico; ma gli manca il culto e la serietà dell'arte e abborraccia e tira giù come viene e lascia a mezzo le cose e si arresta alla superficie naturale e vivace sempre spesso insipido grossolano e trascurato massime nell'ordito e nel disegno.

Questo basso comico plebeo e buffonesco ne' confini della semplice caricatura perciò superficiale ed esteriore ritratto di una borghesia colta piena di spirito e d'immaginazione e insieme spensierata e tranquilla ha la sua sorgente colà stesso onde uscì il Morgante e poi i capitoli e i sonetti del Berni: è il bernesco nell'arte buffoneria ingentilita dalla grazia e alzata a caricatura maniera sviluppatasi gradatamente dal Boccaccio al Lasca infiltratasi nel dialetto e rimasta forma toscana. Nelle altre parti d'Italia la buffoneria è senza grazia spesso caricata troppo e lontana da quel brio tutto spontaneità e naturalezza che senti nel Berni e nel Lasca. Tra' più sgraziati è il Parabosco.

Col comico va congiunto il fantastico. Il novelliere in luogo di guardare nella vita reale e studiarvi i caratteri i costumi i sentimenti cerca combinazioni tali di accidenti che solletichino la curiosità. Per questa via dal nuovo si va allo strano e dallo strano al fantastico al soprannaturale e all'assurdo. Così una borghesia scettica che ride de' miracoli che si beffa del soprannaturale religioso e non vuol sentire a parlare di misteri e di leggende come forme barbare sente poi a bocca aperta racconti di fate di maghi di animali parlanti che tengano desta la sua curiosità. Il Mariconda narra con serietà rettorica i casi di Aracne di Piramo e Tisbe e altre favole mitologiche. E con la stessa serietà Francesco Straparola raccoglie nelle sue Notti le più sbardellate invenzioni di quel tempo saccheggiando tutt'i novellatori Apuleio Brevio soprattutto il napolitano Girolamo Morlino autore di ottanta novelle in latino. Ivi trovi il fantastico spinto all'ultimo limite dell'assurdo. Vedi un anello trasformato in un bel giovane pesci e cavalli e falconi e bisce e gatte fatate che fanno maraviglie e satiri e uomini salvatici o in forma porcile e morti risuscitati e asini e leoni in conversazione e fate e negromanti e astrologi. Queste ch'egli chiama “favole” si accompagnano con altri racconti osceni o faceti o com'egli dice “ridicolosi” e sono le solite burle fatte alla gente semplice e grossa o com'egli dice “materiale”. Il pretesto è uno scopo di volgare morale o prudenza un “fabula docet” ma in fondo l'autore mira a render piacevoli le sue Notti eccitando il riso o movendo la curiosità. Non mostra alcuna intenzione letteraria salvo nelle descrizioni una goffa imitazione del Boccaccio chiama egli medesimo “basso” e “dimesso” il suo stile e dice che le invenzioni non son sue ma suo è il modo di raccontarle. Non hai qui dunque contorcimenti lenocini artifici eleganze: è un narrare alla buona e a corsa in quella lingua comune italiana di forma più latina che toscana mescolata di parole venete bergamasche e anche francesi come “follare” (fouler) per calpestare. Non si ferma sul descrivere o particolareggiare non bada a' colori salta le gradazioni va diritto e spedito cercando l'effetto nelle cose più che nel modo di dirle. E le cose non importa se di lui o di altri contengono spesso concetti molto originali come Nerino lo studente portoghese che fa le sue confidenze amorose al suo maestro Brunello ch'egli non sa essere il marito della sua bella onde Molière trasse il pensiero della sua Ecole des femmes; o l'asino che co' suoi vanti la fa al leone; o i bergamaschi che con la loro astuzia la fanno a' dottori fiorentini; o la vendetta dello studente burlato dalle donne; o Flaminio che va in cerca della morte; o le nozze del diavolo. Il successo fu grande: si fecero in poco tempo del libro più di venti edizioni; e di molte favole è rimasta anche oggi memoria. L'osceno il ridicolo il fantastico era il cibo del tempo: poi quella forma scorretta imperfetta ma senza frasche e spedita soprattutto nel vivo del racconto dovea rendere il libro di più facile lettura alla moltitudine che non gli Ecatommiti del Giraldi e le novelle dell'Erizzo e del Bargagli di una forma artificiata e noiosa. Ma il successo durò poco. Anche la Filenia del Franco fu tenuta pari al Decamerone e dimenticata subito. Manca allo Straparola il calore della produzione e ti riesce prosaico e materiale anche nel più vivo di una situazione comica o nel maggiore allettamento dell'oscenità o ne' movimenti più curiosi del fantastico come di uomini uccisi e rifatti vivi. Narra il miracolo con quella indifferenza che i casi quotidiani della vita; e mi rassomiglia un uomo divenuto per la lunga consuetudine frigido e ottuso che non ha più passioni ma vizi. Chi vuol vederlo paragoni le sue “Nozze del diavolo” col Belfegor del Machiavelli argomento simile e il suo studente vendicativo col famoso studente del Boccaccio. E vedrà che a lui manca non meno il talento comico che la virtù informativa. Ma che importa? Non mira che a stuzzicare la sensualità e la curiosità e chi si contenta gode. E per meglio avere l'uno e l'altro intento aggiunge al racconto un enigma o indovinello in verso osceno di apparenza e spiegato poi altrimenti che suona a prima udita. Così oggi i cervelli oziosi per fuggir la noia fanno o sciolgono sciarade e rebus. Il fantastico era il cibo de' cervelli oziosi non meno che l'enigma o i tanti poemi cavallereschi. L'arte era divenuta mestiere; e pur di sentire fatti nuovi e strani non si cercava altro. Ristorare il fantastico in mezzo a una borghesia scettica e sensuale era vana impresa. Nelle antiche leggende senti il miracolo e senti il maraviglioso ne' romanzi antichi di cavalleria: ora manca l'ingenuità e la semplicità e l'arte non può riprodurre il fantastico che con un ghigno ironico volgendolo in gioco. Perciò la sola novella fantastica che si possa chiamare lavoro d'arte è il Belfegor il diavolo accompagnato dal sorriso machiavellico. Cosa ha di vivo il diavolo borghese e volgare dello Straparola o la sua Teodosia che è la leggenda messa in taverna?

Se una ristorazione del fantastico non era possibile come poteva aversi una ristorazione del tragico? Ma ci furono anche novelle tragiche con la stessa intonazione del Decamerone anzi della Fiammetta. E sono quello che potevano essere fior di rettorica. D'immaginazione ce n'era molta ma di sentimento non ce n'era favilla. Cosa di eroico o di affettuoso o di nobile poteva essere tra quelle corti e quelle accademie ciascuno sel pensi. Chi desideri esempli di questa rettorica vegga la Giulietta di Luigi da Porto o nel Bandello i monologhi di Adelasia e Aleramo o nell'Erizzo i lamenti di re Alfonso sulla tomba di Ginevra. Come a svegliare i romani ci voleva la vista del sangue a muovere quella borghesia sonnolenta e annoiata si va sino al più atroce e al più volgare. La figliuola di re Tancredi nel Boccaccio è una nobile creatura ma sono mostri volgari la Rosmonda del Bandello o l'Orbecche del Giraldi che pur non ti empiono di terrore e non ti spoltriscono e non ti agitano per il freddo artificio della forma. Tra gli eleganti elegantissimo è il Bargagli che sceglie forme nobili e solenni anche dove è in fondo cosa da ridere come è la sua Lavinella situazione comica in forma seria anzi oratoria.

Ciò che rimane di vivo in questa letteratura non e il fantastico e non il tragico ma un comico spesso osceno e di bassa lega e superficiale che non va al di là della caricatura e talora è più nella qualità del fatto che ne' colori. Alcuna volta ci è pur sentore di un mondo più gentile soprattutto nell'Erizzo e nel Bandello come è la novella di costui della reina Anna; ma in generale come nelle corti anche più civili sotto forme decorose e amabili giace un fondo licenzioso e grossolano la novella è oscena e plebea in contrasto grottesco con uno stile nobile e maestoso puro artificio meccanico. È un comico che a forza di ripetizione si esaurisce e diviene sfacciato e prosaico. Il capitolo muore col Berni e la novella col Lasca.

È il Decamerone in putrefazione. Il difetto del capitolo è di cercare i suoi mezzi comici più nelle combinazioni astratte dello spirito che nella rappresentazione viva della realtà. È lo stesso difetto del petrarchismo: il Petrarca del capitolo è Francesco Berni e i petrarchisti sono i suoi imitatori che a forza di cercar rapporti e combinazioni escono in freddure e sottigliezze. Il difetto della novella è la sensualità prosaica e la vana curiosità: senza ideali e senza colori e in una forma spesso pedantesca e sbiadita. E capitolo e novella hanno poi un difetto comune la superficialità quel lambire appena la esteriorità dell'esistenza e non cercare più addentro come se il mondo fosse una serie di apparenze fortuite e non ci fosse uomo e non ci fosse natura. Essendo tutto un giuoco d'immaginazione a cui rimane estraneo il cuore e la mente la forma comica nella quale si dissolve è la caricatura degradata sino alla pura buffoneria. Lo spirito volge in giuoco anche quel giuoco d'immaginazione intorno a cui si travagliarono con tanta serietà il Boccaccio il Sacchetti il Magnifico il Poliziano il Pulci il Berni il Lasca divenuto nel Furioso il mondo organico dell'arte italiana e traduce l'ironia ariostesca in aperta buffoneria avvolgendo in una clamorosa risata tutti gl'idoli dell'immaginazione antichi e nuovi. La nuova arte uscita dalla dissoluzione religiosa politica e morale del medio evo e rimasta nel vuoto innamorata di solo se stessa come Narciso va a morire per mano di un frate sfratato di Teofilo Folengo: muore ridendo di tutto e di se stessa. La Maccaronea del Folengo chiude questo ciclo negativo e comico dell'arte italiana. Ma ci era anche un lato positivo. Mentre ogni specie di contenuto è messa in giuoco e l'arte cacciata anche dal regno dell'immaginazione si scopre vuota forma un nuovo contenuto si va elaborando dall'intelletto italiano e penetra nella coscienza e vi ricostruisce un mondo interiore ricrea una fede non più religiosa ma scientifica cercando la base non in un mondo sopra naturale e sopra umano ma al di dentro stesso dell'uomo e della natura. Pomponazzi negando l'esistenza degli universali rigettando i miracoli proclamando mortale l'anima e spezzando ogni legame tra il cielo e la terra pose obbiettivo della scienza l'uomo e la natura. Platonici e aristotelici per diverse vie proclamavano l'autonomia della scienza la sua indipendenza dalla teologia e dal dogma. La Chiesa lasciava libero il passo a tutta quella letteratura frivola e oscena e a tutta quella vita licenziosa della quale era esempio la corte di Leone ma non potea veder senza inquietudine questo risvegliarsi dell'intelligenza nelle scuole. Il materialismo pratico l'indifferenza religiosa era spettacolo vecchio; ma la spaventava quel materialismo alzato a dottrina e l'indifferenza divenuta aperta negazione con quella ipocrita distinzione di cose vere secondo la fede e false secondo la scienza. Il concilio lateranense testimonia la sua inquietudine. Leone decimo proclama eresia quella distinzione proibisce l'insegnamento di Aristotile e sottopone i libri alla censura ecclesiastica. A che pro? Il materialismo era il motto del secolo. Leone decimo stesso era un materialista come fu Lorenzo con tutto il suo platonismo. Nè altro erano il Pulci il Berni il Lasca e gli altri letterati ancorachè si guardassero di dirlo. Alcuni manifestavano con franchezza la loro opinione come Lazzaro Bonamico Giulio Cesare Scaligero Simone Porzio Andrea Cesalpino Speron Speroni e quel professore Cremonino da Cento che fe' porre sulla sua tomba: “Hic iacet Cremoninus totus”. Quando gli studenti avevano innanzi un professore nuovo e lo vedevano nicchiare gli dicevano subito: - Cosa pensate dell'anima?

Quando il materialismo apparve la società era già materializzata. Il materialismo non fu il principio fu il risultato. Fino a quel punto il dogma era stato sempre la base della filosofia e il suo passaporto. Era un sottinteso che la ragione non poteva contraddire alla fede e quando contraddizione appariva si cercava il compromesso la conciliazione. Così poterono lungamente vivere insieme Cristo e Platone Dio e Giove: tutta la coltura era unificata nell'arte e nel pensiero e non si cercava con quanta logica e coesione e con quanta buona fede. In nome della coltura si paganizzavano le forme cattoliche anche da' più pii come ne' loro poemi sacri facevano il Sannazzaro e il Vida; si paganizzò anche san Pietro e paganizzava anche Leone decimo. Tutto questo era arte era civiltà e non solo non era impedito anzi promosso e incoraggiato; farvi contro non si poteva senza aver taccia di barbaro e incolto. E si tollerava pure Pasquino voglio dire quella buffoneria universale le cui maggiori spese le facevano preti frati vescovi e cardinali.

In quella corruzione così vasta soprattutto nel clero era il caso di dire: “petimusque damusque vicissim”; e tutti ridevano e primi i beffati. Di cose di religione non si parlava e quando era il caso le si faceva di berretto se ne osservavano le forme e il linguaggio per l'antica abitudine senza darvi alcuna importanza. Sotto il manto dell'indifferenza ci era la negazione. In quel vuoto immenso non rimaneva altro in piedi che la coltura come coltura e l'arte come arte. Ed era appunto la negazione che appariva nell'arte sotto forma comica e formava il suo contenuto. Che cosa era quell'arte? Era il ritratto dello spirito italiano. Era la contemplazione di una forma perfetta nella indifferenza o negazione del contenuto. La società vagheggiava nell'arte se stessa.

Ma era una società spensierata e accademica che non si era ancora guardata al di dentro non si avea fatto il suo esame di coscienza. E quando per la prima volta gitta l'occhio entro di sè e domanda: - Che sono dunque? Onde vengo? Ove vado? - La risposta non poteva essere altra che questa: - Sono corpo: vengo dalla terra e torno alla terra l'“alma parens” la gran madre antica. - Questa risposta dapprima fa rabbrividire: sembra una scoperta ed è un risultato. E invade le università e si attira i fulmini del concilio. Zitto! Grida la borghesia gaudente e spensierata che non volea esser turbata nel suo alto sonno. E la cosa rimase lì. “Intus ut libet foris ut moris” diceva Cremonino. Credete come volete ma parlate come parlano. E le audacie del Valla e del Pomponazzi si perdettero nel rumore de' baccanali. Ci era la cosa ma non si voleva la parola. Materialismo era in tutto nella vita nelle lettere nelle sue applicazioni alla morale alla politica all'uomo e alla natura. Ma non si chiamava materialismo. Si chiamava coltura arte erudizione civiltà bellezza eleganza: ipocrisia in alcuni in altri corta intelligenza. Così si viveva tutti in buon accordo e allegramente e quando veniva la bile ci era lo sfogatoio: permesso di dir male de' preti e anche del papa e di abbandonarsi a tutt'i piaceri corporali andando a messa facendosi il segno della croce e gridando contro gli eretici e specialmente contro i signori luterani che con le loro malinconie teologiche minacciavano il mondo di una nuova barbarie. Pigliare sul serio la teologia! Questo per i nostri letterati era un tornare indietro di due secoli.

Fu appunto in quel tempo che Lutero spaventato come Savonarola alla vista di così vasta corruttela italiana proclamò la Riforma e regalò al mondo una teologia purgata ed emendata. Se innanzi al papato fu un eretico alla borghesia italiana apparve un barbaro come Savonarola. E in verità la sua teologia era in una vera contraddizione con la civiltà italiana avendo per base la reintegrazione dello spirito e l'indifferenza delle forme cioè a dire negando quella sola divinità che era rimasta viva nella coscienza italiana il culto della forma e dell'arte. Una riforma religiosa non era più possibile in un paese coltissimo avvezzo da lungo tempo a ridere di quella corruttela che moveva indignazione in Germania e che avea già cancellato nel suo pensiero il cielo dal libro dell'esistenza. L'Italia avea già valica l'età teologica e non credeva più che alla scienza e dovea stimare i Lutero e i Calvino come de' nuovi scolastici. Perciò la Riforma non potè attecchire fra noi e rimase estranea alla nostra coltura che si sviluppava con mezzi suoi propri. Affrancata già dalla teologia e abbracciando in un solo amplesso tutte le religioni e tutta la coltura l'Italia del Pico e del Pomponazzi assisa sulle rovine del medio evo non potea chiedere la base del nuovo edificio alla teologia ma alla scienza. E il suo Lutero fu Nicolò Machiavelli.

Il Machiavelli è la coscienza e il pensiero del secolo la società che guarda in sè e s'interroga e si conosce; è la negazione più profonda del medio evo e insieme l'affermazione più chiara de' nuovi tempi; è il materialismo dissimulato come dottrina e ammesso nel fatto e presente in tutte le sue applicazioni alla vita.

Non bisogna dimenticare che la nuova civiltà italiana è una reazione contro il misticismo e l'esagerato spiritualismo religioso e per usare vocaboli propri contro l'ascetismo il simbolismo e lo scolasticismo: ciò che dicevasi il medio evo. La reazione si presentò da una parte come dissoluzione o negazione: di che venne l'elemento comico o negativo che dal Decamerone va sino alla Maccaronea. Ma insieme ci era un lato positivo ed era una tendenza a considerare l'uomo e la natura in sè stessi risecando dalla vita tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali: un naturalismo aiutato potentemente dal culto de' classici e dal progresso dell'intelligenza e della coltura. Onde venne quella tranquillità ideale della fisonomia quello studio del reale e del plastico quella finitezza dei contorni quel sentimento idillico della natura e dell'uomo che diè nuova vita alle arti dello spazio e che senti ne' ritratti dell'Alberti nelle Stanze nel Furioso e fino negli scherzi del Berni. Questo era il lato positivo del materialismo italiano un andar più dappresso al reale ed alla esperienza dato bando a tutte le nebbie teologiche e scolastiche che parvero astrazioni. Il pensiero o la coscienza di questo mondo nuovo e in quello che negava e in quello che affermava è il Machiavelli.

Il concetto del Machiavelli è questo che bisogna considerare le cose nella loro verità “effettuale” cioè come son porte dall'esperienza ed osservate dall'intelletto; che era proprio il rovescio del sillogismo e la base dottrinale del medio evo capovolta: concetto ben altrimenti rivoluzionario che non è quel ritorno al puro spirito della Riforma e che sarà la leva da cui uscirà la scienza moderna.

Questo concetto applicato all'uomo ti dà il Principe e i Discorsi e la Storia di Firenze e i Dialoghi sulla milizia. E il Machiavelli non ha bisogno di dimostrarlo: te lo dà come evidente. Era la parola del secolo ch'egli trovava e che tutti riconoscevano.

Così nasce la scienza dell'uomo non quale può o dee essere ma quale è; dell'uomo non solo come individuo ma come essere collettivo classe popolo società umanità. L'obbiettivo della scienza diviene la conoscenza dell'uomo il “nosce te ipsum” questo primo motto della scienza quando si emancipa dal soprannaturale e pone la sua indipendenza. Tutti gli universali del medio evo scompariscono. La “divina commedia” diviene la “commedia umana” e si rappresenta in terra: si chiama storia politica filosofia della storia la scienza nuova. La scienza della natura si sviluppa più tardi. Non si crede più al miracolo ma si crede ancora all'astrologia. Attendete ancora un poco e il concetto del Machiavelli applicato alla natura vi darà Galileo e l'illustre coorte dei naturalisti.

Non è il caso di disputare sulla verità o falsità delle dottrine. Non fo una storia e meno un trattato di filosofia. Scrivo la storia delle lettere. Ed è mio obbligo notare ciò che si move nel pensiero italiano; perchè quello solo è vivo nella letteratura che è vivo nella coscienza.

Da quel concetto esce non solo la scienza moderna ma anche la prosa. Come nella scienza ci aveva ancora molta parte l'immaginazione la fede il sentimento; così nella prosa erano penetrati elementi etici rettorici poetici chiusi in quella forma convenzionale boccaccevole che dicevasi forma letteraria ed era già divenuta maniera un vero meccanismo. Ma il Machiavelli spezza questo involucro e crea il modello ideale della prosa tutta cose e intelletto sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione o del sentimento di una struttura solida sotto un'apparente sprezzatura.

E da quel concetto dovea uscire anche un nuovo criterio della vita e perciò dell'arte. L'uomo e la natura hanno nel medio evo la loro base fuori di sè nell'altra vita; le loro forze motrici sono personificate sotto nome di universali ed hanno un'esistenza separata. Questo concetto della vita genera la Divina Commedia. La macchina della storia è fuori della storia ed è detta “la provvidenza”. Questa macchina è nel mondo boccaccesco il caso o la fortuna. Non ci è più la provvidenza e non ci è ancora la scienza. Il maraviglioso non è più detto miracolo anzi del miracolo si fanno beffe; ma è detto intrigo nodo accidente straordinario. Le passioni i caratteri le idee non sono forze che regolano il mondo sopraffatte da questo nuovo fato la volubile e capricciosa fortuna. Il Machiavelli insorge e contro la fortuna e contro la provvidenza e cerca nell'uomo stesso le forze e le leggi che lo conducono. Il suo concetto è che il mondo è quale lo facciamo noi e che ciascuno è a se stesso la sua provvidenza e la sua fortuna. Questo concetto dovea profondamente trasformar l'arte.

La poesia italiana usciva dal medio evo libera da ogni ingombro allegorico e scolastico ma insieme vuota di ogni contenuto forma pura. Il suo vero contenuto è negativo cioè a dire è il ridere del suo contenuto considerarlo come un giuoco d'immaginazione un esercizio dello spirito. Questo doppio elemento dell'arte è detto dal Cecchi il “ridicolo” e il “grupposo” intendendo per grupposo il nodo l'intreccio la varietà e novità de' casi. Di questo maraviglioso perseguitato dal ridicolo ti dà il Machiavelli splendido esempio nel suo Belfegor. La novella il romanzo la commedia sono il teatro naturale di questa poesia la Divina Commedia dell'arte nuova. Ma nel concetto del Machiavelli la vita non è una farsa della provvidenza e non è il giuoco capriccioso della fortuna ma è regolata da forze o da leggi umane e naturali. Perciò la base dell'arte non è l'avventura o l'intrigo ma il “carattere”; e se volete vedere quello che sarà guardate quali sono gli attori e quali le forze che mettono in giuoco. L'arte non può starsi contenta alla semplice esteriorità e presentare gli avvenimenti come un accozzo fortuito di casi straordinari ma dee forare la superficie e cercare al di dentro dell'uomo quelle cause che sembrano provvidenziali o casuali. Così l'arte non è un vano e ozioso gioco d'immaginazione ma è rappresentazione seria della vita nella sua realtà non solo esteriore ma interiore. E quest'arte che cerca la sua base nella scienza dell'uomo ti dà la Mandragola e la Storia di Firenze e più tardi la Storia d'Italia del Guicciardini e i suoi Ricordi.

A questo modo si realizza questa grand'epoca detta il “Risorgimento” che dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del secolo decimosesto. Da una parte mancati tutti gl'ideali religioso politico morale e non rimasta nella coscienza altra cosa salda che l'amore della coltura e dell'arte il contenuto non ha alcun valore in se stesso e diviene una materia qualunque trattata a libito dall'immaginazione che ne fa la sua creatura e spesso anche il suo gioco un gioco che ha la sua idealità nell'ironia ariostesca e trova la sua dissoluzione nella caricatura della Maccaronea. Mentre l'arte produce i suoi miracoli nella piena indifferenza del contenuto come pura arte un nuovo contenuto si forma e penetra nella coscienza uno studio dell'uomo e della natura in sè stessi che cerca la sua base nell'esperienza e non nell'immaginazione e non nelle vane cogitazioni. Questo senso profondo del reale ti crea la scienza e la prosa e ti segna nella Mandragola un nuovo indirizzo dell'arte.

Se dunque vogliamo studiar bene questo secolo dobbiamo cercarne i segreti ne' due grandi che ne sono la sintesi Ludovico Ariosto e Nicolò Machiavelli.


 

XIII

L' ORLANDO FURIOSO

Ludovico nacque nello stesso anno che Michelangiolo il 1474. Machiavelli Berni Bembo Guicciardini Folengo Aretino i principali personaggi di questa età letteraria nacquero in questo scorcio del secolo a poca distanza di anni: il Machiavelli nel sessantanove il Bembo nel settanta il Guicciardini nell'ottantadue e nel novantaquattro il Folengo e nel novanta Pietro Aretino.

Nel novantotto proprio l'anno che il Machiavelli era eletto segretario del comune fiorentino Ludovico scrivea in prosa le sue due prime commedie. L'uno attendeva alle gravi faccende dello Stato e ne' suoi viaggi in Italia e in Europa attingeva quella scienza dell'uomo e quella pratica del mondo che dovea fare di lui la coscienza e il pensiero del secolo; l'altro faceva il letterato in corte e scrivea sonetti canzoni elegie capitoli commedie tutto nel mondo della sua immaginazione.

Aveva allora ventisei anni. Cinque ne aveva sciupati intorno alle leggi; finchè avuta dal padre licenza si mise con ardore allo studio delle lettere e tutto pieno il capo di Virgilio Orazio Petrarca Plauto Terenzio cominciò a far versi latini e italiani come tutti facevano elegie canzoni odi epigrammi madrigali sonetti epistole epitalami carmi.

Nel '94 quando Carlo ottavo scendeva in Italia il giovane Ludovico scrive un'ode oraziana a Filiroe nome ch'egli appicca ad una contadinella. Carlo minaccia

 

... ... asperi

furore militis tremendo

turribus ausoniis ruinam.

 

E il giovane sdraiato sull'erba e con gli occhi alla sua Filiroe scrive:

 

Rursus quid hostis prospiciat sibi

me nulla tangat cura sub arbuto

iacentem aquae ad murmur cadentis...

Pensa e sente e scrive come Orazio. Il mondo precipita: e che importa? sol che possa andar pe' campi seguire Lida Licori Filli Glaura e cantare i suoi amori:

Est mea nunc Glycere mea nunc est cura Lycoris

Lyda modo meus est est modo Phyllis amor...

 

Antra mihi placeant potius montesque supini

vividaque irriguis gramina semper aquis ...

Dum vaga mens aliud poscat procul este Catones ...

E scrive De puella De Lydia nome oraziano di una sua amata di Reggio De Iulia una cantante De Glycere et Lycori De Megilla e fino De catella puellae imitazione felice di Catullo. Luigi decimo-secondo conquista il ducato di Milano chiamatovi da Alessandro sesto e che importa

... ... si furor Alpibus

saevo flaminis irmpetu

... ... iam spretis quatiat celticus ausones?

 

Che importa servire a re gallo o latino

si sit idem hinc atque hinc non leve servitium?

Barbaricone esse est peius sub nomine quam sub

moribus?

 

Tutti barbari e tutti tristi. E il giovane esclamando: “Improba secli conditio!” e lamentando “clades et Latii interitum

nuper ab occiduis illatum gentibus olim

pressa quibus nostro colla fuere iugo

svolge l'occhio dallo spettacolo e cerca un asilo in Orazio e Catullo. L'anno appresso alla calata di Carlo ottavo l'Ariosto recita l'orazione inaugurale degli studi nel duomo di Ferrara De laudibus philosophiae e poi la reca in esametri. Scrivea pure sonetti canzoni elegie dove si sente lo studio del Petrarca. Nel movantatre a diciannove anni scrive un'elegia per la morte di Leonora d'Aragona moglie del duca di Ferrara. Nell'introduzione si scopre ancora lo studente e il dilettante:

I suoi amori in italiano sono platonici alla petrarchesca; in latino sono sensuali all'oraziana. In latino tiene Megilla tra le braccia e non può credere a' suoi occhi e dice:

An haec vera Megilla

cuius detineor sinu?

Haec haec vera mea est; nil modo fallimur

mi anceps anime: en sume cupita iam

mellita oscula sume

expectata diu bona.

 

Ma in italiano Megilla è “l'alta beltade” che “col suo beato lume illustra e imbianca l'occaso” e l'amante e “nel dir lento e restio” e non descrive perchè “chi descriver puote a pieno il sole?”.

Se avesse potuto apprendere il greco Anacreonte o Teocrito gli avrebbe instillata nell'immaginazione un'altra fraseologia: perchè tutto questo è un gioco di frasi. Ma tutto dietro al latino non pensò per allora al greco:

Morì il padre ch'egli aveva soli ventott'anni e lo lasciò tra sorelle e piccoli fratelli capo della casa: così dovè mutare Omero nel libro de' conti:

Nè potè avere più agio e modo d'intendere “nella propria lingua dell'autore ciò che Ulisse sofferse a Troia e poi nel lungo errore e ciò che scrisse Euripide Pindaro e gli altri a cui le Muse argive donar sì dolci lingue e sì faconde”; perchè venuto in corte fu mandato qua e là oppresso dal giogo del cardinale d'Este:

Fra questi studi e imitazioni uscì la Cassaria una commedia in prosa scritta con tutte le regole della commedia plautina e che parve un miracolo a Ferrara appunto perchè vedevano in italiano quello che erano usi ad ammirare in latino. Ai misteri e alle farse succedea la commedia e la tragedia con tutte le regole dell'arte poetica e con le forme di Plauto e Terenzio. E non solo s'imitava quel meccanismo ma si riproducea lo stesso mondo comico servi parasiti cortigiane padri avari e figli scapestrati. Il giovane autore a quel modo che trasforma le sue contadine in Filli e Licori vive tutto in quel mondo di Plauto e nel suo lavoro d'imitazione perde di vista la società in mezzo a cui si trova. La sua commedia è una ricostruzione non è una creazione e intento al meccanismo si lascia fuggire le più belle situazioni e contrasti comici. Nel Bibbiena e nel Lasca ci è una certa vita che viene dal Decamerone non so che licenzioso e buffonesco conforme allo spirito comico quale s'era sviluppato a Firenze e si sentiva nel Lasca e nel Berni segretario del Bibbiena. Ma l'Ariosto vive fuori di questo ambiente e in un mondo tutto di erudizione e quando vuol essere faceto ti riesce grossolano. Oltrechè essendo quello un mondo di accatto e con caratteri già dati ci sta a disagio e non ci si abbandona e non se lo assimila. Un effetto comico ci è; ed è ne' viluppi negl'intrighi negli equivoci prodotti dal caso o dalla malizia in un imbroglio drammatico che spesso stanca l'attenzione. Ma l'intrigo non basta a sostenere l'interesse quando i caratteri non sieno bene sviluppati e l'intrigo non si trasformi in situazione comica. Trappola Volpino Nebbia Erofilo Lucrano sono esseri insignificanti nè dall'intreccio esce alcuna scena fondamentale dove si raccolga l'interesse. Più tardi scrisse altre commedie intestatosi a farle in versi sdruccioli per rendere l'imitazione latina perfetta parendogli che quel metro rispondesse a capello al giambo. Nè in questa forma sgraziata che vuol essere poesia e non è prosa gli riesce meglio la commedia ancorchè il soggetto alcuna volta potesse convenire a quella società come è il Negromante. Sbagliata la via non si raddrizza più. Un negromante o astrologo che fa mestiere di sua arte e con sue bugie cava quattrini da' gonzi è un argomento popolarissimo e trattato allora da tutt'i novellieri. Il Boccaccio avea messo in iscena il prete o il frate come il prete di Varlungo o frate Cipolla: allora la parte di scroccone e giuntatore era rappresentata dall'astrologo. Il nome era mutato: il motivo comico era lo stesso. Ricordiamoci con che brio ne ha trattato il Lasca in una sua novella. Ci si sente la tradizione e la malizia del Boccaccio e l'ambiente di Firenze dove lo speziale arguto continua il Sacchetti il Pulci il Magnifico. Ma nel Negromante ariostesco senti la società latina dove il servo è più astuto del padrone rappresentata da chi non vi sta in mezzo e non l'intende e la studia su' libri. Cinzio Camillo Massimo sono mummie più che uomini preda facile de' birboni che ci vivono intorno. Sono essi non il principale ma il fondo del quadro la vile moltitudine sulla quale si esercita la malizia de' servi e degli avventurieri. Concetto profondo se l'Ariosto l'avesse trovato lui e ne avesse cavato un mondo comico. Ma ci sta a pigione e senza alcun senso come se fosse cosa naturalissima questo mondo colto al rovescio sì che i servitori ne sappiano più dei padroni e diventino i loro tutori e salvatori come Fazio e Temolo che scoprono e sventano le malizie del negromante. Costui che è il protagonista non è proprio un astrologo com'è nel Lasca e come il prete è prete nel Boccaccio; ma è un birbone matricolato che fa l'astrologo senza crederci punto. Nel Lasca la materia comica è cavata dall'astrologia messa in burla: qui l'astrologia ci sta per comparsa nè da essa escono i mezzi d'azione. Se mastro Iachelino che è il negromante fosse un vero astrologo che mentre vuol farla a' padroni è burlato da' servitori il concetto sarebbe così spiritoso com'è nell'astrologo del Lando di cui si mostra più sapiente un contadino anzi l'asina del contadino. Ma qui l'astrologo è un ignorantaccio che come dice il Nibbio suo servo e confidente mal sapendo leggere e male scrivere fa professione di filosofo di medico di alchimista di astrologo di mago:

Sicchè il tutto si riduce a una gara di malizia tra maestro Iachelino e Nibbio da una parte e Fazio e Temolo che sono i servi dall'altra. Non mancano bei tratti che rivelano nell'autore un ingegno e uno spirito comico non comune. Cinzio racconta al servo le maraviglie del negromante e il servo si beffa del negromante e del padrone ed è in ultimo colui che l'accocca a tutti. Cinzio l'assicura gravemente che sa trasformare uomini e donne in animali. Risponde Temolo:

 - Capisco - dice Cinzio. La poca esperienza che hai del mondo ti fa parlare così. Ma non credi tu dunque che e' possa scongiurare gli spiriti? - E Temolo risponde:

Questo tratto è stupendo d'ironia; è il popolano ignorante che col suo naturale buon senso si prende spasso de' grandi uomini. Bella situazione drammatica è dove Nibbio viste le reti tese a Cinzio a Massimo e a Camillo il più ricco domanda al negromante:

ASTROLOGO

Vedraimi ir beccandole

NIBBIO

Eccoven'una e la miglior: mettetevi

ASTROLOGO

Chi è? Camillo?

NIBBIO

Si.

ASTROLOGO

Si ben; mangiarmelo

E questo Nibbio quando vede scoperte le magagne dell'astrologo egli suo servo confidente e mezzano gli dà il calcio dell'asino e lo ruba e lo pianta lì. Sono bei tratti perduti in un mondo convenzionale e superficiale e poco studiato e abborracciato nei momenti più interessanti. L'autore vi mostra un'attitudine più a narrare ad esporre a descrivere che a drammatizzare. Che uomo sia mastro Iachelino è benissimo esposto in un monologo di Nibbio; ma quando lo si vede in azione lo si trova noioso insipido grossolano molto al di sotto dell'aspettazione.

Ludovico era di coltura al di sotto de' tanti dotti di quel tempo ed anche di alcuni della corte. Il cardinale Ippolito pregiava assai meno i poeti gente oziosa che i suoi staffieri e camerieri e volendo trarre un utile dal nostro poeta ne fece un “cavallaro” mandandolo qua e là in suo servigio. Ludovico ricordandosi la grande amicizia di Leone decimo quando era proscritto con la sua famiglia da Firenze vistolo papa andò a lui pieno di speranza e non ne cavò altro che belle parole. Fu anche in Firenze per commissione della corte ferrarese e la profonda impressione fattagli da quella vista si rivela in una elegia scritta in quell'occasione:

Inviato governatore in Garfagnana alza le strida perchè il cardinale lo abbia tolto a' dolci studi e a' cari amici e spintolo in quel “rincrescevole laberinto”. Da ultimo il cardinale volea trarselo appresso in Ungheria e qui il nostro poeta perde le staffe e dichiara che in Ungheria non vuole andare. Lodare il cardinale in versi sta bene; ma far da comparsa nel suo corteggio questo no:

E lo loda in latino e in volgare e più sfacciatamente in latino:

Quis patre invicto gerit Hercule fortius arma?

Mystica quis casto castius Hyppolito?

 

Ma Ippolito non si curava delle lodi e lo volea servo e non poeta:

Ludovico scrittor di commedie è lui medesimo un carattere de' più comici e se rappresentando un mondo convenzionale è riuscito nelle commedie poco felice è stato felicissimo dipingendo se stesso alla buona e al naturale. Alcune sue qualità te gli affezionano Ama i fratelli e la vecchia madre e per loro si acconcia a servitù rodendo il freno. Il suo ideale è la tranquillità della vita starsene a casa fantasticando e facendo versi vivere e lasciar vivere. Ma il punto è che sia lasciato vivere. Il poveruomo era un personaggio idillico non aveva ambizioni non curava grandezze nè onori; “gli sapeva meglio una rapa” in casa sua che t“ordo o starna o porco selvaggio ”all'altrui mensa:

Ma non è lasciato vivere e ha tra' piedi il cardinale e ne sente una stizza che sfoga con questo e con quello. Qualche rara volta la stizza si alza a indignazione e gli strappa nobili accenti:

Ma sono scarse faville. Non è così rimesso d'animo o cupido d'onori che imiti i cortigiani e sacrifichi la sua comodità per fare a gusto del cardinale; e non è così altero che rompa la catena una buona volta e lo mandi con Dio. Serve borbottando e sfogando il mal umore con una sua propria fisonomia nella scala de' Sancio Panza e de' don Abbondio. E ne nascono situazioni stupendamente comiche. Tale è il suo viaggio a Roma con tante speranze nell'amico Leone. Come lo accoglie bene! Ma sono parole e la sera gli tocca andare a cena sino all'insegna del Montone:

Ora lo prende la stizza e si sfoga descrivendo la cupidità ingorda de' cardinali; ora fa il filosofo come volesse dire: - E quando anche avessi le ricchezze del gran Turco e tre e quattro mitre ne val poi la pena? -

Ora ha aria di scusare il papa. - Poerino! Parenti cardinali che gli diedero “il più bel di tutt'i manti ” amici che lo aiutarono a tornare a Firenze dee dar bere a tanti!

Questa magnifica situazione è sviluppata con ricchezza di motivi e di gradazioni con una perfetta varietà di caratteri e con un'ironia tanto più pungente quanto appare più ingenua e più bonaria. Lo stesso ho a dire di Ludovico fatto governatore che fa un ritratto stizzoso de' suoi amministrati e deplora il tempo sciupato intorno ad essi o di Ludovico che nega di andare in Ungheria o che raccomanda a Pietro Bembo il figlio e gli narra la sua vita e le sue contrarietà i suoi studi. Ci si vede tra la stizza quella specie di rassegnazione delle anime fiacche che significa: - Ma che ci è a fare? Pazienza! - E anche una specie di bonomia che gli fa sciorinare tutt'i suoi difetti come fossero perle. Anche il Berni è così e si fa bello della sua poltroneria; ma carica e buffoneggia con lo scopo di far ridere: dove Ludovico si dipinge tutto al naturale a semplice sfogo del mal umore e meno cerca l'effetto e più l'ottiene. Si ride a spese degli altri e anche un po' a sue spese e senza ch'egli se ne accorga o se ne guardi. In un secolo così artificiato dove per soverchio studio d'imitazione o per conseguire certi effetti artistici si perdeva di vista la realtà della vita Ludovico che scrivendo commedie o canzoni e sonetti petrarcheschi si pone in un mondo convenzionale qui in presenza di se stesso come Benvenuto Cellini crea un carattere comico de' più interessanti perchè non è solo il suo ritratto ma del borghese e letterato italiano a quel tempo nel suo aspetto men reo. Ha visto Roma ha visto Firenze è stato in Lombardia ma il suo mondo non si è ingrandito; il suo centro è rimasto Ferrara; e le sue cure domestiche i suoi umori con la corte i suoi piccoli fastidi i suoi amori le sue relazioni letterarie i suoi interessi privati sono tutta la sua preoccupazione allora appunto che l'Italia era corsa da' barbari e si dibatteva nella sua agonia. Il borghese colto spensierato pigro tranquillo ritirato nella famiglia o tra le allegre brigate è tutto qui con la sua quiete e il suo “ fuge rumores”. Ci è in questo ritratto un po' di Orazio ma l'imitazione è qui natura è somiglianza di anima e di genio. Il riso è puro di amarezza e di disprezzo perchè senti che l'uomo di cui tu ridi è onesto gentile ingenuo inoffensivo ha tutte le qualità amabili delle anime deboli e buone. Non ci è il capitolo e non la satira perchè quell'uomo non si propone di berteggiare nè di censurare ma unicamente di sfogare il suo umore col fratello o l'amico. E perciò la sua narrazione è mescolata di osservazioni facezie motti proverbi movimenti stizzosi d'immaginazione tratti e pitture satiriche e soprattutto di apologhi graziosissimi piccoli capilavori. La terza rima il linguaggio eroico e tragico del medio evo il linguaggio della Divina Commedia e de' Trionfi in questa profonda trasformazione letteraria diviene il linguaggio della commedia il metro del capitolo della satira e della epistola con una sprezzatura che arieggia alla prosa. La parabola si compie in queste epistole dell'Ariosto dove la terzina è profondamente modificata e prende forma pedestre aguzzata e sentenziosa come un epigramma o un proverbio.

La terzina come il sonetto e la canzone era il genere letterario e tradizionale. L'ottava la cui immagine si vede già abbozzata ne' rispetti e ne' canti popolari era il linguaggio de' romanzi delle narrazioni e delle descrizioni recata a perfezione dal Poliziano. Era il linguaggio di moda e popolare. E la terzina sarebbe rimasta come il sonetto e la canzone stazionaria e convenzionale se il Berni e l'Ariosto non le avessero data nuova vita traendola dal cielo e dandole abito conforme al tempo. L'ottava rima cantava; la terzina discorreva berteggiava satirizzava esprimeva la parte prosaica e reale della vita.

Fra tanti fastidi e piccole miserie della vita Ludovico scriveva l'Orlando furioso con molta noia del cardinale Ippolito che vedeva sciupato in quelle “corbellerie” il tempo destinato al suo “servizio”. Il Boiardo interruppe il suo Orlando innamorato proprio allora che calava le Alpi Carlo ottavo per andar “non so in che loco”. Morì qualche anno dopo quando Ludovico traduceva Plauto e Terenzio e scriveva commedie rappresentate magnificamente nel teatro di corte. La gloria dell'Omero ferrarese spronò l'Ariosto a tentar qualche cosa di simile. Cominciò in terza rima una storia epica de' fasti estensi ma smise subito disacconcio il metro alla sua larga vena. E si risolse senz'altro di continuar la storia di Orlando ripigliandola là dove l'avea lasciata il Boiardo. Se ne consigliò col Bembo il quale lo esortò a scrivere il poema in latino. L'Orlando in latino! Il Bembo non capiva cosa fosse l'Orlando innamorato. Ma lo capiva l'Ariosto che di quella lettura facea sua delizia e deliberò senza più di usare lo stesso metro e le stesse forme. Così cansò l'imitazione classica e ricuperò la libertà del suo ingegno. Pose mano al lavoro nel 1505 al suo trentunesimo anno e vi si seppellì per dieci anni e spese tutto il rimanente della vita a emendarlo. Si racconta che andasse sino a Modena in pianelle e non se ne accorse che a metà della via. Altri fatti si narrano della sua distrazione. Che cosa c'era dunque nella sua testa? C'era l'Orlando furioso. Niuna opera fu concepita nè lavorata con maggior serietà.

E ciò che la rendeva seria non era alcun sentimento religioso o morale o patriottico di cui non era più alcun vestigio nell'arte ma il puro sentimento dell'arte il bisogno di realizzare i suoi fantasmi. Ci è ne' suoi fini il desiderio un po' di secondare il gusto del secolo e toccare tutte le corde che gli erano gradite un po' di tessere la storia o piuttosto il panegirico di casa d'Este. Ma sono fini che rimangono accessorii naufragati e dimenticati nella vasta tela. Ciò che lo anima e lo preoccupa è un sentimento superiore che è per lui fede moralità e tutto ed è il culto della bella forma la schietta ispirazione artistica. E lo vedi mutare e rimutare finchè non abbia dato alle sue creazioni l'ultima forma che lo contenti. Da questa serietà e genialità di lavoro uscì l'epopea del Rinascimento il tempio consacrato alla sola divinità riverita ancora in Italia l'Arte.

Ludovico e Dante furono i due vessilliferi di opposte civiltà. Posti l'uno e l'altro tra due secoli prenunziati da astri minori furono le sintesi in cui si compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il medio evo; in Ludovico finisce il Rinascimento.

Ritratto tutti e due della loro età. Dante fu più poeta che artista: all'artista nocquero la scolastica l'allegoria l'ascetismo e la stessa grandezza ed energia dell'uomo. Ci era nella sua coscienza un mondo reale troppo vivo e appassionato e resistente perchè l'arte potesse dissolverlo e trasformarlo. E quel mondo reale era involuto in forme così dense e fisse che il suo sguardo profondo non potè sempre penetrarvi e attingerlo nel suo immediato.

Tutto questo mondo è già sciolto innanzi a Ludovico nella sua realtà e nelle sue forme. È sciolto per un lavoro anteriore al quale egli non ha partecipato. Già nel Petrarca spunta l'artista che si foggia il mondo del suo cuore e se lo compone e atteggia come pittore e ci crede e ci si appassiona e ne sente i tormenti e le gioie. Già nel Boccaccio l'arte si trastulla a spese di quella realtà e di quelle forme. Già su quel mondo è passato il ghigno di Lorenzo e il riso beffardo del Pulci e già vòto il tempio è surta sugli altari la nuova divinità annunziata da Orfeo tra' profumi eleganti del Poliziano. Ludovico non ha niente da affermare e niente da negare. Trova il terreno già sgombro e senza opera sua. Non è credente e non è scettico; è indifferente. Il mondo in mezzo a cui si forma destituito di ogni parte nobile e gentile senza religione senza patria senza moralità non ha per lui che un interesse molto mediocre. Buona pasta d'uomo con istinti gentili e liberi servo non fremente e ribelle ma paziente e stizzoso adempie nella vita la parte assegnatagli dalla sua miseria con fedeltà con intelligenza ma senza entusiasmo e senza partecipazione interiore. Lo chiamavano distratto. Ma la vita era per lui una distrazione un accessorio e la sua occupazione era l'arte. Andate a vedere quest'uomo mezzano e borghese come quasi tutt'i letterati di quel tempo nella sua bontà e tranquillità facilmente stizzoso e che non sa conquistare la libertà e non sa patire la servitù e tutto rimpiccinito e ritirato tra le sue contrarietà e le sue miserie si fa spesso dar la baia per le sue distrazioni e le sue collere; andate a vedere quest'uomo quando fantastica e compone. Il suo sguardo s'illumina la sua faccia è ispirata si sente un iddio. Là su quella fronte vive ciò che è ancora vivo in Italia: l'artista.

Già questo mondo cavalleresco che riempie la sua immaginazione non era stato altro mai in Italia che un mondo di fantasia e visto da lontano. E quando ogni idealità si corruppe molti cercavano ivi quell'ideale di bontà e di virtù che altri trovavano nella vita pastorale: così sorse sulle rovine del medio evo il poema cavalleresco e l'idillio i due mondi poetici o ideali del Rinascimento. Una reminiscenza di quel mondo cavalleresco c'era ma lontana e confusa per le date per i luoghi e per i fatti; sicchè veniva alla coscienza non da tradizioni nazionali ma dalla lettura di romanzi tradotti o imitati. Pure una immagine vicina di quel mondo era nelle corti dove appariva quel non so che signorile e gentile e umano che fu detto “cortesia” e dove spesso si davano spettacoli che richiamavano alla mente quelle forme e que' costumi. Ci era dunque nella coscienza italiana un mondo della cortesia contrapposto al mondo plebeo per la pulitezza delle forme e la gentilezza de' sentimenti; un mondo le cui leggi non erano derivate dal Vangelo nè da alcun codice ma dall'essere cavaliere o gentiluomo; e anche oggi sentiamo dire: “in fè di gentiluomo”. Ci era il codice dell'onore e dell'amore che comprendeva gli obblighi del prode e leale cavaliere. La costanza e fedeltà nell'amore la devozione al suo signore l'osservanza della parola la difesa de' deboli la riparazione delle offese erano gli articoli principali di quel codice il cui complesso costituiva il così detto punto d'onore. Questo è quel mondo della cortesia che nel Decamerone apparisce come il mondo poetico in contrapposto con la rozzezza plebea: e in verità Gerbino e Guglielmo e la figlia di Tancredi e Federigo degli Alberighi sono belle immagini di un mondo superiore per finezza e fierezza di tempra. Ma nelle corti italiane come quelle di Urbino di Ferrara di Mantova era rimasto di quel mondo appena un barlume e più nell'apparenza che nella sostanza anzi non rado avveniva di vedere accoppiata con l'eleganza e la galanteria dei costumi la più sfacciata perfidia come in Cesare Borgia. Un sentimento vero e profondo dell'onore non era dunque parte intima del carattere nazionale e se allora potevano esserci uomini di onore non ci era certo nè un popolo nè una classe dove l'onore fosse regola della vita anzi quegli uomini colti e svegliati erano inclinati a dar dello sciocco a quelli che con loro danno o incomodità osservavano quelle leggi: non era virtù era dabbenaggine e destava quel leggier senso ironico la cui punta è appena dissimulata nell'esclamazione del poeta:

Non ci era dunque in Italia un serio sentimento cavalleresco che potesse ispirare qualche cosa come il Cid; e scaduto ogni sentimento religioso morale e politico l'onore rimaneva senza base e non avea serbate che alcune delle sue qualità superficiali e più brillanti che solide di cui si vede il codice nel Cortigiano del Castiglione. Perciò la cavalleria come la mitologia e come il mondo religioso non era fra noi altro che pura leggenda o romanzo un mondo d'immaginazione che interessava non per il suo ideale ma per la novità la varietà e la straordinarietà degli accidenti. Meno il suo significato era serio e più il suo contenuto era fantastico e licenzioso cancellati tutt'i limiti di spazio e di tempo e di verisimiglianza. Il cantastorie non si proponeva altro scopo che di stuzzicare la curiosità e appagare l'immaginazione intessendo sul vecchio fondo tradizionale cavalleresco le favole più assurde e intrigandole fra loro in modo da tener sospesa e curiosa l'attenzione. Indi quelle forme di narrare bizzarre interrompendo intramettendo ripigliando co' passaggi più bruschi e portando l'incoerenza fino nell'esterna orditura del racconto.

Già cominciava a spuntare una scienza dell'uomo e della natura. L'invenzione della stampa la scoperta di Copernico i viaggi di Colombo e di Amerigo Vespucci gli scritti del Pomponazzi i Discorsi del Machiavelli la Riforma la costruzione solida di grandi Stati come la Spagna la Francia l'Inghilterra erano fatti colossali che rinnovavano la faccia del mondo. Ma le conseguenze non erano ancora ben chiare e il mondo moderno il mondo dell'uomo e della natura o per dirlo in una parola la scienza era ancora come un sole inviluppato di vapori che non danno via a' suoi raggi. E i vapori erano il mondo popolare dell'immaginazione che suppliva alla scienza riempiendo la terra di miracoli. Ogni specie di soprannaturale era accumulata e ammessa il miracolo de' cristiani il prodigio de' pagani gl'incanti de' maghi e delle fate le imposture degli astrologi. L'uomo stesso in mezzo a questa natura fatata e incantata era un attore degno di quel teatro: essere ancora primitivo credulo ignorante abbandonato alle sue inclinazioni e passioni determinato all'azione da sùbiti movimenti anzi che da posata riflessione e che non si ripiega mai in sè non si studia non si conosce è tutto superficie tutto fuori nel tumulto e nel calore della vita. Perciò è piuttosto anch'esso una forza naturale che un essere consapevole una forza tirata e avvolta nel vario gioco degli avvenimenti povera di “carattere” e di “autonomia”.

Nondimeno l'Italia era il paese dove l'uomo come intelligenza era più adulto più formato dall'educazione e dalla coltura e dove il soprannaturale sotto tutte le sue forme non era ammesso che come macchina poetica un gioco d'immaginazione. Perciò se in altre parti di Europa ci era ancora un legame tra il mondo cavalleresco e il mondo reale questo legame era spezzato tra noi e la cavalleria non era che un mondo di pura immaginazione.

Ludovico era tutt'altro che uomo cavalleresco anzi tirava al comico. E quando prese a voler continuare la storia del Boiardo era come un pittore che dipinge con la stessa indifferenza una santa o una ninfa o una fata pur di dipingerla bene. Molti chiedono: - Quale fu lo scopo dell'Ariosto? - Non altro che rappresentare e dipingere quel mondo della cavalleria. Omero canta l'ira di Achille; Virgilio canta Enea; Dante canta la redenzione dell'anima; l'Ariosto non canta l'impresa di Agramante o di Carlo e non le furie di Orlando e non gli amori di Ruggiero e Bradamante: l'impresa di Agramante è per lui come un punto fisso intorno al quale si sviluppa il mondo cavalleresco non lo scopo ma il tempo e il luogo nel quale si mostra quel mondo. Egli canta le donne e i cavalieri le cortesie e le audaci imprese che furono “a quel tempo” che Agramante venne in Francia. Le furie di Orlando e gli amori di Ruggiero sono non episodi appunto perchè non ci è un'azione unica e centrale ma parti importanti di quell'immensa totalità che dicesi mondo cavalleresco. L'unità è dunque non questa o quella azione e non questo o quel personaggio ma è tutto esso mondo nel suo spirito e nel suo sviluppo nel tal luogo e nel tal tempo. Se l'impresa di Agramante fosse non il semplice materiale dove si sviluppa il mondo cavalleresco ma una vera e seria azione lo scopo del poema e se Orlando e Ruggiero fossero episodi in quest'azione il romanzo sarebbe così difettoso come difettosa sarebbe la Divina Commedia a volerla giudicare con lo stesso criterio. Belli questi episodi che invadono l'azione e la soperchiano! Bella quest'azione che ha i suoi accidenti più importanti fuori del poema nella storia del Boiardo e che ispira un interesse molto mediocre al poeta il quale se ne ricorda solo allora che ha bisogno di raccogliere le fila troppo sparse in un centro e volentieri e per lungo tempo se ne dimentica e finita essa continua senza di essa! Unità d'azione ed episodi sono un linguaggio convenzionale venutoci da Aristotile e da Orazio e sarebbe cosa assurda a volerlo applicare al mondo cavalleresco. Perchè l'essenza di quel mondo è appunto la libera iniziativa dell'individuo la mancanza di serietà di ordine e di persistenza in un'azione unica e principale sì che le azioni si chiamano avventure e i cavalieri si dicono erranti. Staccarsi dal centro andare vagando e cercare avventure è lo spirito di un mondo che ripugna così alla unità come alla disciplina. Volere organizzare questo mondo co' precetti di Orazio e di Aristotile è un volerlo falsificare. Il disordine qui è ordine e la varietà è unità. Come l'unità del mondo nella sua infinita varietà è nel suo spirito o nelle sue leggi così l'unità di questa vasta rappresentazione è nello spirito o nelle leggi del mondo cavalleresco.

La forza centripeta è assai fiacca in questo mondo della libertà e dell'iniziativa individuale; e ci vuole l'angiolo Michele o il demonio per tirare i cavalieri erranti a Parigi dove si combatte. E non ci si trovano che un par di volte e appena una giornata; chè il dì appresso corrono di nuovo dietro a' fantasmi delle loro passioni tirati da amore da vendetta da gloria e vaghi tutti di avventure strane e maravigliose. La stessa impresa di Agramante non è un fatto religioso o politico ma anch'essa una grande avventura cagionata dal desiderio della vendetta. Parigi è un punto stabile dove stanno a offesa e difesa con gli eserciti Carlo e Agramante; ma i loro paladini e cavalieri la più parte re e signori vanno discorrendo per il mondo e Parigi non è che un punto di convegno dove il racconto si raccoglie alcuna volta e si riposa e di cui si vale il poeta per comporre e annodare le fila in certi grandi intervalli. Perchè al di sopra di quest'anarchia cavalleresca ci è uno spirito sereno e armonico che tiene in mano le fila e le ordisce sapientemente e sa stuzzicare la curiosità e non affaticare l'attenzione cansare in tanta varietà e spontaneità di movimenti il cumulo e l'imbroglio ricondurti innanzi improvviso personaggi e avvenimenti che credevi da lui dimenticati e nella maggiore apparenza del disordine raccogliere le fila egli solo tranquillo e sorridente in mezzo al tumulto di tanti elementi cozzanti. Parigi è il principal nodo dell'ordito è come un faro che di tanto in tanto brilla e illumina tutto intorno. La scena si apre a Parigi appunto allora che le genti cristiane hanno avuto una gran rotta. E allora appunto quando il bisogno è maggiore Rinaldo Orlando Brandimarte vanno via. Rinaldo corre dietro a Baiardo Orlando corre dietro ad Angelica e Brandimarte corre dietro ad Orlando. Vi trovate già in pieno mondo cavalleresco: vi si sviluppano le avventure. E mentre essi corrono Agramante mette il fuoco a Parigi e Rodomonte vi entra solo e vi sparge il terrore. Parigi è salvato perchè una pioggia miracolosa spenge l'incendio e Rinaldo guidato dall'angiolo Michele giunge proprio a tempo e disfà i pagani. Agramante che assediava è assediato. I cavalieri pagani sono anche erranti. Ferraù cerca Orlando a cui ha giurato di toglier l'elmo; Gradasso cerca Rinaldo a cui vuol togliere Baiardo; Sacripante cerca Angelica; Marfisa Rodomonte Ruggiero Mandricardo contendono e pugnano tra loro. Riesce al demonio di farli correre appresso al ronzino di Doralice che li tira seco a Parigi. Giungono e disfanno i cristiani. Ma il dì appresso si raccende la discordia e vengono alle mani. Mandricardo è ucciso da Ruggiero; Marfisa e Rodomonte lasciano per ira il campo; e chi rimane? Rinaldo tra' cristiani Ruggiero tra' pagani. Un duello tra Rinaldo e Ruggiero dee porre fine alla guerra. Ma Agramante rompe i patti è disfatto la sua flotta è dispersa da' nemici e da' venti e vede di lungi la sua patria arsa da' cristiani. Il poema cominciato a Parigi si termina a Parigi con le nozze di Ruggiero e la morte di Rodomonte. Parigi è il legame esteriore del racconto ma non ne è l'anima o il motivo interiore. Il motivo è lo spirito di avventura e la soddisfazione degli appetiti l'amore o il punto d'onore o il maraviglioso che tirasi appresso il cavaliere quando non sia sviato e impedito da forze soprannaturali. Il soprannaturale è qui come semplice macchina o forza senza personalità; e forze sono e non persone Michele e il demonio e la Discordia e Atlante e Melissa. È un soprannaturale privo di ogni aureola e prestigio e tali sono pure le spade e gli scudi incantati e gli anelli fatati e gl'ippogrifi e la lancia di Argalìa e il corno di Astolfo e simili storie viete e note che lasciano fredda l'immaginazione del poeta. Si è così avvezzi a questo soprannaturale che ci si sta dentro come in un mondo ordinario; quel fantastico in permanenza uccide se stesso e perde le sue punte e i suoi colori; se interesse ci è non è in quello ma negli effetti tragici o comici che sa cavarne il poeta come sono gli effetti comici del corno di Astolfo. Tra questo mondo soprannaturale vive una forza indisciplinata e quasi ancora primitiva nelle varie sue gradazioni dal mostro e dal gigante e dal pagano sino al cavaliere cristiano il cui modello è nel codice di onore e che rappresenta la civiltà e il progresso nella comune barbarie.

I motivi spirituali di questo mondo l'amore l'onore e il maraviglioso o lo spirito di avventura sono dal poeta portati a quell'ultimo punto che confina col ridicolo: l'amore toglie il senno ad Orlando ed imbestia Rodomonte; il punto d'onore degenera in puntiglio e produce i più strani effetti la cui immagine tragica è Mandricardo e il cui modello comico è Rodomonte nelle sue imprese sul ponte; il maraviglioso ti conduce sino alla soglia dell'inferno e nel paradiso terrestre e nel regno della Luna. Il mondo cavalleresco ne' suoi motivi interni è spinto all'ultima punta. Se l'elemento soprannaturale è fiacco e la stessa Alcina pare quasi più una personificazione allegorica che una verace persona poetica vivacissima è al contrario la pittura degli avvenimenti determinati da forze naturali e umane che abbracciano tutto il circolo della vita nelle sue varie e contrarie apparenze. Vi si sviluppano profonde combinazioni estetiche serie e comiche; come è Angelica che finisce moglie di un povero fante la pazzia di Orlando la peregrinazione di Astolfo nella Luna la discordia nel campo di Agramante Agramante in vista di Biserta e Gradasso fatato che guerreggiando tutta la vita per avere Baiardo e Durlindana quando le ha ottenute e si crede felice è ammazzato da Orlando. Reminiscenza di Achille è Ruggiero liberato dagli ozi del castello incantato e dalle delizie di Alcina e riuscito il più perfetto modello di cavaliere. Intorno a queste grandi combinazioni si aggruppano fatti minori che danno il finito e il contorno a questo mondo nelle sue più lievi sfumature come è la morte di Zerbino e il lamento d'Isabella Olimpia abbandonata la morte e le esequie di Brandimarte le avventure di Grifone Dudone Marfisa e le scene comiche di Martano di Gabrina e di Giocondo. Quantunque un mondo così fatto abbia un aspetto fuori dell'ordinario e si discosti tanto da' costumi e dal sentire del suo tempo pure Ludovico ci sta così a suo agio e ne ha sì vivamente impressa l'immaginazione che te lo dà alla luce con tutt'i caratteri di una vita presente e reale. E qui è il maraviglioso del genio ariostesco rappresentare un mondo così straordinario con semplicità e naturalezza. Le condizioni di esistenza sono veramente fantastiche sino all'assurdo; ma una volta ammesse quelle basi il movimento storico diviene profondamente umano e naturale. Si vegga con che fine gradazioni psicologiche è condotto Orlando sino a perdere il senno con che scala intelligente è rappresentato il dolore di Olimpia o la discordia de' pagani nel campo di Agramante. Perciò tutti quei personaggi ti stanno innanzi vivi e non puoi dimenticarli più. Alcuni anzi son divenuti caratteri comici proverbiali come Rodomonte Gradasso Sacripante Marfisa. Il poeta non s'intromette niente nella sua storia e più che attore è spettatore che gode alla vista di quel mondo quasi non fosse il mondo suo il parto della sua immaginazione. Indi quella perfetta obbiettività e perspicuità del mondo ariostesco che è stata detta chiarezza omerica. L'arte italiana in questa semplicità e chiarezza ariostesca tocca la sua perfezione ed è per queste due qualità che l'Ariosto è il principe degli artisti italiani dico “artisti” e non “poeti”. Non dà valore alle cose slegate dalla realtà e puro gioco d'immaginazione; ma dà un immenso valore alla loro formazione e intorno vi si travaglia con la maggiore serietà. Non ci è così piccolo particolare che non tiri la sua attenzione e non abbia le sue ultime finitezze. Appunto perchè l'interesse è non nella cosa ma nella sua forma la maniera sobria e comprensiva di Dante è abbandonata e non hai schizzi hai quadri finiti. Ciò che nel Decamerone ti dà il periodo qui te lo dà l'ottava di una ossatura perfetta e congegnata a modo di un quadro col suo protagonista i suoi accessorii e il suo sfondo. Il Poliziano ti dà una serie di cui lascia il legame all'immaginazione: l'Ariosto ti dà un vero periodo così distribuito e proporzionato che pare una persona. E l'effetto è non solo in quella ossatura materiale così solida e bene ordinata ma in quell'onda musicale in quella superficie scorrevole e facile che ti fa giungere all'anima insieme coi fatti i loro motivi e i loro affetti. Nel secolo de' grandi pittori quando l'immaginazione italiana mirava a dare all'immagine tutta la sua finitezza l'Ariosto è pittore compìto che non ti lascia l'oggetto finchè non ne abbia fatto un quadro. E non è che cerchi effetti di luce o di armonia straordinari o lusso di colori e di accessorii: non ci è ombra di affettazione o di pretensione; ci è l'oggetto per se stesso che si spiega naturalmente. Il poeta fissa l'esteriorità nel punto che è viva quando cioè è atteggiata così o così per movimenti interni o esteriori e non osserva non riflette non la scruta non l'interroga non cerca al di dentro non la palpa non la maneggia per volerla abbellire. Nessun movimento subbiettivo viene a turbare l'obbiettività del suo quadro; nessun movimento intenzionale. Non ci è il poeta ci è la cosa che vive e si move e non vedi chi la move e pare si mova da sè! Questa sublime semplicità nella piena chiarezza della visione è ciò che il Galilei chiamava a ragione la “divinità” dell'Ariosto. E non è solo nel minuto ma nelle grandi masse. La sua vista rimane tranquilla e chiara ne' più bruschi e complicati movimenti d'insieme. Indi è che dipinge duelli battaglie giostre feste spettacoli paesaggi castella con quella purezza e semplicità di disegno che dipinge le cose minime. Nelle ottave del Poliziano la superficie non ha più nulla di scabro ma ti accorgi che è stata strofinata leccata lisciata e si vede l'intenzione dell'eleganza. Qui la superficie è così naturalmente piana che ti par nata a quel modo e che non possa essere altrimenti. Pigliamo ad esempio la rosa:

Qui la rosa m'ha aria di una fanciulla civettuola che prende questa o quell'attitudine per parer vezzosa. L'“incappellarsi” lo “sportello” quell'“ardere in dolce foco” sono immagini appiccatele da immaginazione umana. È la rosa non nella sua naturalezza immediata ma come pare all'uomo. Ci si vede il lavoro dello spirito che l'orna e la vezzeggia la rosa passata attraverso lo spirito e uscitane trasformata. Vedi ora nell'Ariosto la rosa

Questa è la storia o il romanzo della rosa. Il poeta ha aria non di descrivere ma di raccontare e ti pone innanzi la cosa nella sua verità naturale sì che niente paia oltrepassato esagerato o trasformato. L'“alba rugiadosa” il “ceppo verde” la “nativa spina” i “gioveni vaghi” le “donne innamorate” i “seni e le tempie” il “gregge e il pastore” sono tutte immagini naturali distinte plastiche obbiettive prodotte da una immaginazione impersonale assorbita dallo spettacolo. E guarda alla movenza dell'ottava con tanta semplicità che l'ultimo verso par ti caschi per terra come vil prosa a quel modo che è cascata la rosa da quella sua altezza verginale. Gli è che qui eleganza armonia colorito non vengono da alcun preconcetto dello spirito ma sono la forma stessa delle cose non il loro ornamento o la loro veste ma la loro chiarezza. Come le cose minime così le grandi masse sono disegnate con la stessa perspicuità e purezza. Fra tante battaglie e duelli e incanti e paesaggi non trovi mai ripetizioni o reminiscenze perchè ciascuna cosa è come un individuo perfettamente distinto e caratterizzato. Quadro piccolo o grande che sia prende la sua movenza e il suo colore dalla cosa rappresentata e però ciascun quadro è in sè distinto e compìto condotto e disegnato negli ultimi particolari. Lo spirito ne' suoi preconcetti è limitato e produce la “maniera” che ti pone innanzi non la cosa vista ma il modo di guardarla la visione: e perciò facilmente imitabili sono i poeti subbiettivi ne' quali prevale la maniera come il Petrarca il Tasso il Marino e simili. Al contrario inimitabile è l'Ariosto che non ha maniera perchè è tutto obbliato e calato nelle cose e non ha un guardare suo proprio e personale. Anzi egli ha una perfetta bonomia un'aria di raccontare alla schietta e alla buona come le cose gli si presentano senza mettervi niente di suo. Ha un ingegno poroso che riceve e rende le cose nella evidenza e distinzione della loro personalità senza che esse trovino ivi intoppo o alterazione. Perciò il suo ingegno è trasmutabile in tutte guise non secondo il suo umore ma secondo la varia natura delle cose. Con la stessa facilità e sicurezza vien fuori l'eroico il tragico il comico l'idillico il licenzioso come qualità naturali delle cose anzi che del suo spirito. Di che viene l'evidenza miracolosa di questo mondo nella sua infinita varietà e libertà e la sua serietà artistica nel suo insieme e nelle minime parti. L'evidenza è in quel coglier gli oggetti vivi cioè in azione e metterti innanzi tutti gli accessorii essenziali anch'essi in azione cioè come movimenti attitudini o motivi accessorii che Dante fa indovinare e che qui si sviluppano nelle larghe pieghe dell'ottava. E perchè gli oggetti sono còlti in azione o in movimento le descrizioni sono rare e sobrie e appena accennati i caratteri e i paesaggi che sono l'uomo e la natura nel loro stato d'immobilità e abbozzate le intramesse e le commettiture e le circostanze facilmente intelligibili e gli antecedenti richiamati brevemente e l'azione colta nel momento più interessante e condotta innanzi con le vele gonfie e con prospero vento. Mai non ti accade d'impaludare o di deviare: come in questo mondo par che non esistano limiti di spazio o di tempo così nello stile non trovi intoppi o ingombri e sei in acqua limpida e corrente. Tutto è succo e pieno di senso. Niente ci sta in modo assoluto: tutto è relativo e intenzionale e concorre all'effetto ora serio ora comico. L'effetto è quale te lo può dare un mondo di sola immaginazione al quale il poeta non prende altra partecipazione che artistica che non ha alcuna relazione con le sue passioni e i suoi sentimenti. L'effetto è una viva curiosità sempre nutrita e accompagnata spesso da una tranquilla soddisfazione come chi sa di sognare e gli piace e tiene gli occhi mezzo chiusi immerso in quella contemplazione. Il sogno gli piace pure non dice nulla al suo cuore e alla sua mente: è un dolce ozio dell'immaginazione. È un flutto d'immagini così vive e limpide così naturali e così espressive che ti tengono a sè e non ti concedono alcuna distrazione; e ti giungono portate da onde sonore tra colori e tra mormorii che dilettano la vista e suonano deliziosamente nell'orecchio. Quel mondo è il tuo rêve o per dirla con linguaggio tolto a quel mondo è il tuo castello incantato il tuo sogno dorato. L'impressione non è così profonda che oltrepassi l'immaginazione e colpisca il tuo essere in ciò che di più serio ha il pensiero o il sentimento. La più gagliarda impressione ti suscita appena una emozione nuvoletta nel suo formarsi già sciolta in quel limpido cielo. Di queste nuvolette leggiere appena disegnate è sparso il racconto e sono movimenti subitanei che provocano una risata o una lacrima immediatamente repressi e trasformati. Eccone qualche esempio:

Così subitanee e così fugaci sono le tue emozioni quando ti balzano innanzi certe immagini tenere. Si sveglia subito nel tuo cuore qualche cosa che si move e che non puoi chiamare ancora “sentimento” quando una nuova immagine ti avverte del gioco e ricaschi nella tranquillità della tua visione. Una delle creature più simpatiche dell'Ariosto è Zerbino e quando gli giunge addosso la spada di Mandricardo ci è nel nostro cuore un piccol movimento che risponde ai palpiti della sua Isabella; ma il poeta con una galanteria piena di grazia paragona la lunga e non profonda ferita al nastro purpureo che partisce la tela d'argento ricamata dalla sua bella e spenge in sul nascere quel movimento. La morte di Zerbino è una scena molto tenera il cui sentimento troppo straziante è rintuzzato da immagini graziosissime. Isabella è china sul morente: il poeta la guarda e la trova pallidetta come rosa:

Zerbino morendo nella sua disperazione manda un ultimo sguardo pieno di passione all'amata:

Talora è una sola circostanza ben collocata che dal sentimentale ti gitta nell'immagine:

A quest'ufficio adempiono specialmente i paragoni che nel più vivo dell'emozione te ne distraggono e ti presentano un altro oggetto. Sacripante nel suo dolore paragona la verginella alla rosa. Angelica incalzata da Rinaldo pare una cavriola fuggente che abbia veduta la madre sotto i denti del pardo:

L'“impasto leone” l'“uscito di tenebre serpente” l'“orsa assalita nella petrosa tana” il “vase a bocca stretta e a lungo collo onde l'acqua esce a goccia a goccia” e simili spettacoli non nuovi e non originali come presso Dante ma di apparenze e movenze vivacissime sono gagliarde diversioni e distrazioni che riconducono la vita al di fuori anche nel maggiore strazio della passione. Veggasi nel canto quarantacinquesimo il lamento di Bradamante che è una vera canzone elegiaca sparsa di amabili paragoni. Quell'occhio vagante che cerca se stesso nella natura ha già rasciutte le lacrime. Onde nasce quel tono generale del sentimento più vicino all'elegiaco e all'idillico che all'eroico e al tragico; ciò che è conforme non pure alla natura impressionabile e tenera del poeta ma alla stessa tendenza dell'arte dal Petrarca in qua. Anche la natura rimane tutta al di fuori e non ti cerca l'anima com'è il giardino di Alcina e il paradiso terrestre. Ci è l'immagine non ci è il sentimento:

Qual è il suono che manda questa natura? Quali impressioni? Quali ispirazioni? Astolfo fra tanta bellezza guarda e passa e non gli si move il core che di maraviglia alla vista di un muro che è tutto di una gemma

Non hai dunque il sentimento della natura come non hai il sentimento della patria della famiglia dell'umanità e neppure dell'amore dell'onore. In luogo del sentimento hai la sentenza morale che è la sua astrazione il sentimento naturalizzato e cristallizzato in bei versi come:

dar facile credenza a quel che vuole.

 

Ecco magnifiche sentenze intorno all'amore:

Queste sentenze non sono osservazioni profonde e originali ma luoghi comuni assai bene versificati che non lasciano alcun vestigio di sè. Il sentimento ora condensato in una sentenza ora tradotto in una immagine appena nato si dissolve. Non mancano tratti sentimentali come è la risposta di Dardinello a Rinaldo o di Agramante a Brandimarte o i lamenti di Olimpia o di Orlando o di Cloridano così musicali ed elegiaci; ma stanno come inviluppati in quel mare fantastico e naufragati sotto a quei flutti d'immagini. Sono voci d'angoscia e di passione che prima di giungere a noi già si confondono col rumore delle onde e diventano visibili: sono immagini Un ultimo esempio ce lo dà Orlando che piangendo e chiamando Angelica la paragona ad un'agnella smarrita e ci fa intorno de' ricami.

In una società così poco sentimentale così superficiale e mobile e così ricca d'immaginazione come povera di coscienza si può concepire quale viva ammirazione dovessero destare questi quadri plastici. La nuova letteratura iniziata in quei giri musicali del Decamerone si contemplava e si ammirava in queste flessuose ottave dove la vita nella sua rapida vicenda è così palpabile e così limpida “Procul este profani.” Nessuna ombra del reale nessuno spettro del presente nessuna voce profonda del cuore o della mente venga a turbare questa danza serena. Siamo nel regno della pura arte: assistiamo a' miracoli dell'immaginazione. Il poeta volge le spalle all'Italia al secolo al reale e al presente e naviga come Dante in un altro mondo e quando dalla lunga via ritorna si circonda come d'una corona di poeti e di artisti vera immagine di quella Italia madre della coltura e dell'arte a cui egli presentava l'Orlando. Ma Dante si traeva appresso nell'altro mondo tutta la terra: la patria lo inseguiva anche colà co' suoi fantasmi. Ludovico naviga con la testa scarica e il cuore tranquillo come un pittore che viaggia e dipinge quello che vede. Ciò che gli fa tremare la mano ciò che gli fa battere il cuore è questo solo pensiero: “Quello che mi sta nella testa quello che io vedo così bene qua dentro uscirà così sulla tela?”. E tocca e ritocca sino alla morte scontento inquieto: perchè non è tranquillo chi ha qualche cosa a realizzare sulla terra. Ciò che Ludovico ha a realizzare non è questo o quel contenuto nella sua realtà e serietà. Il mondo cavalleresco è per lui fuori della storia libera creatura della sua immaginazione. Ciò che ha a realizzare in quello è la forma la pura forma la pura arte il sogno di quel secolo e di quella società la musa del Risorgimento. Ed ha tutte le qualità da ciò. Ha sensibilità più che sentimento; ha impressioni ed emozioni più che passioni; ha vista chiara più che profonda; ha l'anima tranquilla sgombra di ogni preoccupazione piena di fantasie allegra nella produzione e tutta versata al di fuori nei suoi fantasmi. È lo spirito non ancora consapevole che vive al di fuori e si espande nel mondo e s'immedesima con quello e lo riflette puro con brio giovanile. Così è venuto fuori quasi di un getto quasi per generazione spontanea questo mondo cavalleresco sorriso dalle Grazie di una freschezza eterna tolto alle ombre e a' vapori e a' misteri del medio evo e illuminato sotto il cielo italiano di una luce allegra e soave. Niente è uscito dalla fantasia moderna che sia comparabile a questo limpido mondo omerico. Il Risorgimento realizzava il suo sogno la nuova letteratura avea trovato il suo mondo.

E che cosa volea questa nuova letteratura? Non volea già questo o quel contenuto. Era scettica e cinica e credeva solo all'arte. E l'Ariosto le dava questo mondo dell'arte in un contenuto di pura immaginazione.

Ma non ci accostiamo molto a questa bella esteriorità. Se ci mettiamo sopra la mano la ci fugge come ombra e se guardiamo al di sotto pare non ci sia nulla. Quando leggi Omero senti uscirne non sai come le mille voci della natura che trovano un'eco nelle tue fibre e sembrano le tue voci le voci della tua anima. Gli è che ivi la forma è esso medesimo il contenuto e il contenuto sei tu è vita della tua vita è sangue del tuo sangue. Qui il contenuto è un giuoco della immaginazione e non ti ci profondi e non ti ci appassioni appunto perchè hai il sentimento che è un giuoco. Talora sta per spuntarti la lacrima quando ti svegli di un tratto e scoppi in una risata.

Pare ma non è vero che al di sotto di questa bella esteriorità non ci è nulla. Al di sotto ci è Momo ci è lo spirito di Giovanni Boccaccio.

L'elemento dell'arte negativo e dissolvente avea già percorso tutto il suo ciclo a Firenze giunto sino alla pura buffoneria. Il Boccaccio il Sacchetti il Magnifico il Pulci il Berni hanno il proposito espresso della caricatura hanno innanzi un mondo reale di cui mettono in rilievo il lato comico. L'Ariosto non ha intenzione di mettere in gioco la cavalleria come fece il Cervantes e nel suo mondo s'incontrano episodi comici e anche licenziosi e anche grotteschi come la Gabrina con la stessa indifferenza che s'incontrano episodi tragici ed elegiaci. Ma se il suo riso non è intenzionale non è neppure un semplice mezzo di stile per divertire i lettori buffoneggiando come fece poi il Berni nel suo Orlando. Il suo riso è più serio e più profondo.

È il riso dello spirito moderno diffuso sul soprannaturale di ogni qualità; è se non ancora la scienza il buon senso generato da un sentimento già sviluppato del reale e del possibile è il riso precursore della scienza.

Ludovico è innanzi tutto un artista. A questo mondo cavalleresco egli non ci crede; pur se ne innamora ci si appassiona ci vive entro ne fa il suo mondo più serio a lui che tutto il mondo che lo circonda. Ma è un amore un interesse semplicemente di artista. La sua immaginazione se lo assimila ne acquista una piena intelligenza fa e disfà compone e ricompone con assoluta padronanza come materia di cui conosce tutti gli elementi e che atteggia e configura a suo genio. La materia in Dante così resistente e scabra qui perde i suoi angoli e le sue punte e come cera riceve tutte le impressioni. L'immaginazione le si accosta sgombra di ogni preconcetto e di ogni intenzione e vi si cala e vi si obblia e pare non sia altro che la stessa materia. Il creatore è scomparso nella creatura. L'obbiettività è perfetta. Ma guarda bene e vedrai sulla faccia di quella creatura la fisonomia poco riverente di colui che l'ha creata e che in certi momenti pare si burli della tua emozione e ti squadri la mano. Non sai se è di te che si burli o della sua creatura e a ogni modo ci mette una grazia che gli daresti un bacio. La burla ti coglie improvviso nella maggiore serietà della rappresentazione. Una barzelletta un motto ti disfà in un istante le creazioni più interessanti e ti avviene così spesso che non ti abbandoni più e prendi guardia e ti avvezzi a poco a poco a quell'ambiente equivoco nel quale si aggira quel mondo. Quando l'autore sembra interamente scomparso nella sua creazione tu non te la lasci fare e sai che un bel momento metterà fuori il capo e ti farà una smorfia. Di sotto a quella obbiettività omerica si sviluppa di un tratto sotto forma d'ironia l'elemento subbiettivo e negativo.

Cosa è dunque questo mondo? È la sintesi del Risorgimento nelle sue varie tendenze. È il medio evo il mondo chiamato “barbaro” il passato rifatto dall'immaginazione e disfatto dallo spirito. Ci è lì dentro quel sentimento dell'arte quel culto della forma e della bellezza quella obbiettività di una immaginazione giovane ricca analitica pittoresca che caratterizza la nuova letteratura che genera i miracoli della pittura e dell'architettura e che lì giunge alla sua perfezione congiunta con lo splendore e con l'armonia la massima semplicità e naturalezza di disegno. E c'è insieme quell'intimo senso dell'uomo e della natura o del reale che ti atteggia il labbro ad un ghigno involontario quando ti vedi sfilare innanzi un mondo fuori della natura e fuori dell'uomo generato dalla tua immaginazione. Tu ammassi le nuvole; tu le configuri; tu formi i magnifici spettacoli; e tu te la ridi perchè sai che quel mondo sei tu che lo componi e non ci vedi altra serietà se non quella che gli dà la tua immaginazione. Tu sei a un tempo fanciullo e uomo. Come fanciullo senti bisogno di esercitare la tua immaginazione e formi soldati e castelli e ci fantastichi intorno; ma ecco sopraggiungere l'uomo che ti fa un ghigno e quel ghigno vuol dire: - Sono soldati e castelli di carta. - La cultura è nel suo fiore l'immaginazione è nel maggior vigore della sua espansione ed opera i più grandi miracoli dell'arte; ma lo spirito è già adulto materialista e realista incredulo ironico e si trastulla a spese della sua immaginazione. Questo momento dello spirito moderno che ricompone il passato non come realtà ma come arte e appunto perchè semplice gioco d'immaginazione o arte pura lo perseguita della sua ironia è la vita interiore del mondo ariostesco è il suo organismo estetico. Prendi un quadro di Raffaello ed un sonetto del Berni ed avrai accentuati gli estremi tra' quali erra questa unità superiore dove sono fusi e contemperati ciò che è troppo ideale nell'uno e ciò che è troppo grossolano nell'altro. La quale fusione è fatta con gradazioni così intelligenti e con passaggi così naturali e il lettore fin dal principio vi è così ben preparato che non hai dissonanze o stonature e niente ti urta perchè il poeta opera senza coscienza o intenzione e concepisce a quel modo naturalmente ed è lui medesimo l'unità che comunica al suo mondo.

Vedi come concepisce. Il protagonista non è il savio Orlando ma Orlando matto e furioso. Questo tipo della cavalleria così trasformato è già una concezione ironica. Ma guarda ora come vien fuori questa concezione. Il momento della pazzia è rappresentato con tale realtà di colorito che la tua illusione è perfetta. Ci si vede una profonda conoscenza della natura umana nelle sue più fine gradazioni. È un “crescendo” di particolari e di colori che ti rendono naturalissimo un fatto così straordinario. Venuto in furore e matto il poeta te lo abbandona alle risate del pubblico. Ad una scena tenera succede la più schietta allegrezza comica la caricatura spinta sino alla buffoneria. Anche il modo come Orlando riacquista il senno ha un profondo senso comico. Secondo le tradizioni del medio evo l'uomo non può trovare la pace che nell'altro mondo. È la base della Divina Commedia. Il poeta materializza questo concetto e lo rende comico cavandone la bizzarra concezione che ciò che si perde in terra si ritrova nell'altro mondo. Di qui il viaggio di Astolfo sull'ippogrifo nell'altro mondo che è una vera parodia del viaggio dantesco. Il fumo e il puzzo gl'impedisce di entrare nell'inferno; ma all'ingresso trova le prime peccatrici punite come Lidia per la soverchia crudeltà verso gli amanti. È il concetto della Francesca da Rimini preso a rovescio e divenuto comico. Poi sale al paradiso terrestre e in un bel palagio di gemme trova san Giovanni evangelista Enoch ed Elia che gli danno alloggio in una stanza e provvedono di buona biada il suo cavallo e a lui danno frutti di tal sapore

Astolfo vi trova buon cibo buon riposo e “tutt'i comodi”. È il paradiso terrestre materializzato. Di là “uscito del letto” con san Giovanni ascende sulla Luna. Qui la parodia prende forma satirica senza fiele e in aria scherzosa. In un vallone è ammassato ciò che in terra si perde:

Per comprendere questa ironia bisogna ricordare che la Luna era come un castello di Spagna o un castello in aria nelle idee popolari e anche oggidì uno che vive nelle astrattezze si dice che “sta nel regno della luna”. Là si trova in varie ampolle un liquore sottile e molle che è il senno che si perde in terra.

Chiama sofisti i filosofi e li mette a un mazzo con gli astrologhi e i poeti. Dove il medio evo vedea il maggior senno egli vede vacuità e astrazione. La fine è di una schietta allegria:

L'ironia colpisce anche Angelica la figliuola del maggior re del Levante l'amata di Orlando di Rinaldo di Sacripante di Ferraù che finisce moglie di un “povero fante”. La scena comincia nel Boiardo con le più eroiche apparenze della cavalleria giostre tornei duelli con Carlomagno circondato de' suoi paladini tra il fiore de' cavalieri di Francia di Spagna di Lamagna d'Inghilterra tra cui pompeggia la figura di Angelica la reina del racconto; e va a finire in un idillio negli amori di Angelica e Medoro. Ciò che nel Boiardo ha proporzioni epiche e cavalleresche soprattutto nelle battaglie di Albracca passando nel cervello di Ludovico si trasforma in una concezione ironica.

Anche nella guerra tra Carlo e Agramante unità esteriore e meccanica del poema la cavalleria è guardata da un aspetto comico. Il lato eroico della cavalleria è l'individualità quella forza d'iniziativa che fa di ogni cavaliere l'uomo libero che trova il suo limite in se stesso cioè a dire nelle leggi dell'amore e dell'onore a cui ubbidisce volontariamente. Togli il limite e l'iniziativa individuale diviene confusione e anarchia l'eroico divien comico. Il cavaliere non ubbidisce più che a' suoi istinti e passioni; si sviluppa in lui la parte bestiale nascono collisioni e attriti del più alto effetto comico. Il concetto è già adombrato con brio nel ritratto della Discordia capitata da san Michele in un convento di frati “tra santi ufficii e messe”:

Questa scena dove sono attori san Michele il Silenzio la Frode la Discordia è ammiratissima per originalità di concezione e fusione di colori:

Versi stupendamente epici che vanno digradando fin nel satirico con naturali mutamenti di tono. Ed è un satirico ancora più efficace perchè non ci è apparenza d'intenzione satirica anzi ci si rivela una bonomia un'aria senza malizia dov'è la finezza dell'ironia ariostesca. La Discordia fa il suo mestiere e ne viene la famosa scena nel campo di Agramante rimasta proverbiale dov'è il vero scioglimento dell'azione il motivo interno della dissoluzione e della sconfitta dell'esercito pagano. I movimenti comici in questa scena sono più nelle cose che nelle frasi fondati su quel subitaneo e impreveduto delle impressioni e degl'istinti che toglie luogo alla riflessione e spinge i cavalieri gli uni contro gli altri. Rodomonte è il più spiccato carattere di questo genere ed è rimasto proverbiale mistura di forza e di coraggio e di bestialità. Le sue imprecazioni contro le donne la sua credulità e sciocchezza nel fatto d'Isabella la sua comica lotta col pazzo Orlando la sua scurrilità e grossolanità verso Bradamante sono tratti felicissimi che mettono in evidenza il cavaliere errante nel suo aspetto comico materia gigantesca vuota di senno grossolana e bestiale. Il contrapposto è Ruggiero “di virtù fonte” nel quale il poeta ha voluto rappresentare la parte seria ed eroica del cavaliere leale gentile magnanimo. Nella sua concezione ci entra un po' l'Achille omerico un po' Damone e Pizia Quinzio e Flaminio collisioni tra l'onore e l'amore tra l'amore e l'amicizia da cui escono molti effetti drammatici. Ma chi ha studiato un po' Ludovico come si dipinge egli medesimo vede che l'uomo è al di sotto del poeta nè in lui ci è la stoffa da cui escono le grandi figure eroiche ne ci è nel suo tempo. Manca al suo eroe prediletto semplicità e naturalezza: l'eroico va digradando nel fantastico e nell'idillico. Perciò il suo Ruggiero non ha potuto togliere il posto a Orlando e Rinaldo gli eroi dell'antica cavalleria e malgrado le sue simpatie pel fondatore di casa d'Este l'interesse è assai più per Orlando e Rodomonte creazioni geniali e originali.

L'ironia è non solo nella concezione fondamentale del poema ma negli accessorii cavallereschi. L'amore di Orlando verso Angelica è stato perfettamente cavalleresco sì che avendola per molto tempo in sua mano non le ha tolto l'onore “almeno” secondo che Angelica ne assicura Sacripante il quale dal canto suo non vuole essere “così sciocco”. Doralice piange la morte di Mandricardo; ma se non fosse vergogna andrebbe “forse” a stringer la mano a Ruggiero:

Un riso scettico aleggia sulle virtù cavalleresche e sui grandi colpi de' cavalieri quei gran colpi “ch'essi soli sanno fare”. Una frase un motto scopre l'ironia sotto le più serie apparenze. È un riso talora a fior di labbra appena percettibile nella serietà della fisonomia.

Questo risolino che quasi involontariamente erra tra le labbra e non si propaga sulla faccia e non degenera che assai di rado in aperta e sonora risata questa magnifica esposizione artistica che ti dà tutta l'apparenza e l'illusione della realtà nelle cose più strane e assurde tutto questo fuso insieme senz'aria d'intenzione e di malizia e con perfetta bonarietà ti mostra la concezione come un corpo in movimento e cangiante che non puoi fissare e definire più simile a fantasma che a corpo. Non sai se è cosa seria o da burla; pur ti piace perchè mentre la tua immaginazione è soddisfatta il tuo buon senso non è offeso e contempli le vaghe fantasie egregiamente dipinte di secoli infantili col risolino intelligente di un secolo adulto.

Questo mondo dove non è alcuna serietà di vita interiore non religione non patria non famiglia e non sentimento della natura e non onore e non amore questo mondo della pura arte scherzo di una immaginazione che ride della sua opera e si trastulla a proprie spese è in fondo una concezione umoristica profondata e seppellita sotto la serietà di un'alta ispirazione artistica. Il poeta considera il mondo non come un esercizio serio della vita nello scopo e ne' mezzi ma come una docile materia abbandonata alle combinazioni e a' trastulli della sua immaginazione. Ci è in lui la coscienza che il suo lavoro è così serio artisticamente come è serio il lavoro di Omero di Virgilio o di Dante e ci è insieme la coscienza che è un lavoro semplicemente artistico e perciò dal punto di vista del reale uno scherzo o come dicea il cardinale Ippolito una “corbelleria”. E sarebbe stato una corbelleria se l'autore avesse voluto dargli più serietà che non portava e fondarvi sopra una vera epopea. Ma la corbelleria diviene una concezione profonda di verità perchè il poeta è il primo a riderne dietro la tela ed ha l'aria di beffarsi lui de' suoi uditori. Questo stare al di sopra del mondo e tenerne in mano le fila e fare e disfare a talento considerandolo non altrimenti che un arsenale d'immaginazione è ciò che dicesi “capriccio” e “umore”. Se non che il poeta è zimbello spesso della sua immaginazione e si obblia in quel suo mondo e gli dà l'ultima finitezza. Di che nasce che l'umore piglia la forma contenuta dell'ironia e tu ondeggi in una atmosfera equivoca e mobile dove vizio e virtù vero e falso confondono i loro confini e dove tutto è superficie passioni caratteri mezzi e fini superficie maravigliosa per chiarezza semplicità e naturalezza di esposizione che all'ultimo dispare come un fantasma cacciato via da una frase ironica dispare ma dopo di avere destata la tua ammirazione e suscitate in te molte emozioni. In questo mondo fanciullesco dell'immaginazione dove si rivela un così alto sentimento dell'arte e insieme la coscienza di un mondo adulto e illuminato si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno. E perchè questo è fatto senza espressa intenzione anzi con la bonomia e naturalezza di chi sente e concepisce a quella guisa i due mondi non sono tra loro in antitesi come nel Cervantes ma convivono entrano l'uno nell'altro sono la rappresentazione artistica dell'un mondo con sópravi l'impronta dell'altro. In questa fusione più sentita che pensata e che fa dell'autore e della sua creazione un solo mondo armonico perfettamente compenetrato sta la verità e la perpetua giovinezza del mondo ariostesco per la sua eccellenza come opera di pura arte il lavoro più finito dell'immaginazione italiana e per il profondo significato della sua ironia una colonna luminosa nella storia dello spirito umano.


 

 

XIV

LA MACCARONEA

Mentre Ludovico componeva il suo Orlando a Ferrara Girolamo Folengo vi facea i primi studi sotto la guida di un tal Cocaio. Era di Cipada villaggio mantovano di famiglia nobile e agiata. Strinse conoscenza con Ludovico. Comparivano allora in istampa la Spagna il Buovo la Trebisonda l'Ancroia il Morgante il Mambriano del Cieco di Ferrara l'Orlando innamorato. Avea il capo pieno di romanzi più che di grammatica e pensò rifare l'Orlando innamorato ma saputo del Berni smise per allora. Andato in istudio a Bologna fu discepolo del Pomponazzi che dava bando al soprasensibile e al sopranaturale e predicava il più aperto naturalismo. Gli studenti erano ordinati a modo di casta con le loro leggi e privilegi capi i più arrischiati e baldanzosi tra' quali era un giovane mantovano chiamato con lo stesso nome di Francesco Gonzaga marchese di Mantova che lo tenne a battesimo. Vive erano tra loro le reminiscenze cavalleresche rinfrescate dalla lettura; e duelli sfide avventure imprese amorose erano una parte della loro vita più interessante che le lezioni accademiche. Fra tanti capi ameni ci era Girolamo che per le sue eccentricità si fe' mandar via da Bologna e non fu voluto ricevere in casa il padre sicchè finì frate in Brescia ribattezzatosi Teofilo. Ma ne fuggì con una donna e ricomparso nel secolo per campare la vita si die' a scriver romanzi sotto il nome di quel tal Cocaio postogli a' fianchi Cassandra inascoltata dal padre e di Merlino il celebre mago de' romanzi di cavalleria. Ebbe fama ma quattrini pochi e Merlino il “pitocco” come si chiama nel suo Orlandino stanco della vita errante si rifece frate scrisse poesie sacre e morì pentito e confesso e da buon cristiano come il Boccaccio.

Merlino o piuttosto Teofilo o piuttosto Girolamo era come vedete uno di quegli uomini che si chiamano “scapestrati” e fin dal principio perdono l'orizzonte e fanno una vita “sbagliata”. Messosi fuori di ogni regola e convenienza sociale in una vita equivoca non laico e non frate tra miseria e dispregio si abbrutì divenne cinico sfrontato e volgare. Trattò la società come nemica e le sputò sul viso prorompendo in una risata pregna di bile. Ridere a spese delle forme religiose e cavalleresche era moda; egli ci mise intenzione e passione. Ciò che negli altri era colorito in lui fu l'obbiettivo lo scopo. E a questa intenzione furono armi una fantasia originale una immaginazione ricca e una vena comica tra il buffonesco e il satirico. La sua prima concezione come ci assicura quel tal Cocaio fu l'Orlandino o le geste del piccolo Orlando poema in ottava rima e in otto capitoli. Lo chiama la prima deca “autentica” di Turpino stimando apocrife tutte le storie in voga eccetto quelle del Boiardo del Pulci dell'Ariosto e del Cieco da Ferrara:

Ma Orlando nasce al settimo capitolo e quando comincia appena a vivere finisce il poema. Forse il poco successo gli tolse la voglia di andare innanzi. La forma è orrida irta di barbarismi e solecismi e confessa egli medesimo che i lettori vi trovavano

 - Ma che colpa ci ho io? - Soggiunge Merlino:

Ho riportato questi versi come esempio. Era di scarsa coltura e lo chiamavano per istrazio il “grammatico”

e poco studioso della lingua chiamava chiacchieroni i toscani che accusavano lui di lombardismi e latinismi:

Una lingua cruda che è una miscela di voci latine lombarde italiane e paesane senza gusto e armonia uno stile stecchito asciutto lordo e plebeo spiegano la fredda accoglienza di un pubblico così colto e artistico. Il concetto è la difesa delle inclinazioni naturali contro le restrizioni religiose con pitture satiriche de' chierici “qui praedicant ieiunium ventre pleno”. Vi penetrano alcune idee della Riforma come nella preghiera di Berta non a' santi dic'ella ma a Dio e mescolate con invettive e buffonerie a spese de' frati o “incappucciati” con bile e stizza di frate sfratato. Il che non procede da fede intellettuale e non da indignazione di animo elevato ma da scioltezza di costumi e di coscienza. Veggasi ad esempio il ritratto di Griffarrosto allusione al priore del suo convento ritratto osceno e bilioso tra il ringhio del cane e gli attucci senza vergogna della scimmia. La sua caricatura de' tornei cavallereschi concepita con brio eseguita in forma stentata e grossolana rivela una fantasia originale a cui mancano gl'istrumenti.

Riuscitogli male l'italiano tentò un poema in latino e smise subito. In ultimo trovò il suo istrumento una lingua senza grammatiche e senza dizionari e di cui nessuno aveva a chiedergli conto una lingua tutta sua trasformabile a sua posta secondo il bisogno del suo orecchio e della sua immaginazione dico la lingua maccaronica.

Il latino era allora lingua viva nelle classi colte e diffusa. Sannazzaro Vida Fracastoro Flaminio erano nomi sonori più che il Berni o l'Ariosto o il Boiardo. Se in Firenze l'italiano avea vinta la prova nelle altre parti d'Italia il latino aveva ancora la preminenza. In quella dissoluzione generale di credenze d'idee di forme la buffoneria penetrò anche nelle due lingue e ne uscì una terza lingua innesto delle due possibile solo in Italia dove esse erano lingue note e affini. Avemmo adunque il pedantesco un latino italianizzato e il maccaronico un italiano latinizzato con mal definiti confini sì che talora il pedantesco entra nel maccaronico e il maccaronico nel pedantesco. Tentativi infelici e dimenticati quando nel 1521 cinque anni dopo l'Orlando furioso uscì in luce la Maccaronea di Merlin Cocaio e fece tale impressione che in quattro anni se ne fecero sei edizioni.

La Maccaronea nel principio è l'Orlandino mutati i nomi. A quel modo che Milone rapisce Berta e poi la lascia e Berta gli partorisce Orlando; Guido discendente di Rinaldo rapisce Baldovina figlia di Carlomagno e fugge con lei in Italia accolti ospitalmente da un contadino di Cipada patria appunto del nostro Merlino. Guido lascia Baldovina cercando avventure ed ella muore dopo di aver partorito Baldo. Fin qui l'Orlandino e la Maccaronea vanno insieme; ma qui l'Orlandino finisce subito e la trama è ripigliata e continuata nella Maccaronea. Baldo come Orlandino ha molta forza e coraggio e si gitta a imprese arrischiate. Ha parecchi compagni tra' quali Fracasso che ricorda Morgante da cui discende e Cingar che ricorda Margutte. Dicono che sotto questi nomi si celino gl'irrequieti studenti di Bologna capitanati da quel Francesco mantovano che sarebbe Baldo. Fatto è che date e ricevute molte busse Baldo è messo in prigione. Cingar vestito da frate lo libera. Eccoli tutti per terra e per mare cavalieri erranti e compiono audaci imprese. Baldo distrugge corsari estermina le fate ritrova Guido suo padre fatto romito che gli predice grandi destini; va in Africa scopre le foci del Nilo scende nell'inferno. Giunto co' suoi in quella parte dell'inferno dove ha sede la menzogna e la ciarlataneria e dove stanno i negromanti gli astrologi e i poeti Merlino trova colà il suo posto e pianta i suoi personaggi e finisce il racconto.

Abbandonarsi alla sua sbrigliata immaginazione e accumulare avventure è a prima vista lo scopo di Merlino come di tutt'i romanzieri di quel tempo. Anzi di avventure ce n'è troppe; e fra tanti intrighi l'autore pare talora intricato e stanco. Ti senti sbalzato altrove prima che abbi potuto ben digerire il cibo messoti innanzi. Molte avventure sono reminiscenze classiche e cavalleresche ma rifatte e trasformate in modo originale; e il tutt'insieme è originalissimo. Cominciamo con Carlomagno e i paladini ma dopo alcuni libri o canti ci troviamo in Cipada con l'immaginazione errante fra Mantova Venezia Bologna e con innanzi l'Italia con la sua scorza da medio evo penetrata da uno spirito cinico e dissolvente. Le forme sono epiche ma caricate in modo che si scopre l'ironia. La caricatura non è un semplice sfogo d'immaginazione comica e buffonesca come le avventure non sono un semplice stimolo di curiosità: ci è una intenzione che penetra in quei fatti e in quelle forme e se li assoggetta ci è la parodia.

Baldo è l'ultimo di quella serie di cavalieri erranti che comincia con Aiace Achille Teseo continua con Bruto Pompeo e gli altri eroi celebrati da Livio e Sallustio e va a finire in Orlando e Rinaldo da cui discende Baldo. La sua missione è di purgare la terra da' mostri dagli assassini e dalle streghe. La cavalleria è l'istrumento divino contro Lucifero. Baldo vince i corsari atterra i mostri uccide le streghe e debella l'inferno. Tutto questo è raccontato con un suono di tromba così romoroso con un accento epico così caricato che si ride di buona voglia a spese di Baldo di Fracasso di Cingar e degli altri cavalieri.

Ma in quest'allegra parodia penetra un'intenzione ancora più profonda la satira delle opinioni delle credenze delle istituzioni de' costumi delle forme religiose e sociali. Il medio evo ne' suoi diversi aspetti è in fuga frustato a sangue dal terribile frate rifatto laico. Perchè infine i mostri le streghe e l'inferno non sono altro che forme religiose e sociali i vizi le lascivie e i pregiudizi popolari. E come tutta questa dissoluzione non nasce da nuova fede o da nuova coscienza ma da compiuta privazione di coscienza e di fede la cavalleria che in nome della giustizia e della virtù debella l'inferno è essa medesima una parodia e l'impressione ultima è una risata sopra tutti e sopra tutto. Qualche sforzo di un'aspirazione più seria ci è; Leonardo che muore per mantenere intatta la sua verginità è una bella immagine allegorica perduta fra tante caricature. Hai una dissoluzione universale di tutte le idee e di tutte le credenze nella sua forma più cinica. Lì dentro ci è la società italiana còlta dal vero nella sua ultima espressione: coltura e arte assisa sulle rovine del medio evo beffarda e vuota.

La lingua stessa è una parodia del latino e dell'italiano che si beffano a vicenda. Come i maccheroni vogliono essere ben conditi di cacio e di butirro così la lingua maccaronica vuol essere ben mescolata. Spesso vi apparisce per terzo anche il dialetto locale e si fa un intingolo saporitissimo. La lingua è in se stessa comica perchè quel grave latino epico che intoppa tutt'a un tratto in una parola italiana stranamente latinizzata e talora tolta dal vernacolo produce il riso. La parodia che è nelle cose scende nella lingua la quale sembra un eroe con la maschera di Pulcinella un Virgilio carnascialesco. Alione astigiano e qualche altro avevano già dato esempio di questa lingua recata a perfezione da Merlino. Egli ne sa tutt'i segreti e la maneggia con un'audacia da padrone con un tale sentimento di armonia che par l'abbia già bella e formata nell'orecchio. Come saggio cito alcuni brani della sua invocazione alla musa maccaronica:

Sed prius altorium vestrum chiamare bisognat

o macaroneam Musae quae funditis artem...

 

Non mihi Melpomene mihi non menchiona  Thalia

Non Phoebus grattans chitarrinum carmina dictent...

 

Pancificae tantum Musae doctaeque sorellae

Gosa Comina Striax Mafelinaque Togna Pedrala

imboccare suum veniant macarone poëtam.

Ecco in qual modo descrive il Parnaso di queste muse plebee:

Credite quod giuro neque solam dire bosiam

possem per quantos abscondit terra tesoros:

illic ad bassum currunt cava flumina brodae

quae lacum suppae generant pelagumque guacetti.

Hic de materia tortarum mille videntur

ire redire rates...

Sunt ibi costerae freschi tenerique botiri

in quibus ad nubesfumant caldaria centum

plena casoncellis macaronibus atque foiadis.

Ipsae habitant nymphae super alti montis aguzzum

formaiumque tridant grataloribus usque foratis.

E non è meno originale il suo stile. Della nuova letteratura i grandi “stilisti” sono il Boccaccio il Poliziano l'Ariosto. Costoro narrando fanno quadri ciò che costituisce il periodo. Ti offrono le cose dipinte sono coloristi: Merlino dipinge le cose con altre cose i suoi colori non sono concetti o immagini sono fatti. Ha poche reminiscenze classiche: tra lui e la natura non ci è nulla di mezzo. La sua immaginazione non rimane nella vaga generalità delle cose ma scende nel più minuto della realtà e ne cava novità di paragoni e di colori. I fatti più assurdi e fantastici sono narrati co' più precisi particolari ed hanno l'evidenza della storia e ti rivelano un raro talento di osservazione dell'uomo e della natura non nelle loro linee generali solamente ma nelle singole e locali forme della loro esistenza. Veggasi la descrizione della caverna di Eolo e della tempesta e le disperazioni di Cingar:

Solus ibi Cingar cantone tremebat in uno

atque morire timens cagarellam sentit abassum...

Undique mors urget mors undique cruda menazzat.

Infinita facit cunctis vota ille beatis

iurat quod cancar veniat sibi velle per omnem

pergere descalzus mundum saccove dobatus.

Vult in Agrignano sanctum retrovare Danesum

qui nunc vivit adhuc vastae sub fornice rupis

fertque oculi cilios distesos usque genocchios.

Ad zocolos ibit quos olim Ascensa ferebat:

quos in Taprobana gens portugalla catavit.

Hisque decem faciet per fratres dicere messas

his quoque candelam tam grandem tamque pesentam

vult offerre simul quam grandis quamque pesentus

est arbor navis prigolo si scampet ab isto.

Se stessum accusat multas robasse botegas

sgardinasse casas et sgallinasse polaros:

at si de tanto travaio vadat adessum

liber speditus vult esse Macharius alter

alter heremita Paulus spondetque Sepulchri

post visitamentum vitam menare tapinam.

Talia dum Cingar trepido sub pectore pensat

en ruptae sublimis aquae montagna ruinat

quae superans altam gabiam strepitosa trapassat

nec pocas secum portavit in aequora gentes.

La stessa ricchezza di particolari trovi nella descrizione de' venti e nelle vicende della tempesta. Ci hai il carattere dello stile di Merlino un realismo animato da una immaginazione impressionabile e da un umorismo inestinguibile. Non ha tutto la stessa perfezione: ci è di molta ciarpa la facilità è talora negligenza; desideri l'ultima mano desideri la serietà artistica dell'Ariosto.

Questo realismo rapido nutrito di fatti sobrio di colori fa di Merlino lo scrittore più vicino alla maniera di Dante salvo che Dante spesso ti fa degli schizzi ed egli disegna e compie tutto il fatto. Il suo continuatore e imitatore è fuori d'Italia è Rabelais che ha la stessa maniera. In Italia prevalse la rettorica la cui prima regola è l'orrore del particolare e la vaga generalità. Merlino al contrario aborre le perifrasi i concetti le astrazioni e quel colorire a vuoto per via di figure e d'immagini e non pare che lavori con la riflessione o con l'immaginazione ma che stia lì tutto attirato in mezzo a un mondo che si muove guardato e parodiato ne' suoi minimi movimenti. Baldovina e Guido giungono affamati in casa di Berto e cucinano essi medesimi il pasto. Al poeta non fugge nulla i cibi il modo di apparecchiarli il desco l'affaccendarsi di Berto la fisonomia e gli atti de' due suoi ospiti: e ne nasce una scena di famiglia piena di allegria comica il cui effetto è tutto ne' particolari. Il piccolo Baldo va a scuola e in luogo del Donato studia romanzi. Hai innanzi la scuola di quel tempo i libri alla moda i costumi de' maestri e degli scolari ciascun particolare con la sua fisonomia:

Beldovina tamen cartam comprarat et illam

letrarurm tolam supra quam disceret “a b”.

Unde scholam Baldus nisi non spontaneus ibat

nam quis erat tanti seu mater sive pedantus

qui tam terribilem posset sforzare putinum?

Ipse tribus sic sic profectum fecerat annis

ut quoscumque libros legeret nostrique Maronis

terribiles guerras fertur recitasse magistro.

At mox Orlandi nasare volumina coepit

non deponentum vacat ultra ediscere normas;

non speties numeros non casus atque figuras;

non Doctrinalis versamina tradere menti;

non hinc non illinc non hoc non illoc et altras

mille pedantorum baias totidemque fusaras.

Fecit de cuius Donati deque Perotto

scartozzos ac sub prunis salcizza cosivit.

Orlandi tantum gradant et gesta Rinaldi;

namque animum guerris faciebat talibus altum.

Legerat Ancroiam Tribisondam facta Danesi

Antonnaeque Bovum Antiforra Realia Franzae

innamoramentum Carlonis et Aspera-montem

Spagnam Altobellum Morgantis bella gigantis

Meschinique provas et qui “Cavalerius Orsae”

dicitur et nulla cecinit qui laude Leandram.

Vidit ut Angelicam sapiens Orlandus amavit

utque caminavit nudo cum corpore mattus

utque retro mortam tirabat ubique cavallam

utque asinum legnis caricatum calce ferivit

illeque per coelum veluti cornacchia volavit.

Baldus in his factis nimium stigatur ad arma

sed tantum quod sit piccolettus corpore tristat.

È una scena di quel tempo ispirata a Merlino dalla sua vita studentesca di Ferrara e Bologna quando Cocaio il suo pedagogo gli metteva in mano Donato e il Porretto ed egli ne faceva “scartozzos” e leggeva romanzi e sopra tutti l'Orlando furioso. Non c'è una sola generalità: tutto è cose e ciascuna cosa è animata come un uomo ha la sua fisonomia e il suo movimento determinato da forze interiori. Non solo vedi quello che fa Baldo ma quello che pensa e sente; perchè la parola se nel suo senso letterale esprime un'azione con la sua aria maccaronica e la sua giacitura e la sua armonia te ne dà il sentimento come è quel “nasarat” e quel “volavit” e quel “piccolettus” e quell'“hinc illinc hoc illoc et altras mille pedantorum baias”.

La parte seria del racconto dovrebb'esser la cavalleria perchè essa è che fa guerra all'inferno cioè alla malvagità e al vizio. Ma la serietà è apparente e il fondo è una parodia scoperta il cui eroe più simpatico è il gigante Fracasso parodia di quella forza oltreumana che si attribuiva a' cavalieri erranti. Dico “parodia scoperta” se guardiamo alla conclusione ingegnosissima; perchè giunti i cavalieri nella regione infernale delle menzogne poetiche Merlino te li pianta e si ferma colà come nella sua patria. Questa patria de' poeti de' cantanti degli astrologi de' negromanti di tutti quelli

qui fingunt cantant dovinant somnia genti

compluere libros follis vanisque novellis

è una conchiglia o piuttosto una immensa zucca secca e vuota “mangiabilis quando tenerina fuit” dove tremila barbieri strappano i denti a' condannati. E Merlino esclama:

Zucca mihi patria est opus est hic perdere dentes

tot quot in immenso posui mendacia libro.

E tronca il racconto e dice addio a Baldo:

Balde vale studio alterius te denique lasso.

 

Il poeta conchiude beffandosi di Baldo e della sua arte e di se stesso che ha composto un vero mostro oraziano fuori di tutte le regole perduti i remi mescolati l'austro co' fiori e i cignali col mare:

Tange peroptatum navis stracchissima portum

tange quod amisi longinqua per aequora remos:

he heu quid volui misero mihi perditus Austrum

floribus et liquidis immisi fontibus apros.

È il comico portato all'estremo dell'umore. La caricatura del Boccaccio la buffoneria del Pulci l'ironia dell'Ariosto è qui l'allegro e capriccioso umore di una negazione universale e scoperta nella forma più cinica.

In questa negazione universale la satira penetra dappertutto e attinge la società come il medio evo l'aveva costituita in tutte le sue forme religiose politiche morali intellettuali. La scolastica è messa alla berlina: san Tommaso e Scoto e Alberto stanno come visionari accanto agli astrologi e a' negromanti. Megera fa un terribile ritratto di tutt'i disordini della Chiesa e de' papi e Aletto fulmina ugualmente guelfi e ghibellini i seguaci della Francia e i seguaci dell'Impero. I monaci sono il principale bersaglio di questi strali poetici. Una delle pitture più comiche è quel biricchino di Cingar vestito da francescano per liberare Baldo dal carcere:

 

Iam non is Cingar quia sanctus portat amictus...

sub tunicis latitant sacris quam saepe ribaldi!

Notabile è la satira de' frati nell'ottavo libro:

Postquam giocarunt nummos borsamque vodarunt

postquam pane caret cophinum vinoque berillus

in fratres properant datur his extemplo capuzzus.

La moltiplicità de' conventi gli fa temere che un bel dì rimanga la gente cristiana senza soldati e senza contadini. Scherza su' motti del Vangelo. Fa una parodia della confessione. I cavalieri erranti giungono alla porta dell'inferno dov'e parodiata la celebre scritta di Dante:

Regia Luciferi dicor bandita tenetur

chors hic intrando patet ast uscendo seratur.

Ma non possono domare l'inferno se prima non si confessano e il confessore è Merlino stesso il poeta:

Nomine Merlinus dicor de sanguine Mantus

est mihi cognomen Cocaius maccaronensis.

Quale confessione i cavalieri possano fare a Merlino soprattutto Cingar il lettore s'immagini. È una farsa. Tutta l'opera è penetrata da uno spirito capriccioso e beffardo che fa di quel mondo in mezzo a cui si trova il suo aperto trastullo e gli dà forme carnascialesche.

Anche la Moscheide di Merlino è una caricatura o un travestimento carnevalesco della cavalleria in uno stile più corretto e uguale. La guerra finisce con la sconfitta compiuta delle mosche descritta co' tratti da lui caricati dell'Ariosto e di altri poeti cavallereschi. Eccone alcuni brani verso la fine:

Numquam facta fuit tam cruda baruffola mundo:

nil nisi per terram membra taiata micant.

Grandes mortorum vadunt ad sydera montes

sydera quae multo rossa cruore colant.

Pulmones milzae lardi ventralia membri

Saturni ad sphaeram foeda per astra volant.

Una corada Iovis mostazzum colsit et uno

Sol ibi ventrazzo spinctus ab axe fuit.

Dumque dei coenant puero Ganimede ministro

multa super mensas ossa taiata cadunt.

Nunc brazzus Ragni nunc gamba cruenta Pedocchi

nunc cor Moschini nunc pulicina manus...

... trucidatis ducibus Moschaea ruinat

tota nec una quidem vivere Moschaea potest.

Formicae Pulices Ragni - Victoria! - clamant

trombettae tararan iam frisolando sonant.

Il Rodomonte delle mosche è Siccaborone sul quale da una torre gittano un sasso enorme

qui super elmettum schiazzavit Siccaboronem

vitaque cum gemitu sub Phlegetonta fugit.

La Zanitonella o gli amori di Zanina e Tonello è un suo poemetto bucolico in caricatura dove si fa strazio delle immagini e de' sentimenti petrarcheschi e idillici. Il Petrarca narra che Amore colpì lui improvviso e disarmato. Il medesimo avviene a Tonello:

Solus solettus stabam colegatus in umbra

pascebamque meas virda per arva capras.

Nulla travaiabant vodam pensiria mentem

nullaaue cogebat cura gratare caput

cum mihi bolzoniger cor oyme Cupido forasti

nec tuns in fallum dardus alhora dedit...

More valenthominis schenam de-retro feristi:

o bellas provas quas traditore facis!

Guardando un po' addentro in questa caricatura universale del mondo si vedono qua e là spuntare alcuni lineamenti confusi di un mondo nuovo. Ci si sente lo spirito della Riforma il dolore di un'Italia scissa tra Impero e Francia essa che unita aveva imperato sull'universo l'indignazione di tanta licenza e corruzione de' costumi nel secolo degl'ipocriti e delle cortigiane un disprezzo delle fantasticherie teologiche scolastiche e astrologiche un sentimento del reale e dell'umano. Ma sono velleità immagini confuse e volubili che si affacciano appena e non hanno presa sul suo spirito vagabondo e sulla sua capricciosa immaginazione.


 

XV

MACHIAVELLI

Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando il 1515 uscì in luce l'Orlando furioso. Lodò il poema ma non celò il suo dispiacere di essere dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista ch'egli stese nell'ultimo canto di poeti italiani. Questi due grandi uomini che dovevano rappresentare il secolo nella sua doppia faccia ancorchè contemporanei e conoscenti sembrano ignoti l'uno all'altro.

Niccolò Machiavelli ne' suoi tratti apparenti è una fisonomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de' Medici. Era un piacevolone che si spassava ben volentieri tra le confraternite e le liete brigate verseggiando e motteggiando con quello spirito arguto e beffardo che vedi nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulci e in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato de' beni della fortuna nel corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra' tanti stipendiati a Roma o a Firenze e dello stesso stampo. Ma caduti i Medici ristaurata la repubblica e nominato segretario ebbe parte principalissima nelle pubbliche faccende esercitò molte legazioni in Italia e fuori acquistando esperienza degli uomini e delle cose e si affezionò alla repubblica per la quale non gli parve assai di sostenere la tortura poi che tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò la sua tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende nel suo ozio di San Casciano meditò su' fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze anzi d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mantenere la sua indipendenza se non fosse unita tutta o gran parte sotto un solo principe. E sperò che casa Medici potente a Roma e a Firenze volesse pigliare l'impresa. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e di miseria. All'ultimo poco e male adoperato da' Medici finì la vita tristamente lasciando non altra eredità a' figliuoli che il nome. Di lui fu scritto: “Tanto nomini nullum par elogium”.

I suoi Decennali arida cronaca delle “fatiche d'Italia di dieci anni” scritta in quindici dì i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro sotto nome di bestie satira de' degeneri fiorentini gli altri suoi capitoli dell'Occasione della Fortuna dell'Ingratitudine dell'Ambizione i suoi canti carnascialeschi alcune sue stanze o serenate o sonetti o canzoni sono lavori letterari su' quali è impressa la fisonomia di quel tempo alcuni tra il licenzioso e il beffardo altri allegorici o sentenziosi sempre aridi. Il verso rasenta la prosa; il colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in questo fondo comune e sgraziato appariscono i vestigi di un nuovo essere una profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa: soprabbonda lo spirito. Ci è il critico non ci è il poeta. Non ci è l'uomo nello stato di spontaneità che compone e fantastica come era Ludovico Ariosto. Ci è l'uomo che si osserva anche soffrendo e sentenzia sulle sorti sue e dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere:

Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto? Qualche verso ingegnoso come ne' Decennali:

e qualche sentenza o concetto profondo come nel canto De diavoli o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione massime la chiusa che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente lo scrittore del Principe e de' Discorsi.

Anche in prosa Machiavelli ebbe pretensioni letterarie secondo le idee che correvano in quella età. Talora si mette la giornea e boccacceggia come nelle sue prediche alle confraternite nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca a' suoi personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al tempo della peste dove abbondano i lenocini della rettorica e gli artifici dello stile: ciò che si chiamava eleganza.

Ma nel Principe ne' Discorsi nelle Lettere nelle Relazioni ne' Dialoghi sulla milizia nelle Storie Machiavelli scrive come gli viene tutto inteso alle cose e con l'aria di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e a' periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla trovò la prosa italiana.

È visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito incredulo e beffardo di Lorenzo impresso sulla fronte della borghesia italiana in quel tempo. E avea pure quel senso pratico quella intelligenza degli uomini e delle cose che rese Lorenzo eminente fra' principi e che troviamo generalmente negli statisti italiani a Venezia a Firenze a Roma a Milano a Napoli quando vivea Ferdinando d'Aragona Alessandro sesto Ludovico il Moro e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti presso le quali dimoravano. Ci era l'arte mancava la scienza. Lorenzo era l'artista. Machiavelli doveva essere il critico.

Firenze era ancora il cuore d'Italia: lì ci erano ancora i lineamenti di un popolo ci era l'immagine della patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era spenta ma ci era invece l'idea repubblicana alla romana effetto della coltura classica che fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle memorie gloriose del passato resisteva a' Medici. L'uso della libertà e le lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo e rendevano possibile Savonarola Capponi Michelangiolo Ferruccio e l'immortale resistenza agli eserciti papali imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore della libertà erano forze morali fra quella corruzione medicea rese ancora più acute e vivaci dal contrasto.

Machiavelli per la sua coltura letteraria per la vita licenziosa per lo spirito beffardo e motteggevole e comico si lega al Boccaccio a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna religione e perciò le accetta tutte e magnificando la morale in astratto vi passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche aguzzato negli ozi ingrati e solitari. E la sua coscienza non è vuota. Ci è lì dentro la libertà e l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli consentiva le illusioni e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide perduta la libertà pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici l'istrumento della salvezza. Certo anche questa era un'utopia o una illusione un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più esatto sentimento delle condizioni d'Italia è che la sua coscienza era già vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta a' posteri simpatica e circondata di un'aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del patriottismo e l'elevatezza del linguaggio e per quella sua aria di virilità e di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino come si direbbe oggi più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà la vita scorretta le abitudini plebee e “fuori della regola” come gli rimproverava il correttissimo Guicciardini non gli aumentavano riputazione. Consapevole di sua grandezza spregiava quella esteriorità delle forme e que' mezzi artificiali di farsi via nel mondo che sono sì familiari e sì facili a' mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità e la sua fama si è ita sempre ingrandendo fra gli odii degli uni e le glorificazioni degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno battagliato le nuove generazioni nel loro contraddittorio movimento ora indietro ora innanzi.

Ci è un piccolo libro del Machiavelli tradotto in tutte le lingue il Principe che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L'autore è stato giudicato da questo libro e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico ma nel suo valore morale. E hanno trovato che questo libro è un codice della tirannia fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machiavellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro ingegnosissime attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito.

Questa critica non è che una pedanteria. Ed è anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine e cercare ivi i fondamenti della sua grandezza.

Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la coscienza chiara e seria di tutto quel movimento che nella sua spontaneità dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento. In lui comincia veramente la prosa cioè a dire la coscienza e la riflessione della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento e vi piglia parte ne ha le passioni e le tendenze. Ma passato il momento dell'azione ridotto in solitudine pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito ha la forza di staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? Dove vai? -

L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale e guardava l'Europa con l'occhio di Dante e del Petrarca giudicando barbare tutte le nazioni oltre le Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano che si studiava di assimilarsi. Soprastava per coltura per industrie per ricchezze per opere d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli stranieri in casa; ma vi si ausarono e trescarono con quelli confidando di cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di ammaestramento è vedere tra lanzi svizzeri tedeschi e francesi e spagnuoli l'alto e spensierato riso di letterati artisti latinisti novellieri e buffoni nelle eleganti corti italiane. Fino ne' campi i sonettisti assediavano i principi: Giovanni de' Medici cadeva tra' lazzi di Pietro Aretino. Gli stranieri guardavano attoniti le maraviglie di Firenze di Venezia di Roma e tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i letterati che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo quinto. L'Italia era inchinata e studiata da' suoi devastatori come la Grecia fu da' romani.

Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli e vide la malattia dove altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo decadenza egli disse “corruttela” e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto la corruttela della razza italiana anzi latina e la sanità della germanica.

La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del linguaggio massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di Caterina ed ora messa in mostra ne' dipinti e negli scritti penetrata in tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura divenuta come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza accompagnata con l'empietà e l'incredulità avea a suo principal centro la corte romana protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione Lutero e i suoi concittadini.

Nondimeno il clero per abito tradizionale tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale non contrastato salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il pensiero non era più la parola e la parola non era più l'azione non ci era armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del Boccaccio e degli altri scrittori di commedie di novelle e di capitoli.

Nessun italiano parlando in astratto poteva trovar lodevole quella licenza a' cui allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria altra la pratica. E nessuno poteva non desiderare una riforma de' costumi una restaurazione della coscienza. Sentimenti e desidèri vani affogati nel rumore di quei baccanali. Non ci era il tempo di piegarsi in sè di considerare la vita seriamente. Pure erano sentimenti e desidèri che più tardi fruttificarono e agevolarono l'opera del Concilio di Trento e la reazione cattolica.

Rifare il medio evo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una ristaurazione religiosa e morale era stato già il concetto di Geronimo Savonarola ripreso poi e purgato nel Concilio di Trento. Era il concetto più accessibile alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a' loro mali nel passato.

Machiavelli pensoso e inquieto in mezzo a quel carnevale italiano giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto. Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione morto già nella coscienza vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò non che pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di ristaurare il medio evo concorse alla sua demolizione.

L'altro mondo la cavalleria l'amore platonico sono i tre concetti fondamentali intorno a' quali si aggira la letteratura nel medio evo de' quali la nuova letteratura è la parodia più o meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un movimento ironico quando parla del medio evo soprattutto allora che affetta maggior serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte.

Ma la sua negazione non è pura buffoneria puro effetto comico uscito da coscienza vuota. In quella negazione ci è un'affermazione un altro mondo sorto nella sua coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente.

Papato e impero guelfismo e ghibellinismo ordini feudali e comunali tutte queste istituzioni sono demolite nel suo spirito. E sono demolite perchè nel suo spirito è sorto un nuovo edificio sociale e politico.

Le idee che generarono quelle istituzioni sono morte non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana. Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a questo che attende Machiavelli. Con l'una mano distrugge con l'altra edifica. Da lui comincia in mezzo alla negazione universale e vuota la ricostruzione.

Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare. Basti qui accennare la idea fondamentale.

Il medio evo riposa sopra questa base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale e la virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa vita non è la realtà o la verità ma ombra e apparenza; e che la realtà è non quello che è ma quello che dee essere e perciò il suo vero contenuto è l'altro mondo. L'inferno. Il Purgatorio. Il Paradiso il mondo conforme alla verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita teologico-etico uscì la Divina Commedia e tutta la letteratura del Dugento e del Trecento.

Il simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo: l'amore è un simbolo. E l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o negli universali forze estramondane che sono la maggiore del sillogismo l'universale da cui esce il particolare.

Tutto questo forma e concetto era già dal Boccaccio in qua negato caricato parodiato materia di sollazzo e di passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa che aveva a base la glorificazione della carne o del peccato la voluttà l'epicureismo reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti tutti visionari: conclusione geniale della Maccaronea ispirata al Folengo dal mondo della Luna ariostesco. In teoria ci era una piena indifferenza e in pratica una piena licenza.

Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di enunciazioni scolastiche e teologiche. E a ogni modo non se ne cura. Il suo spirito è tutto nella vita pratica.

Nelle scienze naturali non sembra sia molto innanzi quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta. Niccolò non è filosofo della natura è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno oltrepassa l'argomento e prepara Galileo.

L'uomo come Machiavelli lo concepisce non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non la faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo che opera e lavora intorno ad uno scopo.

Ciascun uomo ha la sua missione su questa terra secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco d'immaginazione e non è contemplazione Non è teologia e non è neppure arte. Essa ha in terra la sua serietà il suo scopo e i suoi mezzi. Riabilitare la vita terrena darle uno scopo rifare la coscienza ricreare le forze interiori restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua attività: questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.

È negazione del medio evo e insieme negazione del Risorgimento. La contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione artistica. La coltura e l'arte gli paiono cose belle non tali però che debbano e possano costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione come il nemico più pericoloso e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par proprio esser la malattia che si ha a curare. Ripete ad ogni tratto che bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere.

Quel “dover essere” a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento dee far luogo all'“essere” o com'egli dice alla verità “effettuale”.

Subordinare il mondo dell'immaginazione come religione e come arte al mondo reale quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione questa è la base del Machiavelli.

Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali pone a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra il suo primo dovere è il patriottismo la gloria la grandezza la libertà della patria.

Nel medio evo non ci era il concetto di patria: ci era il concetto di fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e dell'imperatore rappresentanti di Dio; l'uno era lo spirito l'altro il corpo della società. Intorno a questi due “Soli” stavano gli astri minori re principi duchi baroni a cui stavano di contro in antagonismo naturale i comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale e i comuni esistevano anch'essi per la grazia di Dio e perciò del papa o dell'imperatore e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione. Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo ben inteso lasciando a sè il dritto di rappresentarlo e interpretarlo. È un tratto che illumina tutte le idee di quel tempo.

Ci era ancora il papa e ci era l'imperatore; ma l'opinione sulla quale si fondava la loro potenza non ci era più nelle classi colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico linguaggio il papa ingrandito di territorio diminuito di autorità l'imperatore debole e impacciato a casa.

Di papato e d'impero di guelfi e ghibellini non si parlava in Italia che per riderne a quel modo che della cavalleria e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi in Italia il papa i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile ma il principale pericolo dell'Italia. Democratico combatte il concetto di un governo stretto e tratta assai aspramente i gentiluomini reminiscenze feudali. E vede ne' mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro allo straniero e propone e svolge largamente il concetto di una milizia nazionale Nel papato temporale nei gentiluomini negli avventurieri combatte gli ultimi vestigi del medio evo.

La “patria” del Machiavelli è naturalmente il comune libero libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore governo di tutti nell'interesse di tutti.

Ma osservatore sagace non gli può sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa e come il comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni del medio evo. Il suo comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a durare dirimpetto a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi che si chiamavano “Stati” o “Nazioni”. Già Lorenzo mosso dallo stesso pensiero avea tentato una grande lega italica che assicurasse l'“equilibrio” tra' vari Stati e la mutua difesa e che pure non riuscì ad impedire l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione di un grande Stato italiano che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune ma è tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il “giardino dell'impero”; nell'utopia del Machiavelli è la “patria” nazione autonoma e indipendente.

La “patria” del Machiavelli è una divinità superiore anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici assorbiva in sè l'individuo e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli eretici; per la patria tutto era lecito e le azioni che nella vita privata sono delitti diventavano magnanime nella vita pubblica. “Ragion di Stato” e “salute pubblica” erano le formole volgari nelle quali si esprimeva questo dritto della patria superiore ad ogni dritto. La divinità era scesa di cielo in terra e si chiamava la “patria” ed era non meno terribile. La sua volontà e il suo interesse era “suprema lex”. Era sempre l'individuo assorbito nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua volta nella volontà di un solo o di pochi avevi la servitù. Libertà era la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un essere autonomo e di fine a se stesso: era l'istrumento della patria o ciò che è peggio dello Stato: parola generica sotto la quale si comprendeva ogni specie di governo anche il dispotico fondato sull'arbitrio di un solo. Patria era dove tutti concorrevano più o meno al governo e se tutti ubbidivano tutti comandavano: ciò che dicevasi “repubblica”. E dicevasi “principato” dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma repubblica o principato patria o Stato il concetto era sempre l'individuo assorbito nella società o come fu detto poi l'onnipotenza dello Stato.

Queste idee sono enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate ma come già per lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. Ci è lì dentro lo spirito dell'antica Roma che con la sua immagine di gloria e di libertà attirava tutte le immaginazioni e si porgeva alle menti modello non solo nell'arte e nella letteratura ma ancora nello Stato.

La patria assorbisce anche la religione. Uno Stato non può vivere senza religione. E se il Machiavelli si duole della corte romana non è solo perchè a difesa del suo dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri ma ancora perchè co' suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della religione. Ma egli vuole una religione di Stato che sia in mano del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso ed era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la moralità gli piace e loda la generosità la clemenza l'osservanza della fede la sincerità e le altre virtù ma a patto che ne venga bene alla patria; e se le incontra sulla sua via non istrumenti ma ostacoli gli spezza. Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni principi; ma ci odori un po' di rettorica che spicca più in quel fondo ignudo della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un sentimento religioso e morale schietto e semplice.

Noi che vediamo le cose di lontano troviamo in queste dottrine lo Stato laico che si emancipa dalla teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva e l'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni ciò che esce dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile che ha la sua legittimità in se stesso sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non ci è alcun vestigio di diritto divino. Il fondamento delle repubbliche è “vox populi” il consenso di tutti. E il fondamento de' principati è la forza o la conquista legittimata e assicurata dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa ci entra pure ma come forze atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.

Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria al Machiavelli non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza che hanno “disarmato il cielo e effeminato il mondo” e che rendono l'uomo più atto a “sopportare le ingiurie che a vendicarle”. “Agere et pati fortia romanum est”. Il cattolicismo male interpretato rende l'uomo più atto a patire che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo che rende gl'italiani inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano e significa “forza” “energia” che renda gli uomini atti a' grandi sacrifici e alle grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari incontri riescono spesso vittoriosi: manca l'educazione o la disciplina o come egli dice “i buoni ordini e le buone armi” che fanno gagliardi e liberi i popoli.

Alla virtù premio è la gloria. “Patria” “virtù” “gloria” sono le tre parole sacre la triplice base di questo mondo.

Come gl'individui hanno la loro missione in terra così anche le nazioni. Gl'individui senza patria senza virtù senza gloria sono atomi perduti “numerus fruges consumere nati”. E parimente ci sono nazioni oziose e vuote che non lasciano alcun vestigio di sè nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio nell'umanità o come dicevasi allora nel genere umano come Assiria Persia Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra gagliardia intellettuale e corporale che forma il carattere o la forza morale. Ma come gl'individui così le nazioni hanno la loro vecchiezza quando le idee che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca. E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e passa ad altre nazioni.

Il mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali ma dallo spirito umano che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non è la provvidenza e non la fortuna ma la “forza delle cose” determinata dalle leggi dello spirito e della natura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà ed immortale nella sua produzione.

Perciò la storia non è accozzamento di fatti fortuiti o provvidenziali ma concatenazione necessaria di cause e di effetti il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni dalle passioni e dagl'interessi degli uomini.

La politica o l'arte del governare ha per suo campo non un mondo etico determinato dalle leggi ideali della moralità ma il mondo reale come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini.

La grandezza e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli ma sono effetti necessari che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le movono. E quando queste forze sono in tutto logore esse muoiono.

E a governare quelli che stanno solo in sul lione non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o la prudenza cioè l'intelligenza il calcolo e il maneggio delle forze che muovono gli Stati.

Come gl'individui così le nazioni hanno legami tra loro dritti e doveri. E come ci è un dritto privato così ci è un dritto pubblico o dritto delle genti o come dicesi oggi dritto internazionale. Anche la guerra ha le sue leggi.

Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai. Eternamente giovane passa di una nazione in un'altra e continua secondo le sue leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di questa o quella nazione ma la storia del mondo anch'essa fatale e logica determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò che poi fu detto “filosofia della storia”.

Di questa filosofia della storia e di un dritto delle genti non ci è nel Machiavelli che la semplice base scientifica un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia.

Questi concetti non sono nuovi. I concetti filosofici come i poetici suppongono una lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel grande movimento sotto forme classiche realista ch'era in fondo l'emancipazione dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici e la conoscenza e il possesso di se stesso. E a' contemporanei non parvero nuovi nè audaci veggendo ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago.

L'influenza del mondo pagano è visibile anche nel medio evo anche in Dante Roma è presente allo spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale la Roma di Cesare e qui è Roma repubblicana e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le gloriose imprese della repubblica “miracoli della provvidenza” come preparazione all'impero: dove pel Machiavelli non ci sono miracoli o i miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna la dà principalissima alla virtù. Di lui è questo motto profondo: “I buoni ordini fanno buona fortuna e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese”. Il classicismo adunque era la semplice scorza sotto alla quale le due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante ci è il misticismo e il ghibellinismo; la corteccia è classica il nocciolo è medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli ci è lo spirito moderno che ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma quanto biasima i tempi suoi dove “non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria infamia e vituperio e non vi è osservanza di religione non di leggi e non di milizia ma sono maculati di ogni ragione bruttura”. Crede con gli ordini e i costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi tempi e in molte proposte e in molte sentenze senti i vestigi di quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio in quella sua gravità; ma guardalo bene e ci troverai il borghese del Risorgimento con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una reminiscenza del medio evo profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in quella sua veste romana è vero borghese moderno sceso dal piedistallo uguale tra uguali che ti parla alla buona e alla naturale. È in lui lo spirito ironico del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni.

Il medio evo qui crolla in tutte le sue basi religiosa morale politica intellettuale. E non è solo negazione vuota. È affermazione è il verbo. Di contro a ciascuna negazione sorge un'affermazione. Non è la caduta del mondo è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo le due unità politiche del medio evo sorge un nuovo ente la Nazione alla quale il Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi la razza la lingua la storia i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una specie di governo medio o misto che riunisca i vantaggi delle une e degli altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità governo che è un presentimento de' nostri ordini costituzionali e di cui il Machiavelli dà i primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in Firenze. È tutto un nuovo mondo politico che appare. Si vegga fra l'altro dove il Machiavelli tocca della formazione de' grandi Stati e soprattutto della Francia.

Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla religione ogni temporalità e come Dante combatte la confusione de' due reggimenti e fa una descrizione de' principati ecclesiastici notabile per la profondità dell'ironia. La religione ricondotta nella sua sfera spirituale è da lui considerata non meno che l'educazione e l'istruzione come istrumento di grandezza nazionale. È in fondo l'idea di una Chiesa nazionale dipendente dallo Stato e accomodata a' fini e agl'interessi della nazione.

Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la santificazione dell'anima e il mezzo è la mortificazione della carne. Il Machiavelli se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo non è meno severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele ma è Lia non è la vita contemplativa ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la vita attiva vita di azione e in servigio della patria. I suoi santi sono più simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O per dir meglio il nuovo tipo morale non è il santo ma è il patriota.

E si rinnova pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora il Machiavelli non combatte la verità della fede ma la lascia da parte non se ne occupa e quando vi s'incontra ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale vi mette a base l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano fattore della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. È il famoso “cogito” nel quale s'inizia la scienza moderna. È l'uomo emancipato dal mondo soprannaturale e sopraumano che come lo Stato proclama la sua autonomia e la sua indipendenza e prende possesso del mondo.

E si rinnova il metodo. Il Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti e non riconosce autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di etica fa stima uguale mondi d'immaginazione fuori della realtà. La verità è la cosa effettuale e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione lo studio intelligente de' fatti. Tutto il formolario scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte dell'intelletto incardinate nella pretesa esistenza degli universali sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni generali le “maggiori” del sillogismo sono capovolte e compariscono in ultimo come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del sillogismo hai la “serie” cioè a dire concatenazione di fatti che sono insieme causa ed effetto come si vede in questo esempio:

“Avendo la città di Firenze ... perduta parte dell'imperio suo fu necessitata a fare guerra a coloro che lo occupavano e perchè chi l'occupava era potente ne seguiva che si spendeva assai nella guerra senza alcun frutto: dallo spendere assai ne risultava assai gravezze dalle gravezze infinite querele del popolo; e perchè questa guerra era amministrata da un magistrato di dieci cittadini ... l'universale cominciò a recarselo in dispetto come quello che fosse cagione e della guerra e delle spese di essa.”

 

Qui i fatti sono schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia serie l'una complicata che ti dà le cause vere visibile solo all'uomo intelligente; l'altra semplicissima che ti dà la causa apparente e superficiale e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte l'universale con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella natura e nell'uomo non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi sono legati subordinati coordinati dalla riflessione sì che ciascuno ha il suo posto ha il suo valore di causa o di effetto ha il suo ufficio in tutta la catena: il fatto non è solo fatto o accidente ma è ragione considerazione: sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anch'essi fatti intellettuali e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra. Sono fatti cavati dalla storia dall'esperienza del mondo da un'acuta osservazione e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di tutti com'è quel “ritirare le cose a' loro princìpi” o quell'ironia de' “profeti disarmati” o “gli uomini si stuccano del bene e del male si affliggono” o “gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli”. Di queste sentenze o pensieri ce ne sono raccolte. E sono un intero arsenale dove hanno attinto gli scrittori vestiti delle sue spoglie. Come esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la forma letteraria fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era una forma sillogistica dissimulata una proposizione corteggiata dalla sua maggiore e dalle sue idee medie ciò che dicevasi dimostrazione se la materia era intellettuale o descrizione se la materia era di puri fatti. Machiavelli ti dà semplici proposizioni ripudiato ogni corteggio; non descrive e non dimostra narra o enuncia e perciò non ha artificio di periodo. Non solo uccide la forma letteraria ma uccide la forma stessa come forma e fa questo nel secolo della forma la sola divinità riconosciuta. Appunto perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto per lui il contenuto è tutto e la forma è nulla. O per dire più corretto la forma è essa medesima la cosa nella sua verità effettuale cioè nella sua esistenza intellettuale o materiale. Ciò che a lui importa non è che la cosa sia ragionevole o morale o bella ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è ed è inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita e perciò del sapere è il “Nosce te ipsum” la conoscenza del mondo nella sua realtà. Il fantasticare il dimostrare il descrivere il moralizzare sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento astratto etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore il suo motto è: “Nil admirari”. Non si maraviglia e non si appassiona perchè comprende come non dimostra e non descrive perchè vede e tocca. Investe la cosa direttamente e fugge le perifrasi le circonlocuzioni le amplificazioni le argomentazioni le frasi e le figure i periodi e gli ornamenti come ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve e perciò la diritta: non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di proposizioni e di fatti soppresse tutte le idee medie tutti gli accidenti e tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore che “non curat de minimis” di un uomo occupato in cose gravi che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno. Quella sua rapidità quel suo condensare non è un artificio come talora è in Tacito e sempre è nel Davanzati ma è naturale chiarezza di visione che gli rende inutili tutte quelle idee medie di cui gli spiriti mediocri hanno bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza ed è insieme pienezza di cose che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con belletti e impolpature che tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua semplicità talora è negligenza; la sua sobrietà talora è magrezza: difetti delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo e gonfiano le gote in aria di pedagoghi quando in quella divina prosa trovino latinismi slegature scorrezioni e simili negligenze.

La prosa del Trecento manca di organismo e perciò non ha ossatura non interna coesione: vi abbonda l'affetto e l'immaginativa vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del Cinquecento hai l'apparenza anzi l'affettazione dell'ossatura la cui espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore e quel lusso di congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione interna. Il vuoto non è nell'intelletto ma nella coscienza indifferente e scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori frasche e fiori. Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti gravi perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento grave o frivolo. Ma la serietà è apparente è tutta formale e perciò rettorica: l'animo vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno salvo che qui è nella sua natura e ti riesce cinico lì è fuori della sua natura e ti riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel tempo come rappresentazione di una società pulita ed elegante tutta al di fuori in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione e che poneva la principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche l'intelletto in quella sua virilità ozioso poneva la principale importanza della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito. Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale un meccanismo tutto d'imitazione a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo. I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche i poeti petrarcheggiavano i prosatori usavano un genere bastardo poetico e rettorico con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una la passività o indifferenza dell'intelletto del cuore dell'immaginazione cioè a dire di tutta l'anima. Ci era lo scrittore non ci era l'uomo. E fin d'allora fu considerato lo scrivere come un mestiere consistente in un meccanismo che dicevasi “forma letteraria” nella piena indifferenza dell'animo: divorzio compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche comparve la prosa del Machiavelli presentimento della prosa moderna.

Qui l'uomo è tutto e non ci è lo scrittore o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è quando vuol fare il letterato anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello esce caldo caldo dal di dentro cose e impressioni spesso condensate in una parola. Perchè è un uomo che pensa e sente distrugge e crea osserva e riflette con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello perciò naturalmente colorita traversata d'ironia di malinconia d'indignazione di dignità ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo ma un marmo qua e là venato. È la grande maniera di Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti al medio evo ne' nomi delle cose e degli uomini finisce così: “e i Cesari e i Pompei Pietri Mattei e Giovanni diventarono”. Qui non ci è che il marmo la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello l'ammirazione per quei Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pietri e Mattei lo sdegno di quel mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica de' nomi al loro collocamento in contrasto come nemici e a quell'ultimo ed energico “diventarono” che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi. Questa prosa asciutta precisa e concisa tutta pensiero e tutta cose annunzia l'intelletto già adulto emancipato da elementi mistici etici e poetici e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose il fato moderno. Questo è in effetti il senso intimo del mondo come il Machiavelli lo concepisce. Lasciando da parte le sue origini il mondo è quello che è un attrito di forze umane e naturali dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi “fato” non è altro che la logica il risultato necessario di queste forze appetiti istinti passioni opinioni fantasie interessi mosse e regolate da una forza superiore lo spirito umano il pensiero l'intelletto. Il Dio di Dante è l'amore forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto l'intelligenza e la regola delle forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore: l'anima del mondo machiavellico e il cervello. Quel mondo è essenzialmente mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo significato. Non è sentimento morale ma è semplicemente forza o energia la tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare secondo logica cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se l'anima del mondo è il cervello hai una prosa che è tutta e sola cervello.

Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni. La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino scrive col cuore commosso con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico come in Dante nel Mussato in tutt'i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini e narra calmo e meditativo a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena; ma è nella sua camera e mentre i fatti gli sfilano avanti cerca afferrarne i motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo inteso a spiegare e tutto raccolto in questo lavoro intellettivo non distratto da emozioni e impressioni. È l'apatia dell'ingegno superiore che guarda con compassione a' moti convulsi e nervosi delle passioni.

Ne' Discorsi ci è maggior vita intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti e vi torna per attingervi lena e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma appena finito il racconto comincia il discorso. L'intelletto come rinvigorito a quella fonte se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali sorpreso e contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di quella originalità di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi. Quei pensieri sono come una schiera ben serrata dove non penetra niente dal di fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione come avviene talora anche a' più grandi pensatori. È l'intelletto pieno di gioventù e di freschezza tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò che non è lui. Digressioni immagini effetti paragoni giri viziosi perplessità di posizioni tutto è sbandito in queste serie disciplinate d'idee mobili e generative venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da una logica inflessibile. Tutto è profondo ed è così chiaro e semplice che ti par superficiale.

Il fondamento de' Discorsi è questo che gli uomini “non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi” e perciò non hanno tempra logica non hanno virtù. Hanno velleità non hanno volontà. Immaginazioni paure speranze vane cogitazioni superstizioni tolgono loro la risolutezza. Perciò “stanno” volentieri “in sull'ambiguo” e scelgono le “vie di mezzo” e “seguono le apparenze”. Ci è nello spirito umano uno stimolo o appetito insaziabile che lo tiene in continua opera e produce il progresso storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione in un'altra e prima si difendono e poi offendono e più uno ha più desidera. Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti e ne' mezzi sono perplessi e incerti.

Quello che degl'individui si può dire anche dell'uomo collettivo come famiglia o classe. Nelle società non ci è in fondo che due sole classi degli “abbienti” e de' “non abbienti” de' ricchi e de' poveri. E la storia non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a fondamento l'“equalità”. Perciò libertà non può essere dove sono “gentiluomini” o classi previlegiate.

È chiaro che una scienza o arte politica non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si ha a esercitare cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi degli ottimati o gentiluomini de' principi de' francesi de' tedeschi degli spagnuoli d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di osservazione ed evidenza di esposizione ne' quali vien fuori il “carattere” cioè quelle forze che movono individui e popoli o classi ad operare così o così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata; e perciò freschissime e vive anche oggi.

Poichè il carattere umano ha questa base comune che i desidèri o appetiti sono infiniti e debole ed esitante è la virtù del conseguirli hai disproporzione tra lo scopo e i mezzi; onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia intellettuale che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il mondo.

Questo punto di vista logico preponderante nella storia comunica all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza come di uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa e più osa. Quando la tempra è fiacca di' pure che l'intelletto è oscuro. L'uomo allora non sa quello che vuole tirato in qua e in là dalla sua immaginazione e dalle sue passioni: com'è proprio del volgo.

Un'applicazione di questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per fraude o per forza tolgono la libertà a' popoli. Ma avuto lo Stato indica loro con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non può dare ma può dare buone leggi che assicurino l'onore la vita la sostanza de' cittadini. Dee mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi non ammazzandoli ma studiandoli e comprendendoli “non ingannato da loro ma ingannando loro”. Come stanno alle apparenze il principe dee darsi tutte le buone apparenze e non volendo essere parere almeno religioso buono clemente protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto; perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare. Soprattutto eviti di rendersi odioso o spregevole.

Chi legge il trattato De regimine principum di Egidio Colonna vi troverà un magnifico mondo etico senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del Machiavelli vi troverà un crudele mondo logico fondato sullo studio dell'uomo e della vita. L'uomo vi è come natura sottoposto nella sua azione a leggi immutabili non secondo criteri morali ma secondo criteri logici. Ciò che gli si dee domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello ma se sia ragionevole o logico se ci sia coerenza tra' mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato dalla forza come forza ma dalla forza come intelligenza. L'Italia non ti potea dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo dell'intelletto purgato dalle passioni e dalle immaginazioni.

Machiavelli bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale cioè la precisione dello scopo e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto non intorbidato da elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali è il suo ideale. E il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura colui che comprende e regola le forze naturali e umane e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano. Veggasi il capitolo decimo una delle proteste più eloquenti che sieno uscite da un gran cuore. Ma posto lo scopo la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo. La responsabilità morale è nello scopo non è ne' mezzi. Quanto ai mezzi la responsabilità è nel non sapere o nel non volere nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare.

Quando Machiavelli scrivea queste cose l'Italia si trastullava ne' romanzi e nelle novelle con lo straniero a casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato. La tempra era rotta. Tutti volevano cacciar lo straniero a tutti “puzzava il barbaro dominio”; ma erano velleità. E si comprende come il Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra attaccando il male nella sua radice. Senza tempra moralità religione libertà virtù sono frasi. Al contrario quando la tempra si rifà si rifà tutto l'altro. E Machiavelli glorifica la tempra anche nel male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia intelletto chiaro e animo fermo ancorachè destituito d'ogni senso morale che il buon Pier Soderini cima di galantuomo ma “anima sciocca” che per la sua incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica.

Ma se in Italia la tempra era infiacchita lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli poneva a base della vita l'essere “uomo” iniziando l'età virile della forza intelligente d'altra parte il motivo principale comico dello spirito italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente cioè a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco com'era concepito in Italia era ridicolo per questo che si presentava all'immaginazione come un esercizio incomposto di una forza gigantesca senza serietà di scopo e di mezzi la forza come forza e tutta la forza ne' fini più seri e più frivoli: ciò che rende così comici Morgante Mandricardo Fracasso.

Ci erano certo i fini cavallereschi come la tutela delle donne la difesa degli oppressi ma che parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire di quei cavalieri foggiati dallo spirito italiano quello che Doralice dicea a Mandricardo quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello avea fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse “fu naturale ferita di core” - Lo spirito italiano adunque da una parte metteva in caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze e dall'altra gittava la base di una nuova età su questo principio virile che la forza è intelligenza serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva ciò che creava rivelava una potenza intellettuale che precorreva l'Europa di un secolo.

Ma in Italia c'era l'intelligenza e non ci era la forza. E si credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era una intelligenza adulta svegliatissima ma astratta una logica formale nella piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza come l'arte per l'arte. Nella coscienza non ci era più uno scopo nè un contenuto. E quando la coscienza è vuota il cuore è freddo e la tempra è fiacca anche nella maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze indisciplinate che disciplinarsi e più facile ridere degli stranieri che mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che ne è la conseguenza ma la forza morale che ci tenga stretti intorno ad una idea e risoluti a vivere e a morire per quella.

Machiavelli ebbe una coscienza chiarissima di questa decadenza o com'egli diceva “corruttela”:

“Qui - scrive - è virtù grande nelle membra quando la non mancasse ne' capi. Specchiatevi ne' duelli e ne' congressi de' pochi quanto gl'italiani siano superiori con le forze con la destrezza con l'ingegno.”

Pure l'Italia era corrotta perchè difettiva di forze morali e perciò di un degno scopo che riempisse di sè la coscienza nazionale Di lui è questo grande concetto: che il nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati ma le forze morali o com'egli dice il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui queste memorabili parole di cui Lutero era il comento:

“La ... religione se ne' princìpi della repubblica cristiana si fosse mantenuta secondo che dal fondatore di essa fu ordinato sarebbero gli Stati e le repubbliche più felici e più unite ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore coniettura della declinazione d'essa quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla Chiesa romana capo della religione nostra hanno meno religione. Chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli giudicherebbe esser propinquo o la rovina o il flagello.”

Certo non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio paese ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:

“Chi nasce in Italia e in Grecia e non sia divenuto in Italia oltramontano e in Grecia turco ha ragione di biasimare i tempi suoi.”

Per lui è questo una sacra missione un atto di patriottismo. Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in Assiria in Media in Persia in Grecia in Italia e Roma. Celebra il regno de' Franchi il regno de' Turchi quello del soldano e le geste della “setta saracina” e le virtù “de' popoli della Magna” al tempo suo. Lo spirito umano immutabile e immortale passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E quando gitta l'occhio sull'Italia il paragone lo strazia. Le sue più belle pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova di Venezia di altre città italiane in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese ma dirgli il vero fargli sentire la propria decadenza perchè ne abbia vergogna e stimolo descrivere la malattia e notare i rimedi gli pare ufficio d'uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande elevatezza morale:

 

“Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora regna non fossero più chiari del sole andrei nel parlare più rattenuto. Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi acciocchè gli animi de' giovani che questi miei scritti leggeranno possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio di uomo buono quel bene che per la malignità dei tempi e della fortuna non ha potuto operare insegnarlo ad altri acciocchè sendone molti capaci alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo.”

Queste parole sono un monumento. Ci si sente dentro lo spirito di Dante.

Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è più indulgente verso i principi:

“Questi nostri principi che erano stati molti anni nel principato loro per averlo dipoi perso non accusino la fortuna ma l'ignavia loro; perchè non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possono mutarsi ... quando poi vennero i tempi avversi pensarono a fuggirsi e non a difendersi.”

Degli avventurieri scrive:

“Il fine delle loro virtù è stato che [Italia] è stata corsa da Carlo predata da Luigi forzata da Ferrando e vituperata da' svizzeri; ... tanto che essi han condotto Italia schiava e vituperata.”

Nè è meno severo verso i gentiluomini avanzi feudali rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura:

“Gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono de' proventi delle loro possessioni abbondantemente senz'avere alcuna cura o di coltivare o di alcuna altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in ogni provincia: ma più perniciosi sono quelli che oltre alle predette fortune comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due sorte di uomini ne sono pieni il regno di Napoli terra di Roma la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è stato mai alcuno vivere politico perchè tali generazioni di uomini sono nemici di ogni civiltà.”

Degna di nota è qui l'idea tutta moderna che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della civiltà è l'ozio: principio che ha gittato giù i conventi ed ha rovinato dalla radice non solo il sistema ascetico o contemplativo ma anche il sistema feudale fondato su questo fatto: che l'ozio de' pochi vivea del lavoro de' molti. Un uomo che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause della decadenza italiana potea ben dire accennando a Savonarola:

“Ond'è che a Carlo re di Francia fu lecito a pigliare Italia col gesso; e chi diceva come di questo ne erano cagione i peccati nostri diceva il vero; ma non erano già quelli che credeva ma questi ch'io ho narrati.”

Gli oziosi sono fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna. Anche allora de' mali d'Italia accagionavano la mala sorte. Machiavelli scrive:

“La fortuna dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle e quivi volta i suoi impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi considererete l'Italia che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun riparo.”

Essendo l'Italia in quella corruttela Machiavelli invoca un redentore un principe italiano che come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo la riordini persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di un solo a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che nella dittatura:

“Cercando un principe la gloria del mondo dovrebbe desiderare di possedere una città corrotta non per guastarla in tutto come Cesare ma per riordinarla come Romolo.”

Di Cesare scrive un giudizio originale rimasto celebre:

“Nè sia è alcuno che s'inganni per la gloria di Cesare sentendolo massime celebrare dagli scrittori; perchè questi che lo lodano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza dell'imperio il quale reggendosi sotto quel nome non permetteva che gli scrittori pèarlassero liberamente di lui. Ma chi vuol conoscere quello che gli scrittori liberi ne direbbero vegga quello che dicono di Catilina. E tanto è più detestabile Cesare quanto è più da biasimare quello che ha fatto che quello che ha voluto fare un male. Vegga pure con quante laudi celebrano Bruto; talchè non potendo biasimare quello per la sua potenza e' celebrano il nimico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma Italia il mondo abbia con Cesare.”

Machiavelli promette a chi prende lo Stato con la forza non solo l'amnistia ma la gloria quando sappia ordinarlo:

“Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione come sono loro proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri e dopo la morte gli rende gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie e dopo la morte lasciare di se una sempiterna infamia.”

Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo che sani l'Italia dalle sue ferite “e ponga fine ... a' sacchi di Lombardia alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana e la guarisca di quelle sue piaghe già per lungo tempo infistolite”. È l'idea tradizionale del Redentore o del Messia. Anche Dante invocava un messia politico il veltro. Se non che il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo perchè la sua Italia era il giardino dell'impero; dove il salvatore di Machiavelli doveva essere un principe italiano perchè la sua Italia era nazione autonoma e tutto ciò che era fuori di lei era straniero barbaro “oltramontano”. Chi vuol vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli paragoni la mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro così moderno ne' concetti e nella forma. L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia non meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le cagioni. “Patria” “libertà” “Italia” “buoni ordini” “buone armi” erano parole per le moltitudini dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di educazione. Le classi colte ritiratesi da lungo tempo nella vita privata tra ozi idillici e letterari erano cosmopolite animate dagl'interessi generali dell'arte e della scienza che non hanno patria. Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con la ferocia degli atti e de' modi; poi la vinsero con le moine inchinandola e celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani perduta libertà e indipendenza continuarono a vantarsi per bocca de' loro poeti signori del mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli stranieri ce ne era ed anche buona volontà di liberarsene. Ma ci era così poca fibra che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello stesso Machiavelli fu una idea e non sappiamo che abbia fatto altro di serio per giungere alla sua attuazione che di scrivere un magnifico capitolo in un linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito e che testimonia più le aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico. Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' a traverso de' suoi desidèri. Il suo onore come cittadino e di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria come pensatore è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli della società moderna e della nazione italiana destinati a svilupparsi in un avvenire più o meno lontano del quale egli tracciava la via. Le illusioni del presente erano la verità del futuro.

Non è maraviglia che il Machiavelli con tanta esperienza del mondo con tanta sagacia d'osservazione abbia avuto illusioni perchè nella sua natura ci entrava molto del poetico. Vedilo nell'osteria giocare con l'oste con un mugnaio con due fornaciari a “picca” e a “tric trac”:

“E ... nascono molte contese e molti dispetti di parole ingiuriose e il più delle volte si combatte per un quattrino e siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano.”

Questo non è che plebeo ma diviene profondamente poetico nel comento appostovi:

“Rinvolto in quella viltà traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte sendo contento che mi calpesti per quella via per vedere se la se ne vergognasse.”

Vedilo tutto solo pel bosco con un Petrarca o con un Dante “libertineggiare” con lo spirito fantasticare abbandonato alle onde dell'immaginazione.

“Venuta la sera mi ritorno a casa ed entro nello scrittoio; e in sull'uscio mi spoglio quella veste contadina piena di fango e di loto e mi metto abiti regali e curiali e vestito decentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini; da' quali ricevuto amorevolmente mi pasco del cibo che solum è mio; e non mi vergogno di parlar con loro e domandarli delle loro azioni ed essi per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia sdimentico ogni affanno non temo la povertà non mi sbigottisce la morte tutto mi trasferisco in loro.”

 

Quel “trasferirsi in loro” quel “libertineggiare” sono frasi energiche di uno spirito contemplativo estatico entusiastico. Ci è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato dopo Lorenzo de' Medici nutrito dello spirito del Boccaccio che si beffa della “divina Commedia” e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia è visibile una esaltazione dello spirito poetica e divinatrice. Ecco: il principe leva la bandiera grida: - Fuori i barbari! - A modo di Giulio. Il poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione:

“Quali porte se gli serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio?”

E finisce co' versi del Petrarca:

Ma furono brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e civile e di un popolo virtuoso e disciplinato ispirata dall'antica Roma: ciò che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico troppo disforme alla realtà ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo troppo simile per molte parti a' suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa non è l'entusiasmo è l'ironia. La sua aria beffarda congiunta con la sagacia dell'osservazione lo chiariscono uomo del Risorgimento De' principi ecclesiastici scrive:

“Costoro soli hanno Stati e non gli difendono hanno sudditi e non gli governano e gli Stati per essere indifesi non sono lor tolti ed i sudditi per non essere governati non se ne curano nè pensano nè possono alienarsi da loro. ... Essendo quelli retti da cagione superiore alla quale la mente umana non aggiunge lascerò il parlarne; perchè essendo esaltati e mantenuti da Dio sarebbe ufficio d'uomo temerario e presuntuoso il discorrerne.”

In tanta riverenza di parole non è difficile sorprendere sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi ne' contemporanei. Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell'osservazione. De' francesi e spagnuoli scrive:

“Il francese ruberia con l'alito per mangiarselo e mandarlo a male e goderselo con colui a chi ha rubato: natura contraria dello spagnuolo che di quello che ti ruba mai ne vedi nulla.”

Da questo profondo ed originale talento di osservazione da questo spirito ironico uscì la Mandragola l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i suoi disinganni.

Dopo i primi tentativi idillici la commedia si era chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scrivea per la corte di Ferrara; il cardinale di Bibbiena scrivea per le corti di Urbino e di Roma. Vi si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora gli attori erano fanciulli.

“Fu pur troppo nuova cosa - scrive il Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità quelli gesti così severi [simular] parasiti e ciò che fece mai Menandro.”

Accompagnamento alla commedia era la musica e intermezzi o intromesse erano le “moresche” balli mimici. Le decorazioni magnifiche. Nella rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi

“un tempio ... tanto ben finito - dice il Castiglione - che non saria possibile a credere che fosse fatto in quattro mesi: tutto lavorato di stucco con istorie bellissime: finte le finestre di alabastro tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino ... figure intorno tonde finte di marmo colonnette lavorate... Da un de' capi era un arco trionfale... Era finta di marmo ma era pittura la storia delli tre Orazi bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima tutta tonda armata con un bello atto che ferìa con un'asta un nudo che gli era a' piedi.”

 

L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle sue arti architettura scultura pittura. Musiche bizzarre tutte nascoste e in diversi luoghi. Quattro intromesse una “moresca di Iasón” o Giasone un carro di Venere un carro di Nettuno un carro di Giunone. La prima intromessa è così descritta dal Castiglione:

“La prima fu una moresca di Iasón il quale comparse nella scena da un capo ballando armato all'antica bello con la spada e una targa bellissima dall'altro furon visti in un tratto due tori tanto simili al vero che alcuni pensàrno che fosser veri che gittavano fuoco dalla bocca. A questi si accostò il buon Iasón e feceli arare posto loro il giogo e l'aratro e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco dal palco uomini armati all'antica tanto bene quanto credo io che si possa. E questi ballarono una fiera moresca per ammazzare Iasón; e poi quando furono all'entrare si ammazzavano ad uno ad uno ma non si vedeano morire. Dietro ad essi se n'entrò Iasòn e subito uscì col vello d'oro alle spalle ballando eccellentissimamente e questo era il Moro e questa fu la prima intromessa.”

Finita la commedia nacque sul palco all'improvviso un Amorino che dichiarò con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi

“si udì una musica nascosa di quattro viole e poi quattro voci con le viole che cantarono una stanza con un bello aere di musica quasi una orazione ad Amore: e così fu finita la festa con grande satisfazione e piacere di chi la vide.”

dice sempre il Castiglione l'autore del Cortigiano che ci ebbe non piccola parte ad ordinarla.

Cosa era questa Calandria nella cui rappresentazione Urbino e poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro un facsimile di Calandrino il marito sciocco motivo comico del Decamerone rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e una sorella similissimi di figura che vestiti or da uomo or da donna generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco ci è anche il furbo e il furbo è Fessenio licenzioso arguto cinico che fa il mezzano al padrone il cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e Fessenio il pedagogo che moralizza e Fessenio che gli dà la baia. Come si vede l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è antica lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più ciniche novelle del Decamerone. Caratteri costumi lingua e stile tutto è vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca l'alito di Lorenzo de' Medici. È uno sguardo allegro e superficiale gittato sul mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri crudi senza sviluppo più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di sentire e che tutta la loro vita fosse esteriore come la vita teatrale in certi tempi è stata tutta nelle gole de' cantanti e nelle gambe delle ballerine. Queste erano le commedie dette “d'intreccio” sullo stesso stampo delle novelle.

A prima vista ti pare alcuna cosa di simile la Mandragola. Anche ivi è grande varietà d'intreccio con accidenti i più comici e più strani. Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze dotate ciascuna di qualità proprie che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato. L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia uomo istrutto e che sa di latino gabbato facilmente da uomini che hanno minor dottrina di lui ma più pratica del mondo. Ci è già qui un concetto assai più profondo che non è in Calandro: si sente il gran pensatore. L'obbiettivo dell'azione comica è la moglie virtuosissima e prudentissima donna vera Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza ma con l'astuzia. Gli antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco come Sesto sente vantar la sua bellezza e lascia Parigi e torna in Firenze sua patria risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito Collatino è divenuto Nicia.

Come Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?

Cattivi versi ma strazianti. Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia Piero de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore il cardinale da Bibbiena “assassinato di amore” e il Bembo esalavano in lettere i loro sospiri e l'uno scrivea gli Asolani e l'altro la Calandria e Machiavelli parlava al deserto ammonendo consigliando e non udito e non curato fece come gli altri scrisse commedie ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e i cardinali.

Callimaco l'innamorato di Lucrezia si associa all'impresa Ligurio un parasito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia il furbo è Ligurio l'amico di casa come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano e fa movere tutti gli attori a suo gusto perchè conosce il loro carattere ciò che li move.

Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Iago perchè Nicia non è Otello. E un volgare mariuolo che con un po' più di spirito farebbe ridere. Riesce odioso e spregevole il peggior tipo d'uomo che abbia nel Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso perciò più tollerabile. Ciò che move Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia: finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato e questa figura ti riesce volgare e fredda.

Un altro associato di Callimaco è il suo servo Siro. Costui ha poca parte ma è assai ben disegnato. Ode tutto vede tutto capisce tutto ed ha aria di non udire non vedere e non capire: fa l'asino in mezzo a' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato e ti riesce anche lui freddo. Ciò che non guasta nulla essendo una parte secondaria.

Colui che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini è Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso lo ammiri nella sua opera e perdi lui di vista.

Callimaco è un innamorato: per aver la sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di Ligurio. A lui le smanie e i delirii. Non è amore petrarchesco e non è cinica volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi rappresentato con una esagerazione e una bonomia che lo rende comico.

“... Mi fo di buon cuore ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte m'assalta tanto desio d'essere una volta con costei ch'io mi sento dalle piante de' piè al capo tutto alterare: le gambe tremano le viscere si commuovono il cuore mi si sbarba dal petto le braccia si abbandonano la lingua diventa muta gli occhi abbarbagliano il cervello mi gira.”

Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto intorno al dottor Nicia il marito sciocco sì sciocco che diviene istrumento inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale. L'autore molto sobrio intorno alle figure accessorie concentra il suo spirito comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume. La sua semplicità è accompagnata con tanta prosunzione di saviezza e con tanta sicurezza di condotta che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo lo gabba ma ci si spassa e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben vedere agli spettatori. Nelle ultime scene ci è una forza e originalità comica che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno.

Il difficile non era gabbare Nicia ma persuadere Lucrezia. L'azione così comica per rispetto a Nicia qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gl'istrumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre la venalità dell'uno l'ignoranza superstiziosa dell'altra. E Machiavelli non che voglia palliare qui è terribilmente ignudo scopre senza pietà quel putridume Sostrata la madre in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. È una brava donna ma di poco criterio e avvezza a pensare col cervello del suo confessore. Alle ragioni della figliuola risponde: - Io non ti so dire tante cose figliuola mia. Tu parlerai al frate vedrai quello che ti dirà e farai quello che tu di poi sarai consigliata da lui da noi e da chi ti vuol bene -. E non si parte mai di là è la sua idea fissa la sua sola idea: - T'ho detto e ridicoti che se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di coscienza che tu lo faccia senza pensarvi -. Il confessore sa perfettamente che madre è questa. “... È ... una bestia - dice - e sarammi un grande aiuto a condurre Lucrezia alle mie voglie”. -

Il carattere più interessante è fra Timoteo il precursore di Tartufo meno artificiato anzi tutto naturale. Fa bottega della chiesa della Madonna del purgatorio. Ma gli uomini non ci credono più e la bottega rende poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la prende co' frati che non sanno mantenere la riputazione dell'immagine miracolosa della Madonna:

“Io dissi mattutino lessi una Vita de' santi padri andai in chiesa ed accesi una lampada ch'era spenta mutai il velo a una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la tengano pulita? E si maravigliano poi che la divozione manca. Oh quanto poco cervello e in questi mia frati!”

Il suo primo ingresso sulla scena è pieno di significato: còlto sul fatto in un dialogo con una sua penitente pittura di costumi profonda nella sua semplicità. Sta spesso in chiesa perchè “in chiesa vale più la sua mercanzia”. È di mediocre levatura buono a uccellar donne:

“... Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò in su la bontà e tutte le donne hanno poco cervello e come n'e una che sappia dire due parole e' se ne predica; perchè in terra di ciechi chi ha un occhio è signore.”

Conosce bene i suoi polli:

“Le più caritative persone che sieno son le donne e le più fastidiose. Chi le scaccia fugge i fastidi e l'utile; chi le intrattiene ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è vero che non è il mele senza le mosche.”

Biascica paternostri e avemarie e usa i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica dell'abitudine. A Ligurio che promettendo larga limosina lo richiede che procuri un aborto risponde: - Sia col nome di Dio facciasi ciò che volete e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa. ... Datemi ... cotesti danari da poter cominciare a far qualche bene -. Parla spesso solo e si fa il suo esame e si dà l'assoluzione sempre che glie ne venga utile:

“Messer Nicia e Callimaco son ricchi e da ciascuno per diversi rispetti sono per trarre assai. La cosa conviene che stia segreta perché l'importa così a loro dirla come a me. Sia come si voglia io non me ne pento.”

Se mostra inquietudine è per paura che si sappia:

“Dio sa ch'io non pensava a ingiuriare persona: stavami nella mia cella diceva il mio ufficio intratteneva i miei divoti. Capitommi innanzi questo diavolo di Ligurio che mi fece intignere il dito in un errore donde io vi ho messo il braccio e tutta la persona e non so ancora dov'io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che quando una cosa importa a molti molti ne hanno aver cura.”

Questo è l'uomo a cui la madre conduce la figliuola. Il frate spiega tutta la sua industria a persuaderla e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e della storia sacra.

“Io son contenta - conchiude Lucrezia - ma non credo mai esser viva domattina”.

E il frate risponde:

“Non dubitare figliuola mia io pregherò Dio per te io dirò l'orazione dell'angiolo Raffaello che t'accompagni. Andate in buon'ora e preparatevi a questo misterio che si fa sera. - Rimanete in pace padre -”

dice la madre e la povera Lucrezia che non è ben persuasa sospira:

“Dio m'aiuti e la nostra Donna che non càpiti male”.

Quel fatto il frate lo chiama un “misterio” e il mezzano è l'angiol Raffaello!

Queste cose movevano indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia facevano ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso dappertutto e così ordinario che se ne ride è cancrena e non ha rimedio.

Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria passatempo. Nel riso di Machiavelli ci è alcun che di tristo e di serio che oltrepassa la caricatura e nuoce all'arte. Evidentemente il poeta non piglia confidenza con Timoteo non lo situa come fa di Nicia non ci si spassa se ne sta lontano quasi abbia ribrezzo. Timoteo è anima secca volgare e stupida senz'immaginazione e senza spirito non è abbastanza idealizzato ha colori troppo crudi e cinici. Lo stile nudo e naturale ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il poeta che il critico il grande osservatore e ritrattista.

Appunto perciò la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. È troppo incorporata in quella società in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei sentimenti e quelle impressioni che la ispirarono non li trovi oggi più. La depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue: non possiamo farne una commedia. Machiavelli stesso che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia qui perde il suo buon umore e la sua grazia e mi assimiglia piuttosto un anatomico che nuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione non ci è il riso e non ci è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriere o il gentiluomo. Sono come animali strani che curioso osservatore egli analizza e descrive quasi faccia uno studio estraneo alle emozioni e alle impressioni.

La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. È un mondo mobile e vivace che ha varietà sveltezza curiosità come un mondo governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da forze spirituali inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza le cui premesse sono nello spirito o nel carattere nelle forze che lo movono. E chi meglio sa calcolarle colui vince. Il soprannaturale il maraviglioso il caso sono detronizzati. Succede il carattere. Quello che Machiavelli è nella storia e nella politica è ancora nell'arte.

Si distinsero due specie di commedie “d'intreccio” e “di carattere”. “Commedia d'intreccio” fu detta dove l'interesse nasce dagli sviluppi dell'azione come erano tutte le commedie e novelle di quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta dove l'azione è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi dall'altra commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due qualità. La sua commedia è una vera e propria azione vivacissima di movimenti e di situazioni animata da forze interiori che ci stanno come forze o istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo come forza operante non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente fino della più volgare e cinica buffoneria come è il “Don Cuccù” e la “palla di aloè”. Ci è lì tutto Machiavelli l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava allo scrittoio.

Di ogni scrittore muore una parte. E anche del Machiavelli una parte è morta quella per la quale e venuto a trista celebrità. È la sua parte più grossolana è la sua scoria quella che ordinariamente è tenuta parte sua vitale così vitale che è stata detta il “machiavellismo” Anche oggi quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia la chiama patria di Dante e di Savonarola e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo chiamarci “figli di Machiavelli”. Tra il grande uomo e noi ci è il machiavellismo. È una parola ma una parola consacrata dal tempo che parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco.

Del Machiavelli è avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato “petrarchismo” quello che in lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato “machiavellismo” quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo e si è dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un Machiavelli di convenzione veduto da un lato solo e dal meno interessante. È tempo di rintegrare l'immagine.

Ci è nel Machiavelli una logica formale e c'è un contenuto.

La sua logica ha per base la serietà dello scopo ciò ch'egli chiama “virtù”. Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi conseguirlo è da femmina. Essere uomo significa “marciare allo scopo”. Ma nella loro marcia gli uomini errano spesso perchè hanno l'intelletto e la volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti e giudicano secondo le apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le paiono e non come le sono: a quel modo che fa la plebe. Cacciar via dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e fermezza di volontà questo è essere un uomo aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo può essere un tiranno o un cittadino un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori dell'argomento è un altro aspetto dell'uomo. Ciò a che guarda Machiavelli è di vedere se è un uomo ciò a che mira è rifare le radici alla pianta “uomo” in declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra e il vizio è l'incoerenza la paura l'oscillazione.

Si comprende che in questa generalità ci è lezioni per tutti pe' buoni e pe' birbanti e che lo stesso libro sembra agli uni il codice de' tiranni e agli altri il codice degli uomini liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un uomo come base di tutto il resto. Vi s'impara che la storia come la natura non è regolata dal caso ma da forze intelligenti e calcolabili fondate sulla concordanza dello scopo e de' mezzi; e che l'uomo come essere collettivo o individuo non è degno di questo nome se non sia anch'esso una forza intelligente coerenza di scopo e di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo sottratta possibilmente all'influsso dell'immaginazione e delle passioni con uno scopo chiaro e serio e con mezzi precisi.

Questo è il concetto fondamentale l'obbiettivo del Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: ci è un contenuto che abbiamo già delineato ne' tratti essenziali.

La serietà della vita terrestre col suo istrumento il lavoro; col suo obbiettivo la patria; col suo principio l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale la nazione col suo fattore lo spirito o il pensiero umano immutabile ed immortale col suo organismo lo Stato autonomo e indipendente con la disciplina delle forze con l'equilibrio degl'interessi ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente nel mondo del Machiavelli a cui è di corona la gloria cioè l'approvazione del genere umano ed è di base la virtù o il carattere “agere et pati fortia”.

Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale come te la porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione il sentimento l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la scolastica nasce la scienza.

Questo è il vero machiavellismo vivo anzi giovane ancora. È il programma del mondo moderno sviluppato corretto ampliato più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si avvicinano. Siamo dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando crolla alcuna parte dell'antico edificio. E gloria a lui quando si fabbrica alcuna parte del nuovo. In questo momento che scrivo le campane suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'Italiani a Roma. Il potere temporale crolla. E si grida il “viva” all'unità d'Italia. Sia gloria al Machiavelli.

Scrittore non solo profondo ma simpatico. Perchè nelle sue transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale antimperiale antifeudale civile moderno e democratico. E quando stretto dal suo scopo propone certi mezzi non di rado s'interrompe protesta ha quasi aria di chiederti scusa e di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il mondo è fatto così la colpa non è mia. -

Ciò che è morto del Machiavelli non è il sistema è la sua esagerazione. La sua “patria” mi rassomiglia troppo l'antica divinità e assorbe in sè religione moralità individualità. Il suo “Stato” non è contento di essere autonomo esso ma toglie l'autonomia a tutto il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La “ragione di Stato” ebbe le sue forche come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi e la “salute pubblica” le sue mannaie. Fu stato di guerra e in quel furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di coscienza l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la nazionalità. E se chiamate machiavellismo quei mezzi vogliate chiamare anche machiavellismo quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano sono la parte che muore: i fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma e non è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi i quali la storia posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli che sceglierne altri. Dura lex sed ita lex.

Certo oggi il mondo è migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico il tradimento la frode le sette le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già tempi più umani e civili dove non sieno più possibili la guerra il duello le rivoluzioni le reazioni la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età dell'oro. Le nazioni saranno confederate e non ci sarà altra gara che d'industrie di commerci e di studi.

È un bel programma. E quantunque sembri un'utopia non dispero. Ciò che lo spirito concepisce presto o tardi viene a maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire.

Ma siamo ben lontani dal Machiavelli. E anche da' nostri tempi. E non è co' criteri di un mondo nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della storia; ma quella è. -

Nel machiavellismo ci è una parte variabile nella qualità e nella quantità relativa al tempo al luogo allo stato della coltura alle condizioni morali de' popoli. Questa parte che riguarda i mezzi è molto mutata e muterà in tutto quando la società sia radicalmente rinnovata. Ma la teoria de' mezzi è assoluta ed eterna perchè fondata sulle qualità immutabili della natura umana. Il principio dal quale si sviluppa quella teoria è questo che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle forze che movono gli uomini. È chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il relativo e il torto del Machiavelli comunissimo a tutt'i grandi pensatori è di avere espresso in modo assoluto tutto anche ciò che è essenzialmente relativo e variabile.

Il machiavellismo in ciò che ha di assoluto o di sostanziale è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi le leggi del suo sviluppo della sua grandezza e della sua decadenza come uomo e come società. Su questa base sorgono la storia la politica e tutte le scienze sociali. Gl'inizi della scienza sono ritratti discorsi osservazioni di uomo che alla coltura classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il machiavellismo come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la sua base e il suo linguaggio. Come contenuto il machiavellismo su' rottami del medio evo abbozza un mondo intenzionale visibile tra le transazioni e i vacillamenti dell'uomo politico un mondo fondato sulla patria sulla nazionalità sulla libertà sull'uguaglianza sul lavoro sulla virilità e serietà dell'uomo.

In letteratura l'effetto immediato del machiavellismo è la storia e la politica emancipate da elementi fantastici etici sentimentali e condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo e della natura messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico e ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. È l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima Francesco Guicciardini con tutti gli scrittori politici della scuola fiorentina e veneta poi Galileo Galilei con la sua illustre coorte di naturalisti.

Francesco Guicciardini ancorche di pochi anni più giovane di Machiavelli e di Michelangiolo già non sembra della stessa generazione. Senti in lui il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta della quale egli ha scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli. Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà concepita a modo suo con una immagine di governo stretto e temperato che si avvicina a' presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri e non metterebbe un dito a realizzarli.

“Tre cose - scrive - desidero vedere innanzi alla mia morte ma dubito ancora che vivessi molto non ne vedere alcuna: uno vivere di repubblica bene ordinato nella città nostra Italia liberata da tutt'i barbari e liberato il mondo della tirannide di questi scelerati preti.”

Una libertà bene ordinata l'indipendenza e l'autonomia delle nazioni l'affrancamento del laicato ecco il programma del Machiavelli divenuto il testamento del Guicciardini e che oggi è ancora la bandiera di tutta la parte liberale e civile europea.

Si può credere che questi fossero i desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici senza influsso nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini che scrive: “Conoscere non è mettere in atto”. Altro è desiderare altro è fare. La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi ma fa come ti torna. La regola della vita è “l'interesse proprio” “il tuo particolare”.

Il Guicciardini biasima “l'ambizione l'avarizia e la mollizie de' preti” e il dominio temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero “per vedere ridurre questa caterva di scelerati a' termini debiti cioè a restare o senza vizi o senza autorità”; ma “per il suo particolare” è necessitato “amare la grandezza de' pontefici” e servire a' preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in molte parti; ma non ci si mescola lui “non combatte con la religione nè con le cose che pare che dependono da Dio; perchè questo obbietto ha troppa forza nella mente delli sciocchi”. Ama la gloria e desidera di fare “cose grandi ed eccelse” ma a patto che non sia “con suo danno o incomodità”. Ama la patria e se perisce glie ne duole non per lei perchè “così ha a essere” ma per sè “nato in tempi di tanta infelicità”. È zelante del ben pubblico ma “non s'ingolfa tanto nello Stato” da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole la libertà ma quando la sia perduta non è bene fare mutazioni perchè “mutano i visi delle persone non le cose e non puoi fare fondamento sul populo” e quando la vada male ti tocca “la vita spregiata del fuoruscita”. Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che “governano non ti abbiano in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti”. Quelli che altrimenti fanno sono uomini “leggieri”. Molti è vero gridano libertà ma “in quasi tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo”. Essendo il mondo fatto così hai a pigliare il mondo com'è e condurti di guisa che non te ne venga danno anzi la maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini “savi”.

La corruttela italiana era appunto in questo che la coscienza era vuota e mancava ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della vita terrestre la patria la nazione la libertà. Non ci è più il cielo per lui ma ci è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini come cose belle e buone e desiderabili ma li ammette sub conditione a patto che sieno conciliabili col tuo “particulare” come dice cioè col tuo interesse personale. Non crede alla virtù alla generosità al patriottismo al sacrificio al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio e mette se francamente tra questi più che sono i savi: gli altri li chiama “pazzi” come furono i fiorentini che “vollero contro ogni ragione opporsi” quando “i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta” e intende dell'assedio di Firenze illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi tra' quali erano Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella generazione di patrioti fiorentini che in tanta rovina cercavano i rimedi e non si rassegnavano e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel Guicciardini comparisce una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perchè non vede rimedio a quella corruttela vi si avvolge egli pure e ne fa la sua saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita.

Il dio del Guicciardini è il suo particolare. Ed è un dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompariscono. Ogni vincolo religioso morale politico che tiene insieme un popolo è spezzato. Non rimane sulla scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè verso e contro tutti. Questo non è più corruzione contro la quale si gridi: è saviezza è dottrina predicata e inculcata è l'arte della vita.

Il Guicciardini si crede più savio del Machiavelli perchè non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica Roma lo infastidisce e rompe in questo motto sanguinoso:

“Quanto s'ingannano coloro che ad ogni parola allegano i romani! Bisognerebbe avere una città condizionata com'era la loro e poi governarsi secondo quello esemplo: il quale a chi ha le qualità disproporzionate è tanto disproporzionato quanto sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo.”

In questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede che non sente rimorso e non mostra la menoma esitazione e guarda con un'aria di superiorità sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene a suo avviso non per virtù o altezza d'animo ma “per debolezza di cervello” avendo offuscato lo spirito dalle apparenze dalle impressioni dalle vane immaginazioni e dalle passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano già adulto e progredito che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede ed è tutto e solo cervello o come dice il Guicciardini “ingegno positivo”.

Perchè l'ingegno sia positivo si richiede la “prudenza naturale” la “dottrina” che dà le regole l'“esperienza” che dà gli esempli e il “naturale buono” tale cioè che stia al reale e non abbia illusioni. E non basta. Si richiede anche la “discrezione” o il discernimento perchè è “grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e per dire così per regola perchè quasi tutte hanno distinzione e eccezione e queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri ma bisogna lo insegni la discrezione”. Il vero libro della vita è dunque “il libro della discrezione” a leggere il quale si richiede da natura “buono e perspicace occhio”. La dottrina sola non basta e non è bene stare al giudicio di quelli che scrivono e in ogni cosa “volere vedere ognuno che scrive: così quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare si consuma a leggere libri con stracchezza d'animo e di corpo in modo che l'ha quasi più similitudine a una fatica di facchini che di dotti”.

L'uomo positivo vede il mondo altro da quello che “a' volgari” pare. Non crede agli astrologi ai teologi a' filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o che non si veggono “e dicono mille pazzie: perchè in effetti gli uomini sono al buio delle cose e questa indagazione ha servito e serve più a esercitare gl'ingegni che a trovare la verità”.

Questa base intellettuale è quella medesima del Machiavelli l'esperienza e l'osservazione il fatto e lo “speculare” o l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il Machiavelli nega e in forma anche più recisa e ammette quello che il Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il mondo com'è crede un'illusione a volerlo riformare e volergli dare le gambe di cavallo quando esso le ha di asino e lo piglia com'è e vi si acconcia e ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con tutti perchè “gli uomini si riscontrano”. Stai con chi vince perchè “te ne viene parte di lode e di premio”. “Abbi appetito della roba” perchè la ti dà riputazione e la povertà è spregiata. Sii schietto perchè “quando sia il caso di simulare più facilmente acquisti fede”. Sii stretto nello spendere perchè “più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa che dieci che tu ne hai spesi”. Studia di “parere buono” perchè “il buon nome vale più che molte ricchezze”. Non meritarti nome di sospettoso ma perchè più sono i cattivi che i buoni “credi poco e fidati poco” Questo è il succo dell'arte della vita seguita da' più ancorchè con qualche ipocrisia come se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice fondato sul divorzio tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse individuale. È il codice di quella borghesia italiana tranquilla scettica intelligente e positiva succeduta a' codici d'amore e alle regole della cavalleria.

Ma il Guicciardini con tutta la sua saviezza trovò un altro più savio di lui e volendo usare Cosimo a benefizio suo avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita come il Machiavelli nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue illusioni e i suoi disinganni meno nobili meno degni della posterità perchè si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia.

Se guardiamo alla potenza intellettuale è il lavoro più importante che sia uscito da mente italiana. Ciò che lo interessa non è la scena la parte teatrale o poetica sulla quale facevano i loro esercizii rettorici il Giovio il Varchi il Giambullari e gli altri storici. I fatti più maravigliosi o commoventi sono da lui raccontati con una certa sprezzatura come di uomo che ne ha viste assai e non si maraviglia e non si commove più di nulla. Non ha simpatie e antipatie non ha tenerezze e indignazioni e neppure ha programmi e preconcetti intorno a' risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto chiaro e tranquillo è chiuso in sè e non vi entra nulla dal di fuori che lo turbi o lo svii. È l'intelletto positivo con quelle qualità che abbiamo notate e che in lui sono egregie la prudenza naturale la dottrina l'esperienza il naturale buono e la discrezione. Maravigliosa è soprattutto la sua discrezione nel non riconoscere princìpi nè regole assolute e giudicare caso per caso guardando in ciascun fatto la sua individualità quel complesso di circostanze sue proprie che lo fanno esser quello e non un altro: dov'è la vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni è naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena dove penetra con sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo della superficie di ciò che si vede e si dice il parere e lo studio dell'essere di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la sola descrizione de' fatti ma la loro genesi e la loro preparazione li vedi nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il carattere etico o morale di quelli ma la loro azione su' fatti. Il motivo determinante è l'interesse ed è sagacissimo nell'indagazione non meno degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici e sono interessi di re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia e si nascondono sotto il manto di fini più nobili come la gloria l'onore la libertà l'indipendenza fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o gli eserciti. Di che nasce massime nelle concioni una specie di rettorica ad usum delphini voglio dire ad uso de' volgari che non guardano nel fondo e si lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come istrumenti e i veri e principali attori sono pochi uomini che li movono con la violenza e con l'astuzia e li usano a' fini loro.

Lo storico avea intenzioni letterarie. La sua prosa massime ne' Ricordi ha la precisione lapidaria di Machiavelli con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese senza che ne abbia i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più avanzato. Ma il Guicciardini di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani avea de' preconcetti in letteratura opinioni ammesse senza esame solo perchè ammesse da tutti. Lo scrivere è per lui come per i letterati di quel tempo la traduzione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto complicato e a lui faticoso quasi vi facesse allora per la prima volta le sue prove. Molti uomini mediocri quali il Casa o il Castiglione o il Salviati o lo Speroni vi riescono con minore difficoltà come disciplinati ed educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni se non fosse manifesta la sua franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni le sue descrizioni le sue orazioni le sue sentenze morali un certo calore d'immaginazione e di sentimento una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo freddo come la logica ed esatto come la meccanica e che non è forse in fondo se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da un intelletto superiore.

La Storia d'Italia è in venti libri e si stende dal 1494 al 1532 Comincia con la calata di Carlo ottavo finisce con la caduta di Firenze. Apparisce in ultimo come un funebre annunzio di tempi peggiori Paolo terzo il papa della Inquisizione e del Concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare la “tragedia italiana” perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi cesse in potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è e sono le grandi calamità che colpiscono gl'individui le arsioni le prede gli stupri tutt'i mali della guerra. Avvolto fra tanti “atrocissimi accidenti” sagacissimo a indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze l'insieme gli fugge. La Riforma la calata di Carlo la lotta tra Carlo quinto e Francesco primo la trasformazione del papato la caduta di Firenze e l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e soggetta questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista che studi e classifichi erbe piante e minerali e indaghi la loro struttura interna e la loro fisiologia che li fa essere così o così. L'uomo vi apparisce come un essere naturale che operi così fatalmente come un animale determinato all'azione da passioni opinioni interessi dalla sua natura o carattere con la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive. Considerando l'uomo a questo modo lo storico conserva quella calma dell'intelletto quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso interesse; anzi Malatesta è più interessante perchè la sua azione è meno spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca questo concetto della storia che l'uomo ancora che sembri nelle sue azioni libero è determinato da motivi interni o dal suo carattere e si può calcolare quello che farà e come riuscirà quasi con quella sicurezza che si ha nella storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto dovendo recarne la cagione a se stesso che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui i quali ci appaiono qui come una specie di macchinette maravigliose anzi miracolose alla plebe a noi poco interessanti perchè sappiamo il segreto conosciamo l'ingegno da cui escono quei miracoli e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio dell'ingegno.

Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di fisica sociale come si direbbe oggi un complesso di leggi che regolano non solo gl'individui ma la società e il genere umano. Perciò patria libertà nazione umanità classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che le passioni gl'interessi le opinioni le forze che movono gl'individui. E se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca molto abbiamo ad imparare nelle sue opere. Indi è che come carattere morale il segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti elevati che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine e come forza intellettuale unisce alla profonda analisi del Guicciardini una virtù sintetica una larghezza di vista che manca in quello. Lui è un punto di partenza nella storia destinato a svilupparsi; l'altro è un bel quadro finito e chiuso in sè.


XVI

PIETRO ARETINO

Il mondo teologico-etico del medio evo tocca l'estremo della sua contraddizione in questo mondo positivo del Guicciardini un mondo puramente umano e naturale chiuso nell'egoismo individuale superiore a tutt'i vincoli morali che tengono insieme gli uomini. Il ritratto vivente di questo mondo nella sua forma più cinica e più depravata è Pietro Aretino. L'immagine del secolo ha in lui l'ultima pennellata.

Pietro nacque nel 1492 in uno spedale di Arezzo da Tita la bella cortigiana la modella scolpita e dipinta da parecchi artisti. Senza nome senza famiglia senza amici e protettori senza istruzione. “Andai alla scuola quanto intesi la santa croce componendo ladramente merito scusa e non quegli che lambiccano l'arte de' greci e de' latini.” A tredici anni rubò la madre e fuggì a Perugia e si allogò presso un legatore di libri. A diciannove anni attirato dalla fama della corte di Roma e che tutti vi si facevano ricchi vi giunse che non aveva un quattrino e fu ricevuto domestico presso un ricco negoziante Agostino Chigi e poco poi presso il cardinale di San Giovanni. Cercò fortuna presso papa Giulio e non riuscitogli vagando e libertineggiando per la Lombardia da ultimo si fe' cappuccino in Ravenna. Salito al pontificato Leone decimo e concorrendo a quella corte letterati buffoni istrioni cantori ogni specie di avventurieri gli parve lì il suo posto smise l'abito e corse a Roma e vestì la livrea del papa divenne suo valletto. Spiritoso allegro libertino sfacciato mezzano in quella scuola compì la sua educazione e la sua istruzione. Imparò a chiudere in quattordici versi le sue libidini e le sue adulazioni e le sue buffonerie e ne fe' traffico e ne cavò di bei quattrini. Ma era sempre un valletto e poco gli era a sperare in una corte dove s'improvvisava in latino. Armato di lettere di raccomandazione va a Milano a Pisa a Bologna a Ferrara a Mantova e si presenta a principi e monsignori sfacciatamente con aria e prosunzione di letterato. Studia come una donna l'arte di piacere e aiuta la ciarlataneria con la compiacenza. “A Bologna mi fu cominciato a essere donato; il vescovo di Pisa mi fe' fare una casacca di raso nero ricamata in oro che non fu mai la più superba; presso il signor Marchese di Mantova sono in tanta grazia che il dormir e il mangiar lascia per ragionar meco e dice non avere altro piacere ed ha scritto al cardinale cose di me che veramente onorevolmente mi gioveranno e son io regalato di trecento scudi. Tutta la corte mi adora e par beato chi può avere uno de' miei versi e quanti mai feci il signore li ha fatti copiare e ho fatto qualcuno in sua lode. E sto qui e tutto il giorno mi dona e gran cose che le vedrete ad Arezzo.” Gli dànno del messere e del signore; il valletto è un gentiluomo e torna a Roma “tra paggi di taverna e vestito come un duca” compagno e mezzano de' piaceri signorili e con a lato gli Estensi e i Gonzaga che gli hanno familiarmente la mano sulla spalla. Continua il mestiere così bene incominciato. Una sua “laude” di Clemente settimo gli frutta la prima pensione; sono versacci:

Il suo spirito il suo umore gioviale l'estro libidinoso gli acquistarono tanta riputazione che fuggito di Roma per i suoi sedici sonetti illustrativi de' disegni osceni di Giulio Romano fu cercato come un buon compagnone da Giovanni de' Medici capo delle Bande Nere detto il gran diavolo. Aveva poco più che trent'anni. Giovanni e Francesco primo se lo disputano. Giovanni voleva fare signore di Arezzo il suo compagno di orgie e di libidini quando una palla tedesca gli troncò il disegno e la vita. Pietro avea coscienza oramai della sua forza. E lasciando le corti riparò in Venezia come in una rocca sicura e di lì padroneggiò l'Italia con la penna. Udiamo lui stesso come si dipinge nelle sue lettere: “Dopo ch'io mi rifugiai sotto l'egida della grandezza e delle libertà veneziane non ho più nulla da invidiare. Nè il soffio dell'invidia nè l'ombra della malizia non potranno offuscare la mia fama nè togliere la possanza della mia casa. - Io sono un uomo libero per la grazia di Dio. - Non mi rendo schiavo de' pedanti. - Non mi si vede percorrere le tracce nè del Petrarca nè di Boccaccio. Bastami il genio mio indipendente. Ad altri lascio folleggiar la purezza dello stile la profondità del pensiero; ad altri la pazzia di torturarsi di trasformarsi mutando sè stessi. Senza maestro senz'arte senza modello senza guida senza luce io avanzo e il sudore de' miei inchiostri mi fruttano la felicità e la rinomanza. Che avrei di più a desiderare? - Con una penna e qualche foglio di carta me ne burlo dell'universo. Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero mi diverto e perciò posso chiamarmi felice. - Le mie medaglie sono composte d'ogni metallo e di ogni composizione. La mia effigie è posta in fronte a' palagi. Si scolpisce la mia testa sopra i pettini sopra i tondi sulle cornici degli specchi come quella di Alessandro di Cesare di Scipione. Alcuni vetri di cristallo si chiamano vasi aretini. Una razza di cavalli ha preso questo nome perchè papa Clemente me ne ha donato uno di quella specie. Il ruscello che bagna una parte della mia casa è denominato l'Aretino. Le mie donne vogliono esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I pedanti possono morir di rabbia prima di giungere a tanto onore.” E non erano ciarle. L'Ariosto dice di lui: “il flagello de' principi il divin Pietro Aretino”. Un pedante parlando delle lettere dell'Aretino e del Bembo diceva al Bembo: “Chiameremo voi il nostro Cicerone e lui il nostro Plinio.” “Purchè Pietro se ne contenti” rispose il Bembo. E non se ne contentava. A Bernardo Tasso che vantava le sue lettere scrive: “Stimando di troppo le proprie vostre opere e non abbastanza le altrui voi avete messo in compromesso il vostro giudizio. Nello stile epistolare voi siete l'imitator mio e voi camminate dietro di me a piè nudi. Voi non potete imitare nè la facilità delle mie frasi nè lo splendore delle mie metafore. Son cose che si veggono languire nelle vostre carte e che nascono vigorose nelle mie. Convengo che voi avete qualche merito una certa grazia di stile angelico e di armonia celeste che risuona gradevolmente negl'inni nelle odi e negli epitalami. Ma tutte queste dolcitudini non convengono alle Epistole che hanno d'uopo di espressione e di rilievo non di miniatura e di artifizio. È colpa del vostro gusto che preferisce il profumo de' fiori al sapore de' frutti. Ma non sapete chi son io? Non sapete quante lettere ho pubblicate che sonosi trovate maravigliose? Io non mi starò qui a fare il mio elogio il quale finalmente non sarebbe che verità. Non vi dirò che gli uomini di merito dovrebbero riguardare siccome un giorno memorabile il dì della mia nascita: io che senza seguire e senza servir le corti ho costretto tutto quanto vi ha di grande sulla terra duchi principi e monarchi a diventar tributarii del mio ingegno! Per quanto è lungo e largo il mondo la fama non si occupa che di me. Nella Persia e nell'India trovasi il mio ritratto e vi è stimato il mio nome. Finalmente io vi saluto e statevi ben certo che se molte persone biasimano il vostro modo di scrivere ciò non è per invidia - e se qualche altre lo lodano egli e per compassione.” Tale si teneva e tale lo teneva il mondo. Fu creduto un grand'uomo sulla sua fede. Non mirava alla gloria; dell'avvenire se ne infischiava; voleva il presente. E l'ebbe più che nessun mortale. Medaglie corone titoli pensioni gratificazioni stoffe d'oro e d'argento catene e anella d'oro statue e dipinti vasi e gemme preziose tutto ebbe che la cupidità di un uomo potesse ottenere. Giulio III lo nominò cavaliere di San Pietro. E per poco non fu fatto cardinale. Avea di sole pensioni ottocentoventi scudi. Di gratificazioni ebbe in diciotto anni venticinquemila scudi. Spese durante la sua vita più di un milione di franchi. Gli vennero regali fino dal corsaro Barbarossa e dal sultano Solimano. La sua casa principesca è affollata di artisti donne preti musici monaci valletti paggi e molti gli portano i loro presenti chi un vaso d'oro chi un quadro chi una borsa piena di ducati e chi abiti e stoffe. Sull'ingresso vedi un busto di marmo bianco coronato di alloro: è Pietro Aretino. Aretino a dritta Aretino a manca; guardate nelle medaglie d'ogni grandezza e d'ogni metallo sospese alla tappezzeria di velluto rosso: sempre l'immagine di Pietro Aretino. Morì a sessantacinque anni il 1557 e di tanto nome non rimase nulla. Le sue opere poco poi furono dimenticate la sua memoria è infame; un uomo ben educato non pronunzierebbe il suo nome innanzi a una donna.

Chi fu dunque questo Pietro corteggiato dalle donne temuto dagli emuli esaltato dagli scrittori così popolare baciato dal papa e che cavalcava a fianco di Carlo quinto? Fu la coscienza e l'immagine del suo secolo. E il suo secolo lo fece grande.

Machiavelli e Guicciardini dicono che l'appetito è la leva del mondo. Quello che essi pensarono Pietro fu.

Ebbe da natura grandi appetiti e forze proporzionate. Vedi il suo ritratto fatto da Tiziano. Figura di lupo che cerca la preda. L'incisore gli formò la cornice di pelle e zampe di lupo; e la testa del lupo assai simile di struttura sta sopra alla testa dell'uomo. Occhi scintillanti narici aperte denti in evidenza per il labbro inferiore abbassato grossissima la parte posteriore del capo sede degli appetiti sensuali verso la quale pare che si gitti la testa calva nella parte anteriore. “Figlio di cortigiana anima di re” dice lui. Legatore di libri valletto del papa miserie! I suoi bisogni sono infiniti. Non gli basta mangiare; vuole gustare; non gli basta il piacere; vuole la voluttà; non gli basta il vestire; vuole lo sfarzo; non gli basta arricchire; vuole arricchire gli altri spendere e spandere. E a chi se ne maraviglia risponde: “Ebbene che farci a questo? Se io son nato per vivere così chi m'impedirà di vivere così?” I suoi sogni dorati sono vini squisiti cibi delicati ricchi palagi belle fanciulle belli abiti. Di ciò che appetisce ha il gusto. E nessuno è giudice più competente in fatto di buoni bocconi e di godimenti leciti e illeciti. È in lui non solo il senso del piacere ma il senso dell'arte. Cerca ne' suoi godimenti il magnifico lo sfarzoso il bello il buon gusto l'eleganza.

Ed ha forze proporzionate a' suoi appetiti un corpo di ferro una energia di volontà la conoscenza e il disprezzo degli uomini e quella maravigliosa facoltà che il Guicciardini chiama discrezione il fiuto il da fare caso per caso. Sa quello che vuole. La sua vita non è scissa in varie direzioni: uno è lo scopo la soddisfazione de' suoi appetiti o come dice il Guicciardini il suo particolare. Tutti i mezzi sono eccellenti e li adopera secondo i casi. Ora è ipocrita ora è sfacciato. Ora è strisciante ora è insolente. Ora adula ora calunnia. La credulità la paura la vanità la generosità dell'uomo sono in mano sua un ariete per batterlo in breccia ed espugnarlo. Ha tutte le chiavi per tutte le porte. Oggi un uomo simile sarebbe detto un camorrista e molte sue lettere sarebbero chiamate ricatti. Il maestro del genere è lui. Specula soprattutto sulla paura. Il linguaggio del secolo è officioso adulatorio; il suo tono è sprezzante e sfrontato. Le calunnie stampate erano peggio che pugnali; cosa stampata voleva dir cosa vera; e lui mette a prezzo la calunnia il silenzio e l'elogio. Non gli spiacea aver nome di mala lingua anzi era parte della sua forza. Francesco primo gl'inviò una catena d'oro composta di lingue incatenate e con le punte vermiglie come intinte nel veleno con sopravi questo esergo: “Lingua eius loquetur mendacium”. Aretino gli fa mille ringraziamenti. Quando non gli conviene dir male delle persone dice male delle cose tanto per conservarsi la reputazione come sono le sue intemerate contro gli ecclesiastici i nobili i principi. Così l'uomo abbietto fu tenuto un apostolo e fu detto flagello de' principi. Talora trovò chi non aveva paura. Achille della Volta gli die' una pugnalata. Nicolò Franco suo segretario gli scrisse carte di vitupèri. Pietro Strozzi lo minaccia di ucciderlo se si attenta a pronunziare il suo nome. È bastonato sputacchiato. È lui allora che ha paura perchè era vile e poltrone. Sir Howel lo bastona ed egli loda il Signore che gli accorda la facoltà di perdonare le ingiurie. Giovanni il gran diavolo morendo gli disse: “Ciò che più mi fa soffrire è vedere un poltrone.” Ma in generale amavano meglio trattarlo come Cerbero e chiudergli i latrati gittandogli un'offa. Le sue lettere sono capilavori di malizia e di sfrontatezza. Prende tutte le forme e tutti gli abiti dal buffone e dal millantatore sino al sant'uomo calunniato e disconosciuto. Come saggio ecco una sua lettera alla piissima e petrarchesca marchesa di Pescara che lo aveva esortato a cangiar vita e a scrivere opere pie:

“Confesso che non sono meno utile al mondo e meno gradevole a Gesù spendendo le mie veglie per cose futili che se le impiegassi in opere di pietà. Ma quale ne è la causa? La sensualità altrui e la mia povertà. Se i principi fossero così divoti come io sono bisognoso la mia penna non traccerebbe che miserere. Illustrissima madonna tutti al mondo non possedono l'ispirazione della grazia divina. Il fuoco della concupiscenza divora la maggior parte; ma Voi voi non ardete che di fiamma angelica. Per noi musiche e commedie sono quel che è per voi la preghiera e la predica. Voi non rivolgereste gli occhi per vedere Ercole nelle fiamme o Marsia scorticato; noi altrettanto per non riguardare san Lorenzo sulla graticola o san Bartolomeo spoglio della sua pelle. Vedete un po': io ho un amico per nome Brucioli il quale dedicò la sua Bibbia al Re Cristianissimo. Dopo cinque anni non ne ebbe tampoco risposta. La mia commedia invece la Cortigiana acquistossi dal medesimo re una ricca collana. Di guisa che la mia cortigiana si sentirebbe tentata a beffarsi del Vecchio Testamento se non fosse cosa troppo indecorosa. Accordatemi mille scuse Signora per le baie che vi ho scritte non per malizia ma per vivere. Che Gesù v'ispiri di farmi tenere da Sebastiano da Pesaro il resto della somma sulla quale ho già ricevuto trenta scudi e di cui vi sono anticipatamente debitore.”

All'ultimo una stoccata come si direbbe oggi. È una lettera tirata giù di un fiato da un genio infernale. Con che bonomia si beffa della pia donna avendo aria di farne l'elogio! Con che cinismo proclama le sue speculazioni sulla libidine e sulla oscenità umana come fossero la cosa più naturale di questo mondo! Specula pure sulla divozione e con pari indifferenza scrive libri osceni e vite di santi il Ragionamento della Nanna e la Vita di santa Caterina da Siena la Cortigiana errante e la Vita di Cristo. E perchè no? Posto che traeva guadagno di qua e di là. Scrisse di ogni materia e in ogni forma dialoghi romanzi epopee capitoli commedie e anche una tragedia l'Orazia. Immagina quali eroi possono essere gli Orazii quale eroina l'Orazia e che specie di popolo romano può uscire dall'immaginazione di Pietro. Pure è il solo lavoro che abbia intenzioni artistiche fatto ch'era già vecchio e sazio e cupido più di gloria che di danari. Gli riuscì una freddura un mondo astratto e pedestre di cui non comprese la semplicità e la grandezza. Negli altri suoi lavori senti lui nella verità della sua natura dedito a piacere al suo pubblico a interessarlo a guadagnarselo a fare effetto. Ci è innanzi a lui una specie di mercato morale: conosce qual è la merce più richiesta più facile a spacciare e a più caro prezzo. Si fa una coscienza e un'arte posticcia variabile secondo i gusti del suo padrone il pubblico. Perciò fu lo scrittore più alla moda più popolare e meglio ricompensato. I suoi libri osceni sono il modello di un genere di letteratura che sotto nome di racconti galanti invase l'Europa. L'oscenità era una salsa molto ricercata in Italia dal Boccaccio in poi; qui è essa l'intingolo. Le vite di santi sono veri romanzi dove ne sballa di ogni sorta solleticando la natura fantastica e sentimentale delle pinzochere. Fabbro di versi assai grossolano senti ne' suoi sonetti e capitoli la bile e la malignità congiunta con la servilità. Così alludendo alla munificenza di Francesco primo dice a Pier Luigi Farnese:

Pietro non è un malvagio per natura. È malvagio per calcolo e per bisogno. Educato fra tristi esempi senza religione senza patria senza famiglia privo di ogni senso morale con i più sfrenati appetiti e con molti mezzi intellettuali per soddisfarli il centro dell'universo è lui il mondo pare fatto a suo servizio. Su questa base la sua logica e uguale alla sua tempra. Ha una chiara percezione de' mezzi e nessuna esitazione o scrupolo a metterli in atto. E non lo dissimula anzi se ne fa gloria è lì la sua forza e vuole che tutti ne sieno persuasi. Il mondo era un po' a sua immagine molti erano che avrebbero voluto imitarlo ma non avevano il suo ingegno la sua operosità la sua penetrazione la sua versatilità il suo spirito. Perciò l'ammiravano. Fra tanti avventurieri e condottieri di cui l'Italia era ammorbata gente vagabonda senza princìpi senza professione e in cerca di una fortuna a qualunque costo il principe il modello era lui. Tiziano lo chiama il condottiero della letteratura. E lui non se ne offende se ne pavoneggia. Lasciato alla sua spontaneità quando non lo preme il bisogno e non opera per calcolo scopre buone qualità. È allegro conversevole liberale anzi magnifico amico a tutta prova riconoscente ammiratore de' grandi artisti come di Michelangiolo e di Tiziano. Aveva la logica del male e la vanità del bene.

Pietro come uomo è un personaggio importante il cui studio ci tira bene addentro ne' misteri della società italiana della quale era immagine in quella sua mescolanza di depravazione morale di forza intellettuale e di sentimento artistico. Ma non è meno importante come scrittore.

La coltura tendeva a fissarsi e a meccanizzarsi. Non si discuteva più se si aveva a scrivere in volgare o in latino. Il volgare aveva conquistato oramai il suo dritto di cittadinanza. Ma si discuteva se il volgare si avesse a chiamare toscano o italiano. E non era contesa di parole ma di cose. Perchè molti scrittori pretendevano di scrivere come si parlava dall'un capo all'altro d'Italia e non erano disposti di andare a prender lezione in Firenze. Amavano meglio latinizzare che toscaneggiare Riconoscevano come modelli il Boccaccio e il Petrarca ma non davano alcuna autorità alla lingua viva. Lingua viva era per loro il linguaggio comune che atteggiavano alla latina e alla boccaccevole. Questo meccanismo era accettato generalmente; se non che in Firenze il fondo della lingua non era il linguaggio comune mescolato di elementi locali siculi lombardi veneti ma l'idioma toscano così com'era stato maneggiato dagli scrittori. E Firenze esaurita la produzione intellettuale alzò le colonne di Ercole nel suo vocabolario della Crusca e disse: non si va più oltre. Il Bembo e più tardi il Salviati fissarono le forme grammaticali. E le regole dello scrivere in tutt'i generi furono fissate nelle rettoriche traduzioni o raffazzonamenti di Aristotile Cicerone e Quintiliano. Si giunse a questo che Giulio Camillo pretendea d'insegnare tutto il sapere mediante un suo meccanismo. Tendenza al meccanizzare: che è fenomeno costante in tutte le età che la produzione si esaurisce e la coltura si arresta e si raccoglie nelle sue forme e si cristallizza.

Pietro di mediocrissima coltura considera tutte queste regole come pedanteria. La sua vita interiore così spontanea e piena di forza produttiva mal vi si può adagiare. Il pedantismo è il suo nemico e lo combatte corpo a corpo. E chiama pedantismo quel veder le cose non in sè stesse e per visione diretta ma a traverso di preconcetti di libri e di regole. Quegl'inviluppi di parole e di forme gli sono così odiosi come l'ipocrisia quel “covrirsi della larva di un'affettata modestia invilupparsi nella pelle della volpe e predicar l'umiltà e la decenza senza valer meglio degli altri.” Non ascoltate quest'ipocriti ” scrive al cardinale di Ravenna “pedanti comentatori di Seneca i quali dopo di aver passata la lor vita nell'assassinare i morti non sono contenti se non quando crocifiggono i vivi. Sì monsignore egli è il pedantismo che ha avvelenato i Medici; è il pedantismo che ha ucciso il duca Alessandro; è il pedantismo che ha prodotto tutt'i mali di questo mondo; è desso che per la bocca del pedante Lutero ha provocata l'eresia e l'ha armata contro la nostra santa fede. Lorenzino si fe' assassino per pedanteria e per pedanteria si fe' eretico Lutero cioè a dire operarono per preconcetti secondo i libri e senza nessuna intelligenza de' tempi loro.” Non è meno implacabile verso il pedantismo letterario. Al Dolce scrive: “Andate pur per le vie che al vostro studio mostra la natura. Il Petrarca e il Boccaccio sono imitati da chi esprime i concetti suoi con la dolcezza e con la leggiadria con cui dolcemente e leggiadramente essi andarono esprimendo i loro e non da chi gli saccheggia non pur de' “quinci” de' “quindi” de' “soventi” e degli “snelli” ma de' versi interi. Il pedante che voglia imitare “rimoreggia” dell'imitazione e mentre ne schiamazza negli scartabelli la trasfigura in locuzione ricamandola con parole tisiche in regola. O turba errante io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo della natura nelle sue allegrezze il qual si sta nel furor proprio e mancandone il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanile senza campane per la qual cosa chi vuol comporre e non trae cotal grazia dalle fasce è un zugo infreddato. Imparate ciò ch'io favello da quel savio pittore il quale nel mostrare a colui che il dimandò chi egli imitava una brigata d'uomini col dito volle inferire che dal vivo e dal vero toglieva gli esempi come gli tolgo io parlando e scrivendo. La natura di cui son secretario mi detta ciò ch'io compongo. È certo ch'io imito me stesso perchè la natura è una compagnona badiale e l'arte una piattola che bisogna che si appicchi; sicchè attendete a esser scultore di sensi e non miniator di vocaboli.” Parecchi scrivevano allora così alla naturale e basta citare fra tutti il Cellini tutto vita e tutto cose. Ma il Cellini si teneva un ignorante e voleva che il Varchi riducesse la sua Vita nella forma de' dotti dove l'Aretino si teneva superiore a tutti gli altri e dava facilmente del pedante a quelli che lambiccavano le parole. Ci è in lui una coscienza critica così diritta e decisa che in quel tempo ci dee parere straordinaria. La stessa libertà e altezza di giudizio portò nelle arti di cui aveva il sentimento. A Michelangiolo scrive: “Ho sospirato di sentirmi sì piccolo e di saper voi così grande”. Il suo favorito è il suo amico e compare Tiziano il cui realismo così pieno e quasi sensuale si affà alla sua natura. Preso di febbre si appoggia alla finestra e guarda le gondole e il Canal grande di Venezia e rimane pensoso e contemplativo lui Pietro Aretino! La vista della bella natura lo purifica lo trasforma. E scrive al Tiziano: “Quasi uomo che fatto noioso a se stesso non sa che farsi della mente non che de' pensieri rivolgo gli occhi al cielo il quale da che Dio lo creò non fu mai abbellito da così vaga pittura di ombre e di lumi onde l'aria era tale quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi per non esser voi. I casamenti benchè sien pietre vere parevano di materia artificiata. E di poi scorgete l'aria ch'io compresi in alcun luogo pura e viva in altra parte torbida e smorta. Considerate anche la maraviglia ch'io ebbi de' nuvoli i quali nella principal veduta mezzi si stavano vicini a' tetti degli edificii e mezzi nella penultima perocchè la diritta era tutta di uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano: i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare e i più lontani rosseggiavano d'un ardore di minio non così bene acceso. O con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l'aria in là discostandola da' palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far de' paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro e in alcuni altri un azzurro veramente composto dalle bizzarrie della natura maestra de' maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera che io che so come il vostro pennello è spirito dei suoi spiriti e tre e quattro volte esclamai: - O Tiziano dove sete mo? - Per mia fe' che se voi aveste ritratto ciò ch'io vi conto indurreste gli uomini nello stupore che confuse me.” È notabile che questo sentimento della natura vivente de' suoi colori e de' suoi chiaroscuri non produce nella sua anima alcuna impressione o elevatezza morale ma solo una ammirazione o stupore artistico come in un italiano di quel tempo. Vede la natura a traverso il pennello di Tiziano e del paesista Vecellio ma la vede viva immediata e con un sentimento dell'arte che cerchi invano nel Vasari. Fra tante opere pedantesche di quel tempo intorno all'arte e allo scrivere le sue lettere artistiche e letterarie segnano i primi splendori di una critica indipendente che oltrepassa i libri e le tradizioni e trova la sua base nella natura.

Quale il critico tale lo scrittore. Delle parole non si dà un pensiero al mondo. Le accoglie tutte onde che vengano e quali che sieno toscane locali e forestiere nobili e plebee poetiche o prosaiche aspre e dolci umili e sonore. E n'esce uno scrivere che è il linguaggio parlato anche oggi comunemente in Italia dalle classi colte. Abolisce il periodo spezza le giunture dissolve le perifrasi disfà ripieni ed ellissi rompe ogni artificio di quel meccanismo che dicevasi forma letteraria s'accosta al parlar naturale. Nel Lasca nel Cellini nel Cecchi nel Machiavelli ci è la stessa naturalezza ma ci senti l'impronta toscana tutta grazia. Questi è un toscano ineducato figlio della natura vivuto fuori del suo paese e che parla tutte le lingue fra le quali esercita le sue speculazioni. Fugge il toscaneggiare come una pedanteria; non cerca la grazia cerca l'espressione e il rilievo. La parola è buona quando gli renda la cosa atteggiata come è nel suo cervello e non la cerca gli viene innanzi cosa e parola tanta e la sua facilità. Non sempre la parola è propria e non sempre adatta perchè spesso scarabocchia e non scrive abusando della sua facilità. Il suo motto è: “Come viene viene” e nascono grandi ineguaglianze. Di Cicerone e del Boccaccio non si dà fastidio anzi fa proprio l'opposto cercando non magnificenza e larghezza di forme nelle quali si dondola un cervello indolente ma la forma più rapida e più conveniente alla velocità delle sue percezioni. E neppure affetta brevità come il Davanzati cervello ozioso tutto alle prese con le parole e gl'incisi perchè la sua attenzione non è al di fuori è tutta al di dentro. Abbandona i procedimenti meccanici non cura le finezze e le lascivie della forma. Ha tanta forza e facilità di produzione e tanta ricchezza di concetti e d'immagini che tutto esce fuori con impeto e per la via più diritta. Non ci è intoppo non ci è digressione o distrazione: pronto e deciso nello stile come nella vita. Mai non fu così vero il detto che lo stile è l'uomo. Come il suo io è il centro dell'universo è il centro del suo stile. Il mondo che rappresenta non esiste per sè ma per lui e lo tratta e lo maneggia come cosa sua con quel capriccio e con quella libertà che il Folengo tratta il mondo della sua immaginazione. Se non che nel Folengo si sviluppa l'umore perchè il suo mondo è immaginario e lo tratta senz'alcuna serietà solo per riderne; dove il mondo di Pietro è cosa reale e ne ha una perfetta conoscenza e lo tratta per sfruttarlo per cavarne il suo utile. Perciò non rispetta il suo argomento non si cala e non si obblia in esso; ma ne fa il suo istrumento i suoi mezzi anche a costo di profanarlo indegnamente. Tratta Gesù Cristo come un cavaliere errante e “che importa” dice “la menzogna che io mescolo a queste opere? Dacchè io parlo de' Santi che sono il nostro rifugio celeste le mie parole diventano parole di evangelio”. Di santa Caterina scrive che “Io non avrei fatto sei pagine di tutto se avessi voluto attenermi alla tradizione e alla storia. Le mie spalle hanno assunto tutto il peso dell'invenzione; perchè infine queste cose tornano alla più gran gloria di Dio”. Talora si secca per via il cervello è vuoto e ammassa aggettivi con uno sfoggio di pompa oratoria che rivela il ciarlatano: “Come lodare il religioso il chiaro il grazioso il nobile l'ardente il fedele il veridico il soave il buono il salutare il santo e il sacro linguaggio della giovane Caterina vergine sacra santa salutare nobile graziosa chiara religiosa e facile?” Sembra una campana che ti assorda e ti turi le orecchie. Questo dicevasi stile fiorito e l'Aretino te ne regala quando non ha di meglio. Talora vuol pur dire ma non ha vena e non sentimento ed esce nelle più sbardellate metafore e nelle sottigliezze più assurde massime ne' suoi elogi che gli erano così ben pagati. “Essendo i meriti vostri” scrive al duca d'Urbino “le stelle del Ciel della Gloria una di loro quasi pianeta dell'ingegno mio lo inclina a ritràrvi con lo stil delle parole la imagine dell'anima acciocchè la vera faccia delle sue virtù desiderata dal mondo possa vedersi in ogni parte; ma il poter suo avanzato dall'altezza del subbietto non ostante che sia mosso da cotale influsso non può esprimere in qual modo la bontà la clemenza e la fortezza di pari concordia vi abbiano concesso per fatal decreto il vero nome di Principe.” È un periodo alla boccaccevole stiracchiato ne' concetti e nella forma. Qui non ci è il “come viene viene”; ma ci è il non voler venire e il farlo venire per forza. I suoi panegirici sono tutti rettorici metaforici miniati falsamente pomposi gonfiati sino all'assurdo e sembrano quasi caricature ironiche sotto forma di omaggi. Il dir bene non era per lui cosa tanto facile quanto il dir male dove spiega tutto il vigore della sua natura cinica e sarcastica. Assume un tuono enfatico e cerca peregrinità di concetti e di modi un linguaggio prezioso composto tutto di perle ma di perle false: preziosità passata in Francia con Voiture e Balzac e castigata da Molière e che in Italia dovea divenire la fisonomia della nostra letteratura. Ecco alcune di queste perle false messe in circolazione dall'Aretino: “Io pesco nel lago della mia memoria con l'amo del pensiero. - Il mio merito risplende della vernice della vostra grazia. - Il chiodo della riconoscenza conficca il nome de' miei amici nel mio cuore. - Non seppellite le mie speranze nella tomba delle vostre false promesse. - La vostra grandezza ascende le scale del cielo con istupor delle genti. - La vostra eloquenza si move dal natural dell'intelletto con tanta facondia che si riman confusa nella maraviglia la lingua che le proferisce i concetti e l'orecchie che l'ascoltano. - Tòrre a Solimano in servigio della Cristianità l'animo dall'anima l'anima dal corpo e il corpo dalle armi. - Raccogliete l'affezione mia in un lembo della vostra pietà. - Mi dono a voi padri de' vostri popoli fratelli de' vostri servi erarii della caritade e subbietti della clemenza. - La faccia della liberalità ha per ispecchio il cuore di coloro a cui si porge. - La vostra Eccellenza ricerca da me qualche ciancia per farne ventaglio del caldo grande che arde questi dì.” Questo stile fiorito o prezioso è traversato a quando a quando da lampi di genio: paragoni originali immagini splendide concetti nuovi e arditi pennellate incisive e trovi pure quando è abbandonato a sè e non cerca l'effetto verità di sentimento e di colorito come in questa lettera così commovente nella sua semplicità: “Le scarpe azzurro-turchine ricamate in oro che ho ricevute insieme con la vostra lettera m'han fatto tanto piangere quanto m'hanno arrecato di piacere. La giovinetta che doveva adornarsene questa mattina ha ricevuto gli olii santi ed io non posso scrivervene di più tanto sono commosso.” La dissoluzione del meccanismo letterario è una forma di scrivere più vicina al parlare libera da ogni preconcetto e immediata espressione di quel di dentro uno stile ora fiorito ora prezioso che sono le due forme della declinazione dell'arte e delle lettere ecco ciò che significa Pietro Aretino come scrittore. La sua influenza non fu piccola. Aveva attorno secretari allievi e imitatori della sua maniera come il Franco il Dolce il Landi il Doni e altri mestieranti. “Io vivo di Kirieleison” scrive il Doni. “I miei libri sono scritti prima di esser composti e letti prima di esser stampati”. La sua Libreria si legge ancora oggi per un certo brio e per curiose notizie.

Ma Pietro ha ancora una certa importanza come scrittor di commedie. C'era un mondo comico convenzionale la cui base era Plauto e Terenzio con accessorii cavati dalla vita plebea e volgare di quel tempo. La base erano equivoci riconoscimenti viluppi di accidenti che tenessero viva la curiosità. Intorno vi si schieravano caratteri divenuti convenzionali il parassito il servo ghiottone la cortigiana la serva furba e mezzana il figliuolo prodigo il padre avaro e burlato il poltrone che fa il bravo il sensale l'usuraio. Lo studio de' nostri comici è interessante chi voglia conoscer bene addentro i misteri di quella corruttela italiana. Vedrà i legami di famiglia sciolti e figli scioperati accoccarla a' padri zimbello essi medesimi di usurai cortigiani e mezzani tra le risa del rispettabile pubblico. Codesto mondo era la commedia con sue forme fisse alla latina sparsa di lazzi e di lubricità. Il più fecondo scrittor comico fu il Cecchi morto il 1587 che in meno di dieci giorni improvvisava commedie farse storie e rappresentazioni sacre. Ha il brio e la grazia fiorentina comune col Lasca ma ha meno spirito e movimento anzi talora ti par di stare in una morta gora. Il suo mondo e i suoi caratteri sono come un repertorio già noto e fissato e la furia gl'impedisce di darvi il colore e la carne. Ti riesce non di rado scarno e paludoso. Pietro dà dentro in tutto questo meccanismo e lo disfà. Non riconosce regole e non tradizioni e non usi teatrali. “Non vi maravigliate” dice nel prologo della Cortigiana “se lo stil comico non si osserva con l'ordine che si richiede perchè si vive d'un'altra maniera a Roma che non si vivea in Atene”. Fra le regole c'era questa che i personaggi non potevano comparire più di cinque volte in iscena. Pietro se ne burla con molto spirito: “Se voi vedessi uscire i personaggi più di cinque volte in iscena non ve ne ridete perchè le catene che tengono i molini sul fiume non terrebbono i pazzi di oggidì”. Mira all'effetto; tronca gl'indugi sgombra gl'intoppi; evita le preparazioni gli episodi le descrizioni le concioni i soliloqui spessi; cerca in tutto l'azione e il movimento e ti gitta fin dal principio nel bel mezzo di quel suo mondo furfantesco vivamente particolareggiato. Non ha la sintesi del Machiavelli quell'abbracciare con sicuro occhio un vasto insieme e legarlo e svilupparlo con fatalità logica come fosse un'argomentazione. Non è ingegno speculativo è uomo d'azione e lui stesso personaggio da commedia. Perciò non ti dà un'azione bene studiata e ordita come è la Mandragola; gli fugge l'insieme il mondo gli si presenta a pezzi e a bocconi. Ma come il Machiavelli egli ha una profonda esperienza del cuore umano e grande conoscenza de' caratteri i quali si sviluppano ben rilevati e sporgenti tra la varietà degli accidenti e dominano la scena e generano invenzioni e situazioni piccanti. Come ci gode questo furfante fra tante bricconate che mette in iscena! Perchè infine quel mondo comico è il suo mondo quello dove ha fatto tante prove di malizia e di ciarlataneria. Il concetto fondamentale è che il mondo è di chi se lo piglia e perciò è de' furbi e degli sfacciati e guai agli sciocchi! Tocca ad essi il danno e le beffe perchè sono loro abbandonati alle risa del pubblico sono loro la materia comica. L'Ipocrita è l'apoteosi di un furfante che a furia d'intrighi e di malizia diviene ricco proprio come l'Aretino. La Talanta è una cortigiana che l'accocca a tutt'i suoi amanti e finisce ricca stimata e maritata a un suo antico e fedele amante alla barba degli altri. Il Filosofo mentre studia Platone e Aristotile se la fa fare dalla moglie e poi il buon uomo si riconcilia con essa. Nella Cortigiana messer Maco che vuol divenire cardinale e Parabolano che in grazia delle sue ricchezze crede di avere a' suoi piedi tutte le donne sono per tutta la commedia zimbello di cortigiane di mezzani e di furfanti. Il Marescalco o grande scudiere per non far dispiacere al duca di Mantova suo signore consente a sposarsi con una donna che non ha mai visto lui nemico delle donne e del matrimonio. Nè questo è un mondo immaginario e subbiettivo anzi è proprio quella società lì co' suoi costumi egregiamente rappresentati nel più fino e nel più minuto. Pietro vi gavazza entro come nel suo elemento lanciando satire elogi epigrammi bricconerie e laidezze con un brio e un ardore di movenze come fossero fuochi artificiali. Alcuni caratteri sono rimasti celebri e tutti son vivi e veri. Il suo Marescalco ha ispirato Rabelais e Shakespeare ed è uno scherzo originalissimo. Il suo Parabolano è rimasto l'appellativo degli uomini fatui e vani. Messer Maco è il tipo da cui usciva il Pourceaugnac. Il suo ipocrita è un Tartufo innocuo e messo in buona luce. Il suo filosofo che egli chiama Plataristotile è una caricatura de' Platonici di quel tempo. A sentirlo sentenziare è savissimo ma non ha pratica del mondo e il servo la sa più lunga di lui e più lunga del servo la sa Tessa la moglie. Questo filosofo a cui la moglie gliela fa sul naso pronunzia sentenze bellissime sulle donne mentre il servo che sa tutto gli fa la boccaccia:

Plataristotile - La femmina è guida del male e maestra della scelleratezza.

Servo - Chi lo sa nol dica.

Plataristotile - Il petto della femmina è corroborato d'inganni.

Servo - Tristo per chi non la intende.

Plataristotile - Solo quella è casta che da nessuno è pregata.

Servo - Questo sì ch'io stracredo.

Plataristotile - Chi sopporta la perfidia della moglie impara a perdonare le ingiurie.

Servo - Bella ricetta per chi è polmone.”

E il servo conchiude: “Vostra Saviezza pigli quello che vi potria intervenire in buona parte e non si lasci tanto andar dietro agli speculamenti dottrineschi che il diavolo non vi lasciasse poi andare per i canneti”.

“Tu parli da eloquente ” risponde il filosofo; “ma non ci son per considerar sopra per lo appetito della gloria che conseguisco filosofando”.

Il suo Boccaccio è uno di quei merli capitati nelle unghie di una cortigiana e scorticati vivi. La sua serva tende l'imboscata:

Boccaccio - Che cosa move la tua madonna a voler parlare a me che son forestiere?

Lisa - Forse la grazia ch'è in voi; maffe sì ch'ella c'è or via.

Boccaccio - Tu ti diletti da ben dire.

Lisa - Mi venga la morte se non ispasima di favellarvi.

Boccaccio - Chi è gentile il dimostra.

Lisa - Nel vederla manderete a monte le bellezze d'ogni altra... State saldo fermatevi e mirate il sole la luna e le stelle che si levano là su quell'uscio.

Boccaccio - Che brava appariscenzia!

Lisa - Il vostro giudizio ha garbo.

Boccaccio - Purch'io sia l'uom ch'ella cerca. I nomi alle volte si strantendono.

Lisa - Il vostro è sì dolce che si appicca alle labbra. Eccola corrervi incontro a braccia aperte.”

Le cortigiane sono il suo tema favorito. La sua Angelica è il tipo di tutte le altre. E la sua Nanna è la maestra del genere.

Questa è la commedia che poteva produrre quel secolo l'ultimo atto del Decamerone un mondo sfacciato e cinico i cui protagonisti sono cortigiani e cortigiane e il cui centro è la corte di Roma segno a' flagelli dell'uomo che nella sua rocca di Venezia erasi assicurata l'impunità.

Secondo una tradizione popolare molto espressiva Pietro morì di soverchio ridere come morì Margutte e come moriva l'Italia.


 

XVII

TORQUATO TASSO

L' Ariosto il Machiavelli l'Aretino sono le tre forme dello spirito italiano a quel tempo un'immaginazione serena e artistica che si sente pura immaginazione e beffa se stessa; un intelletto adulto che dà bando alle illusioni dell'immaginazione e del sentimento e t'introduce nel santuario della scienza nel mondo dell'uomo e della natura; una dissoluzione morale senza rimorso perchè senza coscienza perciò sfacciata e cinica. Intorno all'Ariosto si schierano gl'innumerabili novellieri romanzieri e comici pasto avido di popolo colto e ozioso che vive di castelli incantati perchè non prende più sul serio la vita reale. Intorno al Machiavelli si stringono tutta una schiera d'illustri statisti e storici come il Guicciardini il Giannotti il Paruta il Segni il Nardi e tutt'i grandi pensatori che cercano la redenzione nella scienza. Attorno all'Aretino si move tutto il mondo plebeo de' letterati istrioni buffoni cortigiani speculatori e mestieranti. L'Ariosto spinge l'immaginazione fino al punto che provoca l'ironia. Il Machiavelli spinge la sua realtà e la logica a tal segno che produce il raccapriccio. E l'Aretino spinge il suo cinismo a tal grado che produce il disgusto. Queste tre forme dello spirito si riflettono in loro ingrandite e condensate.

Quello era il tempo che i grandi Stati d'Europa prendevano stabile assetto e fondavano ciascuno la “patria” di Machiavelli cioè una totalità politica fortificata e cementata da idee religiose morali e nazionali. E quello era il tempo che l'Italia non solo non riusciva a fondare la patria ma perdeva affatto la sua indipendenza la sua libertà il suo primato nella storia del mondo.

Di questa catastrofe non ci era una coscienza nazionale anzi ci era una certa soddisfazione. Dopo tante calamità venivano tempi di pace e di riposo e il nuovo dominio non parve grave a popoli stanchi di tumulti e di lotte avvezzi a mutare padroni e pazienti di servitù che non toccava le leggi i costumi le tradizioni le superstizioni e assicurava le vite e le sostanze. Alcun moto di plebe ci fu come a Napoli per l'Inquisizione e per la gabella de' frutti cagionato da poca abilità ne' governanti anzi che da elevatezza di sentimenti ne' sudditi. Quanto alle classi colte ritirate da gran tempo nella vita privata negli ozi letterari e ne' piaceri della città e della villa niente parve loro mutato in Italia perchè niente era mutato nella lor vita. Contenti anche i letterati a' quali non mancava il pane delle corti e l'ozio delle accademie. Questa Italia spagnuola-papale aveva anche un aspetto più decente. A forza di gridare che il male era nella licenza de' costumi massime fra gli ecclesiastici il Concilio di Trento si diede a curare il male riformando i costumi e la disciplina. “Si non caste tamen caute.” Al cinismo successe l'ipocrisia. Il vizio si nascose; si tolse lo scandalo. E non fu più tollerata tutta quella letteratura oscena e satirica; Niccolò Franco l'allievo e poi il rivale di Pietro Aretino predicatosi da sè “flagello del flagello de' principi” finì impiccato per un suo epigramma latino. Il riso del Boccaccio morì sulle labbra di Pietro Aretino. La censura preventiva stabilita già dal Concilio lateranense fu applicata con severità; fu costituita la Congregazione dell'Indice. Sorsero nuovi ordini religiosi per la riforma de' costumi e l'educazione della gioventù i teatini i somaschi i barnabiti i padri dell'oratorio i gesuiti. Si composero poesie sacre che si cantavano nelle chiese e nelle processioni. San Filippo Neri introdusse gli “oratorii” drammi e commedie sacre. L'istruzione cadde in mano a' preti e a' frati. Spirava un odore di santità!

Questa fu la riforma fatta dal Concilio di Trento e che il Sarpi chiama “difformazione”. Il tema prediletto de' poeti italiani e de' protestanti erano gli scandali della corte romana. Roma la “meretrice” di Dante la “Babilonia” del Petrarca era stata assalita da' protestanti nel suo lato più debole e più efficace sulle grossolane moltitudini nella sua scostumatezza. Il Concilio spezzò quest'arma antica di guerra in mano agli avversari riformando la disciplina e dando in questo ragione al vecchio Savonarola. Rimosso lo scandalo il Concilio credea di aver tolta alla Riforma protestante la sua ragion di essere e stimò possibile una conciliazione. Ma la licenza de' costumi era il pretesto e non la cagion vera e intima della Riforma germanica e della incredulità italiana che era l'intelletto già adulto e libero che non voleva riconoscere autorità di sorta e reclamava la libertà di esame. Ora il Concilio non dava a questo alcuna soddisfazione come sarebbe stato un accostare la gerarchia a forme democratiche e lasciare alcuna larghezza di opinione in certe quistioni; anzi fece proprio l'opposto rafforzò l'autorità papale a spese de' vescovi atteggiando la gerarchia a monarchia assoluta e definì tutte le quistioni di domma e di fede negando la competenza della ragione e della coscienza individuale. Così la scissione divenne definitiva e l'Europa cristiana fu divisa in due campi: dall'un lato la Riforma dall'altro il romanismo e il papismo. La Riforma avea per bandiera la libertà di coscienza e la competenza della ragione nell'interpretazione della Bibbia e nelle quistioni teologiche; il romanismo avea per contrario a fondamento l'autorità infallibile della Chiesa anzi del papa e l'ubbidienza passiva il “credo quia absurdum”. Questa lotta tra la fede e la scienza l'autorità e la libertà è antica coeva alle origini stesse della religione ma si manifestava in quistioni parziali intorno a questo o a quel dogma e solo allora se ne acquistò coscienza e la differenza fu elevata a principio. In questa coscienza più chiara sta l'importanza della Riforma e del Concilio di Trento. Innanzi di questo tempo ci era in Italia una specie di ecletismo per il quale filosofia e teologia andavano insieme senza troppo saper come a quel modo che classicismo e cristianesimo e le idee più ardite si facevano largo quando erano accompagnate con la clausola: “salva la fede”. Era una specie di compromesso tacito per il quale il mondo bene o male andava innanzi senza troppi urti. Ora non sono più possibili gli equivoci le cautele e ipocrisie oratorie: le due parti sanno quello che vogliono e stanno a fronte nemiche. La Chiesa anzi il papa si proclama solo e infallibile interprete della verità e dichiara eretica non questa o quella proposizione solamente ma la libertà e la ragione il dritto di esame e di discussione. Da questa lotta esce il concetto moderno della libertà. Presso gli antichi “libertà” era partecipazione de' cittadini al governo nel qual senso è intesa anche dal Machiavelli. Presso i moderni accanto a questa libertà politica è la libertà intellettuale o come fu detto la “libertà di coscienza” cioè a dire la libertà di pensare di scrivere di parlare di riunirsi di discutere di avere una opinione e divulgarla e insegnarla: libertà sostanziale dell'individuo dritto naturale dell'uomo e indipendente dallo Stato e dalla Chiesa. Di qui viene questa conseguenza che interpretare e bandire la verità è dritto naturale dell'uomo e non privilegio di prete: sicchè proprio della Riforma fu il secolarizzare la religione. Il concetto opposto fondato sull'onnipotenza della Chiesa o dello Stato è il dritto divino la teocrazia il cesarismo assorbimento dell'individuo nell'essere collettivo come si chiami o Chiesa o Stato o papa o imperatore.

Il Concilio di Trento portava conseguenze non solo religiose ma politiche. Da esso usciva la consacrazione della monarchia assoluta sulle rovine de' privilegi feudali e delle franchigie comunali. Papa e re si diedero la mano. Il re prestava al papa il braccio secolare e il papa lo consacrava lo legittimava gli dava i suoi inquisitori e i suoi confessori. La monarchia fu ordinata a modo della gerarchia ecclesiastica e fondata sullo stesso principio dell'autorità e della ubbidienza passiva. Trono e altare furono del pari inviolabili e indiscutibili. E fu atto di ribellione pensare liberamente di papa o di re anzi venne su il motto: “De Deo parum de rege nihil”. Così la religione divenne un istrumento politico il dispotismo religioso divenne il sussidio naturale del dispotismo politico.

Ma l'autorità e la fede sono di quelle cose che non si possono imporre. E in Italia era così difficile restaurare la fede come la moralità. Ciò che si potè conseguire fu l'ipocrisia cioè a dire l'osservanza delle forme in disaccordo con la coscienza. Divenne regola di saviezza la dissimulazione e la falsità nel linguaggio ne' costumi nella vita pubblica e privata: immoralità profonda che toglieva ogni autorità alla coscienza ed ogni dignità alla vita. Le classi colte incredule e scettiche si rassegnarono a questa vita in maschera con la stessa facilità che si acconciarono alla servitù e al dominio straniero. Quanto alle plebi vegetavano e fu cura e interesse de' superiori lasciarle in quella beata stupidità.

Non mancarono resistenze individuali. Molti uomini pii e anche ecclesiastici amarono meglio ardere su' roghi o esulare che mentire alla coscienza. Intere famiglie abbandonarono l'Italia e portarono altrove le loro industrie. Uomini egregi di virtù e di scienza onorarono il paese natio scrivendo predicando nella Svizzera nell'Inghilterra in Germania. Operosissimo fra tutti il Socino da Siena da cui presero nome i sociniani. Il suo merito è di avere avuto della Riforma una coscienza assai più chiara che non Lutero e non Calvino facendo fede quanto l'intelletto italiano era innanzi in queste speculazioni. Perchè il Socino uscendo dalle quistioni parziali intorno a questo o a quel pronunziato teologico sulle quali battagliavano Lutero Melantone e Calvino proclama la ragione sola competente negando ogni elemento soprannaturale e fa centro dell'universo l'uomo nel suo libero arbitrio negando l'onniscienza divina e la predestinazione. Ci si vede subito l'italiano il concittadino di Machiavelli.

A questi esempi e a questi martìri l'Italia rimaneva indifferente. Quistioni che insanguinavano mezza Europa non la toccavano. Ed erano quistioni dalle quali sciolte nell'uno o nell'altro modo dipendeva l'avvenire della civiltà e la sorte delle nazioni. Rimase romana tutta la gente latina Spagna Francia Italia. Ma in Francia e nella Spagna non fu se non dopo accanite persecuzioni che resero indimenticabile il Tribunale della inquisizione e la giornata di san Bartolomeo. In quelle lotte lo spirito nazionale si ritemprò e si svegliarono gl'intelletti; e il sentimento religioso esaltato dagl'interessi politici e dal fanatismo delle plebi fu fattore di civiltà accentrò le forze intorno alla monarchia assoluta costituì fortemente l'unità nazionale e impresse alla vita intellettuale un moto più celere. La Spagna di Carlo quinto e di Filippo secondo ebbe il suo Cervantes il suo Lopez e il suo Calderon e la Francia ebbe il suo secolo d'oro co' suoi poeti filosofi e oratori ebbe Cartesio Malebranche e Pascal ebbe Bossuet e Fènelon Corneille Racine e Molière Le due nazioni uscirono dalla lotta potenti prospere e saldamente unificate.

In Italia non ci fu lotta perchè non ci fu coscienza voglio dire convinzioni e passioni religiose morali e politiche. Le altre nazioni entravano pure allora in via; essa giungeva al termine del suo cammino stanca e scettica. Rimase papale con una coltura tutta pagana ed antipapale. Il suo romanismo non fu effetto di rinnovamento religioso negli spiriti come tentò di fare frate Savonarola fu inerzia e passività; mancava la forza e di combatterlo e di accettarlo Piacque quella maggiore castigatezza e correzione nelle forme stucchi della licenza nè dispiaceva quel nuovo splendore del papato e non avendo patria si fabbricavano volentieri una patria universale o cattolica col suo centro a Roma. Venne in voga predicare contro gli eretici e celebrare le vittorie cattoliche sopra i turchi come quella di Lepanto e più tardi quella di Vienna. Papa e Spagna imperavano nessuno riluttante. Ma se Filippo secondo o Luigi decimoquarto potevano dire: - Lo Stato son io -; Spagna e papa non potevano dire: - L'Italia siamo noi. - Mancavano loro que' gagliardi consensi che vengono dal di dentro e formano il vincolo nazionale. Lo spirito italiano ubbidiva inerte e non scontento ma rimaneva al di fuori non s'immedesimava in loro. Le idee vecchie non erano credute più con sincerità e mancavano idee nuove che formassero la coscienza e rinvigorissero la tempra: indi quel consenso superficiale ed esteriore quello stato di acquiescenza passiva e di sonnolenza morale. L'intelletto in quella sua virilità non apparteneva a loro era contro di loro. E se vogliamo trovare i vestigi di una nuova Italia che si vada lentamente elaborando dobbiamo cercarli nell'opposizione fatta a Spagna e papa. La storia di questa opposizione è la storia della vita nuova.

Il primo fenomeno di questa sonnolenza italiana fu il meccanismo una stagnazione nelle idee uno studio di fissare e immobilizzare le forme. Si arrestò ogni movimento filosofico e speculativo. Il Concilio di Trento avea poste le colonne d'Ercole avea pensato esso per tutti. La scienza fu presa in sospetto. Permesso appena il platonizzare. I grandi problemi della destinazione umana etici politici metafisici furono messi da parte ed al pensiero non rimase altro campo che lo studio della natura ne' limiti della Bibbia. Crebbe invece lo studio delle forme.

Fu allora che si formò l'Accademia della Crusca e fu il Concilio di Trento della nostra lingua. Anch'essa scomunicò scrittori e pose dommi. E ne venne un arruffio concepibile solo in quell'ozio delle menti.

La nostra lingua avea già una forma stabile e sicura in tutta Italia. Il toscano era “il fiore della lingua italiana” così dice Speron Speroni. Ci era dunque una lingua italiana vale a dire un fondo comune di vocaboli con una comune forma grammaticale atteggiato variamente e colorito secondo le varie parti d'Italia. Allora come ora si sentiva nello scrittore l'italiano e anche il toscano il lombardo o il veneziano o il napolitano. Questa varietà di atteggiamento e di colorito questo elemento locale era la parte viva della lingua che lo scrittore attingeva dall'ambiente in cui era. Se Firenze fosse stata un centro effettivo d'Italia come Parigi la lingua fiorentina sarebbe rimasta lingua viva di tutti gli scrittori italiani che ivi avrebbero avuto la loro naturale attrazione. Ma Firenze era allora per gli italiani un museo da studiarsi nei suoi monumenti voglio dire ne' suoi scrittori. L'Accademia della Crusca considero la lingua come il latino vale a dire come una lingua compiuta e chiusa in sè di modo che non rimanesse a fare altro se non l'inventario. Chiamò puri tutt'i vocaboli contenuti nel suo dizionario e usati da questo o da quello scrittore e scomunicò tutti gli altri. Fece una scelta degli scrittori e di sua autorità creò gli eletti ed i reprobi. Così la lingua segregata dall'uso vivente divenne un cadavere notomizzato studiato riprodotto artificialmente e gl'italiani si avvezzarono a imparare e scrivere la loro lingua come si fa il latino o il greco. Il Petrarca e il Boccaccio diventarono modelli così inviolabili come la Bibbia e il “non si può” venne in moda anche per le parole tanto che mancò pazienza fino al gesuita Bartoli. A mostrare in qual modo studiassero i nostri letterati cito ad esempio un uomo coltissimo e d'ingegno non ordinario Speron Speroni:

“Io veramente fin da' primi anni desiderando oltramodo di parlare e di scrivere volgarmente i concetti del mio intelletto e questo non tanto per dovere essere inteso il che è cosa degna da ogni volgare quanto a fine che il nome mio con qualche laude tra' famosi si numerasse ogni altra cura posposta alla lezion del Petrarca e delle Cento novelle con sommo studio mi rivolgei: nella qual lezione con poco frutto non pochi mesi per me medesimo esercitatomi ultimamente da Dio ispirato ricorsi al nostro messer Trifon Gabriele; dal quale benignamente aiutato vidi e intesi perfettamente quei due autori li quali non sapendo che notar mi dovessi avea trascorso più volte.”

Questo è un solo periodo! E che affanno! E domando se vi par lingua viva. Ecco ora in iscena Trifone uno de' grammatici e critici più riputati e chiamato il Socrate di quella età:

“Questo nostro buon padre primieramente mi fece noti i vocaboli poi mi die' regole da conoscere le declinazioni e coniugazioni de' nomi e verbi toscani finalmente gli articoli i pronomi i participi gli adverbi e le altre parti dell'orazione distintamente mi dichiarò: tanto che accolte in uno le cose imparate io ne composi una mia grammatica con la quale scrivendo io mi reggeva... Poichè a me parve d'esser fatto un solenne gramatico ... io mi diedi al far versi: allora pieno tutto di numeri di sentenzie e di parole petrarchesche o boccacciane per certi anni fei cose a' miei amici meravigliose; poscia parendomi che la mia vena si cominciasse a seccare (perciocchè alcune volte mi mancava i vocaboli e non avendo che dire in diversi sonetti uno istesso concetto m'era venuto ritratto) a quello ricorsi che fa il mondo oggidì e con grandissima diligenzia feci un rimario o vocabolario volgare nel quale per alfabeto ogni parola che già usarono questi due distintamente riposi: oltre di ciò in un altro libro i modi loro del descriver le cose giorno notte ira pace odio amore paura speranza bellezza siffattamente raccolsi che nè parole nè concetto usciva di me che le novelle e i sonetti loro non ne fossero esempio... Era d'opinione che la nostra arte oratoria e poetica altro non fosse che imitar loro ambidue prosa e versi a lor modo scrivendo.”

Adunque la lingua la “testura delle parole” i loro “numeri” e la loro “concinnità” frasi del tempo si studiavano nel Boccaccio e nel Petrarca e se ne cavarono grammatiche dizionari e repertorii di frasi e di concetti. Così insegnava Trifone Gabriele detto Socrate e così praticava Speron Speroni riuscito con questa scuola a scrivere in quel gergo artificiale e convenzionale che si e visto. Così la lingua fatta classica e pura rimase immobile e cristallizzata come lingua morta e il suo studio divenne difficilissimo. Si voleva non solo che la parola fosse pura ma che fosse numerosa ed elegante. Si formo una scienza de' numeri non pure in verso ma in prosa. Il periodo divenne un artificio complicatissimo. Eccone un saggio nello Speroni:

“... come la composizione della prosa è ordinanza delle voci delle parole così i numeri sono ordini delle sillabe loro; con li quali dilettando le orecchie la buona arte oratoria comincia continua e finisce l'orazione; perciocchè ogni clausola come ha principio così ha mezzo e fine: nel principio si va movendo e ascende; nel mezzo quasi stanca della fatica stando in pie si posa alquanto; poi discende e vola al fine per acquetarsi... La prosa alcuna volta ben compone le parole non belle e altra volta le belle malamente va componendo; e può occorrere che siccome nella musica bene e spesso le buone voci discordano e le non buone o per usanza o per arte sono tra loro concordi; così i pari i simili e i contrari cose tutte per lor natura ben risonanti qualche volta con voce aspra e difforme qualche volta scioccamente e a bocca aperta va esplicando la orazione. Finalmente molte fiate intravviene che la prosa perfettamente composta quasi fiume del proprio corso appagandosi non si cura non che di giungere al fine ma di posarsi per lo cammino e va sempre e se 'l fiato non le mancasse continuamente tutta sua vita camminerebbe: però a' numeri ricorriamo li quali attraversando la strada piacevolmente con lusinghe e con vezzi a rinfrescarsi e albergare con loro la invitino e non volendo la cortesia vogliono usare le forze e per ben suo mal suo grado con violenzia l'arrestino.”

Con questi criteri non è maraviglia che a lungo andare si sia giunto a tale che un predicatore componeva i suoi periodi a suon di musica. E si comprende anche che lo Speroni fabbricasse a questo modo i suoi periodi e quanta ammirazione dovessero destare i periodi con tanto artificio congegnati del Bembo del Casa o del Castiglione. La parola ebbe una sua personalità fu isolata dalla cosa; e ci furono parole pure e impure belle e brutte aspre e dolci nobili e plebee. Nella scelta delle parole stava il segreto della eleganza. Si cercava non la parola propria ma la parola ornata o la perifrasi; la ripetizione era peccato mortale e se la cosa era la stessa dovea cercarsi una diversa parola tacere i nomi propri e “ogni cosa delle altrui voci adornare” come lo Speroni nota del Petrarca il quale chiamò “la testa 'oro fino' e 'tetto d'oro'; gli occhi 'soli' 'stelle' 'zaffiri' 'nido' e 'albergo d'amore'; le guance or 'neve e rose' or 'latte e foco'; 'rubini' i labbri; 'perle' i denti; la gola e il petto ora 'avorio' ora 'alabastro'”. Una lingua viva è sempre propria perchè la parola ti esce insieme con la cosa; una lingua morta è necessariamente impropria perchè la trovi ne' dizionari e negli scrittori bella e fatta mutilata di tutti quegli accessorii che il popolo vi aggiungeva e che determinavano il suo significato e il suo colore. Così la nostra lingua giunta a un alto grado di perfezione che pure allora nella Eneide del Caro e nel Tacito del Davanzati mostrava la sua potenza si arresto nel suo sviluppo a quel modo che la vita italiana e disputavano come si avesse a chiamare o “toscana” o “fiorentina” o “italiana ” quando era già bella e imbalsamata ben rinchiusa e coperchiata nel dizionario della Crusca.

Il medesimo era della grammatica. Si cercò il criterio non nella natura e nel significato delle cose e non nella logica necessità ma nell'uso variabilissimo degli scrittori. Indi regole arbitrarie e più arbitrarie eccezioni e quella folla di significati attribuiti a una sola parola e tante inutilità decorate col nome di “ripieno” e sottigliezze infinite su di una lettera o una sillaba. Onde nacque una ortografia in molte parti campata in aria e tentennante una sintassi complicata e incerta un guazzabuglio di particelle pronomi generi casi alterazioni e costruzioni una grammatica che anche oggi è una delle meno precise e semplici. Avemmo una lingua senza proprietà e una grammatica senza precisione; perchè lingua e grammatica furono considerate non in rispetto alle cose ma per se stesse come forme vacue e arbitrarie.

L'attenzione era tutta al di fuori sulla superficie. La letteratura fu un artificio tecnico un meccanismo. E si cercò il suo fondamento non nelle ragioni intrinseche di ciascuna forma messa in relazione con le cose ma nell'esempio degli scrittori. Come del periodo così immaginarono uno schema artificiale e immobile di composizione la cui base fu posta in una certa concordanza del tutto e delle parti come in un orologio e questo chiamavano scrivere classico. Smarrito il sentimento dell'arte e della poesia non rimase che un concetto prosaico di perfezione meccanica la regolarità e la correzione. Davano una importanza straordinaria alla lingua alla grammatica all'elocuzione al periodo alla composizione: e qui erano le colonne di Ercole qui finiva la critica. Gli scrittori giudicati secondo questi criteri erano più o meno lodati secondo che più o meno si avvicinavano al modello. Si vantavano le commedie e le tragedie di quel tempo per la loro conformità alle regole. E come un effetto bisognava ottenere sugli spettatori e quella regolarità ammiratissima era pur la più noiosa cosa di questo mondo cercavano l'effetto ne' mezzi più grossolani e caricati a cui sogliono ricorrere gli uomini mediocri. Le commedie erano buffonerie le tragedie erano orrori e tra le più insopportabili era appunto la Canace dello Speroni. Una sola cosa mancava all'Italia il genere eroico e lo Speroni è tutto sconsolato di non trovarne l'esempio nel Petrarca: “Quasi nuovo alchimista lungamente mi faticai per trovare l'eroico il qual nome niuna guisa di rima dal Petrarca tessuta non è degna di appropriarsi.” Il Trissino era mal riuscito. L'Orlando furioso era fuori regola e gli si perdonava perchè era “romanzo” e non poema. Il problema era di “trovare l'eroico” come diceva lo Speroni. Ciascun vede quanto Pietro Aretino entrasse innanzi per ingegno critico a tutti costoro.

Conforme a quei criteri era la pratica. Comenti al Boccaccio e al Petrarca infiniti. Molte traduzioni di classici tra le quali il Livio del Nardi la Rettorica e l'Eneide del Caro le Metamorfosi dell'Anguillara il Tacito del Davanzati. Grammatiche e rettoriche tutte ad uno stampo dal Bembo al Buommattei detto “messer Ripieno” anzi sino al Corticelli. Imitazioni anzi contraffazioni classiche in uno stile artificiato che tirava a sè anche i più robusti ingegni anche il Guicciardini. E le accademie che moltiplicavano sotto i nomi più strani dove finiti i baccanali regnavano vuote cicalate e dispute grammaticali. Come contrapposto non mancavano gli eccentrici che cercavano fama per via opposta come il Lando che chiamava “imbecille” il Boccaccio e “animalaccio” Aristotile e solleticava l'attenzione pubblica co' suoi Paradossi.

Nella prima metà del secolo la libertà anzi la licenza dello scrivere gittava in mezzo a quell'aspetto uniforme e pedantesco della letteratura la vivezza la grazia la mordacità la lubricità la personalità dello scrittore. Dirimpetto al classico ci era l'avventuriere.

Ultimo di questi avventurieri fu Benvenuto Cellini morto nel 1570 Natura ricchissima geniale e incolta compendia in sè l'italiano di quel tempo non modificato dalla coltura. Ci è in lui del Michelangiolo e dell'Aretino insieme fusi o piuttosto egli è l'elemento greggio primitivo popolano da cui usciva ugualmente l'Aretino e Michelangiolo.

Artista geniale e coscienzioso l'arte è il suo dio la sua moralità la sua legge il suo dritto. L'artista secondo lui è superiore alla legge e “gli uomini come Benvenuto unici nella loro professione non hanno ad essere obbligati alle leggi”. Cerca la sua ventura di corte in corte armato di spada e di schioppetto e si fa ragione con le sue armi e con la lingua non meno mortale che “fora e taglia”. Se incontra il suo nemico gli tira una stoccata e se lo ammazza suo danno; perchè “li colpi non si dànno a patti”. Se lo mettono prigione gli pare uno scandalo e gli fanno uno “scellerato torto”. È divoto come una pinzochera e superstizioso come un brigante. Crede a' miracoli a' diavoli agl'incantesimi e quando ne ha bisogno si ricorda di Dio e de' santi e canta salmi e orazioni e va in pellegrinaggio. Non ha ombra di senso morale non discernimento del bene e del male e spesso si vanta di delitti che non ha commessi. Bugiardo millantatore audace sfacciato pettegolo dissoluto soverchiatore e sotto aria d'indipendenza servitore di chi lo paga. È contentissimo di sè e non si tiene al di sotto di nessuno salvo il “divinissimo” Michelangiolo. Potentissimo di forza e di vita interiore questo cavaliere errante dettò egli medesimo la sua vita e si ritrasse con tutte queste belle qualità sicurissimo di alzare a sè un monumento di gloria. Queste qualità vengon fuori con la spontaneità della natura ed il brio della forza in uno stile evidente e deciso come il suo cesello.

Nella seconda metà del secolo questa vita ricca e licenziosa è compressa e la personalità scompare sotto il compasso dell'accademia e del Concilio di Trento. Rimangono stizze passioncelle denuncie calunnie furori grammaticali la parte più grossolana e pedantesca di quella vita. In quel tempo l'Inghilterra avea il suo Shakespeare; Rabelais e Montaigne pieni di reminiscenze italiane preludevano al gran secolo; Cervantes scrivea il suo Don Chisciotte e Camoens le sue Lusiadi. E i nostri critici scrivevano gli Avvertimenti grammaticali e i Dialoghi sull'Amore platonico Sulla Rettorica Sulla Storia sulla Vita attiva e contemplativa e cercavano e non trovavano il genere eroico.

Tra queste preoccupazioni e miserie venne in luce la Gerusalemme Liberata. L'Italia avea il suo poema eroico non so che “simile” all'Iliade e all'Eneide e i critici dovevano essere soddisfatti. Il giovane Pellegrini annunziò la buona novella a suon di tromba con l'entusiasmo dell'età.

La Gerusalemme intoppava in un mondo non più poetico ma critico. Il sentimento dell'arte era esausto l'ispirazione e la spontaneità nel comporre e nel giudicare era guasta da ragionamenti fondati sopra concetti critici generalmente ammessi e tenuti come vangelo. L'Ariosto si pose a scrivere come gli era dettato dentro e non guardava altro. Il suo argomento divenne innanzi al suo genio un vero mondo con la sua propria maniera di essere e con le sue regole. Il Tasso come Dante era già critico prima di esser poeta aveva già innanzi a sè tutta una scuola poetica. Ciò che sta avanti a lui non è il suo argomento ma certi fini certe preoccupazioni certi modelli e Orazio e Aristotile e Omero e Virgilio. A diciotto anni è già una maraviglia di dotto e conosce Platone e Aristotile e sviluppa a maraviglia tesi di filosofia di rettorica e di etica. Scrive il Rinaldo e come aveva imparato il “simplex et unum” studia all'unità dell'azione e alla semplicità della composizione e ne chiede scusa al pubblico. Ma il pubblico avvezzo alle larghe e magnifiche proporzioni dell'Orlando e dell'Amadigi trova il pasto un po' magro e ne torce la bocca. Lasciò allora da parte il poema cavalleresco o come dicevano il romanzo e pensò di dare all'Italia quel poema eroico che tutti cercavano. Esitò sulla scelta dell'argomento avea pronti quattro o cinque temi e rimise l'elezione dicesi al duca Alfonso suo mecenate. In somma cominciò la Gerusalemme. Volle fare un poema “regolare” come dicevano secondo le regole. L'argomento rispondeva a' tempi pel suo carattere religioso e cosmopolitico e vi poteva senza sforzo introdurre un eroe estense e come l'Ariosto far la sua corte al duca. Si die' una cura infinita delle proporzioni e delle distanze per conservare l'unità e la semplicità della composizione. Guardò al verisimile per dare al suo mondo un aspetto di naturale e di credibile. Introdusse un'azione seria intorno a cui tutto convergesse e fece del pio Goffredo un protagonista effettivo un vero capo e re a uso moderno. Soppresse i cavalieri erranti e cavò l'intreccio non dallo spirito di avventura ma dall'azione celeste e infernale come in Omero. Umanizzò il soprannaturale rendendolo spiegabile e quasi allegorico e come una semplice esteriorità degl'istinti e delle passioni. Nobilitò i caratteri sopprimendo il volgare il grottesco e il comico e sonò la tromba dal primo all'ultimo verso. Tolse molta parte al caso e alla forza brutale e molta ne die' all'ingegno alla forza morale alle scienze come ne' suoi duelli e battaglie. Mirò a dare al suo racconto un'apparenza di storia e di realtà. Si consigliava spesso con i critici e dava loro a leggere il poema canto per canto e mutava e correggeva docilissimo. Tra questi critici consultati era Speron Speroni.

Il Tasso voleva fare un poema seriamente eroico animato da spirito religioso possibilmente storico e prossimo al vero o verisimile di un maraviglioso naturalmente spiegabile e di un congegno così coerente e semplice che fosse vicino ad una logica perfezione. Questo era il suo ideale classico che cercò di realizzare e che spiegò ne' suoi scritti sul poema eroico e sulla poesia ne' quali mostrò che ne sapeva più de' suoi avversari.

Il poema fu accolto con quello spirito che fu composto. Letto prima a bocconi; quando uscì tutto intero scorretto e senza saputa dell'autore si destò un vespaio. I critici lo combatterono con le sue armi. - Se volevate fare un poema religioso - diceva l'Antoniano - dovevate darci un poema che potesse andar nelle mani anche delle monache. - Gli uomini pii che allora davano il tuono mostravano scandalo di quegli amori rappresentati con tanta voluttà malgrado che il povero Tasso ne chiedesse perdono alla Musa “coronata di stelle fra' beati cori”. E per farli tacere costruì un'allegoria postuma e particolareggiata che fosse di passaporto a quei diletti profani. Come arte il poema fu esaminato nella composizione nella elocuzione nella lingua e fino nella grammatica: che era la materia critica di quel tempo. Trovavano la composizione difettosa soprattutto per l'episodio di Olindo e Sofronia lasciati lì e dimenticati nel rimanente dell'azione. Parea loro che la vera e seria azione comprendesse pochi canti e il resto fosse un tessuto di episodi e avventure legate non necessariamente con quella. L'elocuzione giudicavano artificiata e pretensiosa la lingua impura e impropria e non abbastanza osservata la grammatica. Facevano continui confronti con l'Eneide e con l'Iliade e disputavano sottilmente e futilmente sul genere eroico e sulle sue regole. Sorsero confronti stranissimi tra l'Orlando e la Gerusalemme e chi facea primo l'Ariosto e chi il Tasso. La contesa occupò per qualche tempo l'oziosa Italia e oscurò ancora più il senso poetico e non fe' dare un passo alla critica. Si rimase come in un pantano. Fra tanti opuscoli merita attenzione quello di un giovane chiamato a grandi destini Galileo Galilei che ne scrisse con un gran buon senso con molto gusto e con un retto sentimento dell'arte.

L'Accademia della Crusca ebbe molta parte in questa contesa. E si comprende. Mancava alla lingua del Tasso il sapore toscano quel non so che schietto e natio con una vivezza e una grazia che è un amore. Ma il Salviati rese pedantesca l'accusa facendo il pedagogo e notando i punti e le virgole. L'esagerazione dell'accusa suscitò l'entusiasmo della difesa e il libro fu più noto e desiderato. Oggi in tanto silenzio e indifferenza pubblica un autore si terrebbe fortunato di svegliare tanta attenzione. Ma il Tasso ne venne malato del dispiacere e quasi fossero assalti personali trattò i suoi critici come nemici. In verità il principal suo nemico era lui stesso. Si difendeva ma con cattiva coscienza perchè professando i medesimi princìpi critici sentiva in fondo di aver torto. E venne nell'infelice idea di rifare il suo poema e dare soddisfazione alla critica. Così uscì la Gerusalemme Conquistata. Purgò la lingua ubbidì alla grammatica. Le “armi” cessarono di essere “pietose” e non divennero “pie”; il “capitano” divenne il “cavalier sovrano”; il “gran sepolcro” sparve del tutto e il sublime “io ti perdón” fu trasformato nel prosaico “perdón io”. Le correzioni sono quasi tutte infelici di seconda mano fatte a freddo. Non ci è più il poeta ci è il grammatico e il linguista co' suoi terribili critici dirimpetto. Corresse anche l'elocuzione rifiutò i lenocini cercò una forma più grave e solenne che ti riesce fredda e insipida. Peggior guasto nella composizione. Soppresse Olindo e Sofronia e vi sostituì una fastidiosa rassegna militare. Cacciò via Rinaldo come reminiscenza cavalleresca e vi ficcò un Riccardo nome storico delle crociate divenuto un Achille a cui die' un Patroclo in Ruperto. Trasformò Argante in un Ettore figliuolo del re di Aladino divenuto Ducalto. Fe' di Solimano un Mezenzio e lo regalò di un figliuolo per imitare in sulla fine la leggenda virgiliana. Troncò le storie finali di Armida e di Erminia mutata in Nicea. Anticipò la venuta degli egizi e moltiplicò le azioni militari per occupare il posto lasciato vuoto dagli episodi abbreviati o soppressi. E gli parve così di aver rafforzata l'unità e la semplicità dell'azione resa più coerente e logica la composizione e dato al poema un colorito più storico e reale. Ma non parve al pubblico che non potè risolversi a dimenticare Armida Rinaldo Erminia Sofronia le sue più care creazioni e più popolari. E dimenticò piuttosto la Gerusalemme conquistata che oggi nessuno più legge.

La poetica del Tasso è nelle sue basi essenziali conforme a quella di Dante. Lo scopo della poesia è per lui il “vero condito in molli versi” come era per Dante il “vero sotto favoloso e ornato parlare ascoso”. Il concetto religioso è anche il medesimo la lotta della passione con la ragione. Passione e ragione sono in Dante inferno e paradiso e nel Tasso Dio e Lucifero e i loro istrumenti in terra Armida e la celeste guida di Ubaldo e Carlo. L'intreccio è tutto fondato su questo antagonismo divenuto il luogo comune de' poeti italiani. L'Armida del Tasso è l'Angelica del Boiardo e dell'Ariosto salvo che il Boiardo affoga il concetto nella immensità della sua tela e l'Ariosto se ne ride saporitamente dove il Tasso ne fa il centro del suo racconto. Questo che i critici chiamavano un “episodio” era il concetto sostanziale del poema. Omero canta l'ira di Achille cioè canta non la ragione ma la passione nella quale si manifesta la vita energicamente. Le sue divinità sono esseri appassionati Giove stesso non è la ragione ma la necessità delle cose il fato. Virgilio s'accosta al concetto cristiano togliendo il pio Enea agli abbracciamenti di Didone. Pure poeticamente ciò che desta il maggiore interesse non è il pio Enea ma l'abbandonata Didone. Nella leggenda cristiana il paradiso perduto e il peccato di Adamo sono argomenti epici ne' quali erompe la vita nella violenza de' suoi istinti e delle sue forze. Nella passione e morte di Cristo l'interesse poetico giunge al suo più alto effetto tragico perchè è il martirio della verità. In Dante questo concetto preso nella sua logica perfezione produce l'astrazione del paradiso e l'intrusione dell'allegoria; come nel Tasso produce l'astrazione del Goffredo. Si confondeva il vero poetico che è nella rappresentazione della vita col vero teologico o filosofico che è un'astrazione mentale o intellettuale della vita. L'Ariosto se la cava benissimo perchè canta la follia di Orlando e quando viene la volta della ragione volge il fatto a una soluzione comica e piccante mandando Astolfo a pescarla nel regno della Luna. Il Tasso vuol restaurare il concetto nella sua serietà e mirando a quella perfezione mentale gli esce l'infelice costruzione del Goffredo e la fredda allegoria della “donna celeste”.

Non è meno errato il suo concetto della vita epica. Ciò che lo preoccupa è la verità storica il verisimile o il nesso logico e una certa dignità uguale e sostenuta. E non vede che questo è l'esterno tessuto della vita o il meccanismo il semplice materiale con appena la sua ossatura e il suo ordine logico. Il suo occhio critico non va al di là e quando il poeta morì e sopravvisse il critico esagerando questi concetti astratti e superficiali guastò miserabilmente il suo lavoro e ci die' nella Gerusalemme conquistata di quella ricca vita il solo scheletro il quale perchè meglio congegnato e meccanizzato gli parve cosa più perfetta.

Ma il Tasso come Dante era poeta ed aveva una vera ispirazione. E la spontaneità del poeta supplì in gran parte agli artifici del critico.

Torquato Tasso educato in Napoli da' gesuiti vivuto nella sua prima gioventù a Roma dove spiravano già le aure del Concilio di Trento era un sincero credente ed era insieme fantastico cavalleresco sentimentale penetrato ed imbevuto di tutti gli elementi della coltura italiana. Pugnavano in lui due uomini: il pagano e il cattolico l'Ariosto e il Concilio di Trento. Mortagli la madre che era ancor giovinetto lontano il padre insidiato da' parenti confiscati i beni tra' più acuti bisogni della vita non dimentica mai di essere un gentiluomo. Serve in corte e si sente libero; vive tra' vizi e le bassezze e rimane onesto; domanda pietà con la testa alta e con aria d'uomo superiore e in nome de' princìpi più elevati della dignità umana.

Ha una certa somiglianza col Petrarca. Tutti e due furono i poeti della transizione gl'illustri malati che sentivano nel loro petto lo strazio di due mondi che non poterono conciliare. La musa della transizione è la malinconia. Ma la malinconia del Petrarca era superficiale: rimaneva nella immaginazione non penetrò nella vita. Era una malinconia non priva di dolcezza che si effondeva e si calmava negli studi e lo tenne contemplativo e tranquillo fino alla più tarda età. La malinconia del Tasso è più profonda lo strazio non è solo nella sua immaginazione ma nel suo cuore e penetra in tutta la vita. Sensitivo impressionabile tenero lacrimoso. Prende sul serio tutte le sue idee religiose filosofiche morali poetiche e vi conforma il suo essere. Entusiasta sino all'allucinazione perde la misura del reale e spazia nel mondo della sua intelligenza dove lo tiene alto sull'umanità l'elevatezza e l'onestà dell'animo. Gli manca quel fiuto degli uomini e quel senso pratico della vita che abbonda a' mediocri. La sua immaginazione è in continuo travaglio e gli corona e trasforma la vita non solo come poeta ma come uomo. Immaginatevelo nell'Italia del Cinquecento e in una di quelle corti e presentirete la tragedia. All'abbandono alla confidenza all'espansione della prima giovinezza succede tutto il corteggio del disinganno la diffidenza il concentramento la malinconia l'umor nero e l'allucinazione: stato fluttuante tra la sanità e la pazzia e che potè far credere non che ad altri ma a lui stesso di non avere intero il senno. In luogo di medici e di medicine gli era bisogno un ritiro tranquillo co' suoi libri e vicina una madre o una sorella o amici resi intelligenti dall'affetto. Invece ebbe il carcere e la sterile compassione degli uomini lui supplicante invano a tutt'i principi d'Italia. Libero trovò una sorella ed un amico che se valsero a raddolcire non poterono sanare un'immaginazione da tanto tempo disordinata. E quando ebbe un primo riso della fortuna il giorno della sua incoronazione fu il giorno della sua morte.

Guardate in viso il Petrarca e il Tasso. Tutti e due hanno la faccia assorta e distratta gli occhi gittati nello spazio e senza sguardo perchè mirano al di dentro. Ma il Petrarca ha la faccia idillica e riposata di uomo che ha già pensato ed è soddisfatto del suo pensiero; il Tasso ha la faccia elegiaca e torbida di uomo che cerca e non trova. E nell'uno e nell'altro non vedi i lineamenti accentuati ed energici della faccia dantesca.

Manca al Tasso come al Petrarca la forza con la sua calma olimpica e con la sua risoluta volontà. È un carattere lirico non è un carattere eroico. E come il Petrarca è natura subbiettiva che crea di se stesso il suo universo.

Se fosse nato nel medio evo sarebbe stato un santo. Nato fra quello scetticismo ipocrita e quella coltura contraddittoria vive tra scrupoli e dubbi e non sa diffinire egli medesimo se gli è un eretico o un cattolico più crudele inquisitore di sè che il tribunale dell'Inquisizione. Cominciò molto vicino all'Ariosto col suo Rinaldo. E gli parve che non se ne fosse discostato abbastanza con la sua Gerusalemme Liberata. Scrupoli critici e religiosi lo condussero alla Gerusalemme conquistata ch'egli chiamava la “vera Gerusalemme” la “Gerusalemme celeste”. E non parsogli ancora abbastanza scrisse le Sette giornate della creazione.

Se in Italia ci fosse stato un serio movimento e rinnovamento religioso la Gerusalemme sarebbe stato il poema di questo nuovo mondo animato da quello stesso spirito che senti nella Messiade o nel Paradiso perduto. Ma il movimento era superficiale e formale prodotto da interessi e sentimenti politici più che da sincere convinzioni. E tale si rivela nella Gerusalemme Liberata.

Il Tasso non era un pensatore originale nè gittò mai uno sguardo libero su' formidabili problemi della vita. Fu un dotto e un erudito come pochi ce n'erano allora non un pensatore. Il suo mondo religioso ha de' lineamenti fissi e già trovati non prodotti dal suo cervello. La sua critica e la sua filosofia è cosa imparata ben capita ben esposta discorsa con argomenti e forme proprie ma non è cosa scrutata nelle sue fonti e nelle sue basi dove logori una parte del suo cervello. Ignora Copernico e sembra estraneo a tutto quel gran movimento d'idee che allora rinnovava la faccia di Europa e allettava in pericolose meditazioni i più nobili intelletti d'Italia. Innanzi al suo spirito ci stanno certe colonne d'Ercole che gli vietano andare innanzi; e quando involontariamente spinge oltre lo sguardo rimane atterrito e si confessa al padre inquisitore come avesse gustato del frutto proibito. La sua religione è un fatto esteriore al suo spirito un complesso di dottrine da credere e non da esaminare e un complesso di forme da osservare. Nel suo spirito ci è una coltura letteraria e filosofica indipendente da ogni influenza religiosa Aristotile e Platone Omero e Virgilio il Petrarca e l'Ariosto e più tardi anche Dante. Nel suo carattere ci è una lealtà e alterezza di gentiluomo che ricorda tipi cavallereschi anzi che evangelici. Nella sua vita ci è una poesia martire della realtà; vita ideale nell'amore nella religione nella scienza nella condotta riuscita a un lungo martirio coronato da morte precoce. Fu una delle più nobili incarnazioni dello spirito italiano materia alta di poesia che attende chi la sciolga dal marmo dove Goethe l'ha incastrata e rifaccia uomo la statua.

Che cosa è dunque la religione nella Gerusalemme? È una religione alla italiana dommatica storica e formale: ci è la lettera non ci è lo spirito. I suoi cristiani credono si confessano pregano fanno processioni: questa è la vernice; quale è il fondo? È un mondo cavalleresco fantastico romanzesco e voluttuoso che sente la messa e si fa la croce. La religione è l'accessorio di questa vita non ne è lo spirito come in Milton o in Klopstok. La vita è nella sua base quale si era andata formando dai Boccaccio in qua col suo ideale tra il fantastico e l'idillico aggiuntavi ora un'apparenza di serietà di realtà e di religione.

Il tipo dell'eroe cristiano è Goffredo carattere astratto rigido esterno e tutto di un pezzo. Ciò che è in lui di più intimo è il suo sogno che è pure imitazione pagana reminiscenza del sogno di Scipione. Il concetto religioso è manifestato in Armida la concupiscenza o il senso e in Ubaldo voce della “donna celeste” o della ragione. Ma “la ragione parla e il senso morde” come dice il Petrarca e l'interesse poetico è tutto intorno ad Armida. La ragione usa una rettorica più pagana che cristiana e mostra aver pratica più con Seneca e con Virgilio che con la Bibbia: il fonte della sua morale non è il paradiso ma la gloria. La ragione parla e Armida opera circondata di artifici e di allettamenti. E l'autore qui si trova nel campo suo e s'immerge in fantasie ariostesche profane idilliche che crede trasformate in poesia religiosa perchè in ultimo vi appicca la verga aurea immortale di Ubaldo e la sua rettorica. Rinaldo il convertito non ha una chiara personalità perchè quello che è e quello che diviene non si sviluppa nella sua coscienza e non par quasi opera sua ma influsso di potenze malefiche e benefiche le quali se lo contendono. Il dramma è tutto esterno e rimane d'assai inferiore alla confessione di Dante penetrata da spirito religioso. Quanto al rimanente Rinaldo è una reminiscenza del Rinaldo o Orlando ariostesco in proporzioni ridotte come Argante è una reminiscenza di Rodomonte con faccia più seria. Più tardi Rinaldo trasformato in Riccardo divenne una reminiscenza di Achille; Sveno mutato in Ruperto fu reminiscenza di Patroclo e Solimano divenne Mezenzio e Argante Ettore. Reminiscenze cavalleresche reminiscenze classiche più vivaci e fresche le prime come più vicine e ancora sonanti nello spirito italiano.

Il Tasso sentiva confusamente che il poema non gli era venuto così conforme al suo tipo religioso com'egli aveva in mente. E nella Gerusalemme conquistata cercò supplirvi. Ma cosa fece? Accentuò qualche allegoria diluì il sogno di Goffredo appiccò al bel viaggio al di là dell'Oceano sola ispirazione moderna e degna di Camoens un viaggio sotterraneo assai stentato di concetto e di forma e vi aggiunse una storia anteriore delle crociate dipinta nella tenda di Goffredo. Rese il poema più pesante ma non più religioso perchè la religione non è nel dogma non nella storia e non nelle forme ma nello spirito. E lo spirito religioso come qualunque fenomeno della vita interiore non è cosa che si possa mettere per forza di volontà.

Volea fare anche un poema serio. Ma la sua serietà è negativa e meccanica perchè da una parte consiste nel risecare dalla vita ariostesca ogni elemento plebeo e comico e dall'altra in un ordito più logico e più semplice secondo il modello classico. E sente pure di non esservi riuscito e nella Gerusalemme rifatta usa colori ancora più oscuri e cerca un meccanismo più perfetto. Gitta tutt'i personaggi nello stesso stampo e per far seria la vita la fa monotona e povera. Cerca una serietà della vita in tempi di transizione oscillanti fra tendenze contraddittorie senza scopo e senza dignità. Cerca l'eroico quando mancavano le due prime condizioni di ogni vera grandezza la semplicità e la spontaneità. La sua serietà è come la sua religione superficiale e letteraria.

E voleva soprattutto dare al suo poema un aspetto di credibilità e di realtà. Sceglie i suoi elementi dalla storia; cerca esattezza di nomi e di luoghi; guarda ad una connessione verisimile d'intreccio; e come uno scultore ingrandisce i suoi personaggi con tale uguaglianza di proporzioni che sembrano tolti dal vero. Chiude in limiti ragionevoli i miracoli della forza fisica; nè la forza e il coraggio sono i soli fattori del suo mondo ma anche l'esperienza la saggezza l'abilità e la destrezza. Rifacendo la Gerusalemme accentuò ancora questa sua intenzione cercando maggiore esattezza storica e geografica. Nelle sue tendenze critiche e artistiche si vede già un'anticipazione di quella scuola storica e realista che si sviluppò più tardi. Ma sono tendenze intellettuali cioè puramente critiche in contraddizione con lo stato ancora fantastico dello spirito italiano e con la sua natura romanzesca e subbiettiva. Gli manca la forza di trasferirsi fuori di sè non ha il divino obblio dell'Ariosto non attinge la storia nel suo spirito e nella sua vita interiore attinge appena il suo aspetto materiale e superficiale. Ciò che vive al di sotto è lui stesso: cerca l'epico e trova il lirico cerca il vero o il reale e genera il fantastico cerca la storia e s'incontra con la sua anima.

La Gerusalemme conquistata di aspetto più regolare e di un meccanismo più severo è un ultimo sforzo per effettuare un mondo poetico dal quale egli sentiva esser rimasto molto lontano nella prima Gerusalemme. La base di questo mondo dovea essere la serietà di una vita presa dal vero colta nella sua realtà storica e animata da spirito religioso. Rimase in lui un mondo puramente intenzionale un presentimento di una nuova poesia uno scheletro che rimpolpato e colorito e animato da vita interiore si chiamerà un giorno I Promessi Sposi.

Come in Dante così nel Tasso questo mondo intenzionale penetrato in un fondo estraneo vi rimane appiccaticcio. Ci è qui come nel Petrarca un mondo non riconciliato di elementi vecchi e nuovi gli uni che si trasformano gli altri ancora in formazione. Il di fuori è assai ben congegnato e concorde; ma è una concordia meccanica e intellettuale condotta a perfezione nella seconda Gerusalemme. Sotto a quel meccanismo senti il disorganismo un principio di vita molto attivo nelle parti che non giunge a formare una totalità armonica. Il fenomeno è stato avvertito da' critici a' quali è parso che l'interesse sia maggiore negli episodi che nell'insieme; e questi episodi Olindo e Sofronia Rinaldo e Armida Clorinda ed Erminia sono i soli rimasti vivi nel popolo giudice inappellabile di poesia. Ma ciò che si chiama “episodio” è al contrario il fondo stesso del racconto la sua sostanza poetica; perchè il poema sotto una vernice religiosa e storica è nella sua essenza un mondo romanzesco e fantastico conforme alla natura dello scrittore e del tempo.

Il fantastico è per lungo tempo la condizione di un popolo che non ha l'intelligenza e la pratica della vita terrestre e non la prende sul serio. La vita di quelle plebi superstiziose e di quelle borghesie oziose e gaudenti era il romanzo il maraviglioso delle avventure prodotte da combinazioni straordinarie di casi o da forze soprannaturali. Il Tasso stesso era di un carattere romanzesco insciente e aborrente delle necessità della vita pratica. Il suo viaggio per gli Abruzzi in veste da contadino e il suo presentarsi alla sorella non conosciuto e la scena tenera che ne fu effetto è tutto un romanzo. Aggiungi le impressioni letterarie che gli venivano dalla lettura dell'Ariosto e dell'Amadigi e la gran voga de' romanzi e il favore del pubblico e ci spiegheremo come la prima cosa che uscì dal suo cervello fu il Rinaldo e come questo mondo romanzesco si conserva invitto attraverso le sue velleità religiose storiche e classiche.

L'intreccio fondamentale del poema è un romanzo fantastico a modo ariostesco un'Angelica che fa perdere il senno a Orlando e un Astolfo che fa un viaggio fantastico per ricuperarglielo. Hai Armida che innamora Rinaldo e Ubaldo che attraversa l'Oceano per guarirlo con lo specchio della ragione. Angelica e Armida sono maghe tutt'e due e istrumenti di potenze infernali ma sono donne innanzi tutto e la loro più pericolosa magia sono i vezzi e le lusinghe. Come Angelica così Armida si tira appresso i guerrieri cristiani e li tien lontani dal campo; nè vi manca l'altro mezzo ariostesco la discordia che produce la morte di Gernando l'esilio volontario di Rinaldo e la cattività di Argillano. Da queste cause le quali non sono altro che le passioni sciolte da ogni freno di ragione e svegliate da vane apparenze escono le infinite avventure dell'Ariosto e le poche del Tasso annodate intorno alla principale Armida e Rinaldo. La selva incantata che ricorda la selva dantesca è la selva degli errori e delle passioni o delle vane apparenze nè i cristiani possono entrare in Gerusalemme se non disfacciano quegl'incanti cioè a dire se non si purghino delle passioni. Questo è il concetto allegorico di Dante divenuto tradizionale nella nostra poesia smarrito alquanto nel pelago di avventure del Boiardo e dell'Ariosto e ripescato dal Tasso con un'apparenza di serietà che non giunge a cancellare l'impronta ariostesca cioè quel carattere romanzesco che gli avevano dato il Boiardo e l'Ariosto. Intorno a questo centro fantastico moltiplicano duelli e battaglie: materia tanto più popolare quanto meno in un popolo è sviluppato un serio senso militare. Il popolo italiano era il meno battagliero di Europa e si pasceva di battaglie immaginarie. Vanamente cerchiamo in questo mondo fantastico un senso storico e reale ancorachè il poeta vi si adoperi. Mancano i sentimenti più cari della vita. Non ci è la donna non la famiglia non l'amico non la patria non il raccoglimento religioso nessuna immagine di una vita seria e semplice. Gildippe e Odoardo riesce una freddura. La “pietà” di Goffredo e la “saviezza” di Raimondo sono epiteti. L'amicizia di Sveno e Rinaldo e nelle parole. Unica corda è l'amore e spesso riesce artificiato e rettorico com'è ne' lamenti di Tancredi e di Armida ed anche in Erminia con quelle sue battaglie tra l'onore e l'amore. Nessuna cosa vale tanto a mostrare il fondo frivolo e scarso della vita italiana quanto questi sforzi impotenti del Tasso a raggiungere una serietà alla quale pur mirava. Volere o non volere rimane ariostesco e di gran lunga inferiore a quell'esempio. Gli manca la naturalezza la semplicità la vena la facilità e il brio dell'Ariosto: tutte le grandi qualità della forza. Quella vita romanzesca così ricca di situazioni e di gradazioni così piena di movimenti e di armonie con una obbiettività e una chiarezza che sforza il tuo buon senso e ti tira seco come sotto l'influsso di una malia se ne è ita per sempre.

Su quel fondo romanzesco il Tasso edifica un nuovo mondo poetico e qui è la sua creazione qui sviluppa le sue grandi qualità. È un mondo lirico subiettivo e musicale riflesso della sua anima petrarchesca e per dirlo in una parola è un mondo sentimentale.

È un sentimento idillico ed elegiaco che trova nella natura e nell'uomo le note più soavi e più delicate. Già questo sentimento si era sviluppato al primo apparire del Risorgimento nel Poliziano e nel Pontano deviato e sperduto fra tanto incalzare di novelle di commedie e di romanzi. L'idillio era il riposo di una società stanca la quale mancata ogni serietà di vita pubblica e privata si rifuggiva ne' campi come l'uomo stanco cercava pace ne' conventi. Sopravvennero le agitazioni e i disordini dell'invasione straniera; e quando fine della lotta fu un'Italia papale e spagnuola perduta ogni libertà di pensiero e di azione e mancato ogni alto scopo della vita l'idillio ricomparve con più forza e divenne l'espressione più accentuata della decadenza italiana. Solo esso è forma vivente fra tante forme puramente letterarie.

L'idillio italiano non è imitazione ma è creazione originale dello spirito. Già si annunzia nel Petrarca quale si afferma nel Tasso un dolce fantasticare tra' mille suoni della natura. L'anima ritirata in sè è malinconica e disposta alla tenerezza e senti la sua presenza e il suo accento in quel fantasticare. La natura diviene musicale acquista una sensibilità manda fuori con le sue immagini mormorii e suoni voci della vita interiore. Prevale nell'uomo la parte femminile la grazia la dolcezza la pietà la tenerezza la sensibilità la voluttà e la lacrima; tutto quel complesso di amabili qualità che dicesi il “sentimentale”. I popoli come gl'individui nel pendio della loro decadenza diventano nervosi vaporosi sentimentali. Non è un sentimento che venga dalle cose ciò che è proprio della sanità ma è un sentimento che viene dalla loro anima troppo sensitiva e lacrimosa. Manca la forza epica di attingere la realtà in se stessa e questa vita femminile è un tessuto di tenere o dolci illusioni nelle quali l'anima effonde la sua sensibilità. Il sentimento è perciò essenzialmente lirico e subbiettivo. Come il lavoro è tutto al di dentro ci si sente l'opera dello spirito non so che manifatturato la cosa non colta nella naturalezza e semplicità della sua esistenza ma divenuta un fantasma e un concetto dello spirito.

Il Tasso cerca l'eroico il serio il reale lo storico il religioso il classico e si logora in questi tentativi fino all'ultima età. Sarebbe riuscito un Trissino; ma la natura lo aveva fatto un poeta il poeta inconscio d'un mondo lirico e sentimentale che succedeva al mondo ariostesco. A quest'ufficio ha tutte le qualità di poeta e di uomo. L'uomo è fantastico appassionato malinconico di una perfetta sincerità e buona fede. Il poeta è tutto musica e spirito concettoso insieme e sentimentale. La sua immaginazione non è chiusa in sè come in un ultimo termine a quel modo che dal Boccaccio all'Ariosto si rivela nella poesia ma è penetrata di languori di lamenti di concetti e di sospiri e va diritto al cuore. L'Ariosto dice:

Il sentimento appena annunziato si scioglie in una immagine fantastica. Il Tasso dice:

Nella forma ariostesca ci è una virtù espansiva che rimane superiore all'emozione e cerca il suo riposo non nel particolare ma nell'insieme: qualità della forza. Nella forma del Tasso ci è l'impressionabilità che turba l'equilibrio e la serenità della mente e la trattiene intorno alla sua emozione: l'immagine si liquefà e diviene un “non so che” annunzio dell'immagine che cessa e dell'emozione che soverchia:

Anche tra' furori delle battaglie la nota prevalente è l'elegiaca come nella ottava:

Ne' casi di morte gli riesce meglio l'elegiaco che l'eroico. Aladino che cadendo morde la terra ove regnò è grottesco. Solimano che

ti offre un'immagine indistinta. Argante muore come Capaneo ma la forma è concettosa e insieme vaga e quelle voci e que' moti “superbi formidabili feroci” non ti dànno niente di percettibile avanti all'immaginazione. L'idea in queste forme rimane intellettuale non diviene arte. Al contrario precise anzi pittoresche sono le immagini di Dudone di Lesbino de' figli di Latino di Gildippe ed Odoardo dove le note caratteristiche sono la grazia e la dolcezza. Così è pure nella morte di Clorinda; ispirazione petrarchesca con qualche reminiscenza di Dante. Clorinda è Beatrice nel punto che parea dire: - Io sono in pace -; ma è una Beatrice spogliata de' terrori e degli splendori della sua divinità. Il sole non si oscura la terra non trema e gli angioli non scendono come pioggia di manna. La religione del Tasso è timida ci è innanzi a lui il ghigno del secolo mal dissimulato sotto l'occhio dell'inquisitore. L'elemento religioso era ammesso come macchina poetica a quel modo che la mitologia: tale è l'angiolo di Tortosa e Plutone messi insieme. È una macchina insipida in tutt'i nostri epici perchè convenzionale e non meditata nelle sue profondità. Gli angioli del Tasso sono luoghi comuni e il suo Plutone se guadagna come scultura è superficialissimo come spirito e parla come un maestro di rettorica. La parte attiva e interessante è affidata alla magia ancora in voga a quel tempo dalla quale il Tasso trae tutto il suo maraviglioso. La morte di Clorinda non è una trasfigurazione come quella di Beatrice e si accosta al carattere elegiaco e malinconico di quella di Laura nel cui bel volto “morte bella parea”. Qui tutto è preciso e percettibile il plastico è fuso col sentimentale il riposo idillico col patetico e l'effetto è un raccoglimento muto e solenne di una pietà senz'accento come suona in questa immagine nel suo fantastico così umana e vera e semplice perchè rispondente alle reali impressioni e parvenze di un'anima addolorata:

La stessa ispirazione petrarchesca è nelle ultime parole di Sofronia:

Movimento lirico che ricorda immagini simili di Dante e del Petrarca accompagnate nel Tasso da un tono alquanto pedantesco quando vuol darvi uno sviluppo puramente dottrinale e religioso come nelle prime parole di Sofronia che hanno aria di una riprensione amorevole fatta da un confessore a un condannato a morte o nelle parole di Piero a Tancredi che hanno aria di predica. La sua anima candida e nobile la senti più nelle sue imitazioni petrarchesche e platoniche che in ciò che tira dal fondo dottrinale e tradizionale religioso. Sofronia che fa una lezione a Olindo ricorda Beatrice che ne fa una simile e più aspra a Dante; ma Beatrice è nel suo carattere è tutta l'epopea di quel secolo ci è in lei la santa la donna ed anche il dottore di teologia; Sofronia è rigida tutta di un pezzo costruzione artificiale e solitaria in un mondo dissonante

perciò appunto esagerata nelle sue tinte religiose a cominciare da quella “vergine di già matura verginità” per finire in quel bruttissimo:

In questa eroina martire della fede non ci è la santa con le sue estasi e i suoi ardori oltremondani e non ci penetra il femminile con la sua grazia e amabilità. È uscita dal cervello concetto cristiano con reminiscenze pagane e platoniche. Colui che l'ha concepita pensava a Eurialo e Niso a Beatrice e a Laura. La creatura è rimasta nel suo intelletto e non ha avuto la forza di penetrare nella sua coscienza e nella sua immaginazione così com'era nel suo immediato. Il che avviene quando la coscienza e l'immaginazione sono già preoccupate e non conservano nella loro verginità le concezioni dell'intelletto. Se è vero che concependo Sofronia il Tasso pensasse a Eleonora è una ragione di più che ci spiega l'artificio e la durezza di questa costruzione. Perciò Sofronia è la meno viva e la meno interessante fra le donne del Tasso e non è stata mai popolare. Ma Sofronia è umanizzata da Olindo il femminile in un episodio dove l'uomo è Sofronia: Olindo diviene eroe per amore come altri diviene eroe per paura. Il suo carattere non è la forza qualità estranea al tempo ed al Tasso e che senti così bene in quel sublime: “Me me adsum qui feci in me convertite ferrum” imitato qui a rovescio e rettoricamente. Il carattere di questo timido amante “o mal visto o mal noto o mal gradito” presentato a' lettori in una forma artificiosa e sottile è l'eco del Tasso un'anticipazione del Tancredi la stampa di quel tempo e di quel poeta un elegiaco spinto sino al gemebondo un idillico spinto sino al voluttuoso. Il vero eroe del poema è Tancredi che è il Tasso stesso miniato: personaggio lirico e subbiettivo dove penetra il soffio di tempi più moderni come in Amleto. Tancredi è gentiluomo cioè cavalleresco nel senso più delicato e nobile gagliardo e destro più che gigantesco di corpo malinconico assorto flebile amabile consacrato da un amore infelice. La sua Clorinda è una Camilla battezzata tradizione virgiliana che al momento della morte si rivela dantesca e petrarchesca. Carattere muto diviene intelligibile e umano in morte come Beatrice e Laura. La sua apparizione a Tancredi ricorda quella di Laura ed è una delle più felici imitazioni. La formazione poetica della donna non fa in Clorinda alcun passo: rimane reminiscenza petrarchesca. E se vuoi trovare l'ideale femminile compiutamente realizzato nella vita in quel suo complesso di amabili qualità dèi cercarlo non nella donna ma nell'uomo nel Petrarca e nel Tasso caratteri femminili nel senso più elevato e in questa simpatica e immortale creatura del Tasso il Tancredi. Si è detto che l'uomo nella sua decadenza tenda al femminile diventi nervoso impressionabile malinconico. Il simile è de' popoli. E lo spirito italiano fa la sua ultima apparizione poetica tra' languori e i lamenti dell'idillio e dell'elegia divenuto sensitivo e delicato e musicale. Il sentimento è il genio del Tasso che gli fa rompere la superficie ariostesca e gli fa cavare di là dentro i primi suoni dell'anima. L'uomo non è più al di fuori si ripiega si raccoglie. Lo stesso Argante è colpito da questo sublime raccoglimento innanzi alla caduta di Gerusalemme come il poeta innanzi alle rovine di Cartagine o quando nell'immensità dell'oceano concepisce e comprende Colombo. Qui è l'originalità e la creazione del gran poeta che sorprende Solimano nelle sue lacrime e Tancredi nella sua vanagloria. Vita intima della quale dopo Dante e il Petrarca si era perduta la memoria.

Con l'elegiaco si accompagna l'idillico. L'immagine sua più pura e ideale è l'innamorata Erminia che acqueta le cure e le smanie nel riposo della vita campestre. Quella scena è tra le più interessanti della poesia italiana. Erminia è comica nel suo atteggiamento eroico e fredda e accademica nelle sue discussioni tra l'onore e l'amore; ma quando si abbandona all'amore si rivelano in lei di bei movimenti lirici come:

Nella sua anima ci è l'impronta malinconica e pensosa del Tasso una certa dolcezza e delicatezza di fibra che la tien lontana dalla disperazione e la dispone alla pace e alla solitudine campestre della quale un pastore gli fa un quadro tra' più finiti della nostra poesia. Erminia errante pe' campi con le sue pecorelle tutta sola in compagnia del suo amore pensosa e fantastica e lacrimosa espande le sue pene con una dolcezza musicale il cui segreto è meno nelle immagini che nel numero. Trovi reminiscenze petrarchesche e luoghi comuni in una musica nuova piena di misteri o di “non so che” nella sua melodia. Un traduttore può rendere il senso ma non la musica di quelle ottave. L'anima del poeta non è nelle cose ma nel loro suono a cui è sacrificata alcuna volta la proprietà la precisione la sobrietà tutte le alte qualità dello stile che rendono ammirabile il Petrarca suo ispiratore: pur non te ne avvedi sotto la malia di quell'onda musicale che non è un artifizio esteriore e meccanico ma è il non so che del sentimento che viene dall'anima e va all'anima.

L'idillico non è in questa o quella scena ma è la sostanza del poema il suo significato. La base ideale del poema è il trionfo della virtù sul piacere o della ragione sulle passioni. Un lato di questa base rimane intellettuale e allegorico e si risolve poeticamente in esortazioni paterne come:

Contrapposto alla virtù è il piacere e qui si sviluppano tutte le facoltà idilliche del poeta. In Erminia l'idea idillica è la pace della vita campestre farmaco del dolore vòlto in dolce melanconia. Qui l'idea idillica è il piacere della bella natura spinto sino alla voluttà e alla mollezza come ozio di anima e contrapposto alla virtù e alla gloria: ciò che il poeta chiude nel motto: “quel che piace ei lice” traduzione del dantesco: “libito fe' licito”. Questa idea è sviluppata nel canto della ninfa e nel canto dell'uccello che sono due veri inni al Piacere:

Il primo canto è di una esecuzione così perfetta per naturalezza e semplicità che soggioga anche il severo Galilei e gli fa dire che qui il Tasso si accosta alla divinità dell'Ariosto. L'altro canto è fondato su questo concetto maneggiato così spesso da Lorenzo e dal Poliziano: “Amiamo chè la vita è breve”. L'immagine è anche imitata dal Poliziano: è la descrizione della rosa fatta pure dall'Ariosto; ma dove nel Poliziano ci è il puro sentimento della bellezza qui si sviluppa un elemento sentimentale o elegiaco: l'impressione non è la bellezza della rosa ma la sua breve vita e ne nasce un canto immortale penetrato di piacere e di dolore il cui complesso è una voluttà resa più intensa da immagini tenere fatti la morte e il dolore istrumenti del piacere e dell'amore. Il protagonista di questo mondo idillico è Armida anzi questo mondo è il suo prodotto perchè essa è la maga del piacere che gli dà vita. Armida e Rinaldo ricordano Alcina e Ruggiero e il concetto stesso del guerriero tenuto negli ozi lontano dalla guerra risale ad Achille in Sciro come l'idea dell'amore sensuale che trasforma gli uomini in bestie è già tutta intera nella maga Circe. Di questa lotta tra il piacere e la virtù si trovano vestigi poetici in tutte le nazioni. Il Tasso con un senso di poesia profondo ha fatto di Armida una vittima della sua magia. La donna vince la maga e come Cupido finisce innamorato di Psiche cioè a dire di divino si fa umano Armida finisce donna che obblia Idraotte e l'inferno e la sua missione e pone la sua magia a' servigi del suo amore. Questo rende Armida assai più interessante di Alcina e le dà un nuovo significato. È l'ultima apparizione magica della poesia apparizione entro la quale penetra e vince l'uomo e la natura. È il soprannaturale domato e sciolto dalle leggi più forti della natura. È la donna uscita dal grembo delle idee platoniche e delle allegorie che si rivela co' suoi istinti nella pienezza della vita terrena. Già in Angelica apparisce la donna; ma la storia di Angelica finisce appunto allora e allora appunto comincia la storia di Armida. Angelica terminando le sue avventure nella prosa idillica del suo matrimonio con un “povero fante” è salutata e accomiatata dal poeta con quel suo risolino ironico. Il concetto ripigliato dal Tasso diviene una interessante storia di donna a cui l'arte magica dà il teatro e lo scenario. Così la maga Armida è l'ultima maga della poesia e la più interessante nella chiarezza e verità della sua vita femminile. Vive anche oggi nel popolo più che Alcina Angelica Olimpia e Didone perchè unisce tutti gli splendori della magia con tutta la realtà di un povero core di donna. La sua riabilitazione è in quell'ultimo motto tolto alla Madonna: - Ecco l'ancilla tua -; conclusione piena di senso: molto le è perdonato perchè ha molto amato. Ed è l'amore che uccide in lei la maga e la fa donna. Trasformazione assai più poetica che non è lo scudo di Ubaldo e la donna celeste: ond'è che Rinaldo nella sua conversione t'interessa assai meno che Armida in questa sua trasfigurazione perchè quella conversione nasce da cause esterne e soprannaturali e questa trasfigurazione è il logico effetto di movimenti interni e naturali.

In Erminia e in Armida si compie la donna non quale uscì dalla mente di Dante e del Petrarca di cui si trovano le orme in Sofronia e in Clorinda non il tipo divino eroico e tragico della donna ma un tipo più umano idillico ed elegiaco. La forza di Erminia è nella sua debolezza. Senza patria e senza famiglia sola sulla terra vive perchè ama e perchè ama opera ma le sue vere azioni sono discorsi interiori visioni estasi illusioni lamenti e lacrime tutto un mondo lirico che si effonde con una dolcezza melanconica tra onde musicali. Erminia pastorella è la madre di tutte le Filli e Amarilli che vennero poi lontanissime dal modello. Nè tra le creature idilliche del Boccaccio del Poliziano del Molza del Sannazzaro c'è nessuna che le si avvicini. In Armida si sviluppa tutto il romanzo di un amore femminile con le sue voluttà con i suoi ardori sensuali con le sue furie e le sue gelosie e i suoi odii. Nessuno aveva ancora colta la donna con un'analisi così fina nell'ardenza e nella fragilità de' suoi propositi nelle sue contraddizioni. La lingua dice: - Odio - e il cuore risponde: - Amo; - la mano saetta e il cuore maledice la mano:

Si dirà che tutto questo non è eroico e non tragico; e appunto per questo elle sono creature viventi figlie non dell'intelletto ma di tutta l'anima con l'impronta sulla fisonomia del poeta e del secolo.

Il mondo idillico figlio della mente d'Armida è il palazzo e il giardino incantato cioè la bella natura campestre resa artistica trasformata dall'arte in istrumento di voluttà sì che pare che “imiti l'imitatrice sua”. Nell'Odissea nelle Georgiche nelle Stanze ne' giardini ariosteschi la bella natura è sostanzialmente campestre o idillica e il suo ideale umano è la vita pastorale: l'età dell'oro attinge anche di là le sue immagini. Il quadro abituale della poesia classica e italiana è il verde de' campi i fiori gli alberi il riso della primavera le fresche ombre gli antri le onde gli uccelli le placide aurette quadro decorato dall'arte con le sue statue e i suoi intagli. Questa vista della natura si allarga innanzi al secolo di Colombo e di Copernico e ne senti l'impressione nell'immensità dell'oceano dove il Tasso trova alcune belle ispirazioni. Ma alla fine del viaggio toccando le isole Fortunate soggiorno di Armida ricasca nel solito quadro e vi pone l'ultima mano. Qui vedi raccolto come in un bel mazzetto tutto ciò che di vezzoso e di leggiadro avea trovato l'immaginazione poetica da Omero all'Ariosto; ma è nell'ultima sua forma raffinata o artificiosa. Come Dante crea una natura oltremondana il Tasso crea una natura oltrenaturale una natura incantata il paradiso della voluttà. Non è la natura còlta nell'immediato della sua esistenza ma natura artefatta lavorata e trasformata da un artista che ha fini e mezzi suoi e l'artista è Armida maestra di vezzi e di artifici che crea intorno a sè una natura meretricia e voluttuosa. Questa forma testamentaria della natura classica è portata a un alto grado di perfezione da un poeta che a un sentimento musicale sviluppatissimo aggiungeva tutte le finezze dello spirito.

Abbiamo anche una selva incantata cioè una selva artefatta e accomodata ad uno scopo a lei estraneo. L'incanto ne' romanzi cavallereschi è così arbitrario come la natura e non è altro che combinazione straordinaria di apparenze che déstino curiosità e maraviglia. Qui come è concepito dal Tasso l'incanto è ragionevole e perciò intelligibile è la natura rimaneggiata dall'arte e indirizzata ad uno scopo. Come il giardino e il palazzo incantato così la selva incantata è opera di artista che l'atteggia a suo modo e secondo i suoi fini. Il concetto non è nuovo: è la nota selva delle false apparenze la selva degli errori e delle passioni; ma l'esecuzione è originalissima e ti offre il microcosmo del Tasso il suo mondo elegiaco-idillico condensato e accentuato. Ci è lì fuso insieme Erminia e Armida Tancredi e Rinaldo tutta l'anima poetica del Tasso ciò che di più tenero ha l'elegia e ciò che di più molle ha l'idillio ne' loro accenti più musicali.

Questo è il vero mondo poetico della Gerusalemme un mondo musicale figlio del sentimento che dalla più intima malinconia va digradando fino al più molle e voluttuoso di una natura meridionale. Ingegno napolitano manca al Tasso la grazia e la vivezza toscana e la decisione e chiarezza lombarda così ammirabile nell'Ariosto ma gli abbonda quel senso della musica e del canto quel dolce fantasticare dell'anima tra le molli onde di una melodia malinconica insieme e voluttuosa che trovi nelle popolazioni meridionali sensibili e contemplative.

Questo mondo del sentimento è insieme il mondo dei “concetti”. Come il Petrarca così il Tasso è disposto meno a rinnovare un vecchio repertorio che ad abbigliarlo a nuovo. Dottissimo la sua materia poetica è piena di reminiscenze e non coglie il mondo nel suo immediato ma a traverso i libri. Lavora sopra il lavoro raffina aguzza immagini e concetti: la qual forma nella sua esteriorità meccanica egli la chiama il “parlare disgiunto” ed è un “lavoro di tarsie” come diceva il Galilei. Cercando l'effetto non nell'insieme ma nelle parti e facendo di ogni membretto un mondo a sè raffinato e accentuato le giunture si scompongono l'organismo del periodo si scioglie e vien fuori una specie di parallelismo concetti e immagini a due a due posti di fronte in guisa che si dieno rilievo a vicenda. Il fondo di questo parallelismo è l'antitesi presa in un senso molto largo cioè una certa armonia che nasce da oggetti simili o dissimili posti dirimpetto come:

Quel “molto” e quell'“invano” sono il ritornello di una cantilena chiusa in se stessa ed esaurita nell'espressione di un rapporto tra due oggetti. Naturalmente cercando l'effetto in quel rapporto l'intelletto vi prende parte più che non si convenga a poeta e riesce nel raffinato e nel concettoso come:

Questo parallelismo fondato sopra ritornelli di parole ravvicinamenti di oggetti e straordinarietà di rapporti non è un accidente è il carattere di questa forma con gradazioni più o meno spiccate. E non attinge solo i pensieri ma anche le immagini come:

L'immaginazione nelle sue contemplazioni ha sempre a' fianchi un pedagogo che analizza e distingue con logica precisione come:

Cerca troppo il poeta lo stacco e il rilievo dare un significato anche all'insignificante e cerca il significato ne' rapporti intellettuali anche tra la maggiore evidenza della rappresentazione e la concitazione più violenta dell'affetto come:

Con questi giuochi di parole e di pensieri si lagna Tancredi e infuria Armida la quale anche nella disperazione del suicidio fa un discorsetto alle sue armi assai ingegnoso e finisce:

È ciò che fu detto “orpello del Tasso” o maniera propria de' poeti subiettivi una forma artificiosa di rappresentazione dove l'interessante non è la cosa ma il modo di guardarla. In questo caso la forma non è la cosa ma lo spirito con le sue attitudini facilmente classificabili ne' loro caratteri esteriori e divenute maniera o abitudine nella rappresentazione com'è il petrarchismo o il marinismo. Essendo il proprio di questa maniera una cantilena breve e chiusa che ha il suo valore non solo nel rimanente della clausola ma in se stessa vi si sviluppa l'elemento cantabile e musicale una enfasi sonora un suono di tromba perpetuo e monotono con certe pause con certi trilli con certe ripigliate con un certo sopratuono come di chi gridi e non parli che non comporta la semplice recitazione come si può in molti passi di Dante del Petrarca e dell'Ariosto ma ti costringe alla declamazione. Ci è un “arma virumque cano” dal principio all'ultimo un accento sollevato e teso come di chi si trovi in uno stato cronico di esaltazione. Indi scelta di parole sonanti riempiture di epiteti e di avverbi nobiltà convenzionale di espressione povertà di parole di frasi di costruzioni e di gradazioni. Con questa forma declamatoria si accompagna naturalmente la rettorica che è quel tenersi su' generali e ravvivare luoghi comuni o concettosi con un calore tutto d'immaginazione tra uno scoppiettio di apostrofi epifonemi ipotiposi interrogazioni ed esclamazioni: il che gli avviene massime quando mira alla forza di concitate passioni come sono i lamenti di Tancredi e i furori di Armida. Questa è la “maniera” del Tasso per entro alla quale penetra il potente soffio d'un sentimento vero che spesso gli strappa accenti nella loro energia pieni di semplicità. Nelle ultime parole di Clorinda ci è un sì e un no in battaglia “al corpo no all'anima sì”; ma salvo questo che affetto e quanta semplicità in quell'affetto ! Togliete quel fiato al Petrarca e al Tasso cosa rimane? La maniera il petrarchismo e il marinismo il cadavere de' due poeti.

La Gerusalemme non è un mondo esteriore sviluppato ne' suoi elementi organici e tradizionali come è il mondo di Dante o dell'Ariosto. Sotto le pretensiose apparenze di poema eroico è un mondo interiore o lirico o subbiettivo nelle sue parti sostanziali elegiaco-idillico eco de' languori delle estasi e de' lamenti di un'anima nobile contemplativa e musicale. Il mondo esteriore ci era allora ed era il mondo della natura il mondo di Copernico e di Colombo la scienza e la realtà. Anche il Tasso ne ha un bagliore e visibili sono qui le sue intenzioni storiche reali e scientifiche rimaste come presentimenti di un mondo letterario futuro. L'Italia non era degna di avere un mondo esteriore e non l'aveva. Perduto il suo posto nel mondo mancato ogni scopo nazionale della sua attività e costretta alla ripetizione prosaica di una vita di cui non aveva più l'intelligenza e la coscienza la sua letteratura diviene sempre più una forma convenzionale separata dalla vita un gioco dello spirito senza serietà perciò essenzialmente frivolo e rettorico anche sotto le apparenze più eroiche e più serie. Di questa tragedia Torquato Tasso è il martire inconscio il poeta appunto di questa transizione; mezzo tra reminiscenze e presentimenti fra mondo cavalleresco e mondo storico; romanzesco fantastico tra le regole della sua poetica la severità della sua logica le sue intenzioni realiste e i suoi modelli classici; agitantesi in un mondo contraddittorio senza trovare un centro armonico e conciliante; così scisso e inquieto e pieno di pentimenti nel suo mondo poetico come nella vita pratica. Miserabile trastullo del suo cuore e della sua immaginazione fu là il suo martirio e la sua gloria. Cercando un mondo esteriore ed epico in un repertorio già esaurito vi gittò dentro se stesso la sua idealità la sua sincerità il suo spirito malinconico e cavalleresco e là trovò la sua immortalità. Ivi si sente la tragedia di questa decadenza italiana. Ivi la poesia prima di morire cantava il suo lamento funebre e creava Tancredi presentimento di una nuova poesia quando l'Italia sarà degna di averla.


 

XVIII

MARINO

Questo mondo lirico che nella Gerusalemme si trova mescolato con altri elementi apparisce in tutta la sua purezza idillica ed elegiaca nell'Aminta. Ivi il Tasso incontra il vero mondo del suo spirito e lo conduce a grande perfezione.

L'Aminta non è un dramma pastorale e neppure un dramma. Sotto nomi pastorali e sotto forma drammatica è un poemetto lirico narrazione drammatizzata anzi che vera rappresentazione com'erano le tragedie e le commedie e i così detti drammi pastorali in Italia. Citerò la Virginia dell'Accolti resa celebre dall'imitazione di Shakespeare. Essa è in fondo una novella allargata a commedia di quel carattere romanzesco che dominava nell'immaginazione italiana aggiuntavi la parte del buffone che è il Ruffo la cui volgarità fa contrasto con la natura cavalleresca de' due protagonisti Virginia e il principe di Salerno. Gli avvenimenti più strani si accavallano con magica rapidità appena abbozzati e quasi semplice occasione a monologhi e capitoli dove paion fuori i sentimenti dei personaggi misti alla narrazione. Di tal genere erano anche le egloghe o commedie pastorali iniziate fin da' tempi del Boiardo nella corte di Ferrara e giunte allora a una certa perfezione d'intreccio e di meccanismo nel Sacrificio del Beccari nell'Aretusa del Lollio e nello Sfortunato dell'Argenti. Queste ecloghe che dalla semplicità omerica e virgiliana erano state condotte fino ad un serio viluppo drammatico furono dette senza più “favole boscherecce”. E anche commedie pastorali.

L'Aminta è un'azione fuori del teatro narrata da testimoni o da partecipi con le impressioni e le passioni in loro suscitate. L'interesse è tutto nella narrazione sviluppata liricamente e intramessa di cori il cui concetto è l'apoteosi della vita pastorale e dell'amore: “s'ei piace ei lice”. Il motivo è lirico sviluppo di sentimenti idillici anzi che di caratteri e di avvenimenti. Abbondano descrizioni vivaci soliloqui comparazioni sentenze movimenti appassionati. Vi penetra una mollezza musicale piena di grazia e delicatezza che rende voluttuosa anche la lacrima. Semplicità molta è nell'ordito e anche nello stile che senza perder di eleganza guadagna di naturalezza con una sprezzatura che pare negligenza ed è artificio finissimo. Ed è perciò semplicità meccanica e manifatturata che dà un'apparenza pastorale a un mondo tutto vezzi e tutto concetti. È un mondo raffinato e la stessa semplicità è un raffinamento. A' contemporanei parve un miracolo di perfezione e certo non ci è opera d'arte così finamente lavorata.

Tentò il Tasso anche la tragedia classica e ad imitazione di Edipo re scrisse il suo Torrismondo. Ma l'Italia non avea più la forza di produrre nè l'eroico nè il tragico e lì non ci è di vivo se non quello solo di vivo che era nel poeta e nel tempo l'elemento elegiaco massime ne' cori. I contemporanei credettero di avere il poema eroico nella Gerusalemme e non molto soddisfatti del Torrismondo aspettavano ancora la tragedia classica.

Delle sue rime sopravvive qualche sonetto e qualche canzone effusione di anima tenera e idillica. Invano vi cerco i vestigi di qualche seria passione. Repertorio vecchio di concetti e di forme con i soliti raffinamenti. Dipinge bella donna così:

Il suo dolore esprime a questo modo:

I sentimenti umani sono petrificati nell'astrazione di mille personificazioni come l'amore la pietà la fama il tempo la gelosia e nel gelo di dottrine platoniche e di forme petrarchesche.

Quel che sieno le sue prose si può immaginare. Dottissime irte di esempi e di citazioni in istil grave in andamento sostenuto ma non inceppato sfolgoranti di nobili sentimenti. Quando esprime direttamente i moti del suo animo mostra un affetto rilevato da una forma cavalleresca e di gentiluomo anche nell'abiezione della sua sorte com'è in alcune sue lettere. Quando specula come ne' Dialoghi senti ch'è fuori della vita e sta in quistioni astratte o formali. Ci è un libro che volontariamente ha chiuso ed è il libro della libera investigazione. Nella sua giovinezza l'autore del Rinaldo dedito a furtivi e disordinati amori era anche infetto dalla peste filosofica. La gran quistione era qual fosse superiore la fede o la religione la volontà o l'intelletto. I filosofi moderni rivendicano egli dice la sovranità dell'intelletto e sostengono che l'uomo non può credere a quello che ripugna all'intelletto. Tratto dalla corrente il giovine Tasso non crede all'incarnazione nè all'immortalità dell'anima e di quei suoi costumi e di queste opinioni i suoi avversari gli fecero carico presso la corte quand'egli era già pentito e confesso e animato da zelo religioso. La sua religione è messa d'accordo con la sua filosofia su questo bel ragionamento che l'intelletto non può spiegare tante cose che pure esistono e che perciò esistono anche le verità della fede ancorchè l'intelletto non sia giunto a spiegarle. Indi è che ti riesce più erudito e dotto che filosofo e rimane segregato da tutto quel movimento intellettuale intorno alla natura e all'uomo che allora ferveva anche in Italia abbandonandosi al suo naturale discorso timidamente e non senza aggiungere che se cosa gli vien detta non pia e non cattolica sia per non detta. Odia a morte i luterani ha in sospetto i filosofi “moderni” e cerca un rifugio negli antichi massime in Platone più affine alla sua natura contemplativa e religiosa. De' suoi dubbi delle sue ansietà della sua vita intellettuale interiore non è rimasto un pensiero non un grido. Ci è qui l'anima di Pascal o di sant'Agostino cristallizzata in quell'atmosfera inquisitoriale nelle forme classiche e negli studi platonici. Uno de' suoi più interessanti dialoghi è quello che prende il nome del Minturno scrittore napolitano che fra l'altro die' fuori una Poetica. Ivi il poeta investiga la natura del bello confutando tutte le definizioni volgari e conchiude che il bello è la natura angelica ovvero l'anima “in quanto si purga” che è appunto il concetto della sua Gerusalemme. Evidentemente confonde il bello col vero e colla perfezione morale intravede l'ideale e non lo coglie e si discosta dalla poesia quanto più si accosta a quel concetto come nella Conquistata e nelle Sette giornate. Il dialogo è platonico nel concetto e nell'andamento ma vi desideri la grazia e la freschezza di quel divino.

Il secolo comincia con l'Arcadia del Sannazzaro e finisce con l'Arcadia del Guarini detta il Pastor fido. L'idillio attraversato nel suo cammino dalla moda cavalleresca ripiglia forza e resta padrone del campo sviluppandosi a forma drammatica.

L'idillico e il comico erano generi viventi insieme col romanzesco e rappresentavano quella parte di vita poetica rimasta all'Italia. Il tragico e l'eroico erano pura imitazione. Perciò il comico e l'idillico si sprigionano in parte dalle forme classiche e prendono un aspetto più franco.

Il comico sviluppato in una moltitudine di novelle e di commedie lasciava quel fondo convenzionale di Plauto e Terenzio e produceva caratteri freschi e vivi e per piacere si accostava alle forme della vita popolare e anche a quel linguaggio ora mescolando con l'italiano il dialetto ora scrivendo tutto in dialetto. Le farse napolitane accennavano già a questo genere. Ne scrisse anche di simili Beolco o il Ruzzante detto il “famosissimo”. Gli attori cominciarono a contentarsi del canavaccio o del semplice ordito come si fa ne' balli teatrali e improvvisavano il linguaggio a quel modo che facevano gli antichi novellieri. Compagnie di rapsodi o improvvisatori si sparsero in Italia e anche più tardi a Parigi e a Londra traendosi appresso un repertorio dove attinsero molti soggetti e pensieri e situazioni drammatiche Shakespeare e Molière. Come ci era un fondo comune d'invenzione così ci erano caratteri fissi e determinati che comparivano in maschera e alcuni anche senza come Pantalone Brighella Arlecchino Pulcinella il Dottore bolognese il capitan Spavento o il capitano Matamoros il servo sciocco come Trappola e simili. Rappresentazioni che ricordavano le atellane dell'antica Roma e si chiamavano “commedie a soggetto” dove non ci era altro di espresso che il soggetto. Gli attori erano anche autori e spesso rappresentavano prima una commedia “erudita” e poi per far piacere al pubblico improvvisavano una commedia a soggetto o “dell'arte”. Intrighi amorosi combinazioni straordinarie della vita e certe parti episodiche convenute certi caratteri tradizionali come lo sciocco il buffo il discolo il pedante la mezzana l'usuraio sono il fondo di questi repertorii popolari a' quali si avvicinano molto le commedie dell'Aretino. Ivi si trovano i secreti della vita e del carattere italiano assai più che in tutte le imitazioni classiche. Una storia della commedia e della novella in tutte le sue forme sarebbe un lavoro assai istruttivo e se ne caverebbero elementi preziosi per la storia della società italiana. Un ricco repertorio di soggetti sceneggiati ci ha lasciato nelle sue Cinquanta giornate Flaminio Scala autore e attore così famoso come il “famosissimo” Ruzzante e Andrea Calmo “stupore e miracolo delle scene”. Flaminio rappresentava la parte dell'innamorato e fu il capo di quella compagnia comica che aprì il primo teatro italiano a Parigi nel 1577 sotto Enrico terzo. Celebre attrice fu sua moglie Orsola e più celebre fu Isabella di Padova sposata a Francesco Andreini che rappresentava la parte del capitan Spavento. Isabella celebrata dal Tasso dal Castelvetro dal Campeggi dal Chiabrera morì a Lione e nella scritta posta al suo sepolcro è detta “Musis amica et artis scaenicae caput”. Pari a lei di fama e di genio e di virtù fu Vincenza Armani di Venezia scrittrice e attrice che ne' drammi pastorali rappresentava la parte di Clori. La parte del Dottore fu resa celebre dal Graziano e Arlecchino ebbe il suo grande interprete in Giovanni Ganassa da Bergamo che nel 1570 introdusse nella Spagna la commedia dell'arte come Flaminio aveva fatto a Parigi e a Londra. Il Roscio del secolo fu il Verato di Ferrara celebrato dal Tasso e dal Guarini che intitolò dal suo nome un'apologia del suo dramma. La commedia dell'arte non era altro se non la stessa commedia erudita tolta di mano agli accademici e rinfrescata nella vita popolare maneggiata da scrittori meno dotti ma più pratici del teatro e più intelligenti del gusto pubblico: perciò più svelta e vivace nel suo andamento e rallegrata da quello spirito che viene dall'improvviso e dall'uso del dialetto non senza cadere a sua volta nel vizio opposto alla pedanteria ne' lazzi sconci degli Arlecchini. Di essa non sono rimasti che gli scheletri: tutto ciò che vi aggiungeva l'immaginazione improvvisatrice vive solo nell'ammirazione de' contemporanei.

Accanto al comico e al romanzesco si sviluppava il sentimento idillico con tanto più forza quanto la società era più artificiata e raffinata. L'idillio si presentava come contrasto tra l'onore e l'amore tra la città e la villa tra le leggi sociali e le leggi della natura. Naturalmente è l'amore o la natura che vince. La felicità posta nell'età dell'oro cioè a dire fuori de' travagli e delle agitazioni della vita reale nel riposo o tranquillità dell'anima; la vita rustica con quelle bellezze della natura con quella vita di godimenti semplici con quella spontaneità e ingenuità di sentimenti era quel naturale contrapposto di un mondo convenzionale che senti nell'Aminta e nel “pastore” di Erminia. L'ideale poetico posto fuori della società in un mondo pastorale rivelava una vita sociale prosaica vuota di ogni idealità. La poesia incalzata da tanta prosa si rifuggiva come in un ultimo asilo ne' campi e là gli uomini di qualche valore attingevano le loro ispirazioni di là uscirono i versi del Poliziano del Pontano e del Tasso. Come la commedia a soggetto era il pascolo della plebe il dramma pastorale era il grato trattenimento delle corti che ci trovavano un linguaggio più castigato e predicatore di virtù fuori di ogni applicazione alla vita pratica. Perciò come la commedia divenne sempre più licenziosa e plebea il dramma pastorale prese aria cortigiana e quel mondo semplice della natura si manifestò con una raffinatezza degna delle nobili principesse spettatrici. Questo carattere già visibile nell'Aminta diviene spiccatissimo nel Pastor fido. Giambattista Guarini fu poeta di occasione e cortigiano di natura dove il Tasso fu tutto l'opposto: cortigiano per bisogno e per istinto poeta. Il Guarini era nobile e ricco e non lo strinse alla vita di corte che la sua natura irrequieta e ambiziosa. Passò il tempo errando di corte in corte e dopo i disinganni correva dietro a nuovi inganni. Aveva molto ingegno non comune coltura assai pratica della vita e degli uomini mente chiarissima grande attività. Compagno negli studi col Tasso a Padova fu a Ferrara suo emulo e quando il Tasso capitò in prigione prese il suo posto e fu battezzato poeta di corte. Disgustato a sua volta degli Estensi si ritirò in una sua bellissima villa e vi concepì e vi scrisse il Pastor fido acclamato da tutta Italia. Anche lui ebbe le sue intenzioni critiche. Volle fare una tragicommedia mescolanza di elementi tragici e comici in un ordito largo e ricco dove fossero innestate più azioni. Questo parve eresia a' critici tenaci al “simplex et unum” e che non concepivano l'arte se non come un ideale tragico o comico. Si ravvivarono adunque quelle polemiche letterarie che dal Castelvetro e dal Caro in qua mettevano in moto tante accademie. Il Guarini si difese assai bene nell'Apologia e mostrò coscienza chiarissima della sua opera. Forse il teatro spagnuolo non fu senza influenza sulla sua critica ma come tutto si diffiniva con l'autorità de' classici difese quell'innesto di azioni e quella mescolanza di caratteri con Aristotile alla mano e con l'Andria di Terenzio. Oggi gli si fa gloria di quello che allora si reputava peccato. Si dice ch'egli abbia intraveduto il dramma moderno e non solo lo intravide ma lo concepì con l'esattezza di un critico odierno. La poesia dee rappresentare la vita così com'è con le sue mescolanze e i suoi sviluppi: questo è il concetto ch'esce chiaramente dal suo discorso. Ma quello che in Shakespeare e in Calderon è sentimento dell'arte sviluppato naturalmente in una vita nazionale ricca e piena in lui è visione intellettuale e solitaria è concetto di critico non sentimento di artista; concepiva il dramma quando del dramma mancavano tutte le condizioni in Italia principalmente una vita seria e sostanziale. La sua critica fa onore all'intelletto italiano allora nel fiore del suo sviluppo e rivela insieme la decadenza della facoltà poetica.

Il Pastor fido come meccanismo ed esecuzione tecnica è ciò che di più perfetto offriva la poesia. Due azioni entranti naturalmente l'una nell'altra e magnificamente innestate caratteri ben trovati e ben disegnati e perfettamente fusi nella loro mescolanza una superficie levigata con l'ultima eleganza una versificazione facile chiara e musicale fanno di questo poemetto per ciò che si attiene a costruttura e ad abilità tecnica un gioiello. Tutto ciò che chiarezza d'intelletto e industria di stile e di verso può dare è qui dentro. Il concetto come nell'Aminta è il trionfo della natura con la quale il destino in lotta apparente si riconcilia da ultimo mediante le solite agnizioni. Il poema è un'apoteosi della vita pastorale e dell'età dell'oro contrapposta alla corruzione e alle agitazioni della città e invocata spesso da' personaggi con senso d'invidia nella stretta delle loro passioni. Abbondano invocazioni preghiere sentenze morali e religiose; ma il fondo è sostanzialmente pagano e profano è il naturalismo la natura scomunicata e condannata come peccato che qui dopo lunga lotta si scopre non essere altro che la stessa legge del destino. La conclusione è: “Omnia vincit amor” riconciliato col destino e divenuto virtù con tanto più sapore con quanto più dolore:

Ma la virtù è nome e la cosa è il godimento amoroso sotto forme così voluttuose che il Bellarmino ebbe a dire aver fatto più male con quel suo libro il Guarini che non i luterani. Dal concetto nasce tutto l'intrigo. Corisca e il satiro sono l'elemento comico e plebeo: l'una è la donna corrotta della città tornata a' campi e divenuta il mal genio di questa favola l'altro è l'ignoranza e la grossolanità della vita naturale ne' suoi cattivi istinti e tutti e due sono la macchina poetica l'istrumento che annoda gli avvenimenti e produce la catastrofe. I protagonisti sono Mirtillo e Amarilli che si amano senza speranza essendo Amarilli fidanzata a Silvio il quale come la Silvia dell'Aminta è dedito alla caccia ed ha il core chiuso all'amore invano amato da Dorinda invano fidanzato ad Amarilli. Mirtillo ed Amarilli per inganno di Corisca e per la bestialità del satiro sono dannati a morte mentre Silvio per errore ferisce Dorinda travestita e scambiata per lupo. All'ultimo Silvio s'intenerisce e sposa Dorinda e Mirtillo scopertosi esser egli il vero Silvio figlio di Montano che dovea essere fidanzato ad Amarilli la sposa. Così la natura posta d'accordo co' responsi dell'oracolo trionfa; e tutti contenti la natura e il destino gli dei e gli uomini. Certo qui ci sono tutti gli elementi di un dramma e “dramma” lo chiamano i critici per l'innesto delle azioni per la mescolanza de' caratteri e per la parte data al destino secondo la tragedia greca: cose non lodevoli e non biasimevoli che possono essere e non essere in un dramma. Il valore di una poesia bisogna cercarlo non in queste condizioni esterne del suo contenuto ma nella sua forma cioè nella sua vita intima. Il Pastor fido è così poco un dramma come l'Aminta ancorchè ne abbia maggiore apparenza nel suo meccanismo. Ma la sua vita organica è quella medesima dell'Aminta suo specchio e sua reminiscenza e tutti e due sono poemi lirici narrazioni descrizioni canti non rapprese ella scena e non te ne giunge sul teatro che l'eco lirica. Vedi sfilare i personaggi l'uno appresso l'altro e non è ragione che venga l'uno prima e l'altro poi e ci narrano i loro guai: parlano non operano. Indi monologhi e narrazioni interminabili. Hanno operato o vogliono operare e ci raccontano quello che hanno fatto o son disposti a fare aggiungendovi le loro riflessioni e impressioni. L'azione è un'occasione all'effusione lirica. Abbondano i cori ma ciascun personaggio fa esso medesimo ufficio di coro perchè non opera ma discorre riflette effonde i suoi dolori e le sue gioie. Non manca al Guarini un ingegno drammatico e lo mostra nella scena tra il satiro e Corisca o tra Silvio e Dorinda o dove Dorinda ferita s'incontra con Silvio. Ciò che gli manca è la serietà di un mondo drammatico non essendo questo suo mondo che un prodotto artificiale e meccanico di combinazioni intellettuali. Manca a lui e manca all'Italia un mondo epico e drammatico e perciò non ci è epica e non ci è dramma. Quel suo mondo dell'Arcadia era per lui cosa così poco seria come il mondo cavalleresco era all'Ariosto salvo che l'Ariosto se ne ride e lui lo prende sul serio a quel modo che il Tasso. Cosa n'esce? Sotto pretensioni drammatiche esce un mondo lirico come di sotto alle pretensioni eroiche del Tasso usciva un poema lirico. Il secolo era vuoto di passione e di azione e vuoto di coscienza nè il Concilio trentino potè dargliene altro che l'apparenza ipocrita. “Questo è un secolo di apparenza - scrive il Guarini - e si va in maschera tutto l'anno”. Ma egli pure andava in maschera e fu col secolo non fuori e non sopra di esso. Rimaneva l'idolatria della letteratura considerata come un bel discorso nella eleganza delle sue forme condimento di una vita molle tra le feste e le pompe e gli ozi idillici delle corti. E questa è la vita che ti dà il Guarini bei discorsi lirici e musicali per entro ai quali spira un'aria molle e voluttuosa. Questa è la vita intima del Pastor fido come dell'Aminta e se vogliamo gustarlo lasciamo lì il dramma co' suoi innesti le sue mescolanze e il suo destino e mettiamoci a questo punto di vista.

Manca al Guarini l'ispirazione la malinconia la concentrazione fantastica il profondo sentimento del Tasso e come poeta gli è di gran lunga inferiore. Parla sempre di amore ma non lo sente. E non sente la vita pastorale quella inclinazione alla solitudine e alla pace idillica lui che ambizione e cupidigia tenea distratto tra le più prosaiche occupazioni della vita. La virtù la religione il destino tutto ciò che la vita ha di più elevato è nella sua mente non è nella sua coscienza. O per dir meglio coscienza non ha: quel focolare interno dove convivono e si raffinano tutte le potenze dell'anima condizionandosi a vicenda; dove si genera il filosofo il poeta l'uomo di Stato il gran cittadino centro di vita da cui solo esce la vita. E perchè questo centro di vita gli manca il Guarini ha immaginazione e non ha fantasia ha spirito e non ha sentimento ha orecchio musicale e non ha l'armonia che nell'anima si sente. Lo diresti un gran poeta in potenza a cui sia fallita la formazione per la distrazione delle forze interiori. Perciò non ha la produzione geniale del poeta ma la mirabile costruzione di un artista consumato: della quale si può dire quello che il coro dice della chioma finta di Corisca che gli è un “cadavere d'oro”. Splende e non scalda lusinga l'orecchio e i sensi e non lascia alcun vestigio nell'anima: tutti quei personaggi vestiti di oro e di porpora sono morti con esso Mirtillo e Amarilli. Ma quali splendori! qual maraviglia di costruzione! Fra tanti costruttori il primo posto tocca al Guarini a cui stanno prossimi il Caro e il Monti. La sua ricca immaginazione si spande al di fuori come iride nella pompa de' suoi più smaglianti colori; il suo spirito chiaro e acuto profonde con brio e facilità i concetti più ingegnosi più delicati e più fini; il suo verso ti sembra nato insieme con que' colori e con que' concetti: così è duttile molle vezzoso ed elegante. Se ci è lì dentro un sentimento è una sensualità raffinata la poesia della libidine. È lo stesso mondo del Tasso con le stesse qualità esagerate dall'emulo che pretendea di far meglio: un mondo plasmato nelle corti e ritratto della coltura. Quel mondo che nel Tasso apparisce malinconico e contraddittorio tra gli strazi e le confuse aspirazioni della transizione eccolo qui sfacciato e a bandiera spiegata. È il naturalismo del Boccaccio nella sua ultima forma purgato e castigato involto in apparenze morali e religiose un naturalismo con licenza de' superiori o “in maschera” come direbbe il Guarini. Non basta la licenza; il nudo disgusta e non alletta; la sensualità intorpidita ha bisogno degli stimoli dell'immaginazione e dello spirito. Il cavallo di battaglia per i poeti platonici erano gli occhi: qui è il bacio. Già il Tasso avea fatto qualche allusione al gioco del bacio. Il Guarini ne fa una pittura voluttuosissima e il bacio preso per furto diviene il luogo comune dell'Arcadia. Quanti raffinamenti sul bacio! Odasi il Guarini:

Poesia splendida dove lo spirito è così raffinato ne' suoi concetti com'è la sensuale immaginazione ne' suoi colori. Non è la vita in atto; è vita lirica narrata descritta sentenziata. Anche Corisca e il satiro si esprimono sentenziando anche il coro. Uno spirito sottile trova i più ingegnosi rapporti che l'immaginazione condensa in versi felicissimi. E poichè si tratta di baci ecco una sentenza di Amarilli:

La soverchia facilità rompe ogni misura. Ciascuna situazione diviene un tema astratto sul quale l'immaginazione intesse i più preziosi ricami. I discorsi dialoghi o monologhi sono vere canzoni dove riccamente è sviluppato qualche sentimento divenuto un'astrazione dello spirito. La canzone spesso si sveste la maestà e solennità petrarchesca e divenuta elegiaca e idillica anche nella sua esteriorità ti si presenta innanzi spezzata in sè intramessa di versetti e di rime in brevi periodetti tutta vezzi e languori e melodie assai vicina al madrigale concettoso e galante dove il Guarini era maestro. Bellissimo esempio sono le canzonette che cantano le ninfe intorno ad Amarilli nel giuoco della “cieca”.

Il secolo si chiude sotto le più belle apparenze di progresso letterario. La sua vita interna è il naturalismo in viva opposizione con l'ascetismo. Vi si sviluppa l'idillico il comico il romanzesco portandosi appresso come parti morte il petrarchismo e il classicismo. Questa vita nuova s'inizia nel Boccaccio ritratto sintetico del secolo dove commedia idillio e romanzo fanno la loro prima comparsa. L'idillio tranquillo riposo dell'anima nel seno della natura ideale di felicità contrapposto all'inquieto ideale ascetico attinge la sua perfezione estetica nelle Stanze e fa sentire i suoi susurri tra le fantasie ariostesche. L'idillio è il sentimento della natura vivente e delle belle forme che si scioglie dal soprannaturale; è un naturalismo non è ancora umanismo e accosta l'arte alla natura e nella maggior finitezza del disegno de' contorni e delle figure raggiunge l'idealità della bella forma e produce i miracoli dell'arte e della poesia italiana. Il comico ha già nel Boccaccio il suo grande poeta. È il riso della nuova generazione che fa la parodia del passato ne' suoi diversi aspetti religioso etico dottrinale in novelle capitoli e commedie: onde si sviluppa una ricca letteratura buffonesca ironica licenziosa umoristica. E come il comico non chiude in sè alcuna affermazione anzi viene da indifferenza e da scetticismo ha tutt'i segni di una dissoluzione morale di cui la più sfacciata espressione sono le commedie dell'Aretino e riesce in ultimo superficiale e frivolo. L'immaginazione in quella insipidezza della vita interiore in quella poca serietà della vita esteriore si gitta al romanzesco e vi si trastulla colla coscienza superiore di un intelletto adulto con la coscienza che gli è un giuoco e un passatempo: situazione che attinge la sua bellezza artistica nel mondo armonico dell'Ariosto e si scioglie nell'umorismo del Folengo. E quando giunta la licenza al suo ultimo segno ne' costumi e nello scrivere vi si volle porre un rimedio e sopravvenne la reazione ascetica e platonica quando si volle imporre alla coscienza italiana un'affermazione e alla letteratura un ideale risorse l'idillio l'ideale del naturalismo e fu la sola forza viva fra tanti ideali religiosi morali platonici con visibile contrasto tra i concetti platonici e religiosi e la sensualità dell'idillio. La letteratura prende un'apparenza religiosa e morale epica e tragica; e la pompa delle sentenze il lusso de' colori la grandiloquenza rettorica la finezza de' concetti rivelano la poca serietà di quelle tendenze. Sotto a quelle apparenze vive ne' più seducenti colori un mondo lirico idillico; il naturalismo condannato nelle parole è la vera vita organica che vien fuori in una forma di apparenze meno licenziose ma più raffinata e voluttuosa. Il sentimento di questa transizione nelle sue contraddizioni e nella sua sincerità si riflette nella nobile anima del Tasso e ne cava suoni malinconici elegiaci voluttuosi musicali che sono l'ultimo raggio della poesia. Quel mondo idillico fra tanta pompa di sentenze morali e d'intenzioni platoniche si afferma nella sua nudità presso il Guarini e diviene il motivo della nuova generazione poetica. Il Seicento non è una premessa è una conseguenza.

La letteratura italiana era allora così popolare in Europa come prima fu la provenzale e poi la francese. In verità quanto alla parte tecnica giungeva allora all'ultima perfezione. I più mediocri scrivono con piena osservanza delle regole grammaticali con un nesso logico più severo e con un fare più spedito. Si vede una letteratura già formata quando le altre erano allora in uno stato di formazione. Critici retori grammatici professori accademici pullulavano dappertutto fra una turba di poeti e di prosatori in tutt'i generi. L'Italia del Seicento non solo non ha coscienza della sua decadenza ma si tiene ed è tenuta principe nella coltura letteraria. Nessuno le contende il primato e le altre nazioni cercano ne' suoi novellieri ne' suoi epici ne' suoi comici le loro invenzioni e le loro forme.

Dicono che nel Seicento si sviluppò una rivoluzione letteraria e che tutti cercavano novità. Il che prova appunto che la letteratura avea già presa la sua forma fissa e compiuto il suo circolo. Le novità non si cercano ma si offrono quando la letteratura comincia a svilupparsi: allora tutto è fresco tutto è nuovo. Cercavano novità perchè si sentivano innanzi ad una letteratura esaurita nel suo repertorio e nelle sue forme divenuta tradizionale meccanica e già materia comica nella Secchia rapita e nello Scherno degli dei poemi comici comparsi al principio del secolo dove sono volte in ridicolo le forme mitologiche ed epiche. Ma è comico vuoto e negativo perchè gli manca il rilievo nel contrasto di altre forme e nulla di positivo è nello spirito de' due autori il Tassoni e il Bracciolini. Nel loro spirito quelle forme son morte e perciò ridicole ma invano cerchi quali altre forme vivessero nel loro secolo e nella loro coscienza: ond'è che quel comico cade nel vuoto e rimane insipido. Al contrario il Don Chisciotte è opera di eterna freschezza perchè ivi lo spirito cavalleresco si dissolve nella immagine di una nuova società che gli sta dirimpetto e con la sua presenza lo rende comico. Il Tassoni volge in ridicolo anche le forme liriche petrarchesche e censura non solo il petrarchismo ma esso il Petrarca. Parla in nome della semplicità del buon senso e del verisimile: gli ripugna tutto ciò che è raffinato e concettoso. Critica caduta nel vuoto perchè quella semplicità di vita quel sentimento del reale non era nel secolo e nella sua coscienza era un'astrazione dell'intelletto: un buon gusto naturale privo di un mondo plastico in cui si potesse esplicare. Perciò tutti quelli che scrivono con semplicità e naturalezza malgrado certe vivezze e certe grazie di stile riescono insipidi come il Tassoni e più tardi il Redi. Mancava loro la vita interiore e l'esteriorità in mezzo a cui stavano era affatto insipida quando non era pretensiosa. Del Tassoni sopravvive il ritratto del conte di Culagna:

Dico il ritratto perchè nella rappresentazione è così sbiadito e insipido come gli altri personaggi. Del Redi è rimasto il Bacco in Toscana che ricorda le baccanti dell'Orfeo e per brio e calore d'immaginazione per naturalezza di movenze per artificio di verso è di piacevole lettura.

Non solo la letteratura nelle sue forme e nel suo contenuto ma è anche esaurita la vita religiosa morale e politica quantunque ce ne fosse una seria apparenza comandata e servile via alla fortuna. La storia ha condannato a un giusto obblio le opere servili frondose e adulatorie e serba grata memoria di quelle dove spira alcuna libertà di pensiero perchè quando anche non possa ammirare lo scrittore trova degno d'ammirazione l'uomo. Certo all'uomo è inferiore lo scrittore perchè la sua critica è negativa e non move dalla chiara coscienza di una nuova società ma da un semplice sentimento di resistenza e di opposizione. Anche nel Cinquecento la critica è negativa ma è negazione universale col consenso e fra le risa di tutti non è il pensiero solitario dell'artista. Questo spiega il Berni spiega la Mandragola le satire dell'Ariosto le commedie dell'Aretino i poemi cavallereschi ironici e umoristici. La scienza può esser solitaria: l'arte dee avere a sua materia un mondo plastico e vivente di cui è la voce. In quel secolo la negazione era libera ammessa desiderata applaudita ci era comunione simpatica fra l'autore e i lettori; e ci era pure in fondo a quella negazione la coscienza di un mondo nuovo di un rinnovamento o risorgimento di un mondo dell'arte e della natura che succedeva alla barbarie del medio evo. Anche nel Trecento Dante avea con sè il secolo e lo fuse in tutte le sue direzioni in un mondo plastico che era appunto il mondo del medio evo l'altro mondo. Ora ci è un mondo ipocrita e inquisitoriale dove la vita religiosa e sociale fuori della coscienza è meccanizzata e immobilizzata in forme fisse e inviolabili. L'arte intisichisce priva di un mondo libero intorno a se. Chi vuol comprendere la differenza de' secoli legga i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini l'ardito comentatore di Tacito caduto sotto il pugnale spagnuolo. Il suo Parnaso che succede al mondo ariostesco e al dantesco è di nessunissima serietà e rimane una semplice occasione una cornice dove inquadra pensieri stizze frizzi allusioni e allegorie senz'altra unità o centro che il suo ghiribizzo. È un mondo sciolto in atomi senza vita e coesione interna. La critica priva di un mondo serio in cui si possa incorporare si svapora in sentenze esortazioni sermoni prediche declamazioni e generalità rettoriche tanto più biliosa quanto meno artistica. Così apparisce nelle Satire di Salvator Rosa che pure sono salvate dall'obblio per la maschia energia di un'anima sincera e piena di vita che incalora la sua immaginazione e gli fa trovare novità di espressioni e di forme pittoriche felicemente condensate.

Come suole avvenire nessun secolo sonò così spesso la tromba epica quanto questo secolo così poco eroico. Alcuni seguirono le orme del Tasso come il Graziani nel Conquisto di Granata. Il Chiabrera scrisse il Foresto la Gotiade la Firenze l'Amadeide il Ruggiero tutti poemi eroici oltre ventidue poemetti profani e quattordici sacri. Il Villafranchi lo Stigliani e altri cantarono la scoperta dell'America e anche il Tassoni avea preso a scrivere sullo stesso argomento il suo Oceano quando con miglior consiglio e con più chiara coscienza delle sue attitudini si volse a fare nella Secchia rapita la parodia delle forme eroiche. Di tanti poemi epici non uno solo è rimasto. Ce n'è di tutti gli argomenti sacri e profani cavallereschi eroici mitologici perchè erano capricci individuali e mancava l'argomento del secolo. Novissimo e popolarissimo argomento era la scoperta dell'America che ispirò al Tasso la più geniale delle sue concezioni il viaggio alle isole Fortunate. Ma fu trattato col solito bagaglio classico e il mondo nuovo apparve stanca e vieta reminiscenza di un mondo poetico già decrepito.

Il mondo eroico di quel secolo era stato fabbricato dal Concilio di Trento. Ed era una ristaurazione del mondo cattolico alle prese co' turchi e vincitore meno per virtù propria che per la grazia di Dio. Questo argomento di tutt'i poemi cavallereschi sciolto nella buffoneria del Pulci e nell'ironia dell'Ariosto purgato e nobilitato dal Tasso era divenuto l'accento “ufficiale” del secolo. Il poeta di questa ristaurazione fu Gabriello Chiabrera che compiuti i suoi studi a Roma educato da' gesuiti guidato da Speron Speroni ritiratosi nella nativa Savona pieno il capo di testi greci e latini e d'arti poetiche verseggiò instancabilmente sino alla tarda età di ottantasei anni fra le ammirazioni de' principi e de' letterati. In tre volumi di liriche non ti è facile incontrare un pensiero o una immagine che ti arresti e avendo a mano argomenti nobilissimi o affettuosissimi niente è che ti mova o t'innalzi. Non ci è quasi avvenimento di qualche importanza che non sia da lui celebrato come le vittorie su' pirati delle galee toscane la battaglia di Lepanto le fazioni de' veneziani in Grecia. Lodi di principi abbondano ma non mancano lodi di grandi capitani e soprattutto di santi come di Pietro Paolo Cecilia Maria Maddalena Stefano Agata e simili a cominciare dalla Vergine. Vi s'inframmettono satire di eretici come Lutero Calvino e Beza che sono vere invettive personali. Naturalmente non mancano anche gli amori temi astratti ne' quali spuntano già le Filli le Amarilli e le Cloe che più tardi invasero l'Arcadia. Che più? Quando manca l'argomento vivo e presente si esercita come i collegiali sopra generalità astratte come il verno le stelle Muzio Scevola il ratto di Proserpina il diluvio Golia Giuditta e simili. Canzoni e canzonette ditirambi ed epitaffi sonetti e poemi trovi qui ogni varietà di forme come ogni varietà di contenuto. Ora fa l'eroe ora fa il cascante e suona con la stessa facilità la tromba la cetra la lira e la zampogna ora scimieggiando Pindaro ora Anacreonte. Le feste principesche gli forniscono materia di favole boscherecce e di drammi musicali. Ma tutto è a uno stampo e tratta di argomenti commoventissimi e presenti con la stessa indifferenza che scrive di Proserpina o di Chirone. In luogo di chiudersi nel suo argomento e cercarne le latebre divaga in fatti mitologici o in generalità rettoriche e riesce vuoto e freddo. Dee far le lodi di san Francesco? Ed eccoti una tirata sulla fame dell'oro. Gli manca ogni talento pittorico ogni movimento di affetto o d'immaginazione e non ha alcuna esaltazione o entusiasmo lirico. C'è più poesia nelle Vite del Cavalca che in queste sue insipide Maddalene Lucie Cecilie Stefani e Sebastiani. Dante in pochi tratti ti fissa nella memoria santo Stefano assai meglio che non fa in sette strofe il Chiabrera errante tra reminiscenze sacre e profane e affatto incapace di cogliere l'individuo nella sua personalità. In qualche strofa di fra Iacopone senti la Vergine; ma non la trovi nelle cento strofe che le sono qui consacrate. Il martirio di san Sebastiano è materia pietosissima. In mano al Chiabrera diviene ampollosa e fredda rettorica. Dove non è insipido riesce pretensioso come quando esortando le muse a cantare il santo trafitto dice:

Se guardi alla materia ci è qui tutto il mondo eroico morale e religioso del cristianesimo ma non ce n'è lo spirito nè poteva infonderlo co' suoi decreti il Concilio di Trento. La letteratura religiosa è una moda anzi che un sentimento; lo spirito vi rimane estraneo e si conserva classico e letterario quanto alle forme nell'indifferenza del contenuto. Che cosa move davvero o interessa il Chiabrera? Nulla perchè nella sua coscienza nulla ci è non fede non moralità non patria e non amore e non arte ancorchè di tutto questo tratti. Certo il Chiabrera è un bravissimo uomo sinceramente pio e onesto natura soave e tranquilla. Ma perchè un contenuto sia poetico non basta sia nell'animo come un mondo abituale e tradizionale a quel modo che era nel Chiabrera: dee essere passione che stimoli l'immaginazione e svegli la meditazione Una passione l'ha il Chiabrera e non è pel contenuto a lui indifferente quale esso sia ma per le forme. Dico “forme” e non “forma” perchè a lui manca pure quel senso della bellezza e della forma che fa grandi i nostri artisti del Cinquecento. Perciò gli fa difetto ogni qualità di poeta e di artista la fede del contenuto e il senso della forma. Ha pure in grado mediocrissimo quel senso musicale che natura concede così facilmente a italiani sgraziato nell'intreccio delle rime e nella combinazione de' suoni e talora dà in dissonanze e stonature. La sua idea fissa è di trovare come Colombo un mondo nuovo e parve a' contemporanei ci fosse riuscito sì che Urbano scrisse sulla sua tomba: “novos orbes poëticos invenit”. Mondi nuovi poetici ci erano allora ed erano i mondi che creavano Camoens Cervantes Montaigne Shakespeare e Milton. Ma in Italia mancata ogni vita interiore la novità era nelle forme ed esausto il mondo latino il Chiabrera si mise a cercar novità nel mondo greco: “thebanos modos fidibus hetruscis adaptare primus docuit” dice Urbano. I quali modi tebani sono le strofe l'antistrofe e l'epodo accozzamenti di parole fuor dell'usato costruzioni artificiali una certa moralità astratta e volgare una sobrietà e semplicità di colori. Forme meccaniche le quali non vengono da virtù interiore ma sono pura imitazione. Anzi niente è più lontano dallo spirito del Chiabrera che la bellezza greca quel candore quella grazia e quella semplicità; e spesso la sua semplicità è aridità il suo candore è volgarità e la sua grazia è cascaggine; affettato e pretensioso in quei modi e in quelle forme che presso i greci sono vezzi natii: veggasi il suo ditirambo. Del resto più che nell'eroico riesce nel grazioso e se oggi alcuna cosa si legge pure di lui sono alcune sue canzonette. Ma chi ricordi l'Aminta giudicherà queste canzonette assai povera cosa. Anche il Gravina studiò alla greca semplicità come medicina al secolo tronfio e manierato e sforzandosi di esser semplice riuscì insipido freddo e volgare. Gli è che l'imitazione greca dopo tanto latineggiare era il naturale sviluppo di un fatto puramente letterario e meccanico non animato da alcuna vita interiore di poeta o di secolo.

Un altro poeta eroico fu il senatore Vincenzo Filicaia di cui rimangono le canzoni per la liberazione di Vienna. Prende volentieri accento di profeta e si dà tutta l'apparenza di un sacro furore. Sembra non parli ma canti anzi urli col pugno teso gli occhi stralunati gli atti convulsi. Ammassa esclamazioni interrogazioni ripetizioni con un grande rimbombo di suoni e di frasi. Pomposa rettorica nella quale si scopre la simulazione della vita. Non è in lui alcun sentimento del reale ma un calore d'immaginazione un orecchio musicale ed una non mediocre abilità nella fattura del verso che gli assegna un posto tra' poeti di second'ordine.

Il Chiabrera e il Filicaia furono anche poeti nazionali. L'uno lamenta la vita molle de' guerrieri italiani o com'egli dice la leggiadria dell'italica gente:

Dell'altro è il verso celebre:

Ma l'Italia era per loro un sentimento così superficiale come la religione un tema a sonetti e canzoni come le Vendemmie o le Lodi di Cristina. Quando il Filicaia domanda all'Italia dov'è il suo braccio e perchè si serve dell'altrui e ricorda che gli stranieri sono tutti nemici nostri e furono nostri servi senti ch'è a mille miglia lontano dalla realtà che vagheggia un'Italia di tradizione e di reminiscenza di cui non è più vestigio neppure nella sua coscienza ch'egli medesimo non prende sul serio le sue maraviglie e i suoi furori e che le sue parole sono ebollizioni e ciance rettoriche. I contemporanei erano pure fatti così; e ammiravano quel bel sonetto tirato giù con un solo impeto tra mille splendori di una calda immaginazione come ammiravano una bella predica salvo a far tutto il contrario di quello che diceva il Vangelo e il predicatore.

Questa è la vita morale religiosa e nazionale italiana a quel tempo: un mondo tradizionale tornato in moda favorito dagl'interessi mantenuto nelle sue apparenze rimbombante nelle frasi non sentito non meditato non ventilato e rinnovato non contrastato e non difeso non realtà e non idealità cioè a dire non praticato nella vita e non scopo o tendenza della vita. Il tarlo della società era l'ozio dello spirito un'assoluta indifferenza sotto quelle forme abituali religiose ed etiche le quali appunto perchè mere forme o apparenze erano pompose e teatrali. La passività dello spirito naturale conseguenza di una teocrazia autoritaria sospettosa di ogni discussione e di una vita interiore esaurita e impaludata teneva l'Italia estranea a tutto quel gran movimento d'idee e di cose da cui uscivano le giovani nazioni di Europa; e fin d'allora ella era tagliata fuori del mondo moderno e più simile a museo che a società di uomini vivi.

La letteratura era a quell'immagine vuota d'idee e di sentimenti un gioco di forme una semplice esteriorità. Si frugava nel vecchio arsenale classico si giravano e rigiravano quei pensieri e quelle forme. Il mondo greco appena libato era corso in tutte le direzioni e dava un certo aspetto di novità alle forme letterarie. La poesia italiana nella sua lunga durata avea messo in circolazione un repertorio oramai fatto abituale e vuoto di affetto; e non ci essendo la forza di rinnovare il contenuto tutti eran dietro ad aguzzare assottigliare ricamare manierare colorire un mondo invecchiato che non dicea più niente allo spirito. Meno il contenuto era vivo e più le forme erano sottili pretensiose sonore. Nacque una vita da scena con grande esagerazione e abbondanza di frasi un eroismo religioso patriottico morale a buon mercato perchè dietro alle parole non ci era altro. Di questo eroismo rettorico il più bel saggio è la Fortuna del Guidi il quale trovò modo di rendere ridicola e millantatrice la Fortuna di Dante: tanto si era perduto il senso del vero e del semplice. E ne uscì quella maniera preziosa e fiorita della quale dava già esempio l'Aretino quando la sua mente non era abbastanza solleticata dall'argomento. Uno degl'ingegni meno guasti fu il Chiabrera: pur sentasi questo suo epitaffio a Raffaello:

E il prezioso non è solo ne' concetti ma nelle forme cercandosi i modi più disusati in dir cose le più semplici. Ecco un esempio di queste forme preziose nella Fortuna del Guidi:

Tra' verseggiatori più preziosi e affettati è da porre il Lemene e tra' più civettuoli e fioriti Giovambattista Zappi. La degenerazione del genere si vede nel Frugoni il più vuoto e il più pretensioso.

Spettacolo assai istruttivo è questo di un popolo che per parecchie generazioni spende tutta la sua attività intorno a quistioni di forme ed erge a suo obbiettivo la parola in se stessa staccata da ogni contenuto. Che è divenuta Firenze la madre di Dante di Michelangiolo e di Machiavelli? Eccola quale è vantata dal Filicaia:

Firenze è la gran maestra della parola. Là è il suo trono e la sua fama. E qual maraviglia che gli uomini di qualche ingegno trovando insipida e invecchiata la parola l'ornano l'aguzzano l'imbellettano e come dice il Filicaia vi fanno intorno fregi e ricami? Nè ci è coscienza che tanto liscio al di fuori con tanta insipidezza e vacuità nel fondo è un'ultima forma della decadenza; anzi abbondano i Pindari e gli Anacreonti moltiplicano i poeti in tutt'i canti d'Italia e co' poeti le accademie e si tengono primi in tutta Europa della quale ignorano la coltura.

Possiamo ora spiegarci come l'Arcadia acquistò l'importanza di un grande avvenimento sì che per parecchie decine di anni occupò l'attenzione pubblica. Si videro uomini dottissimi e gravissimi fanciulleggiare tra quei pastori e pastorelle e dettar le leggi dell'accademia con una solennità come fossero le leggi delle dodici tavole. Parea che a restaurare la poesia e il buon gusto bastasse l'osservanza di alcune regole e moltiplicarono i medici quando il malato era morto. Gli arcadi rimasti proverbiali come di gente dotta e insieme frivola per correggere l'eroico si gettarono nel pastorale come se trasportando la vita ne' campi e tra' pastori trovassero quella naturalezza e semplicità che non è nella materia ma nell'anima dello scrittore. Furono aridi insipidi leziosi affettati falsi.

Il re del secolo il gran maestro della parola fu il cavalier Marino onorato festeggiato pensionato tenuto principe de' poeti antichi e moderni e non da plebe ma da' più chiari uomini di quel tempo. Dicesi che fu il corruttore del suo secolo. Piuttosto è lecito di dire che il secolo corruppe lui o per dire con più esattezza non ci fu corrotti nè corruttori. Il secolo era quello e non potea esser altro era una conseguenza necessaria di non meno necessarie premesse. E Marino fu l'ingegno del secolo il secolo stesso nella maggior forza e chiarezza della sua espressione. Aveva immaginazione copiosa e veloce molta facilità di concezione orecchio musicale ricchezza inesauribile di modi e di forme nessuna profondità e serietà di concetto e di sentimento nessuna fede in un contenuto qualsiasi. Il problema per lui come pe' contemporanei non era il che ma il come. Trovava un repertorio esausto già lisciato e profumato dal Tasso e dal Guarini i due grandi poeti della sua giovanezza. Ed egli lisciò e profumò ancora più adoperandovi la fecondità della sua immaginazione e la facilità della sua vena. La moda era alle idee religiose e morali e il Murtola scriveva il Mondo creato il Campeggi le Lagrime della Vergine e il Marino la Strage degl'innocenti e le sue stesse poesie erotiche inviluppava in veli allegorici. Ma la vita era in fondo materialista gaudente volgare pettegola licenziosa; il naturalismo viveva nella sua forma più grossolana sotto a quelle pretensioni religiose. Le prime poesie del Marino furono sfacciatamente lubriche come la prima sua giovinezza; e quando venne a età più matura cercò non la correzione ma la decenza esteriore decorando i suoi furori erotici di un ammanto allegorico.

Nelle tradizioni della poesia ci è un concetto che mette capo in Circe ed Ulisse ed è l'imbestiamento dell'uomo per opera dell'amore e la sua liberazione per opera della ragione. Questo concetto diviene un episodio importante in tutte le nostre poesie romanzesche ed eroiche ed è anche la Musa che ispira Dante e il Petrarca. Angelica Alcina Armida sono le Circi italiane co' loro giardini co' loro palagi e castelli incantati co' loro viaggi attraverso lo spazio. Questo è l'episodio più interessante anzi è il concetto fondamentale della Gerusalemme Liberata. L'episodio del Tasso incastrato fra elementi religiosi ed eroici diviene ora esso solo il poema diviene l'Adone.

La storia del naturalismo poetico incomincia nell'Amorosa visione e finisce nell'Adone. I due poemi sono assai simili di concetto. L'amore principio della generazione è anima del mondo è la corona della natura e dell'arte in esso s'inizia in esso si termina il circolo della vita. Venere e Adone è la congiunzione non solo spirituale ma corporale del divino e dell'umano; è l'amore sensuale che investe tutta la natura cielo e terra. Nel paradiso teologico di Dante il corpo si solve nello spirito; ma in questo paradiso mitologico lo spirito ha la sua perfezione e la sua vita nell'amore sensuale. Un senso tragico si aggiunge a questa commedia terrena. L'uomo è mortale e i suoi piaceri sono lievi e fugaci; e la conclusione è la morte di Adone fra il compianto degl'immortali.

La base è l'amore sensuale rappresentato in tutt'i suoi gradi nel giardino del Piacere uno di quei giardini d'amore già celebri nelle rime del Poliziano dell'Ariosto e del Tasso qui diviso in cinque giardini corrispondenti a' cinque sensi sì che questa sola descrizione prende già buona parte del poema. Nel giardino del Tatto Adone gode gli ultimi diletti e s'indìa è rapito in cielo attinge la felicità. Il cielo o il paradiso del Marino non comprende che la Luna Mercurio e Venere tutto l'universo dell'amore. La Luna è la sede della natura Mercurio è la sede dell'arte e sede dell'amore è Venere. È tutto il cielo della vita simile a' diversi gradi dell'Amorosa visione. Ma l'apoteosi e il trionfo dell'amore è di breve durata e Venere non ha il tempo di rendere immortale il suo amato. Adone muore vittima della gelosia di Marte e gli ultimi canti narrano la morte di Adone il compianto di Venere e degli dei e le sue esequie.

È inutile dire che tutte queste combinazioni non hanno pel Marino alcun valore effettivo ed intrinseco e che esse sono una materia qualunque arricchita di moltissime favole mitologiche buona a sviluppare le sue forze poetiche il solito macchinismo fantastico dell'amore ne' poemi italiani. I concetti e le passioni sono insulse personificazioni come l'amore l'arte la natura la filosofia la gelosia la ricchezza ed altre figure allegoriche. Dico insulse perchè a quelle personificazioni manca e la profondità del significato e la serietà della vita. È lo scheletro de' poemi italiani aggiuntivi anche certi episodi ingegnosi per far la corte alle famiglie principesche d'Italia e alla casa di Francia. Ma è un puro scheletro dove non penetra per alcuno spiraglio la vita. E poichè quello solo c'interessa che vive questo poema non c'ispira nessuno interesse. Non c'è un solo personaggio che attiri l'attenzione e lasci di sè un vestigio nella memoria; non una sola situazione drammatica o lirica di qualche valore. La vita è materializzata e allegorizzata tutta al di fuori ne' suoi accidenti contrasti e simiglianze esteriori; e come le simiglianze o i contrasti esterni sono infiniti nascono rapporti capricciosi arbitrari tra le cose che sono veri quanto a questa o a quella apparenza ma ridicoli e falsi per rispetto alla totalità della vita. Abbiamo veduto in che modo la rosa è rappresentata nel Poliziano nell'Ariosto e nel Tasso. Sono pochi particolari che lumeggiano la rosa nella sua individualità e non alterano la sua natura. Sentite ora la rosa del Marino:

Evidentemente qui non ci è il sentimento della natura e non la schietta impressione della rosa. Hai combinazioni astratte e arbitrarie dello spirito cavate da somiglianze accidentali ed esterne che adulterano e falsificano le forme naturali e creano enti mostruosi che hanno esistenza solo nello spirito. La vita pastorale già nel Tasso ha i suoi ricami che però fregiano forse un po' troppo ma non adulterano gli oggetti e i sentimenti. Ed anche l'Adone ha il suo pastore che vuole imitare anzi oltrepassare il pastore di Erminia e conchiude così:

Queste lambiccature e finezze di spirito egli le chiama in una sua lettera a Claudio Achillini “ricchezze di concetti preziosi” e ivi pone l'eccellenza della poesia:

La novità e la maraviglia non è nel repertorio che è vecchissimo un rimpasto di elementi e motivi per lungo uso divenuti ottusi; ciò che è ripulito e messo a nuovo è lo scenario o lo spettacolo vecchio anch'esso ma lustrato e inverniciato. Il qual lustro gli viene non dalla sua intima personalità più profondamente esplorata o sentita ma da combinazioni puramente soggettive ispirate da simiglianze o dissonanze accidentali e perciò tendenti al paradosso e all'assurdo: di che nasce quello stupore in che il Marino pone il principale effetto della poesia. Nè queste combinazioni artificiali sono solo intorno alle cose come giardini campi fiori ma anche intorno alle persone allegoriche come la gelosia l'amore e intorno agli atti come il riso il bacio. Il Marino confessa di avere innanzi un zibaldone dove avea scritto per ordine di materia quello che di più piccante e maraviglioso avea trovato ne' poeti greci latini e italiani e anche spagnuoli; e ammassa e concentra tutti quei tesori di concetti preziosi in un punto solo. Ma non è un freddo imitatore e raccoglitore. La sua immaginazione si avviva tra quelle ricchezze e diviene attiva si fa alleata dello spirito trasforma quelle combinazioni e quei rapporti in immagini e le immagini hanno il loro finimento nella facile e briosa vocalità de' suoni. Talora i concetti stessi spariscono; ma rimane sempre un'onda melodiosa la cantilena:

La poesia italiana in quest'ultimo momento della sua vita non è azione e neppure narrazione è spettacolo vocalizzato descrizione a tendenze liriche tra lo scoppiettio de' concetti il lustro delle immagini e la sonorità delle frasi e delle cadenze e i vezzi delle variazioni. Il suo ideale è l'idillio una vita convenzionale mitologica amorosa allegrata dal riso del cielo e della terra. L'Adone è esso medesimo un idillio inviluppato in un macchinismo mitologico come l'Euridice la Proserpina. Un idillio del Marino di colorito freschissimo e moderno tutto impregnato di ardente sensualità è la sua Pastorella. Chi ricordi la pastorella di Guido Cavalcanti così sobria e semplice nella sua maniera può misurare fino a qual grado di ricercatezza nello sviluppo e nelle determinazioni di queste situazioni liriche era giunta la poesia. Pure la sensualità era ancora quello che rimaneva di vivo in questi poeti seicentistici esalata in tenerezze languori voluttà galanterie e dolcitudini.

Un ideale frivolo e convenzionale nessun senso della vita reale un macchinismo vuoto un repertorio logoro in nessuna relazione con la società un assoluto ozio interno un'esaltazione lirica a freddo un naturalismo grossolano sotto velo di sagrestia il luogo comune sotto ostentazione di originalità la frivolezza sotto forme pompose e solenni l'inezia collegata con l'assurdo e il paradosso la vista delle cose superficiale e leggiera la superficie isolata dal fondo e alterata con relazioni artificiali la parola isolata dall'idea e divenuta vacua sonorità questi sono i caratteri comuni a tutt'i poeti della decadenza messa la differenza degl'ingegni.

Questi caratteri sono più o meno comuni a tutte le forme dello scrivere tragedie commedie poemi idilli canzoni discorsi prefazioni descrizioni narrazioni orazioni panegirici quaresimali epistole verso e prosa.

Il Marino della prosa fu Daniello Bartoli fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi di uno stile insieme prezioso e fiorito. È stato in ogni angolo quasi della terra; ha fatto migliaia di descrizioni e narrazioni: non si vede mai che la vista di tante cose nuove gli abbia rinfrescate le impressioni. Retore e moralista astratto pieno il capo di mitologia e di sacra Scrittura copiosissimo di parole e di frasi in tutto lo scibile colorista brillante credè di poter dir tutto perchè tutto sapeva ben dire. La natura e l'uomo non è per lui altro che stimolo e occasione a cavargli fuori tutta la sua erudizione e frasario. Altro scopo più serio non ha. Estraneo al movimento della coltura europea e a tutte le lotte del pensiero stagnato in un classicismo e in un cattolicismo di seconda mano venutogli dalla scuola e non frugato dalla sua intelligenza il suo cervello rimane ozioso non meno che il suo cuore; e la sua attenzione è tutta intorno alla parte tecnica e meccanica dell'espressione. Tratta la lingua italiana come greco o latino come lingua morta già fissata e da lui pienamente posseduta. Sferza i pedanti col suo Torto e Dritto del non si può. Fugge le smancene toscane e ricorda la risposta fatta a certi messi toscaneggianti che domandavano qualche sussidio per rifare il ponte della loro città:

La sua lingua spedita colorita elegante copiosa ha quel carattere di lingua classica italiana già così spiccato nel Tasso nel Guarini e nel Marino e in quasi tutt'i seicentisti. Il toscano parlato ha poca presa anche su moltissimi uomini colti della Toscana e rimane stazionario in bocca al volgo. La lingua classica nella sua fattura esterna e grammaticale tocca in lui un alto grado di perfezione per copia e scelta di vocaboli per regolarità di costruzione per speditezza di giunture e movimenti musicali. Ama starsi nel minuto notomizzare descrivere e vi spiega tutte le ricchezze del dizionario. Descrive lungamente e con infiniti particolari le chiocciole e conchiude:

“Eccovene in prima vestite di uno schietto drappo: argentine bianche lattate grigie nericate morate purpuree gialle bronzine dorate scarlattine vermiglie. Poi le addogate con lunghe strisce e liste di più colori a divisa e quali se ne vergano per lo lungo quali per lo traverso alcune diritto altre più vagamente a onda. Ma certe in vero maravigliose lavorate a modo d'intarsiatura con minuzzoli di più colori bizzarramente ordinati o d'un musaico di scacchi l'un bianco e l'altro nero quanto alla figura formatissimi e alle giunture non isfumati punto ma con una division tagliente come appunto fossero alabastro e paragone strettamente commessi. Le più sono dipinte a capriccio o granite gocciolate moscate altre qua e là tócche con certe leggerissime leccature di minio di cinabro d'oro di verdazzurro di lacca; altre pezzate con macchie più risentite e grandi; altre o grandinate di piastrelli o sparse di rotelle o minutissimo punteggiate; altre corse di vene come i marmi con un artificio senz'arte o spruzzate di sangue in mezzo ad altri colori che le fan parere diaspri.”

E segue ancora per un pezzo su questo andare. L'immaginazione rimane smarrita fra tante ricchezze e perchè tutto è rilievo manca il rilievo. Non ci è senso di arte nè di natura e chi vuol sentire la differenza ricordi la descrizione che fa l'Aretino del cielo di Venezia così trepida d'impressioni e movimenti interni. E non ha neppur senso d'uomo nè di tante sue situazioni affettuose nè di tanti suoi ritratti di personaggi ideali o storici alcuna cosa è rimasta viva. Eccolo in Terra Santa. Che impressioni e che affetti non dee destare quella vista in un buon cristiano com'era il Bartoli! Ma se ne sbriga così:

“Lagrime di dolore e baci di pietoso affetto unitamente si debbono a questo venerabile terreno che col piè scalzo e in atto non di curioso geografo ma di pellegrino divoto calchiamo.”

E attendiamo gli ardori estatici del pellegrino. Ma è un cominciare con Plinio e un finire con Lucano con intramessa di fredde amplificazioni rettoriche.

Stessa coltura e stesso contenuto nel padre Segneri. Non ha altra serietà che letteraria ornare e abbellire il luogo comune con citazioni esempli paragoni e figure rettoriche: perciò stemperato superficiale volgare e ciarliero. Si loda il suo esordio alla predica del paradiso: “Al cielo al cielo!”. Il concetto è questo: - La terra non offre un bene perfetto; miriamo dunque al cielo. E noi abbiamo conosciuto già questo mondo già l'abbiamo sperimentato ed ancora tolleriam di rimanerci. Eh! Al cielo al cielo! - Ora la prima parte non ha bisogno di dimostrazione perchè ammessa da tutti. Ma qui si accaneggia il Segneri e intorno a questo luogo comune intesse tutt'i suoi ricami. E se avesse veramente il sentimento della terrena infelicità e delle gioie celesti non mancherebbe ai suoi colori novità freschezza profondità. Ma non è che uno spasso letterario un esercizio rettorico. Luogo comune il concetto; luoghi comuni gli accessorii. Non mira efficacemente a convertire a persuadere l'uditorio; non ha fede nè ardore apostolico nè unzione; non ama gli uomini non lavora alla loro salute e al loro bene. Ha nel cervello una dottrina religiosa e morale di accatto ed ereditaria non conquistata col sudore della sua fronte una grande erudizione sacra e profana: ivi niente si move tutto è fissato e a posto. La sua attività è al di fuori intorno al condurre il discorso e distribuire le gradazioni le ombre e la luce e i colori. Gli si può dar questa lode negativa che se spesso stanca non annoia l'uditorio che tien sospeso e maravigliato con un “crescendo” di gradazioni e sorprese rettoriche; e talora piacevoleggia e bambineggia per compiacere a quello. Ancora è a sua lode che si mostra scrittore corretto e non capita nelle stramberie del Panigarola o nelle sdolcinature e affettazioni de' suoi successori.

Si può ora scorgere il cammino della letteratura iniziata nel Boccaccio reazione all'ascetismo negativa e idillica. La negazione percorse tutta la scala delle forme comiche dalla caricatura del Boccaccio all'umorismo del Folengo e si sciolse nello sfacciato cinismo di Pietro Aretino: fu essa vita e anima delle novelle delle commedie de' capitoli de' poemi romanzeschi. Semplice negazione finì nella sensualità nella licenza delle idee e delle forme in un pretto materialismo. Accanto a questo elemento negativo ci era l'idillio un ritiro dell'anima dalle astrazioni teologiche e dalle agitazioni politiche nella semplicità e nella quiete della natura un naturalismo spiritualizzato dal sentimento della forma o della bellezza che produsse i miracoli della poesia e della pittura. La grazia l'eleganza la finitezza delle forme la misura e l'armonia nell'insieme e nelle parti sono l'impronta di quest'aurea età. Ma questa letteratura portava in sè il germe della dissoluzione ed era la sua tendenza accademica letteraria e classica per la poca serietà del suo contenuto e la sua separazione da tutt'i grandi interessi morali politici e sociali che allora commovevano e ringiovanivano molta parte di Europa. Giunta l'arte a quella perfezione aveva bisogno di un nuovo contenuto per trasformarsi e rinsanguarsi. E se la reazione tridentina ci avesse dato questo nuovo contenuto sarebbe stata la benvenuta. Avremmo avuto una seria ristaurazione religiosa e letteraria. Ma fu ristaurazione delle forme non della coscienza. Agli stessi riformatori mancava nella loro opera la serietà della coscienza come vedrà chi studi bene la storia del Concilio di Trento non dico nel Sarpi ma nello stesso Pallavicino voce leziosa e affettata di quei padri riformatori. Di che nacque l'ultimo pervertimento del carattere nazionale. L'idea che a salvare l'anima bastasse andare a messa e portare addosso uno scapolare e che l'assoluzione del confessore fosse sufficiente a lavare tutte le macchie salvo a tornar da capo diede alle plebi italiane quell'impronta grottesca di bassezza immoralità e divozione che anche oggi in molti luoghi non si è cancellata. Quanto alle classi colte la vita era menzogna una vita ostentatrice di sentimenti religiosi e morali senza alcuna radice nella coscienza. Tale la vita tale la letteratura. Quella sua tendenza accademica e letteraria divenne la sua forma definitiva. Fu rettorica cioè a dire menzogna espressione pomposa di sentimenti convenzionali. Il pio Torquato prese sul serio quel nuovo contenuto e vagheggiò un mondo eroico e religioso che naufragò tra gli elementi che lo accompagnavano idillici e fantastici. Come sotto lo scapolare batteva il core del brigante sotto a quelle forme pompose viveva invitto il naturalismo lirico fantastico idillico del vecchio contenuto. L'Armida divenne l'Adone e l'Aminta il Pastorfido. Fra tante vite di santi e rappresentazioni sacre fra tante liriche eroiche morali e patriottiche ciò che ancor vive è il naturalismo una certa ebbrezza musicale de' sensi che fa cantare a' marinai napolitani le stanze di Armida e i lubrici versi del Marino. Tutti si sentivano innanzi a un mondo poetico invecchiato e volevano rinnovarlo e non vedevano che bisognava innanzi tutto rinnovare la coscienza. Aguzzarono l'intelletto gonfiarono le frasi e non potendo esser nuovi furono strani L'attività si concentrò intorno alla frase e il mondo letterario segregato dalla vita e vuoto di ogni scopo serio divenne un esercizio accademico e rettorico.

La parola come parola fine a se stessa è il carattere della forma letteraria o accademica. Nel secolo scorso aveva un aspetto ciceroniano e boccaccevole; ora divenuta l'essenza stessa della letteratura vi si aggiunge un'aria preziosa cioè a dire una ostentazione di peregrinità nella sottigliezza del concetto o nel giro della frase. Citammo già alcuni esempi di Pietro Aretino. Ora ci è in tutti anche ne' più semplici un po' di Pietro Aretino. E quando questo sforzo dello spirito pareva soverchia fatica gli scrittori rimanevano senza più semplici parolai o frasaiuoli: ciò che si diceva “stile fiorito”. Queste sono le due forme della decadenza di cui si vedono già i vestigi in Pietro Aretino e che ora tengono il campo nelle accademie letterarie. Gli accademici s'incensano si batton le mani si decretano l'immortalità. Abbiamo gli Ardenti i Solleciti gl'Intrepidi gli Olimpici i Galeotti gli Storditi gl'Insipidi gli Ottusi gli Smarriti. Acquistano un'importanza artificiale molti vi pigliano il battesimo di grandi uomini come fu del Salvini dotto uomo ma d'ingegno assai inferiore alla fama. Corona di questa letteratura frivola sono gli acrostici gl'indovinelli gli anagrammi e simili giuochi di spiriti oziosi.

La parola come parola può per qualche tempo avere un'esistenza artificiale nelle accademie ma non potrà mai formare una letteratura popolare perchè la parola se come espressione è potentissima come semplice sensibile è inferiore a tutti gli altr'istrumenti dell'arte. La parola è potentissima quando viene dall'anima e mette in moto tutte le facoltà dell'anima ne' suoi lettori; ma quando il di dentro è vuoto e la parola non esprime che se stessa riesce insipida e noiosa. Allora la vista materiale il colore il suono il gesto sono ben più efficaci alla rappresentazione che quella morta parola. Si comprende adunque come i parolai con tutto il loro spirito e la loro eleganza mantennero la loro influenza in un circolo sempre più ristretto di lettori e come al contrario presero il sopravvento gli attori i musici e i cantanti divenuti popolarissimi in Italia e fuori. Le accademiche commedie del Fagiuoli doveano piacer meno che le commedie a soggetto venute sempre più in voga dove il fondo monotono e tradizionale era ringiovanito dagli accessorii improvvisati e dall'abile mimica. D'altra parte nella parola si sviluppava sempre più l'elemento cantabile e musicale già spiccatissimo nel Tasso nel Guarini nel Marino. La sonorità o la melodia era divenuta principal legge del verso o della prosa e si fabbricavano i periodi a suon di musica: ciascuno aveva nell'orecchio un'onda melodiosa. Parte di rettorica era la declamazione cioè a dire un modo di recitare solenne e armonioso. La parola non era più una idea era un suono; e spesso recitavasi a controsenso per non guastare il suono. Questo movimento musicale della nuova letteratura già visibile nel Petrarca e nel Boccaccio pure armonizzato con le idee e le immagini ora in quella insipidezza di ogni vita interiore diviene esso il principale regolatore di tutti gli elementi della composizione: tutto il solletico è nell'orecchio. E si capisce come giunte le cose a questo punto la letteratura muore d'inanizione per difetto di sangue e di calore interno e divenuta parola che suona si trasforma nella musica e nel canto che più direttamente ed energicamente conseguono lo scopo. Perciò fra tanta letteratura accademica il melodramma o il dramma musicale è il genere popolare dove lo scenario la mimica il canto e la musica opera sull'immaginazione ben più potentemente che la parola insipida vacua sonorità rimasta semplice accessorio.

La letteratura moriva e nasceva la musica.

Già la musica non fu mai scompagnata dalla poesia. Liriche sacre e profane erano cantate e musicate e ancora tutta la varietà delle canzoni popolari. Nel teatro i cori e gl'intermezzi erano cantati. Ma quando il dramma divenne insulso e la parola perdette ogni efficacia si cercò l'interesse nella musica e tutto il dramma fu cantato. E come la musica non bastasse si ricorse a tutt'i mezzi più efficaci su' sensi e sull'immaginativa magnificenza e varietà di apparati scenici combinazioni fantastiche di avvenimenti allegorie e macchine mitologiche. Fu da questa corruzione e dissoluzione letteraria che uscì il melodramma o l'“opera” serbata a sì grandi destini.

Il primo tipo del melodramma è l'Orfeo. Il Tasso il Guarini il Marino sono scrittori melodrammatici. La lirica seicentistica è in gran parte melodrammatica. E quelle canzonette tutti quei languori di Filli e Amarilli sono i preludi del Metastasio. I trilli le cadenze le variazioni i parallelismi le simmetrie le ripigliate tutt'i congegni della melodia musicale appariscono già nella poesia. La parola non essendo altro più che musica avea perduta la sua ragion d'essere e cesse il campo alla musica e al canto.


 

XIX

LA NUOVA SCIENZA

La letteratura non poteva risorgere che con la risurrezione della coscienza nazionale. Come negazione ebbe vita splendida che si chiuse col Folengo e l'Aretino. Arrestato quel movimento negativo dal Concilio di Trento nacque un'affermazione ipocrita e rettorica sotto alla quale senti una delle forme più deleterie della negazione l'indifferenza. In quella stagnazione della vita pubblica e privata non rimane alla letteratura altro di vivo che un molle lirismo idillico il quale si scioglie nel melodramma e dà luogo alla musica.

Ma quel movimento non era puramente negativo. Vi sorgeva dirimpetto l'affermazione del Machiavelli una prima ricostruzione della coscienza un mondo nuovo in opposizione dell'ascetismo trovato e illustrato dalla scienza. È in questo mondo nuovo che la letteratura dovea cercare il suo contenuto il suo motivo la sua novità. Accettarlo o combatterlo era lo stesso. Ma bisognava ad ogni costo avere una fede lottare poetare vivere morire per quella.

I princìpi furono favorevoli. Insieme con la nuova letteratura si era sviluppata un'agitazione filosofica nelle università e nelle accademie indipendente dalla teologia cattolica o riformista o piuttosto in opposizione mascherata alla teologia e all'aristotelismo dominante ancora nelle scuole. I liberi pensatori eran detti “filosofi moderni” o i “nuovi filosofi” come predicatori di nuove dottrine e vedemmo come il Tasso nella sua giovinezza soggiacque alla loro autorità. Tra questi nuovi filosofi che proclamavano l'autonomia della ragione e la sua indipendenza da ogni autorità di teologo e di filosofo disputando soprattutto contro Aristotile era Bernardino Telesio dell'Accademia Cosentina nel quale è già spiccata la tendenza all'investigazione de' fatti naturali e al libero filosofare lasciate da parte le astrazioni e le forme scolastiche. Tra questi “uomini nuovi” come li chiama Bacone ebbe qualche fama il Patrizi e Mario Nizzoli da Modena che combattè ugualmente Aristotile e Platone fuggì il gergo scolastico e fu detto dal Leibnitz “exemplum dictionis philosophiae reformatae”. Gli uomini nuovi chiamavano pedanti gli avversari e come portavano i tempi alternavano le villanie con gli argomenti. Il carattere di questo nuovo filosofare era l'indipendenza della filosofia dirimpetto la fede e l'autorità il metodo sperimentale e la riabilitazione della materia o della natura risecato dalla investigazione tutto ciò che è soprannaturale e materia di fede. Filosofia e letteratura andavano di pari passo; il Machiavelli e l'Ariosto s'incontravano sullo stesso terreno ciascuno co' suoi mezzi. L'ironia dell'Ariosto ha il suo comento nella logica del Machiavelli. Come negazione la nuova filosofia era troppo radicale perchè non solo negava il papato ma il cattolicismo e non solo il cattolicismo ma il cristianesimo e non solo il cristianesimo ma l'altro mondo e non solo l'altro mondo ma Dio stesso. Non è che queste cose apertamente si negassero anzi il linguaggio era pieno di cautele e di ossequi maestro il Machiavelli; ma co' più umili inchini le mettevano da parte come materia di fede e vi sostituivano la “natura” il “mondo” la “forza delle cose” la “patria” la “gloria” altri elementi ed altri fini. Era in fondo l'umanismo e il naturalismo appoggiato alla ragione e all'esperienza che prendeva il suo posto nel mondo. Questo grande movimento dello spirito che segna l'aurora de' tempi moderni e che si può ben chiamare il Rinnovamento avea nell'intelletto italiano la sua posizione più avanzata. Tutte le idee religiose morali e politiche del medio evo erano parte affievolite parte affatto cancellate nella coscienza degli uomini colti anche de' preti anche de' papi: l'indifferenza pubblica aveva la sua espressione nell'ironia nel cinismo nell'umorismo letterario. Ora questa negazione e indifferenza universale non potea produrre un organismo politico e sociale anzi era indizio più di dissoluzione che di nuova formazione. La negazione non era effetto di una energica affermazione come fu per la Riforma reazione contro il paganesimo e il materialismo della Corte romana prodotta da un vivace sentimento spiritualista religioso e morale secondato da passioni e interessi politici. La Riforma riuscì perchè fu limitata nella sua negazione e nelle sue conclusioni perchè avea a sua base lo spirito religioso e morale delle classi colte e perchè combattendo il papa e sostenendo i principi nella loro lotta contro l'imperatore seppe metter dalla sua gl'interessi e le ambizioni. Presso noi la negazione era un fatto puramente intellettuale e quanto più assolute le conclusioni dell'intelletto tanto più era debole la volontà e la forza di effettuarle. L'ideale stava a troppa distanza dal reale. La stessa utopia ne' suoi voli d'immaginazione rimaneva inferiore a quella posizione così avanzata dell'intelletto. Rimasero dunque conclusioni accademiche temi rettorici investigazioni solitarie nell'indifferenza pubblica. Le stesse audacie del Machiavelli passarono inosservate. La libertà del pensiero non era scritta in nessuna legge ma ci era nel fatto e si filosofava e si disputava sopra qualsivoglia materia senz'altro pericolo che degli emuli e invidiosi che talora concitavano contro gli uomini nuovi le ire papali. Se il movimento avesse potuto svilupparsi liberamente non è dubbio che avrebbe trovato il suo limite nelle applicazioni politiche e sociali fermandosi in quelle idee medie che meno sono lontane dalla realtà e che si trovano già delineate nel Machiavelli il più pratico e positivo di quegli uomini nuovi. Avremmo forse avuto la “patria” del Machiavelli una chiesa nazionale una religione purgata di quella parte grottesca e assurda che la rende spregevole agli uomini colti e una educazione civile dell'animo e del corpo. Ma appunto allora l'Italia perdette la sua indipendenza politica e la sua libertà intellettuale; anzi la vittoria della Riforma in molte parti di Europa rese timidi e sospettosi i governanti e cominciò feroce persecuzione contro gli uomini nuovi eretici e filosofi e più gli eretici come più pericolosi. Avemmo il Concilio di Trento e l'Inquisizione e cosa anco peggiore l'educazione gesuitica eunuca e ipocrita. I più arditi esularono; e venne su la nuova generazione con apparenze più corrette e con una dottrina ufficiale che non era lecito mettere in discussione. Salvar le apparenze era il motto e bastava. E ne uscì una società scredente sensuale indifferente rettorica nelle forme insipida nel fondo con letteratura conforme. Religione patria virtù educazione generosità sono temi poetici e oratorii frequentissimi con esagerazioni spinte all'ultimo eroismo perchè in nessuna relazione con la serietà e la pratica della vita.

Ma nè l'Inquisizione co' suoi terrori nè poi i gesuiti co' loro vezzi poterono arrestare del tutto quel movimento intellettuale che avea la sua base nel naturale sviluppo della vita italiana. Poterono bene ritardarlo tanto e impedirlo nel suo cammino che ci volle più di un secolo perchè acquistasse importanza sociale.

La reazione aveva anche i suoi uomini dotti. Ma la differenza era in questo che ne' suoi uomini era stagnata ogni attività intellettuale ed ogni vigore speculativo volto il lavoro della mente agli accidenti e alle forme più che alla sostanza com'era pure de' letterati; dove negli altri hai un serio progresso intellettuale vivificato dalla fede e stimolato dalla passione. La reazione avea vinto pienamente avea seco tutte le forze sociali e l'opposizione cacciata via dalle accademie e dalle scuole frenata dall'Inquisizione e dalla censura toltale ogni libertà e forza di espansione era una infima minoranza appena avvertita nel gran movimento sociale. Perciò alla reazione mancò la lotta dove si affina l'intelletto e si accendono le passioni e per difetto di alimento rimase stazionaria e arcadica. L'attività intellettuale e l'ardore della fede rimase privilegio dell'opposizione sì che dove trovi movimento intellettuale ivi trovi opposizione più o meno pronunziata e spesso involontaria e quasi senza saputa dello scrittore. La storia di questa opposizione non è stata ancora fatta in modo degno. Pure là sono i nostri padri là batteva il core d'Italia là stavano i germi della vita nuova. Perchè infine la vita italiana mancava per il vuoto della coscienza e la storia di questa opposizione italiana non è altro se non la storia della lenta ricostituzione della coscienza nazionale. Cosa ci era nella coscienza? Nulla. Non Dio non patria non famiglia non umanità non civiltà. E non ci era più neppure la negazione che anch'essa è vita anzi ci era una pomposa simulazione de' più nobili sentimenti con la più profonda indifferenza. Se in questa Italia arcadica vogliamo trovare uomini che abbiano una coscienza e perciò una vita cioè a dire che abbiano fede convinzioni amore degli uomini e del bene zelo della verità e del sapere dobbiamo mirare là in questi uomini nuovi di Bacone in questi primi santi del mondo moderno che portavano nel loro seno una nuova Italia e una nuova letteratura.

E inchiniamoci prima innanzi a Giordano Bruno. Cominciò poeta fu grande ammiratore del Tansillo. Aveva molta immaginazione e molto spirito due qualità che bastavano allora alla fabbrica di tanti poeti e letterati; nè altre ne avea il Tansillo e più tardi il Marino e gli altri lirici del Seicento. Ma Bruno avea facoltà più poderose che trovarono alimento ne' suoi studi filosofici. Avea la visione intellettiva o come dicono l'intuito facoltà che può esser negata solo da quelli che ne son senza e avea sviluppatissima la facoltà sintetica cioè quel guardar le cose dalle somme altezze e cercare l'uno nel differente. Non era di ugual forza nell'analisi dove non mostra pazienza e sagacia d'investigazione ma quell'acutezza sofistica d'ingegno che fa di lui l'ultimo degli scolastici nelle argomentazioni e il precursore de' marinisti ne' colori. Supplisce all'analisi con l'immaginazione fantasticando dove non giunge la sua visione saltando le idee medie e sforzandosi divinare quello che per lo stato allora della cognizione non può attingere. Spesso le sue idee sono immagini e le sue speculazioni sono fantasie e allegorie. Ci era nel suo petto un dio agitatore che sentono tutt'i grand'ingegni; ed era un dio filosofico attraversato e avviluppato di forme poetiche che gli guastano la visione e lo dispongono più a costruire lui il mondo che a speculare sulla costruzione di quello. Con queste forze e con queste disposizioni si può immaginare qual viva impressione dovettero fare sul suo spirito gli studi filosofici. La sua cultura è ampia e seria: si mostra dimestico non solo de' filosofi greci ma de' contemporanei. Ha una speciale ammirazione verso il “divino” Cusano e molta riverenza pel Telesio. Il suo favorito è Pitagora di cui afferma invidioso Platone. Alla sua natura contemplativa e poetica dovea riuscire sommamente antipatico Aristotile e ne parla con odio quasi nemico. Cosa dovea parere a quel giovine tutto quell'edifizio teologico-scolastico-aristotelico sconquassato dagli uomini nuovi ma saldo ancora nelle scuole sul quale s'innestava una società corrotta e ipocrita? Il primo movimento del suo spirito fu negativo e polemico fu la negazione delle opinioni ricevute accompagnata con un amaro disprezzo delle istituzioni e de' costumi sociali. Era il tempo delle persecuzioni. I migliori ingegni emigravano regnava l'Inquisizione. E Bruno era frate e frate domenicano. Come uscì dal convento e perchè esulò s'ignora. Ma a quel tempo bastava poco ad essere battezzato eretico: ricordiamo i terrori del povero Tasso. Fuggì Bruno in Ginevra dove trovò un papa anche più intollerante. Fuggì a Tolosa a Lione a Parigi dove ebbe qualche tregua e pubblicò il suo primo lavoro. Era il 1582. Aveva una trentina di anni.

Cosa è questo primo lavoro? Una commedia il Candelaio. Bruno vi sfoga le sue qualità poetiche e letterarie. La scena è in Napoli la materia è il mondo plebeo e volgare il concetto è l'eterna lotta degli sciocchi e de' furbi lo spirito è il più profondo disprezzo e fastidio della società la forma è cinica. È il fondo della commedia italiana dal Boccaccio all'Aretino salvo che gli altri vi si spassano massime l'Aretino ed egli se ne stacca e rimane al di sopra. Chiamasi “accademico di nulla accademia detto il Fastidito”. Nel tempo classico delle accademie il suo titolo di gloria è di non essere accademico. Quel “fastidito” ti dà la chiave del suo spirito. La società non gl'ispira più collera; ne ha fastidio si sente fuori e sopra di essa. Si dipinge così:

“L'autore sì lo conosceste ... have una fisonomia smarrita: par che sempre sii in contemplazione delle pene dell'inferno; ... un che ride sol per far comme fan gli altri. Per il più lo vedrete fastidito restio e bizzarro.”

Il mondo gli parve un gioco vano di apparenze senza conclusione. E il risultato della sua commedia è “in tutto non esser cosa di sicuro; ma assai di negozio difetto abbastanza poco di bello e nulla di buono”. Nessuno interesse può destare la scena del mondo a un uomo che nella dedica conchiude così:

“Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta nulla si annichila è un solo che non può mutarsi un solo è eterno e può perseverare eternamente uno simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi s'ingrandisce e me si magnifica l'intelletto.”

Ma non gli s'ingrandisce il senso poetico il quale è appunto nel contrario nel dar valore alle più piccole rappresentazioni della natura e prenderci interesse. Un uomo simile era destinato a speculare sull'uno e sul medesimo non certo a fare un'opera d'arte. Non si mescola nel suo mondo ma ne sta da fuori e lo vede nelle sue generalità. Ecco in qual modo dipinge l'innamorato:

“Vedrete in un amante sospiri lacrime sbadacchiamenti tremori sogni rizzamenti e un cuor rostito nel fuoco d'amore; pensamenti astrazioni collere malinconie invidie querele e men sperar quel che più si desia.”

E continua di questo passo ammassando tutt'i luoghi topici della rettorica e tutte le frasi della moda:

“cuor mio” “mio bene” “mia vita” “mia dolce piaga” e “morte” “dio” “nume” “poggio” “riposo” “speranza” “fontana” “spirito” “tramontana stella” ed “un bel sol che all'alma mai tramonta” ... “crudo core” “salda colonna” “dura pietra” “petto di diamante” ... “cruda man che ha le chiavi del mio core” “mia nemica” “mia dolce guerriera” “bersaglio sol di tutt'i miei pensieri” e “bei son gli amor miei non quei d'altrui”. È il vecchio frasario de' petrarchisti venutogli a noia e ammassato qui alla rinfusa. Ci è il critico non ci è il poeta comico che ci viva dentro e ci si trastulli. Fino il titolo il Candelaio lo mena a questa considerazione filosofica: che è la candela destinata a illuminare le “ombre delle idee”. Perciò costruisce il suo mondo comico a quel modo che costruisce il suo universo guardando nelle apparenze l'essenza e la generalità:

 

“Eccovi avanti agli occhi oziosi princìpi debili orditure vani pensieri frivole speranze scoppiamenti di petto scoverture di corde falsi presuppositi alienazioni di mente poetici furori offuscamento di sensi turbazion di fantasia smarrito peregrinaggio d'intelletto fede sfrenata cure insensate studi incerti somenze intempestive e gloriosi frutti di pazzia.”

Con queste disposizioni non individua come fa l'artista ma generalizza mette insieme le cose più disparate perchè nelle massime differenze trova sempre il simile e l'uno e profonde antitesi similitudini sinonimi con una copia un brio una novità di relazioni che testimoniano straordinaria acutezza di mente. Chi legge Bruno si trova già in pieno Seicento e indovina Marino e Achillini. Ecco un periodo alla sua donna:

“Voi coltivatrice del campo dell'animo mio che dopo di avere attrite le glebe della sua durezza e assotigliatogli il stile acciocchè la polverosa nebbia sollevata dal vento della leggerezza non offendesse gli occhi di questo e quello con acqua divina che dal fonte del vostro spirito deriva m'abbeveraste l'intelletto.”

Sembra un periodo rubato a Pietro Aretino che ne facea mercato. Il difetto penetra anche nella rappresentazione essendo i caratteri concepiti astrattamente perciò tesi e crudi senza ombre e chiaroscuri con una cinica nudità resa anche più spiccata da una lingua grossolana un italiano abborracciato e mescolato di elementi napolitani e latini.

In questo mondo comico i tre protagonisti che sono i tre sciocchi beffardi e castigati abbracciano la vita nelle sue tre forme più spiccate la letteratura la scienza e l'amore nella loro comica degenerazione. La letteratura è pedanteria la scienza è impostura l'amore è bestialità. Il personaggio meglio riuscito è il pedante che finisce sculacciato e rubato. E il pedante sotto vari nomi diviene parte sostanziale anche del suo mondo filosofico diviene il suo elemento negativo e polemico. Dirimpetto alla sua speculazione ci è sempre il pedante aristotelico che rappresenta il senso comune o le opinioni volgari ed è messo alla berlina. La speculazione si sviluppa in forma di dialogo dove il pedante rappresenta la parte del buffone resa più piccante dalla solennità magistrale. A questo elemento comico aggiungi un altro elemento letterario l'allegorico e il fantastico che lo dispone a inviluppare i suoi concetti sotto immagini e finzioni com'è nel suo Asino cillenico e nello Spaccio della bestia trionfante. Qui arieggia Luciano come in altri dialoghi più severamente speculativi arieggia Platone. Il suo dialogo Degli eroici furori ricorda la Vita nuova di Dante una filza di sonetti ciascuno col suo comento il quale nella sua generalità è una dottrina allegorica intorno all'entusiasmo e alla ispirazione. Il contenuto nel Bruno è in molta parte nuovo ma le sue forme letterarie non nascono dal contenuto sono appiccate a quello e sono forme invecchiate e corrotte dal lungo uso perciò senza grazia e semplicità e senza calore intimo. Se non disgustano e non annoiano si dee al suo acuto spirito e alla sua attività intellettuale che non ti fa mai stagnare e ti sorprende di continuo con sali frizzi antitesi bizzarrie concetti e finezze che è il cattivo gusto degli uomini d'ingegno.

Ma quest'uomo così inviluppato in forme tradizionali e già guaste che accennavano già ad una prossima dissoluzione della letteratura italiana era nella sua speculazione perfettamente libero e costruiva un nuovo contenuto da cui dovea uscire più tardi una nuova critica e una nuova letteratura. La sua filosofia è la condanna più esplicita delle sue forme e de' suoi pregiudizi letterari.

Non vo' già analizzare il suo sistema filosofico: chè non fo storia di filosofia. Ma debbo notare le idee e le tendenze che ebbero una decisa influenza sul progresso umano.

Ne' suoi primi scritti tutti in latino si vede il giovane a cui si apre tutto il mondo della cognizione e cerca riassumerlo costruire l'albero enciclopedico. Raimondo Lullo avea già tentata questa sintesi come aiuto della memoria. Bruno rifà il suo lavoro stabilisce categorie e distinzioni note mnemoniche o idee generali intorno a cui si aggruppino i particolari come “cielo” “albero” “selva”. Queste note le chiama “suggelli” a cui è aggiunto “sigillus sigillorum” cioè le idee prime da cui discendono le altre. Il suo entusiasmo per quest'“architettura lulliana” titolo di un suo scritto è tale che la chiama “arte delle arti” perchè vi si trova “quidquid per logicam metaphysicam cabalam naturalem magiam artes magnas atque breves theoretice inquiritur”. Bruno non avea attinto che il meccanismo della scienza perchè queste categorie o distribuzioni per capi e per materia sono distinzioni formali e arbitrarie e rassomigliano un dizionario fatto per categorie a soccorso della memoria. Il volgo ci dà molta importanza e crede imparando quelle categorie di avere imparato a così buon mercato tutte le scienze. Dicesi che molti gli stessero attorno per aver da lui il secreto di diventar dottori in qualche mese e che beffati gliene volessero: anzi a queste inimicizie plebee si attribuisce la sua fuga da Parigi e la sua andata a Londra. Ivi continuò i suoi studi lulliani e pubblicò Explicatio triginta sigillorum con una introduzione intitolata: Recens et completa ars reminiscendi. In questi studi meccanici e formali si rivela già un principio organico che annunzia il gran pensatore. L'arte del ricordarsi si trasforma innanzi alla sua mente speculativa in una vera arte del pensare in una logica che è ad un tempo una ontologia. Ci è un libro pubblicato a Parigi nel 1582 col titolo: De umbris idearum e lo raccomando a' filosofi perchè ivi è il primo germe di quel mondo nuovo che fermentava nel suo cervello. Ivi tra quelle bizzarrie mnemoniche è sviluppato questo concetto capitalissimo che le serie del mondo intellettuale corrispondono alle serie del mondo naturale perchè uno è il principio dello spirito e della natura uno è il pensiero e l'essere. Perciò pensare è figurare al di dentro quello che la natura rappresenta al di fuori copiare in sè la scrittura della natura. Pensare è vedere ed il suo organo è l'occhio interiore negato agl'inetti. Ond'è che la logica non è un argomentare ma un contemplare una intuizione intellettuale non delle idee che sono in Dio sostanza fuori della cognizione ma delle ombre o riflessi delle idee ne' sensi e nella ragione. Bruno parla con disprezzo dantesco del volgo a cui è negato il lume interno la visione del vero e del buono riflesso nella ragione e nella natura; e premette al suo libro questa protesta:

 

Umbra profunda sumus ne nos vexetis inepti;

non vos sed doctos tam grave quaerit opus.

Che vuol dire in buono italiano: - Chi non ci vede suo danno e non ci stia a seccare. -

Questo concetto rinnovava la scienza nella sua sostanza e nel suo metodo. Il dualismo teologico-filosofico del medio evo da cui scaturiva il dualismo politico papa e imperatore dava luogo all'unità assoluta. E il formalismo meccanico aristotelico-scolastico cedeva il campo a un metodo organico cioè a dire derivato dall'essenza stessa della scienza. Il nuovo concetto era la chiave della speculazione di Bruno.

A Londra Bruno sostenne una disputa sul sistema di Copernico lungamente da lui narrata e con colori molto comici nella Cena delle ceneri cioè del primo dì di quaresima. Poi sviluppò più ampiamente le sue idee nel dialogo della Causa principio e uno e nell'altro dell'Infinito universo e mondi pubblicati a Londra nel 1584. Quei tre libri sono la sua metafisica.

Ciò che ti colpisce dapprima in questa speculazione è la riabilitazione anzi l'indiamento della materia scomunicata chiamata “peccato”. Bruno ha chiara coscienza di ciò che fa. Perchè mette in bocca al pedante aristotelico le opinioni volgari che correvano intorno alla materia. Il pedante è Polinnio ed è descritto così:

“Questo è un di quelli che quando ti arràn fatta una bella costruzione prodotta una elegante epistolina scroccata una bella frase da la popina ciceroniana qua è risuscitato Demostene qua vegeta Tullio qua vive Salustio; qua è un Argo che vede ogni lettera ogni sillaba ogni dizione... Chiamano all'essamina le orazioni fanno discussione de le frasi con dire: - Queste sanno di poeta queste di comico queste di oratore! Questo è grave questo è lieve quello è sublime quell'altro è “humile dicendi genus”. Questa orazione è aspera sarebbe lene se fusse formata cossì. Questo è un infante scrittore poco studioso dell'antiquità non redolet arpinatem desepit Latium. Questa voce non è tosca non è usurpata da Boccaccio Petrarca e altri probati autori... - Con questo trionfa si contenta di sè gli piaceno più ch'ogn'altra cosa i fatti suoi: è un Giove che da l'alta specula rimira e considera la vita degli altri uomini suggetta a tanti errori calamitadi miserie e fatiche inutili. Solo lui è felice lui solo vive vita celeste quando contempla la sua divinità nello specchio di uno spicilegio un dizionario un Calepino un lessico un Cornucopia un Nizzolio... Se avvien che rida si chiama Democrito; se avvien che si dolga si chiama Eraclito; se disputa si chiama Crisippo; se discorre si nome Aristotile; se fa chimere si appella Platone; se mugge un sermoncello se intitula Demostene; se construisce Virgilio lui è il Marone. Qua corregge Achille approva Enea riprende Ettore esclama contro Pirro si condole di Priamo arguisce Turno scusa Didone comenda Acate e infine mentre “verbum verbo reddit” e infilza salvatiche sinonimie “nihil divinum a se alienum putat” e così borioso smontando de la sua catedra come colui c'ha disposti i cieli regolati i senati domati gli eserciti riformati i mondi è certo che se non fosse l'ingiuria del tempo farebbe con gli effetti quello che fa con l'opinione. O tempora o mores! Quanti son rari quei che intendeno la natura dei participi degli adverbi delle coniunczioni !

Polinnio sarebbe immortale se fosse in azione così vivo e vero come è dipinto qui ma l'artista è inferiore al critico nè il Polinnio che parla è uguale al Polinnio descritto con così felice umore sarcastico. Polinnio sa a mente tutto quello che è stato scritto intorno alla materia e tutto solo “ita inquam solus ut minime omnium solus” come fosse in cattedra ti sciorina sulla materia una lezione anzi come dice lui una “nervosa orazione:”

“La materia... di peripatetici dal principe... non minus che dal Platon divino e altri or “caos” or “hyle” or “silva” or “massa” or “potenzia” or “aptitudine” or “privationi admixtum” or “peccati causa” or “ad maleficium ordinata” or “per se non ens” or “per se non scibile” or “per analogiam ad formam cognoscibile” or “tabula rasa” or “indepictum” or “subiectum” or “substratum” or “substerniculum” or “campus” or “infinitum” or “indeterminatum” or “prope nihil” or“ neque quid neoue quale neque quantumtandem ... “femina” vien detta tandem inquam ut una complectantur omnia voculafoemina .”

Ebbene questa materia che Polinnio per disprezzo chiama “femmina” la “causa del peccato” la “tavola rasa” il “prope nihil” il “neque quid neque quale neque quantum” è proclamata da Bruno immortale e infinita. Passano le forme: la materia resta immutabile nella sua sostanza:

“Nella natura variandosi in infinito e succedendo l'una a l'altra le forme è sempre una materia medesma... Quello che era seme si fa erba e da quello che era erba si fa spica da che era spica si fa pane da pane chilo da chilo sangue da questo seme da questo embrione da questo uomo da questo cadavero da questo terra da questo pietra... Bisogna dunque che sia una medesima cosa che da sè non è pietra non terra non cadavere non uomo non embrione non sangue...; ma che dopo che era sangue si fa embrione ricevendo l'essere embrione; dopo ch'era embrione riceve l'essere uomo facendosi uomo.”

E poichè tutte le forme passano ed ella resta Democrito e gli epicurei “quel che non è corpo dicono esser nulla: per conseguenza vogliono la materia sola essere la sustanza delle cose e anche quella essere la natura divina” le forme non essendo “altro che certe accidentali disposizioni della materia” come sostengono i cirenaici cinici e stoici. Bruno avea dapprima la stessa opinione diffusa già in molti contemporanei soprattutto nei medici parendogli che quella dottrina avesse “fondamenti più corrispondenti alla natura che quei di Aristotile”. Cominciò dunque prettamente materialista; ma considerata la cosa “più maturamente” non potè confondere la potenza passiva di tutto e la potenza attiva di tutto chi fa e chi è fatto la forma e la materia: onde venne nella conclusione esserci nella natura due sustanze l'una ch'è forma l'altra che è materia la “potestà di fare” e la “potestà di esser fatto”. Perciò nella scala degli esseri “c'è un intelletto che dà l'essere a ogni cosa chiamato da' pitagorici...'datore delle forme'; una anima e principio formale che si fa ed informa ogni cosa chiamata da' medesimi 'fonte delle forme'; una materia della quale vien fatta e formata ogni cosa chiamata da tutti 'ricetto delle forme'.

Quanto all'intelletto “primo e ottimo principio” “non possiamo conoscer nulla se non per modo di vestigio essendo la divina sostanza infinita e lontanissima da quegli effetti che sono l'ultimo termine del corso della nostra discorsiva facultade ”. Dio dunque è materia di fede e di rivelazione e secondo la teologia e “ancora tutte riformate filosofie” è cosa “da profano e turbolento spirito il voler precipitarsi a ... definire circa quelle cose che son sopra la sfera della nostra intelligenza”. Dio “è tutto quello che può essere”; in lui potenza e atto “son la medesima cosa” possibilità assoluta atto assoluto. “Lo uomo è quel che può essere; ma non è tutto quel che può essere... Quello che è tutto quel che può essere è uno il quale nell'esser suo comprende ogni essere. Lui è tutto quel che è e può essere.” In lui ogni potenza e atto è “complicato unito e uno: nelle altre cose è esplicato disperso e moltiplicato”. Lui è “potenza di tutte le potenze atto di tutti gli atti vita di tutte le vite anima di tutte le anime essere di tutto l'essere.” Perciò il Rivelatore lo chiama “Colui che è” il “Primo” e il “Novissimo” poichè “non è cosa antica e non è cosa nuova” e dice di lui: “Sicut tenebrae eius ita et lumen eius”. “Atto absolutissimo” e “absolutissima potenza non può esser compreso dall'intelletto se non per modo di negazione; non può ... esser capito nè in quanto può esser tutto” nè in quanto è tutto. Ond'è che il sommo principio è escluso dalla filosofia e Bruno costruisce il mondo lasciando da parte la più alta contemplazione che ascende sopra la natura la quale “a chi non crede è impossibile e nulla”. Quelli che non hanno il lume soprannaturale stimano ogni cosa esser corpo o semplice come lo etere o composto come gli astri e non cercano la divinità fuor de l'infinito mondo e le infinite cose ma dentro questo e in quelle”. Questa è la sola differenza tra il “fedele teologo” e il “vero filosofo”. E Bruno conchiude: - Credo che abbiate compreso quel che voglio dire. - Il medio evo avea per base il soprannaturale e l'estramondano: Bruno lo ammette come “fedele teologo” ma come “vero filosofo” cerca la divinità non fuori del mondo ma nel mondo. È in fondo la più radicale negazione dell'ascetismo e del medio evo.

Lasciando da parte la contemplazione del primo principio rimangono due sostanze: la forma che fa e la materia di cui si fa i due princìpi costitutivi delle cose.

La forma nella sua assolutezza è l'“anima del mondo” la cui “intima più reale e propria facoltà e parte potenziale” è l'“intelletto universale”. Come il nostro intelletto produce le specie razionali così l'intelletto o l'anima del mondo produce le specie naturali “empie il tutto illumina l'universo” come disse il poeta: “...totamque infusa per artus / mens agitat molem et toto se corpore miscet”. Questo intelletto detto da' platonici “fabro del mondo” e da Bruno “artefice interno” “infondendo e porgendo qualche cosa del suo alla materia ... produce il tutto”. Esso è la forma universale e sostanziale insita nella materia perchè non opera circa la materia e fuor di quella ma figura la materia da dentro “come da dentro del seme o radice” forma “il stipe da dentro il stipe caccia i rami da dentro i rami le formate brance da dentro queste ispiega le gemme da dentro forma figura e intesse come di nervi le fronde li fiori e li frutti”. La natura opra dal centro per dir così del suo soggetto o materia. Sicchè la forma se come causa efficiente è estrinseca perchè “non è parte delle cose prodotte”; “quanto all'atto della sua operazione” è intrinseca alla materia perchè opera nel seno di quella. È causa cioè fuori delle cose; ed è insieme principio cioè insito nelle cose. Non ci è creazione ci è generazione o come dice Bruno “esplicazione”.

La forma è in tutte le cose e perciò tutte le cose hanno anima. Vivere è avere una forma avere anima. Tutte le cose sono viventi. “Se la vita si trova in tutte le cose l'anima” è “forma di tutte le cose”: presiede alla materia “signoreggia nelli composti effettua la composizione e consistenza delle parti”. Perciò essa è immortale e una non meno che la materia. Ma “secondo la diversità delle disposizioni della materia e secondo la facultà de' princìpi materiali attivi e passivi viene a produr diverse figurazioni”. Sono queste forme esteriori che solo si cangiano e annullano “perchè non sono cose ma de le cose non sono sustanze ma de le sustanze sono accidenti e circostanze. Perciò dice il poeta: “Omnia mutantur nihil interit”. E Salomone dice: “Quid est quod est? Ipsum quod fuit. Quid est quod fuit? Ipsum quod futurum est. Nihil sub sole novum”. Vani dunque sono i terrori della morte e più vani i terrori dell'“avaro Caronte onde il più dolce della nostra vita ne si rape ed avvelena”.

Machiavelli avea già parlato di uno “spirito del mondo” immortale ed immutabile fattore della storia secondo le sue leggi costitutive. Quello spirito della storia nella speculazione di Bruno è il “fabro del mondo” il suo “artefice interno”.

Dirimpetto alla forma assoluta è la materia assoluta cioè secondo sè distinta dalla forma. Come la forma esclude da sè ogni concetto di materia così la materia esclude da sè ogni concetto di forma. La materia è “informe” potenza passiva “pura nuda senz'atto senza virtù e perfezione” “prope nihil”: è l'indifferente lo stesso e il medesimo il tutto e il nulla. Appunto perchè è tutte le cose non è alcuna cosa. E perchè non è alcuna cosa non è corpo; “nullas habet dimensiones” è indivisibile soggetto di cose corporee e incorporee. Se avesse certe dimensioni certo essere certa figura certa proprietà certa differenzia non sarebbe assoluta.”

Ma forma e materia nella loro assolutezza come aventi vita propria estrinseca l'una all'altra sono non distinzioni reali ma vocali e nominali sono distinzioni logiche e intellettuali perchè “l'intelletto divide quello che in natura è indiviso” com'è vizio di Aristotile e degli scolastici che popolarono il mondo di entità logiche quasi fossero sussistenze reali. Bruno si beffa in molte occasioni di questi filosofi che moltiplicarono gli enti immaginando fino la “socrateità” come l'essenza di Socrate la “ligneità” come essenza del legno. Questa distinzione tra gli enti logici e gli enti reali è già un gran progresso. Non che le distinzioni logiche sieno senza importanza anzi esse sono una serie corrispondente alla serie delle cose sono le generalità della natura; il torto è di considerarle cose viventi e reali e credere per esempio che forma e materia sieno due sostanze distinte appunto perchè possiamo e dobbiamo concepirle distinte.

In natura o nella realtà forma e materia sono una sola sostanza. L'una implica l'altra: porre l'una è porre l'altra. La forma non può sussistere se non aderente alla materia una forma che stia da sè è una astrazione logica Parimente la materia vuota e informe è un'astrazione; essa è come una “pregnante che ha già in sè il germe vivo”. Non ci è forma che non abbia in sè “un che materiale” e non ci è materia che non abbia in sè il suo principio formale e divino. Bruno dice: “Lo ente logicamente diviso in quel che è e può essere fisicamente è indiviso indistinto e uno”. Perciò la potenza coincide coll'atto la materia con la forma. Giove “la essenzia per cui tutto quel ch'è ha l'essere” è “intimamente” in tutto; onde “s'inferisce che tutte le cose sono in ciascuna cosa e tutto è uno”.

La materia non è dunque nulla “prope nihil” come vuole Aristotile; anzi ha in sè tutte le forme e le produce dal suo seno per opera della natura efficiente o artefice “interno e non esterno come aviene nelle cose artificiali”. Se il principio formale fosse esterno si potrebbe dire ch'ella “non abbia in sè forma e atto alcuno”; ma le ha tutte perchè tutte le caccia “dal suo seno”. Perciò la materia non è “quello in cui le cose si fanno” ma quello “di cui ogni specie naturale si produce”. Ciò che oltre i pitagorici Anassagora e Democrito comprese anche Mosè quando disse: “'Produca la terra li suoi animali' ... quasi dicesse: 'Producale la materia'”. Adunque le “forme” ed “entelechie” di Aristotile e le “fantastiche idee di Platone” i “sigilli ideali separati dalla materia ... son peggio che mostri” sono “chimere e vane fantasie”. La materia è fonte dell'attualità è non solo in potenza ma in atto; è sempre la medesima e immutabile in eterno stato e non è quella che si muta ma quella intorno alla quale e nella quale è la mutazione. Ciò che si altera è il composto non la materia. Si dice stoltamente che la materia appetisca la forma. Non può appetere “il fonte delle forme che è in sé” perchè nessuno appete ciò che possiede. E perciò in caso di morte non si dee dire che “la forma fugge... o... lascia la materia ma più tosto che la materia rigetta quella forma” per prenderne un'altra. Il povero Gervasio che fa nel dialogo la parte del senso comune e volgare vedendo a terra non solo le opinioni aristoteliche di Polinnio ma tante altre cose esce in questa esclamazione: - “Or ecco a terra non solamente li castelli di Polinnio ma ancora d'altri che di Polinnio!”. -

Adunque se gl'individui sono innumerabili ogni cosa è uno e il conoscere questa unità è lo scopo e termine di tutte le filosofie e contemplazioni naturali montando non al sommo principio escluso dalla speculazione ma alla somma monade o atomo o unità anima del mondo atto di tutto potenza di tutto tutta in tutto.

Questa sostanza unica è “l'universo uno infinito immobile”. “Non è materia perchè non è figurato nè figurabile... non è forma perchè non informa nè figura” sostanza particolare “atteso che è tutto è massimo è uno è universo... È talmente forma che non è forma è talmente materia che non è materia è talmente anima che non è anima; perchè è il tutto indifferentemente e però è uno l'universo è uno”. In lui tutto è centro: il centro è dappertutto e la circonferenza è in nessuna parte ed anche la circonferenza è dappertutto e in nessuna parte il centro. Non c'è vacuo tutto è pieno: quello in cui vi può essere corpo e che può contenere qualche cosa e nel cui seno sono gli atomi. Perciò l'universo è di dimensione infinita e i mondi sono innumerabili. La causa finale del mondo è la perfezione e agl'innumerabili gradi di perfezione rispondono i mondi innumerabili: animali grandi co' loro organi e il loro sviluppo de' quali uno è la terra. Per la continenza di questi innumerabili si richiede uno spazio infinito l'eterea regione dove si muovono i mondi perciò non affissi e inchiodati. Vano è cercare il loro motore esterno perchè tutti si muovono dal principio interno che è la propria anima.

Il punto di partenza è una reazione visibile contro il soprannaturale e l'estramondano. Il mondo popolato di universali nel medio evo è negato da Bruno in nome della natura. Dio stesso dice Bruno se non è natura è natura della natura; se non è l'anima del mondo è l'anima dell'anima del mondo. E in questo caso è materia di fede non è parte della cognizione. La base della sua dottrina è perciò l'intrinsechezza del principio formale o divino della natura. Ciascuno ha Dio dentro di sè. Il vero e il buono luce dentro di noi non per lume soprannaturale ma per lume naturale. Il naturalismo reagiva contro il soprannaturale.

Quelli che hanno lume soprannaturale come i profeti cioè a dire che ricevono il lume dal di fuori egli li chiama “asini” o “ignoranti” de' quali fa un ironico panegirico nell'Asino cillenico e tra questi e quelli che hanno il lume naturale e vedono per virtù propria è la stessa differenza che è “tra l'asino che porta i sacramenti e la cosa sacra”. Quelli sono vasi e strumenti; questi principali artefici ed efficienti: quelli hanno più dignità perchè hanno la divinità; questi sono essi più degni e sono divini. L'asinità è la condizione della fede: chi crede non ha bisogno di sapere; e l'asinità conduce alla vita eterna.

“- Forzatevi forzatevi dunque ad essere asini o voi che siete uomini!... - grida Bruno con umore - così divoti e pazienti sarete contubernali alle angeliche squadre... E voi che siete già asini ... adattatevi a proceder... di bene in meglio afinchè perveniate... a quella dignità che non per scienze ed opre ... ma per fede s'acquista. Se... tali sarete... vi troverete scritti nel libro della vita impetrerete la grazia in questa militante ed otterrete la gloria in quella trionfante ecclesia nella quale vive e regna Dio per tutt'i secoli de' secoli.”

 

Questa tirata umoristica finisce con un “molto pio” sonetto in lode degli asini il cui concetto è che “il gran Signor li vuol far trionfanti”. Nè solo è l'asino trionfante ma l'ozio perchè l'eterna felicità s'acquista per “fede” non per “scienze” e non per “opre”. Anche dell'ozio hai un panegirico ironico e per saggio diamo il seguente sillogismo:

 

“Li dèi son dèi perchè son felicissimi; li felici son felici perchè son senza sollecitudine e fatica; fatica e sollecitudine non han coloro che non si muovono e alterano; questi son massime quei ch'han seco l'ocio: dunque gli dèi son dèi perchè han seco l'ocio.”

Sillogismo pieno di senso nella sua frivola apparenza. Momo il censore divino ne resta intrigato e dice che “per aver studiato logica in Aristotile non aveva imparato di rispondere agli argomenti in quarta figura”. L'ozio fa naturalmente l'elogio dell'età dell'oro la sua età il suo regno e cita i bei versi del Tasso:

E finisce con questa esortazione:

L'ozio e l'ignoranza sono i caratteri della vita ascetica e monacale della quale Bruno aveva avuto esperienza.

“[La libertade] - fa egli dire a Giove - quando verrà ad essere ociosa sarà frustratoria e vana come indarno è l'occhio che non vede e mano che non apprende. Ne l'età... dell'oro per l'ocio gli uomini non erano più virtuosi che sin al presente le bestie son virtuose e forse erano più stupidi che molte di queste.”

Bruno rigetta quella vita oziosa che fu detta “aurea” e ch'egli chiama “scempia” fondata sulla passività dell'intelletto e della volontà e non può parlarne senz'aria di beffa. Il soprannaturale è incalzato ne' suoi princìpi e nelle sue conseguenze.

Secondo la morale di Bruno il lume naturale viene destato nell'anima dall'amore del divino o dal principio formale aderente alla materia e per il quale la materia è bella. Amare la materia in quanto materia è cosa bestiale e volgare e Bruno se la prende col Petrarca e i petrarchisti lodatori di donne per ozio e per pompa d'ingegno a quel modo che altri “han parlato delle lodi della mosca dello scarafone dell'asino de Sileno de Priapo scimmie de' quali son coloro che han poetato a' nostri tempi - dic'egli - delle lodi degli orinali della piva della fava del letto delle bugie del disonore del forno del martello della carestia della peste”. Obbietto dell'amore eroico è il divino o il formale: la bellezza divina “prima si comunica alle anime e... per quelle... si comunica alli corpi; onde è che l'affetto ben formato ama... la corporal bellezza per quel che è indice della bellezza del spirito. Anzi quello che n'innamora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso la qual si chiama 'bellezza' la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori non nelli determinati colori o forme ma in certa armonia e consonanza de membri e colori.” L'amore sveglia nell'anima il lume naturale o la visione intellettiva la luce intellettuale e la tiene in istato di contemplazione o di astrazione sì che pare insana e furiosa come posseduta dallo spirito divino. Questo è non il volgare ma l'eroico furore per il quale l'anima si converte come Atteone in quel che cerca cerca Dio e diviene Dio e avendo contratta in sè la divinità non è necessario che la cerchi fuori di sè. “Però ben si dice il regno di Dio essere in noi e la divinitade abitare in noi per forza della visione intellettuale. Non tutti gli uomini hanno la visione intellettuale perchè non tutti hanno l'amore eroico; ne' più domina non la mente che innalza a cose sublimi ma l'immaginazione che abbassa alle cose inferiori; e questo volgo concepisce l'amore a sua immagine:

L'amore eroico è proprio delle nature superiori dette “insane” non perchè non sanno ma perchè “soprasanno” sanno più dell'ordinario e tendono più alto per aver più intelletto.

La visione o contemplazione divina non è però oziosa ed estrinseca come ne' mistici e ascetici: Dio è in noi e possedere Dio è possedere noi stessi. E non ci viene dal di fuori ma ci è data dalla forza dell'intelletto e della volontà che sono tra loro in reciprocanza d'azione: l'intelletto che suscitato dall'amore acquista occhio e contempla; e la volontà che ringagliardita dalla contemplazione diviene efficace o doppiata: ciò che Bruno esprime con la formola: “io voglio volere”. Dalla contemplazione esce dunque l'azione: la vita non è ignoranza e ozio anzi è “intelletto e atto mediante l'amore” secondo la formola dantesca rintegrata da Bruno: è intendere ed operare. Maggiori sono le contrarietà e le necessità della vita e più intensa è la volontà perchè amore è unità e amicizia de' contrari o degli oppositi e nel contrasto cerca la concordia. La mente è unità ;l'immaginazione è moto è diversità; la facultà razionale è in mezzo composta di tutto in cui concorre l'uno con la moltitudine il medesimo col diverso il moto con lo stato l'inferiore col superiore. Come gli dèi trasmigrano in forme basse e aliene o per sentimento della propria nobiltà ripigliano la divina forma; così il furioso eroico innalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontà con l'ale dell'intelletto e volontà intellettiva s'innalza alla divinità lasciando la forma di soggetto più basso:

“Cangiarsi in Dio” significa levarsi dalla moltitudine all'uno dal diverso allo stesso dall'individuo alla vita universale dalle forme cangianti al permanente vedere e volere nel tutto l'uno e nell'uno il tutto. O per uscire da questa terminologia Dio è verità e bontà scritta al di dentro di noi visibile per lume naturale; e cercarla e possederla è la perfezione morale lo scopo della vita.

È stato notato che Bruno non ti offre un sistema concorde e deciso. La filosofia è in lui ancora in istato di fermentazione. Hai i vacillamenti dell'uomo nuovo che vive ancora nel passato e del passato. Combatte il soprannaturale ma il suo lume naturale la sua “mens tuens” la sua intuizione intellettiva ne serba una confusa reminiscenza. Contempla Dio nella infinità della natura ma non sa strigarsi dal Dio estramondano e non sa che farsene rimasto come un antecedente inconciliato della sua speculazione. Ora quel Dio è verità e sostanza e noi siamo sua ombra “umbra profunda sumus”; ora quel Dio è proprio la natura o “se non è natura è natura della natura”. Ci è in lui confuso Cartesio Spinosa e Malebranche. Combatte la scolastica e ne conserva in gran parte le abitudini. Odia la mistica e talora a sentirlo è più mistico di un santo padre. Rigetta l'immaginazione e ne ha tutt'i vizi e tutte le forme. Manca l'armonia nel suo contenuto e nelle sue forme. E non è maraviglia che anche oggi i filosofi si accapiglino nella interpretazione del suo sistema.

Interessantissima è questa storia interiore dello spirito di Bruno nelle sue distinzioni e sottigliezze e nelle oscillazioni del suo sviluppo; anzi è questa la sua vera biografia. Niente è più drammatico che la vita interiore di un grande spirito nella sua lotta con l'educazione co' maestri con gli studi col tempo co' pregiudizi nelle sue imitazioni fluttuazioni e resistenze. La sua grandezza è appunto in questo di vincere in quella lotta cioè che di mezzo a quelle fluttuazioni si stacchino con maggior forza ed evidenza le sue tendenze predilette che gli danno un carattere ed una fisonomia. E questa fisonomia di Bruno noi dobbiamo cercare a traverso i suoi ondeggiamenti.

Innanzi tutto Bruno ha sviluppatissimo il sentimento religioso cioè il sentimento dell'infinito e del divino com'è di ogni spirito contemplativo. Leggendolo ti senti più vicino a Dio. E non hai bisogno di domandarti se Dio è e cosa è. Perchè lo senti in te e appresso a te nella tua coscienza e nella natura. Dio è “più intimo a te che non sei tu a te stesso”. Tutte le religioni non sono in fondo che il divino in diverse forme. E sotto questo aspetto Bruno ti fa un'analisi assai notevole delle religioni antiche e nuove. L'amore del divino il “furore eroico” è il carattere delle nobili nature. E questo amore ci rende atti non solo a contemplare Dio come verità ma ancora a realizzarlo come bontà. Ivi ha radice la scienza e la morale.

Questi concetti non sono nuovi e di simili se ne trovano nella Scrittura e ne' padri. Ma lo spirito n'è nuovo. Non è solo questo che “i cieli narrano la gloria di Dio” ma quest'altro che i cieli sono essi medesimi divini e si movono per virtù propria per la loro intrinseca divinità. È la riabilitazione della materia o della natura non più opposta allo spirito e scomunicata ma fatta divina divenuta “genitura di Dio”. È il finito o il concreto che apparisce all'infinito e lo realizza gli dà l'esistenza. O come dicesi oggi è il Dio vivente e conoscibile che succede al Dio astratto e solitario. L'universo eterno ed infinito è la vita o la storia di Dio.

Questo è ciò che fu detto il “naturalismo di Bruno” o piuttosto del secolo ed era il naturale progresso dello spirito che usciva dalle astrattezze scolastiche o come dice Bruno “dalle credenze e dalle fantasie” e cercava la sua base nel concreto e nel finito era la prima voce della natura che scopriva se stessa e si proclamava di essenza divina una e medesima che la divinità “secondo che l'unità è distinta nella generata e generante o producente e prodotta”. Bruno nel suo entusiasmo per la natura divina dice che lo spirito eroico

“vede l'anfitrite il fonte di tutti i numeri di tutte specie di tutti i raggioni che è la monade vera essenza dell'essere di tutti e se non la vede in sua essenza in absoluta luce la vede nella sua genitura che gli è simile che è la sua imagine: perchè dalla monade che è la divinitate procede questa monade che è la natura l'universo il mondo dove [ella] si contempla e si specchia”

cioè dove s'intende ed è intelligibile.

Questa visione di Dio privilegio dello spirito eroico non ha nulla a fare col lume soprannaturale con la fede o la grazia o l'estasi o altro che dal di fuori piova nell'anima. Dio fatto conoscibile nel mondo diviene materia della cognizione e l'anima effettua la sua unione con lui per un atto della sua energia per intrinseca virtù. La visione è intellettiva e il suo organo è la mente dove Dio o la Verità si rivela come “in propria e viva sede” a quelli che la cercano “per forza del riformato intelletto e volontà” cioè per la scienza.

L'amore del divino spinto sino al “furore eroico” lega Bruno co' mistici. Il naturalismo letterario era pretto materialismo che si sciolse nella licenza e nel cinismo e mise capo in ozio idillico snervante peggiore dell'ozio ascetico. Il naturalismo di Bruno era al contrario non il divino materializzato ma la materia divinizzata. La materia in se stessa è volgare bestialità; essa ha valore come divina. Il divino non è infuso o intrinseco ma è insito e connaturato. Cercarlo ed effettuarlo è il degno scopo della vita. E non si rivela se non a quelli che lo cercano e lo conquistano col lavoro della mente illuminata dall'amore eroico. Ciò distingue i vulgari da' nobili spiriti. Molti sono i chiamati pochi gli eletti. “Molti rimirano pochi vedono.” Bruno parla spesso con tale unzione e con tale esaltazione mistica che ti pare un Dante o un san Bonaventura.

Ma i mistici sono semplicemente contemplanti dove per Bruno non è contemplazione nella quale non sia azione e non è azione nella quale non sia contemplazione. La nuda contemplazione è ozio. Contemplare è operare. Si vede l'uomo che esce dal convento ed entra nella vita militante.

Folengo esce dal convento rinnegando Dio e sputando sul viso alla società. In lui il secolo scettico e materialista ha la sua ultima espressione. Anche a Bruno abbonda la satira e l'ironia; anche in lui ci è un lato negativo e polemico sviluppato con potenza e abbondanza d'immaginazione. Ma questo lato rimane assorbito nella sua speculazione. Il suo scopo è tutto positivo: è la restaurazione di Dio e con esso del sentimento religioso e della coscienza. Ciò che Savonarola tentò con la fede e con l'entusiasmo egli tenta con la scienza. Non accetta Dio come gli è dato nè se ne rimette alla fede perchè non è un credente. Dio vuole cercarlo e trovarlo lui con la sua attività intellettuale con l'occhio della mente. E questo Dio da lui trovato e di cui sente l'infinita presenza in se stesso e negl'infiniti mondi e in ciascun essere vivente nel massimo e nel minimo non rimane astratta verità nella sua intelligenza ma scende nella coscienza e penetra tutto l'essere intelletto volontà sentimento e amore. Comincia scredente finisce credente. Ma è un “credo” generato e formato nel suo spirito non venutogli dal di fuori. Per questo “credo” non gli fu grave morire ancor giovane sul rogo dicendo a' suoi giudici le celebri parole: “Maiori forsitan cum timore sententiam in me dicitis quam ego accipiam”. Sembra che il suo maggior peccato innanzi alla Chiesa sia stata la sua fede negl'infiniti mondi come traspare da questa malvagia ironia dello Scioppio: “Sic ustulatus misere periit renunciaturus credo in reliquis illis quos finxit mundis quonam pacto homines blasphemi et impii a romanis tractari solent”.

Insisto su questo carattere entusiastico e religioso di Bruno o com'egli dice “eroico” che gli dà la figura di un santo della scienza. Quante volte l'umanità stanca di aggirarsi nell'infinita varietà sente il bisogno di risalire al tutto ed uno all'assoluto e cercarvi Dio le si affaccia sull'ingresso del mondo moderno la statua colossale di Bruno.

Il suo supplizio passò così inosservato in Italia che parecchi eruditi lo mettono in dubbio. Nè le opere sue vi lasciarono alcun vestigio. Si direbbe che i carnefici insieme col corpo arsero la sua memoria. Anche in Europa il brunismo lasciò deboli tracce. Il progresso delle idee e delle dottrine era così violento che il gran precursore fu avvolto e oscurato nel turbinìo. Come Dante Bruno attendeva la sua risurrezione. E quando dopo un lungo lavoro di analisi riappare la sintesi Jacobi e Schelling sentirono la loro parentela col grande italiano e riedificarono la sua statua.

In Bruno trovi la sintesi ancora inorganica della scienza moderna con le sue più spiccate tendenze la libera investigazione l'autonomia e la competenza della ragione la visione del vero come prodotto dell'attività intellettuale la proscrizione delle fantasie delle credenze e delle astrazioni un più intimo avvicinamento alla natura o al reale. Dico “tendenze” perchè nel fatto l'immaginazione e il sentimento soprabbondavano in lui e gli tolsero quella calma armonica di contemplazione senza la quale riesce difettiva la virtù organizzatrice e quella pazienza di osservazione e di analisi senza la quale le più belle speculazioni rimangono infeconde generalità.

Quanto alla sua sintesi il Dio astratto ed estramondano fatto visibile e conoscibile nella infinita natura l'unità e medesimezza di tutti gli esseri l'eternità e l'infinità dell'universo nella perenne metempsicosi delle forme il sentimento dell'anima o della vita universale l'infinita perfettibilità delle forme nella loro trasformazione la produttività della materia dal suo intrinseco l'azione dinamica della natura nelle sue combinazioni la libertà distinta dal libero arbitrio e rappresentata come la stessa effettuazione del divino o della legge la moralità e la glorificazione del lavoro sono concetti che svolti lungamente e variamente da Bruno in opere latine e italiane appaiono punti luminosi nella speculazione moderna e ne trovi i vestigi in Cartesio in Spinosa in Leibnitz e più tardi in Schelling in Hegel e ne' presenti materialisti. Se dovessi con una sola formola caratterizzare il mondo di Bruno lo chiamerei il “mondo moderno ancora in fermentazione”.

Roma bruciava Bruno Parigi bruciava Vanini. I loro carnefici li dissero atei. Pure Dio non fu mai cosa sì seria come nel loro petto.

- Andiamo a morir da filosofo - disse Vanini avvicinandosi al rogo. Eran detti anche “novatori” titolo d'infamia che è divenuto il titolo della loro gloria.

Nel 1599. Bruno era già nelle mani dell'Inquisizione e Campanella nelle mani spagnuole. Nel primo anno del Seicento Bruno periva sul rogo e Campanella aveva la tortura. Così finiva l'un secolo così cominciava l'altro. “Tu asinus nescis vivere” dicevano a Campanella amici e nemici: “ne loquaris in nomine Dei”. E lui prendeva ad insegna una campana con entrovi l'epigrafe: “Non tacebo”. Anche Bruno diceva di sè: “Dormitantium animorum excubitor”. La nuova scienza sorge come una nuova religione accompagnata dalla fede e dal martirio. “Philosophus” diceva il Pomponazzi per esperienza propria “ab omnibus irridetur et tamquam stultus et sacrilegus habetur; ab inquisitoribus prosequitur fit spectaculum vulgi: haec igitur sunt lucra philosophorum haec est eorum merces”. Pure questi uomini nuovi derisi perseguitati spettacolo del volgo avevano una fede invitta nel trionfo delle loro dottrine. L'accademia cosentina di Telesio avea per impresa la luna crescente col motto: “Donec totum impleat orbem”. Bruno perseguitato dal suo secolo diceva: - La morte in un secolo fa vivo in tutti gli altri. - Campanella paragona il filosofo al Cristo che il terzo giorno spezzando la pietra risorge. Il carattere era pari all'ingegno. Dietro al filosofo ci era l'uomo.

Telesio è detto da Bacone il “primo degli uomini nuovi”. Ma la novità era già antica di un secolo e Telesio che avea fatto i suoi studi a Padova a Milano a Roma professato a Napoli quando stanco di lotte e di persecuzioni deliberò di ritrarsi nella nativa Cosenza vi portò il motto del pensiero italiano la “filosofia naturale” fondata sull'esperienza e sull'osservazione. Il suo merito è di avere esercitata una seria influenza intellettuale tra' suoi concittadini e di aver fondata sotto nome di “accademia” una vera scuola filosofica. Come Machiavelli così egli non segue altro che l'osservazione e la natura: “poichè la sapienza umana è arrivata alla più alta cima che possa afferrare se ha osservato quello che si presenta a' sensi e ciò che può esser dedotto per analogia dalle percezioni sensibili”. Sincero modesto d'ingegno non grande ma di grandissima giustezza di mente e di sano criterio fu benemerito meno per le sue dottrine che per il metodo ed il linguaggio. E in verità la grande e utile novità era allora il metodo. Il suo maggiore elogio lo ha fatto Campanella in queste parole: “Telesius in scribendo stylum vere philosophicum solus servat iuxta verum naturam sermones significantes condens facitque hominem potius sapientem quam loquacem”. L'obbiettivo era sciogliere il pensiero dalla servitù di Aristotile “tiranno degl'ingegni” e metterlo in diretta comunicazione con la natura rifarlo libero ciò che con una precisione uguale alla concisione dice Campanella nel suo famoso sonetto a Telesio:

L'impresa non era lieve. Resistevano tutte le dotte mediocrità tutto quel complesso di uomini e d'istituzioni che l'Aretino chiamava “la pedanteria” i “Polinnii” di Bruno spalleggiati da francescani domenicani e gesuiti e spesso l'ultimo argomento era il rogo il carcere l'esilio. Dir cose nuove era delitto non solo alla Chiesa ma a' principi venuti in sospetto di ogni novità nelle scuole: pure la fede di un rinnovamento era universale e “Renovabitur” fu il motto del Montano discepolo di Telesio nel compendio che scrisse della sua dottrina. Si era fino allora pensato col capo d'altri: gli uomini volevano ora pensare col capo loro. Questo era il movimento. E fu così irresistibile che la novità usciva anche da' segreti del convento. Fu là che si formò ne' forti studi libera e ribelle l'anima di Bruno. E là in un piccolo convento di Calabria si educava a libertà l'ingegno di Tommaso Campanella. Assai presto oltrepassò gli studi delle scuole e fatto maestro di sè lesse avidamente e disordinatamente tutti quei libri che gli vennero alle mani. Nella solitudine si fa presto ad esser dotto. Ivi il giovine raccolse immensi materiali in tutto lo scibile. Il suo idolo era Telesio il gran novatore; il suo odio era Aristotile con tutto il suo seguito e come Bruno preferiva gli antichi filosofi greci massime Pitagora. Venuto in Cosenza i suoi frati che già conoscevano l'uomo non vollero permettergli di udire nè di veder Telesio: ciò che infiammò il desiderio e l'amore. Il giorno che Telesio morì fu visto in chiesa accanto alla bara il giovine frate che dovea continuarlo. I cosentini sentendolo nelle dispute dicevano che in lui era passato lo spirito di Telesio. La scuola telesiana o riformatrice come era detta gli fu tutta intorno il Bombino il Montano il Gaieta da lui celebrati insieme col maestro. Il suo primo lavoro fu una difesa di Telesio contro il napoletano Marta. Venuto a Napoli per la stampa dell'opera attirò l'attenzione per il suo ardore nelle dispute per l'agilità e la presenza dello spirito per la franchezza delle opinioni e per l'immenso sapere. E gl'invidiosi dicevano: - Come sa di lettere costui che mai non le imparò? - E recavano a magia a cabala a scienza occulta ciò che era frutto di studi solitari. Le opinioni telesiane poco attecchivano in Napoli onde il buon Telesio avea dovuto andar via per le molte inimicizie. Anche il Porta ci stava a disagio e dovea con le commedie far perdonare alla sua filosofia. Naturalmente si strinse un legame tra Campanella e l'autore della Magia naturale e della Fisionomia. Disputavano leggevano conferivano i loro lavori. Frutto di questa dimestichezza fu il libro De sensu rerum a cui successe l'altro: De investigatione. Ivi si stabilisce per qual via si giunga a ragionare “col solo senso e colle cose che si conoscono pe' sensi”: ciò che è il metodo sperimentale base della filosofia naturale. Ci si vede l'influenza di Telesio di Porta e di tutta la scuola riformatrice.

Porta potè esser tollerato a Napoli perchè era non solo gentiluomo e assai riverito ma uomo di spirito e amabilissimo. Ma Campanella non sapea vivere come dicevano i suoi emuli. Era tutto di un pezzo e alla naturale veemente rozzo audace di pensiero e di parola. E venne in uggia a moltissimi e anche ai suoi frati che non gli potevano perdonare l'odio contro Aristotile. Come Bruno lasciò il convento e indi a non molto Napoli e con in capo già una nuova metafisica tutta abbozzata fu a Roma poi a Firenze dove il destino faceva incontrare i due grandi ingegni di quel tempo Campanella e Galilei.

Michelangiolo moriva e tre giorni prima il 15 febbraio del 1564 nasceva in Pisa Galileo Galilei. Tutto gli rise nel principio levato maraviglioso grido di sè per le sue invenzioni della misura del tempo per mezzo del pendolo del termometro del compasso geometrico del telescopio. Con questo potente istrumento iniziò le sue speculazioni astronomiche che rinnovavano il cielo biblico e tolemaico. Parecchi fatti divinati da Bruno acquistavano certezza come ciò che si vede e si tocca. Il suo Nunzio sidereo appariva così maraviglioso come il viaggio di Colombo. Le montuosità della luna le fasi di Venere e di Marte le macchie del sole i satelliti di Giove erano tali scoperte a breve distanza che spoltrivano gli animi oziosamente cullati ne' romanzi e nelle oscenità letterarie. La filosofia naturale vinceva oramai le ultime resistenze nella pubblica opinione. Non si trattava più d'ipotesi e di astratti ragionamenti. I fatti erano là e parlavano più alto che i sillogismi de' teologi e degli scolastici. La cosa effettuale di Machiavelli il lume naturale di Bruno il metodo sperimentale di Telesio la libertà dolce alla verità di Campanella avevano il loro riscontro nelle belle parole di Galileo: - “Ah viltà inaudita d'ingegni servili farsi spontaneamente mancipio!” -. Il buon Simplicio il pedante aristotelico come Polinnio risponde: - “Ma quando si lasci Aristotile chi ne ha da essere scorta nella filosofia?” -. E Galileo replica pacatamente: - “...I ciechi solamente hanno bisogno di guida.. Ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente di quelli si ha da servire per iscorta” -. Il lume soprannaturale la scienza occulta il mistero il miracolo scompariva innanzi allo splendore di questo lume naturale dell'occhio e della mente: la magia l'astrologia l'alchimia la cabala sembravano povere cose innanzi a' miracoli del telescopio. Colombo e Galileo ti davano nuova terra e nuovo cielo. Sulle rovine delle scienze occulte sorgevano l'astronomia la geografia la geometria la fisica l'ottica la meccanica l'anatomia. E tutto questo era la filosofia naturale il naturalismo. - “La filosofia - diceva Galileo - è scritta nel libro grandissimo della natura.” - E stupendamente diceva Campanella:

Campanella nacque il 1568 quattro anni dopo Galileo. Si videro a Firenze: Galileo già famoso in grazia della Corte professore con un concetto dell'universo e della scienza chiaro intero ben circoscritto: Campanella oscuro conscio del suo ingegno di concetti molti e arditi e smisurati in aria di avventuriere che cerchi fortuna più che di un savio tranquillo e riposato nella scienza. Cercò una cattedra. - Chi è costui? - E il Granduca chiese le informazioni al generale di San Domenico il quale rispose: “Alquanto differente relazione tengo io del padre fra Tommaso Campanella di quella è stata fatta a Vostra Altezza... io farò prova del valore e sufficienza sua”. Le raccomandazioni di Galileo non valsero contro l'ira domenicana. Campanella non riuscì e la ragione è detta da Baccio Valori:

“Procurandosi oggi in Roma per alcuni proibire la filosofia del Telesio con colore che la pregiudichi alla teologia scolastica fondata in Aristotile da lui così riprovato corre qualche risico conseguente [Tommaso Campanella] della medesima scuola e per avventura il più terribile per eccellenza de' suoi concetti che veramente sono e alti e nuovi.”

Campanella aveva allora ventiquattro anni. L'indomabile giovane si vendicò scrivendo una nuova difesa di Telesio. Aveva già scritto un trattato De sphaera Aristarchi dove sostiene l'opinione copernicana del moto della terra. Vagheggiava una scienza universale col titolo De universitate rerum che diventò più tardi la sua Philosophia realis. A lui dovea parere molto modesto Galileo che lasciava da banda teologia e metafisica ed ogni costruzione universale contento ad esplorar la natura ne' suoi particolari. E gli scriveva: “Invero non si può filosofare senza un vero accertato sistema della costruzione de' mondi quale da lei aspettiamo: e già tutte le cose sono poste in dubbio tanto che non sapemo se il parlare è parlare”. Domandava egli a Galileo una riforma dell'astronomia e della matematica sublime una vera filosofia naturale. “Scriva pel primo” diceva “che questa filosofia è d'Italia da Filolao e Timeo in parte e che Copernico la rubò da' predetti e dal ferrarese suo maestro; perchè è gran vergogna che ci vincan le nazioni che noi avemo di selvagge fatte domestiche”. Ma Galileo rimase fermo nella sua via. Anche lui aveva i suoi pensieri e le sue ipotesi; ma gli parea che il vero filosofo naturale dovesse lasciare il verisimile e attenersi a ciò che è incontrastabilmente vero. E rispondea a Campanella ch'ei non volea “per alcun modo con cento e più proposizioni apparenti delle cose naturali screditare e perdere il vanto di dieci o dodici sole da lui ritrovate e che sapeva per dimostrazione esser vere”. Stavano a fronte la saviezza fiorentina e l'immaginazione napoletana o per dir meglio due culture la cultura toscana già chiusa in sè e matura e veramente positiva e la cultura meridionale ancor giovane e speculativa e in tutta l'impazienza e l'abbondanza della giovanezza. In Galileo si sente Machiavelli; e in Campanella si sente Bruno. Vedi la differenza anche nello scrivere. Chi legge le lettere i trattati i dialoghi di Galileo vi trova subito l'impronta della coltura toscana nella sua maturità uno stile tutto cosa e tutto pensiero scevro di ogni pretensione e di ogni maniera in quella forma diretta e propria in che è l'ultima perfezione della prosa. Usa i modi servili del tempo senza servilità anzi tra' suoi baciamano penetra un'aria di dignità e di semplicità che lo tiene alto su' suoi protettori. Non cerca eleganza nè vezzi severo e schietto come uomo intento alla sostanza delle cose e incurante di ogni lenocinio. Ma se causa le esagerazioni e gli artifici letterari non ha la forza di rinnovare quella forma convenzionale divenuta modello. Avvolto in quel fraseggiare d'uso frondoso e monotono trovi concetti nuovi e arditi in una forma petrificata dall'abitudine pure eletta castigata perspicua di un perfetto buon gusto. Al contrario in Bruno e in Campanella la forma è scorretta rozza disuguale senza fisonomia; ma ne' suoi balzi e nelle sue disuguaglianze viva mobile nata dalle cose. Ivi ti par di avere innanzi un bel lago anzi che acqua corrente; non una formazione organica e conforme al contenuto ma una forma già fissata innanzi e riprodotta spesso priva di movimenti interni sola esteriorità: qui vedi una lingua ancora mobile e in formazione con elementi già nuovi e moderni. Alcune pagine di Bruno sembrano scritte oggi.

Ma saviezza fiorentina e immaginazione napoletana erano del pari sospette a Chiesa e Spagna. Il libro della natura era libro proibito e chi vi leggeva era eretico o ateo. Prima ci capitò Campanella. Fu a Venezia a Padova a Bologna a Roma co' suoi manoscritti appresso e scrivendo sempre per sè e per altri in verso e in prosa in latino e in italiano trattati orazioni discorsi dispute. A Bologna gli furono rubati i manoscritti. E che importa? Rifaceva rinnovava con una vena inesauribile. Venuto in sospetto a Roma torna a Napoli e va a prender fiato a Stilo sua patria. Ivi sperava riposo; ma “accadde a me quello che dice Salomone: quando l'uomo avrà finito allora comincerà; quando riposerà sarà affaticato”. Ivi cominciarono i suoi guai. Avvolto in una cospirazione fu come reo di maestà condotto nelle prigioni di Napoli. Chiarito innocente di un'accusa se ne suscitava un'altra perchè “gl'iniqui non cercavano il delitto ma farmi comparir delinquente”. - Come sai tu le lettere se non le imparasti mai? Forse hai addosso il demonio. - “Ma io - rispose il prigioniero - ho consumato più d'olio che voi di vino.” - Lo si fece autore del libro De tribus impostoribus Mose Christo et Mahumed stampato trent'anni prima ch'ei nascesse. Fu detto che voleva fondar la repubblica con l'aiuto de' turchi e che era un eretico e aveva dottrina pericolosa e non credeva a Dio. Invano scrisse Della monarchia e l'Ateismo vinto e la Disputa antiluterana. Fu condannato da Roma e da Spagna ribelle ed eretico e tenuto in prigione ventisette anni sottoposto alla tortura sette volte.

“Mi fur rotte le vene e le arterie; e il cruciato dell'eculeo mi lacerò le ossa... e la terra bevve dieci libbre del mio sangue...: risanato dopo sei mesi in una fossa fui seppellito ove non è nè luce nè aria ma fetore e umidità e notte e freddo perpetuo. ”

Dopo dodici anni di tali martìri fa questo triste inventario de' suoi mali:

Fra tanti tormenti scriveva scriveva sempre versi e prose.

I tempi si facevano più scuri. Copernico era uomo piissimo chiuso ne' suoi studi matematici; era un matematico non un filosofo dicea Bruno che di quel sistema avea saputo fare un così terribile uso col suo ingegno libero e speculativo. Il sistema era presentato come una pura ipotesi e spiegazione de' fenomeni celesti e naturali e i filosofi avevano sempre cura di aggiungere: “salva la fede”. Così il libro di Copernico dedicato a Paolo terzo fu tenuto innocuo per ottanta anni. Ma la sua dottrina si diffondeva celeremente propugnata da Bruno da Campanella da Galileo e da Cartesio che si preparava a farne una dimostrazione matematica. Il libro di Copernico parve allora cosa eretica e fu condannato essendo cosa più facile scomunicare che confutare. Cartesio pose a dormire la sua dimostrazione. Il povero Galileo processato e torturato dovette confessare che “Terra stat et in aeternum stabit” ancorchè la sua coscienza rispondesse: - Eppur si muove. - E la sua scrittura sulla mobilità della terra mandò al Granduca con queste parole ritratto de' tempi:

“Perchè io so quanto convenga obbedire e credere alle determinazioni de' superiori come quelli che sono scorti da più alte cognizioni alle quali la bassezza del mio ingegno per se stesso non arriva reputo questa presente scrittura che gli mando come quella che è fondata sulla mobilità della terra ovvero che è uno degli argomenti che io produceva in sostegno di essa mobilità la reputo dico come una poesia ovvero un sogno e per tale la riceva l'Altezza Vostra.”

Altrove la chiama una “chimera” un “capriccio matematico” e nasconde la verità come fosse un delitto o una vergogna. Di quest'accusa e di questo processo giunse notizia a Tommaso Campanella e fra' tormenti del carcere scrisse l'apologia di Galileo.

Galileo fu lasciato vivere solitario in Arcetri già rifugio del Guicciardini dove i dispiaceri e le malattie prima gli tolsero la vista e poi la vita. Morì nel 1642 l'anno stesso che nacque Newton. L'anno dopo Torricelli suo allievo trovava il barometro. Tre anni prima moriva Campanella in Francia dov'erasi rifuggito e dove potè pubblicare la sua filosofia.

A Galileo chiusero gli occhi i discepoli. Le sue scoperte ed osservazioni diedero un impulso straordinario alle scienze e formarono attorno a lui una scuola di filosofi naturali Castelli Cavalieri Torricelli Borelli Viviani illustri non solo per valore scientifico ma per bontà di scrivere. Veniva il mondo di cui erano stati precursori incompresi e perseguitati Alberto Magno e Ruggiero Bacone: Galileo ripigliava la bandiera con miglior fortuna. E l'Italia maestra di Europa nelle lettere e nelle arti aveva ancora il primato nelle scienze positive o come dicevasi nella “filosofia naturale”. Qui venivano ad imparare gli stranieri; qui Copernico imparava il moto della terra e qui imparava Harvey la circolazione del sangue. Qui sorgeva l'accademia del Cimento dove “provando e riprovando” si studiava la natura. Geografia astronomia anatomia medicina botanica ottica meccanica geometria algebra ebbero qui i loro primi cultori e propagatori. Tra gli scrittori giova mentovare Francesco Redi in cui fa la sua ultima comparsa il toscano già finito e chiuso in sè e Lorenzo Magalotti di una limpidezza già vicina alla forma moderna.

Altro fu il fato del Campanella. Come Bruno è un naturalista e crede che la filosofia non si possa fondare che su' fatti. Onde Galileo tirava questa conseguenza che dunque bisognava prima studiare i fatti. In tanta scarsezza di fatti naturali morali sociali ed economici in tante lacune delle scienze positive filosofare significava foggiarsi un mondo a modo degli antichi filosofi greci con l'immaginazione divinatrice ed avere per risultato l'ipotetico e il probabile anzi che il certo e il vero. Questo pensava Galileo non è scienza. Pure è chiaro che una certa idea del mondo l'avevano anche i filosofi naturali e che quel medesimo porre le fondamenta della scienza sull'osservazione e tagliarne fuori le credenze e le fantasie era già mettere in vista un mondo metafisico tutto nuovo il naturalismo la natura fatta centro di gravità dello scibile a spese del Dio astratto o per parlare secondo quei tempi Dio fatto visibile e conoscibile nella natura un Dio intimo e vivo. Questo era il significato stesso di quel movimento che tirava gli spiriti dalle astrazioni scolastiche alla investigazione de' fatti naturali; e Bruno e Campanella non fecero che dare a quel movimento la sua coscienza metafisica e fondarvi sopra tutta una filosofia. Se necessario fu Galileo non fu meno necessario Bruno e Campanella. Un nuovo mondo si formava una nuova filosofia era in vista all'orizzonte con lineamenti abbozzati appena e vacillanti. Era quella sintesi poetica e provvisoria preludio della scienza il presentimento e la divinazione dell'ultima sintesi risultato di una lunga analisi e corona della scienza. Quella prima sintesi te la dànno Bruno e Campanella appassionatissimi degli antichi filosofi greci a cui rassomigliavano.

È una sintesi inorganica e contraddittoria. E la contraddizione è ancora più accentuata in Campanella che in Bruno. Trovi in lui scienze occulte e scienze positive soprannaturale e naturale medio evo e Rinascimento tradizione e ribellione assolutismo e libertà cattolicismo e razionalismo e mentre combatte come Bruno le credenze e le fantasie nessuno più di lui dommatizza e fantastica. Pongono in opera tutto quel materiale che hanno innanzi mancando ancora quel lavoro di eliminazione e di analisi senza il quale è impossibile la composizione. Hanno fede nell'ingegno e si mettono all'opera con l'ardore di una speciale vocazione si sentono attirati da una forza fatale verso quelle alte regioni verso l'infinito o il divino a rischio di perdervisi. Ciò che ispira a Bruno o all'anonimo autore questo sublime sonetto:

Anche Campanella è poeta e si sente la stessa vocazione. Si chiama “luce tra l'universale ignoranza” “fabbro di un mondo nuovo” “Prometeo che rapisce il fuoco sacro a Giove”:

Campanella avea vivo il sentimento di un mondo nuovo che si andava formando e ci vedea in fondo ultimo termine una rediviva età dell'oro l'attuazione del divino sulla terra il regno di Dio invocato nel “paternostro” quel mondo della pace e della giustizia appresso al quale sospirava Dante e molti nobili intelletti Bruno rimane nelle generalità metafisiche. Campanella abbraccia l'universo nelle sue più varie apparizioni e ti delinea tutto quel mondo ideale di cui spera l'effettuazione.

Nel suo sistema trovi complicati e combinati senza intima fusione tutti gl'indirizzi percorsi dalla moderna filosofia. Il punto di partenza è la coscienza di sè “io che penso sono” divenuto la base del sistema cartesiano. Questa è la sola cognizione innata occulta: tutto il resto è cognizione acquisita per mezzo de' sensi. Qui si sviluppa il sensismo di Telesio non solo come metodo ma come contenuto. Tutte le cose sono animate; il mondo stesso è “animal grande e perfetto”. In ciascuna cosa è la divina Trinità i tre princìpi o “primalità” com'egli dice potenza sapienza e amore. Ciascuna cosa che è può essere: ama il suo essere e lo ama perchè lo conosce ne ha una certa notizia. Perciò tutte le cose hanno senso. Lo spirito stesso è carne. L'animale pensa come l'uomo; ha fino la facoltà dell'universale. Ci si vede in germe Locke e tutto il sensismo moderno. Ma ci è una facoltà propria dell'uomo e negata all'animale il sentimento religioso. Perciò quando il corpo è formato vi entra l'anima che esce “fanciulla dalle mani di Dio” come dice Dante. L'anima è la facoltà del divino o come si direbbe oggi dell'assoluto. Ella ti dà la contemplazione di Dio. Non è ragione o dialettica questa facoltà dell'assoluto e nemmeno discorso o processo intellettivo (ciò che entra nella mente o visione di Bruno) ma è intuito estasi fede un ponte fatto alla rivelazione e alla teologia uno studio di conciliazione tra il medio evo e il mondo moderno. Qui vedi spuntare la moderna filosofia dell'assoluto nel suo doppio indirizzo razionalista e neocattolico. Tutte le idee e tutti gl'indirizzi che anche oggi agitano le coscienze fermentano nel suo cervello.

Come Bruno Campanella non ha il senso del reale e del naturale; e neppure ha il senso psicologico ancorchè parli spesso di coscienza e di esperienza e le faccia basi del suo filosofare. Aveva al contrario quella seconda vista propria degli uomini superiori facoltà da lui non scrutata non compresa e non disciplinata ch'egli confonde con l'estasi e col puro intuito e che lo gitta in braccio alla teologia al soprannaturale e alle scienze occulte. Cerca una conciliazione tra' due uomini che pugnavano in lui l'uomo di Telesio e l'uomo di san Tommaso e vi logora le sue forze senza riuscire ad altro che a mettere in maggior lume la contraddizione. Perciò il suo metodo rimane scolastico cumulo di argomenti astratti e la sua filosofia partendo da Telesio riesce a san Tommaso. Attendendo da Galileo la costruzione del mondo provvisoriamente crede all'astrologia e alla magia e oggi gli spiritisti e i magnetisti lo chiamano loro precursore.

Nelle applicazioni hai lo stesso uomo. Il mondo è atto della volontà di Dio: atto conforme al disegno o all'idea del mondo preordinato nella sua mente perciò conforme alla ragione. Dio dunque governa il mondo e per esso il papa che lo rappresenta in terra e il cui braccio è l'imperatore. Qui siamo con san Tommaso nel più puro medio evo ancora più indietro di Dante e di Machiavelli perchè l'elemento laico è sottoposto all'ecclesiastico. E si concepisce come il nostro filosofo se la prenda fra tutti col Machiavelli uomo “senz'alcuna specie di scienza e di filosofia semplice storico o empirico” che voleva fare della religione uno strumento dello Stato. Ma Campanella non si accorge ch'egli è più Machiavelli del Machiavelli perchè nessuno ha spinto così avanti l'annichilamento dell'individuo e l'onnipotenza dello Stato nella sua doppia forma ecclesiastica e laica. In quel tempo che la monarchia assoluta si sviluppava nella Spagna e nella Francia col favore e l'appoggio del papato egli era la voce dell'assolutismo europeo e ci mettea una sola condizione: che quell'assolutismo fosse il potere esecutivo del papa il braccio del papato. Hai il vecchio quadro del medio evo con tinte ancora più decise. Egli dice a Filippo: - I re sieno tuoi sudditi e la terra sia tua a patto che tu sii veramente “il cattolico” primo suddito della Chiesa. - Questa è la carta di alleanza fra il trono e l'altare. L'Italia ha perduto l'imperio del mondo nè ci si può più pensare perchè il passato non torna più; ma l'Italia si consolerà perchè ha nel suo seno il papato e per esso dominerà ancora il mondo. Che cosa è l'individuo in questo sistema? Nulla. Egli ha doveri non ha dritti. Non ha il dritto di scegliersi la sua donna di crearsi la sua proprietà di educare ed istruire la sua prole di mangiare di dormire di vivere a suo gusto di esaminare discutere accettare o rigettare: non può dire: - Questo è mio -; e non può dire: - No. - Il dritto è nella società e per essa nel papa e nell'imperatore. Hai per risultato il comunismo l'assolutismo della società e l'ubbidienza passiva dell'individuo. Il comunismo è in fondo a tutte queste teorie di monarchia universale e assoluta di dritto divino e Campanella va sino in fondo. Il che sempre avviene quando l'unità è posta fuori dell'umanità in una volontà a lei estrinseca e quando l'unità rimane astratta e tiene non in sè ma dirimpetto a sè il vario e il molteplice. In questa unità va a naufragare ogni particolare l'individuo la famiglia la nazione. Or questa è la filosofia sua questa è la sua “città del sole” la sua rediviva età dell'oro. Il quadro è vecchio ma lo spirito è nuovo. Perchè Campanella è un riformatore vuole il papa sovrano ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto perchè la ragione governa il mondo. Dio è il Senno eterno; il sovrano dee essere anche lui il sapientissimo di tutti. Non è re chi regge ma chi più sa. Il vero sovrano è la scienza. E l'obbiettivo della scienza è il progresso e il miglioramento dell'uomo. Si maraviglia come si studi a migliorare la razza cavallina o bovina e si lasci al caso e al capriccio individuale la razza umana. Egli ha fede nel miglioramento non solo morale ma fisico dell'uomo per mezzo della scienza applicata da un governo intelligente e paterno. E suggerisce provvedimenti sociali politici etici economici che sono un primo schizzo di scienza sociale nelle sue varie diramazioni ancora confuse guidato da una rettitudine e buon senso naturale con uno sguardo delle cose non nella loro degenerazione “come fecero Aristotile e Machiavelli” ma nella loro origine e purezza natia “come fecero Platone e gli stoici”. E balzan fuori idee utopie ipotesi speranze aforismi che sono in parte veri presentimenti e divinazioni del mondo nuovo.

Con tante novità in capo la società in mezzo a cui si trovava non gli dovea parere una bella cosa. Accetta le istituzioni ma a patto che le si trasformino e diventino istrumento di rigenerazione. Vuole un papato ed un monarcato progressista; ed è chiaro che a Filippo di Spagna poco garbasse trar di prigione un così pericoloso alleato un nuovo marchese di Posa.

Accanto alla sua ricostruzione ci è dunque un elemento negativo una critica della società com'era costituita. Il suo punto di mira sono sofisti ipocriti e tiranni come contraffattori e falsificatori delle tre primalità sapienza amore e potenza “di tre dive eminenze falsatori”:

Dal qual concetto nasce un magnifico sonetto sulla storia del mondo foggiata dall'amor proprio:

Se tutt'i mali sono frutto dell'ignoranza si comprende il suo entusiasmo per la scienza e per la sua missione. Il savio è invitto perchè vince anche se tu l'uccidi:

I guai più spandono suo nome e gloria e ucciso è adorato per santo; nè è sventura eh'ei sia nato di vil progenie e patria perchè illustra egli le sue sorti. Più è calpesto e più s'innalza:

La sua vita è antica quanto il mondo:

Il mondo è un teatro dove le anime mascherate de' corpi

In questa commedia universale l'uomo spesso segue più il caso che la ragione:

Principi veri sono i savi:

E se non fossero i savi che sarebbe il mondo?

La vera nobiltà nasce non dal sangue e non dalla ricchezza:

Il savio è re è nobile; il savio è libero. La plebe è serva per la sua ignoranza:

Quest'apoteosi della scienza è congiunta con un vivo sentimento del divino anzi la scienza non è che il divino il senno eterno che comunica alla natura i suoi attributi o primalità la potenza la sapienza e la bontà della quale segno esteriore è la bellezza. Tale era la natura nell'età dell'oro e tale ritornerà:

Base dell'età dell'oro è la fratellanza e uguaglianza umana l'amor comune sostituito all'amor proprio:

È ciò che direbbesi oggi “democrazia cristiana” un ritorno alla Chiesa primitiva di Lino e di Callisto a' puri tempi evangelici vagheggiati da Dante e da Campanella quando si mangiava in carità e non ci era ricco nè povero non mio e tuo. Avvezzo a guardare le cose nella loro origine e non nella loro degenerazione il sogno di Campanella è che il mondo “nel suo giro torni là ov'ebbe radice”. Il progresso è la ristaurazione del buon tempo antico. Bruno spregia l'età dell'oro stato d'innocenza alla quale contrappone la virtù. Innocenza è ignoranza virtù è sapienza. Ed è sapienza non infusa e comunicata dal di fuori ma prodotto della libera attività individuale. In questo sistema la libertà è sostanziale; l'ideale è il progresso per mezzo della libertà. In questi due grandi italiani spuntano già le due vie dello spirito moderno vedi il razionalista e il neocattolico. L'uno volge le spalle al passato l'altro cerca di trasformarlo e farsene leva per il progresso

Attendendo l'età dell'oro Campanella vede il mondo nella sua degenerazione grazie a' tiranni a' sofisti e agl'ipocriti. Tra' sofisti pone i poeti seminatori di menzogne:

mercè vostra poeti che cantate

Altrove li rampogna che in luogo di cantare Colombo e gli alti fatti moderni stieno impaludati nelle favole antiche. Nè gli è caro che sciupino l'ingegno in argomenti futili. Bellezza è segno del bene: bella ogni cosa è dove serve e quando e brutta dov'è inutile o mal serve e più s'annoia:

Ci s'intravvede la nuova critica che richiama gli spiriti dalle forme alle sostanze dalle parole alle cose dal di fuori al di dentro. Di che esempio è lui stesso che scrive cose nuove e alte nel più assoluto disprezzo della forma. La sua poesia nervosa rilevata succosa e insieme rozza e aspra è l'antitesi di quella letteratura vuota sofistica e leziosa venuta su col Marino.

Campanella scrisse infiniti volumi e de omnibus rebus. Nessuna parte dello scibile gli è ignota scienze occulte e naturali teologia metafisica astronomia fisica fisiologia. È un primo schizzo di enciclopedia un primo albero della scienza. Dovunque fissa lo sguardo vede o intravede cose nuove. Notabile è soprattutto l'interesse che prende per l'educazione e il benessere del popolo. La scienza fino allora è stata aristocratica religiosa e politica rimasta nelle alte cime più intenta al meccanismo sociale che al miglioramento dell'uomo. In lui si vede accentuata questa tendenza che i mutamenti politici sono vani se non hanno per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose. A questo scopo si riferiscono i suoi più bei concetti: la riforma delle imposte sì che non gravassero principalmente sugli artigiani e i villani toccando appena i cittadini o borghesi e niente i nobili; l'imposta sul lusso e su' piaceri; i ricoveri per gli invalidi; gli asili per le figliuole de' soldati; i prestiti gratuiti a' poveri sopra pegni le banche popolari gli impieghi accessibili a tutti un codice uniforme l'uniformità delle monete l'incoraggiamento delle industrie nazionali “più proficue che le miniere”. Lasciare le discussioni astratte le sottigliezze teologiche malattia del tempo e volgersi alla storia alla geografia allo studio del reale per migliorare le condizioni sociali questa è l'ultima parola di Campanella. La prima opera del filosofo egli dice è comporre la storia de' fatti. Ci è già la nuova società che si andava formando sulle rovine del regime feudale. Ci è tutto un rinnovamento sociale accompagnato quanto a' suoi procedimenti da questo motto profondo: che i moti umani durevoli “son fatti prima dalla lingua e poi dalla spada”; o in altri termini che la forza non può fondare niente di durevole quando non sia preceduta e accompagnata dal pensiero.

Ugual soffio spirava da Venezia. Centro già di lettere e di coltura con Pietro Bembo ora diveniva il centro italiano del libero pensiero. Celebre era la scuola materialista di Padova. La stessa indipendenza si sviluppava in materia politica. Di là all'Italia serva giungevano i liberi accenti di Paolo Paruta. Dal Machiavelli in poi pullulavano scritti politici sotto i nomi di Tesoro politico Principe regnante Segretario Chiave del gabinetto Ambasciatore Ragion di Stato guazzabuglio di luoghi comuni e di erudizione indigesta. I fatti più tristi vi sono giustificati la notte di san Bartolomeo e le stragi del duca d'Alba. Il che non toglie che tutti non se la prendano col Machiavelli accusandolo e insieme rubandogli i concetti. Fra gli altri è degno di nota il Botero nella sua Ragion di Stato dove combatte il Machiavelli e segue i suoi precetti applicandoli contro i novatori e gli eretici. Quel libro è il codice de' conservatori. A lui sembra che tutto sta benissimo come sta e che non rimane che a prender guardia contro le novità: “bonum est sic esse”. Nacque nel 1540 lo stesso anno che nasceva Paolo Paruta il più vicino di spirito e di senno a Nicolò Machiavelli. Mentre l'Italia sonnacchiava tra l'assolutismo papale e spagnuolo e si fondavano in Europa le monarchie assolute lo storico veneto scriveva che “tolta la libertà ogni altro bene è per nulla anzi la stessa virtù si rimane oziosa e di poco pregio”; che il vero monarca è la legge; e che “chi commette il governo della città alla legge lo raccomanda ad un Dio; chi lo dà in mano all'uomo lo lascia in potere di una fiera bestia”. “Nascere e vivere in città libera” è per lui l'ideale della felicità. Ne' suoi Discorsi politici trovi il successore di Machiavelli e il precursore di Montesquieu il senso pratico veneziano e l'acume fiorentino. Il sentimento politico era in lui contrastato dal sentimento religioso. Il dispotismo papale e spagnuolo base della restaurazione cattolica parevagli minaccioso alla libertà veneziana e non guardava senza speranza nel moto germanico dove gli pareva di trovare il contrappeso. La contraddizione era più profonda nella sua intelligenza dove ragione e fede contendevano senza possibilità di conciliazione. Nel suo Soliloquio s'intravedono quegli strazi interiori che amareggiarono ancora i primi anni del Tasso. La qual contraddizione non risoluta lo tiene in una certa mezzanità di spirito e gli toglie quella fisonomia di originalità e di sicurezza propria degli uomini nuovi. Non altre erano le condizioni morali dello spirito veneto in quel tempo di transizione. Erano buoni cattolici ma gelosi della loro libertà avversi alla Curia e soprattutto a' gesuiti già temuti per la loro abile ingerenza nelle faccende politiche nè erano disposti a tener vangelo tutte le massime della Chiesa specialmente in fatto di disciplina. Con queste disposizioni gli animi doveano essere accessibili alle dottrine della Riforma nè senza speranza i luterani aveano scelto Venezia come loro base di operazione per la diffusione dello scisma in Italia. Sorsero molti opuscoli e trattati in favore e contro; nè le dispute religiose poterono esser frenate dall'Inquisizione che in città così difficile procedea mite e rispettiva. Alle contensioni religiose si mescolavano contenzioni di giurisdizione tra il governo e il papa per le quali non dubitò Paolo V di fulminare l'interdetto su tutta la città che sortì un effetto contrario al suo intento rese ancora più viva e più tenace la lotta.

Il personaggio intorno a cui si raccoglie tutto questo movimento è Paolo Sarpi l'amico di Galileo e di Giambattista Porta e della stessa scuola. Teologo filosofo e canonista sommo non era meno versato nelle discipline naturali fisica astronomia architettura geometria algebra meccanica anatomia; a lui si attribuisce la scoperta della circolazione del sangue. Mescolato nella vita attiva non specula come Bruno e Campanella e non inventa come il Galileo ma scende nella lotta tutto armato e mette le sue cognizioni in servigio del suo patriottismo. Sceglie le sue armi con la sagacia dell'uomo politico anzi che con la passione del filosofo e del riformatore; perchè il suo scopo non è puramente filosofico o scientifico ma è pratico indirizzato a raggiungere certi effetti. Mira a interessare nella lotta i principi come facevano i protestanti sostenendo la loro indipendenza verso il potere ecclesiastico. Continuando Dante e Machiavelli nega al papa ogni potestà su' principi e vuole al contrario ricondurre i chierici sotto il dritto comune non altrimenti che semplici cittadini. Emancipare lo Stato secolarizzarlo assicurargli la sua libertà dirimpetto alla corte di Roma questo era un terreno comune dove spesso s'incontravano principi e riformatori. Paolo Sarpi ebbe il buon senso di mantenervisi con una chiarezza e fermezza di scopo assai rara in scrittore italiano. D'ingegno sveltissimo e di amplissima coltura non lascia tralucere delle sue idee se non quello solo che può avere un effetto pratico a quel tempo e in quella società usando una moderazione di concetti e di forme più terribile che non l'aperta violenza. Taglia nel vivo con un'aria d'ingenuità e di semplicità come chi ti faccia una carezza. Cinque volte si tentò di ammazzarlo; e all'ultima colpito dal ferro assassino esclamò: - Conosco lo stile della romana curia. -

La sua Storia del Concilio di Trento è il lavoro più serio che siasi allora fatto in Italia. Quel concilio era la base della restaurazione cattolica o piuttosto reazione e delle pretese della corte romana. Vi fu consacrato il potere assoluto del papa e la sua supremazia sul potere laicale. Ivi aveano radice i diritti giurisdizionali che curia e gesuiti cercavano di far valere negli Stati concitando contro di sè non solo i protestanti ma i principi cattolici. Era il medio evo rammodernato nella superficie di apparenze più corrette e meno rozze. Scrivere la storia di quel concilio e dimostrare la sua mondanità cioè a dire i fini le passioni e gl'interessi mondani che resero possibili quei decreti e prevalenti le opinioni estreme e violente era un attaccare il male nella sua base. A questa impresa si accinse il Sarpi. E se la passione politica fosse in lui soprabbondata tirandolo a violenza d'idee e di espressioni e a volontarie alterazioni e mutilazioni di fatti il suo scopo sarebbe mancato. La sua forza è nella sua moderazione e nella sua sincerità. Nè questo egli fa solo per sagacia di uomo politico ma per naturale probità e per serietà di storico e letterato. La storia nelle sue mani non è solo un istrumento politico: è un sacro ufficio che egli non sa prostituire alle passioni contemporanee e al quale si prepara con ogni maniera di studi e d'investigazioni. E qui è l'interesse di questo libro. Ha voluto scrivere una storia imparziale con sincerità e gravità di storico e riesce parzialissimo perchè l'uomo con le sue passioni con le sue simpatie e antipatie co' suoi fini politici con le sue opinioni traspare da ogni parte e si fa valere. La parzialità non è volontaria e non è nella materialità de' fatti ma è nello spirito nuovo che vi penetra non solo nella sua generalità dottrinale ma nelle sue più concrete determinazioni politiche ed etiche. Non ci è autorità che tenga; Sarpi studia tutto sente tutti; ma decide lui. L'autorità legittima è nella sua ragione. Il suo ideale è la Chiesa primitiva e evangelica sgombra di ogni temporalità e non di altro sollecita che d'interessi spirituali. Condanna soprattutto la gerarchia “nata di ambizione papale e d'ignoranza de' principi”. Nè per questo fra Paolo si crede men cattolico del papa anzi è lui che vuole una vera restaurazione cattolica riconducendo la religione nella prisca sincerità e bontà e rendendo possibile quella conciliazione fra tutte le confessioni che dovea essere procurata e fu impedita dal Concilio. Perciò chiama il Concilio l'“Iliade del secolo” per i mali effetti che ne uscirono e la sua opera giudica non una riforma ma una “difformazione”. Qual era la riforma da lui desiderata traspare da' concetti che attribuisce a quel buon papa di Adriano sesto “uomo germano e pertanto sincero che non trattava con arti e per fini occulti” il quale confessava il male esser nato dagli abusi e dalle usurpazioni della monarchia romana e prometteva piena riforma “quando anche avesse dovuto ridursi senza alcun dominio temporale e anco alla vita apostolica”.

Grande è in questo libro l'armonia tra il contenuto e la forma. Il concetto fondamentale del contenuto è questo che come la verità è nella sostanza delle cose non nei loro accidenti e apparenze così la religione ha la sua essenza nella bontà delle opere e non nella osservanza delle forme o nelle concessioni e grazie pontificie e parimente non è la diligente narrazione de' peccati ma il proposito di mutar vita che assicura efficacia alla confessione. Questo è lo stesso concetto dello spirito nuovo che già adulto dalla moltiplicità delle forme e degli accidenti saliva all'unità e alla sostanza delle cose. È lo spirito che animava Machiavelli Bruno Campanella e Galileo e Sarpi e che in questa Storia penetra anche nella forma letteraria. Perchè qui la forma non è niente per sè e non è altro che la cosa stessa liberata da ogni elemento fantastico e rettorico è il positivo e il reale proprio l'opposto della letteratura in voga. Il Pallavicino che per commissione della Curia scrisse una storia del Concilio in confutazione di questa dice: “Il fuoco delle ribellioni non si smorza se non o col gielo del terrore o con la pioggia del sangue”. Dice cosa gravissima con lo spirito distratto dalla forma cercando metafore. Qui la forma non è espressione ma ostacolo; nè da questi lisci può venire la grave impressione che pur dee fare sullo spirito un pensiero così feroce base dell'Inquisizione. Sarpi fa dire il medesimo a papa Adriano; nella forma vi penetra una energia e una precisione di colorito che ti rende la cosa nella sua crudeltà e insieme nella sua ragionevolezza. Ci è la cosa come sentimento e come idea.

“Se non potranno con le dolcezze - dice Adriano a' principi tedeschi - ridur Martino e i suoi seguaci nella dritta via vengano a' rimedi aspri e di fuoco per risecare dal corpo i membri morti.”

Si vede nel Pallavicino la vanità della forma nella indifferenza del contenuto; si vede nel Sarpi l'importanza del contenuto nella indifferenza della forma una forma che è il contenuto stesso nel suo significato e nella sua impressione. Trovi in lui una elevatezza d'ingegno che gli fa spregiare i lenocini e gli artifizi letterari una viva preoccupazione delle cose una chiarezza intellettiva accompagnata con un vigore straordinario d'analisi e quel senso della misura e del reale che lo tien sempre nel vivo e nel vero. Aggiungi l'assoluta padronanza della materia la conoscenza de' più intimi secreti del cuore umano la chiara intuizione del suo secolo e della società in mezzo a cui viveva ne' suoi umori nelle sue tendenze e ne' suoi interessi e si può comprendere come sia venuta fuori una prosa così seria e così positiva. L'attenzione volta al di dentro e non curante della superficie ti forma un'ossatura solida una viva logica maravigliosa per precisione e rilievo ma scabra e ruvida.

Manca a questa prosa quell'ultima finitezza che viene dalla grazia dalla eleganza dalle qualità musicali. È il difetto della sua qualità più spiccato in lui non toscano e con l'orecchio educato più alla gravità latina che alla sveltezza del dialetto natio.

Machiavelli Bruno Campanella Galileo Sarpi non erano esseri solitari. Erano il risultato de' tempi nuovi gli astri maggiori intorno a cui si movevano schiere di uomini liberi animati dallo stesso spirito. Cosa volevano? Cercare l'essere dietro il parere come dicea Machiavelli; cercare lo spirito attraverso alle forme come dicea la Riforma; cercare il reale e il positivo e non ne' libri ma nello studio diretto delle cose come dicea Galileo; o come diceano Bruno e Campanella cercare l'uno attraverso il molteplice cercare il divino nella natura. Sono formole diverse di uno stesso concetto. Riformati e filosofi nelle loro tendenze s'incontravano su di un terreno comune. Camminavano con disugual passo; molti erano innanzi troppo; altri restavano a mezza via; ma per tutti la via era quella. Volevano squarciar le forme addensate dalla superstizione e dalla fantasia e fatte venerabili e guardare le cose svelate nella loro sostanza o realtà guardarle col proprio sguardo col lume naturale. La lotta contro Aristotile e gli scolastici contro le forme e le dottrine ecclesiastiche contro le “intrusioni umane” nella Chiesa contro i simboli le fantasie i dogmi il soprannaturale era il lato negativo di questo movimento. Lato positivo era il reale come metodo e come contenuto: l'uomo e la natura studiati direttamente dall'intelletto prendendo per base l'esperienza e l'osservazione. Paolo Sarpi trasportava la lotta dalle generalità filosofiche in mezzo agl'interessi dove potea aver favorevoli i principi e i popoli: perciò fu più temuto ed ebbe più influenza.

Se la ristaurazione cattolica fosse stata vera e ragionevole restaurazione cioè a dire conciliazione come volea il Sarpi e come fantasticava il Campanella si sarebbe assimilato il nuovo in ciò che era pratico e compatibile. Ma la storia non si fa co' “se” nè col senno di poi. Il movimento era ancora nella sua forma istintiva nel suo stato violento e contraddittorio. D'altra parte la Chiesa più che da sentimenti e convinzioni religiose era mossa da interessi mondani e da passioni politiche. Perciò la restaurazione si chiarì un'aperta reazione. Nessuno di queste condizioni morbose ha avuto una intelligenza più chiara che Paolo Sarpi. Ecco alcuni brani delle sue pitture:

“Le pene canoniche erano andate in disuso perchè mancato il fervore antico non si potevano più sopportare... Il presente secolo non era simile a' passati ne' quali tutte le deliberazioni della Chiesa erano ricevute senza pensarci più oltre là dove nel presente ognuno vuol farsi giudice ed esaminar le ragioni... Il rimedio è appropriato al male ma supera le forze del corpo infermo ed in luogo di guarirlo sarebbe per condurlo a morte e pensando di riacquistar la Germania farebbe perdere l'Italia ed alienare quella maggiormente.”

Così parlava il cardinale Pucci per dissuadere Adriano sesto che voleva a forza di pene canoniche sradicare le idee nuove e ricondurre

“l'aureo secolo della Chiesa primitiva nel quale i prelati avevano assoluto governo sopra i fedeli non per altro se non perchè erano tenuti in continuo esercizio colle penitenze; dove ne' tempi che corrono fatti oziosi vogliono scuotersi dall'ubbidienza”.

 

 Del qual parere era anche il cardinale fra Tommaso da Gaeta a cui il Sarpi fa dire:

 

“Il popolo germanico che sepolto nell'ozio presta orecchio a Martino che predica la libertà cristiana se fosse con penitenze tenuto in freno non penserebbe a questa novità.”

Oltre a questo rimedio delle penitenze il buono Adriano voleva una seria riforma quando anche dovesse lasciare il potere temporale. Ma contro gli ragiona il cardinale Soderino in questo modo:

“Non esservi speranza di confondere ed estirpare i luterani colla correzione de' costumi della Corte; anzi questo essere un mezzo di aumentare a loro molto più il credito. Imperocchè la plebe che sempre giudica dagli eventi quando per l'emenda seguita resterà certificata che con ragione il governo pontificio era ripreso in qualche parte si persuaderà facilmente che anco le altre novità proposte abbiano buoni fondamenti... In tutte le cose umane avviene che il ricevere soddisfazione in alcune richieste dà pretensione di procacciarne altre e di stimare che sieno dovute. Nissuna cosa far perire un governo maggiormente che il mutare i modi di reggerlo; l'aprire vie nuove e non usate essere un esporsi a gravi pericoli e sicurissima cosa essere camminare per li vestigi de' santi pontefici. Nissuno avere mai estinto l'eresie con le riforme ma con le crociate e con eccitare i prencipi e popoli all'estirpazione di quelle.”

Quel bravo cardinale ammette che ci è del cattivo; ma non bisogna toccarvi per non dar ragione agli avversari. E all'ultimo riserba il più prezioso la ragione più efficace:

“Nissuna riforma potersi fare la quale non diminuisca notabilmente l'entrate ecclesiastiche; le quali avendo quattro fonti uno temporale le rendite dello Stato ecclesiastico gli altri spirituali le indulgenze le dispense e la collazione de' beneficii non si può otturare alcuno di questi che le entrate non restino troncate in un quarto.”

Adriano conchiuse che farebbe le riforme passo a passo: il qual sistema moderato non piacque a' tedeschi i quali rispondevano motteggiando che da un passo all'altro sarebbe corso un secolo. Si può immaginare quale impressione dovessero fare su' contemporanei queste rivelazioni di Paolo Sarpi che metteva in tanta evidenza i motivi mondani e politici della ristaurazione cattolica.

La quale essendo aperta reazione fondavasi sopra idee e tendenze affatto opposte alle altre. Questi proclamavano l'indipendenza e la forza della ragione quelli la sua incompetenza e la sua debolezza. Questi celebravano la coltura e la scienza quelli stavano con la pura fede co' poveri di spirito e con i semplici di cuore. Gli uni si fondavano sull'esperienza e sull'osservazione; gli altri sulla rivelazione e sull'autorità di Aristotile degli scolastici de' santi Padri e de' dottori. Gli uni facevano centro de' loro studi la natura e l'uomo; gli altri sottilizzavano sugli attributi di Dio sulla predestinazione e sulla grazia. Gli uni volevano togliere alla Chiesa ogni temporalità e semplicizzare le forme ed il culto; gli altri volevano mantenere inviolate tutte le forme anche le assurde e le grottesche e non che rinunziare al temporale ma volevano dilatare la loro ingerenza e il loro dominio prendendo a base il potere assoluto del papa e la sua supremazia anche nelle cose temporali. Fin d'allora valse il motto: “Aut sint ut sunt aut non sint”; o vivere così o morire.

Questa reazione così cieca sarebbe durata poco se non fosse stata sorretta dalla tenace abilità de' gesuiti la milizia del papa. I quali doma l'aperta ribellione co' terrori dell'Inquisizione vollero guadagnare alla restaurazione anche le volontà e le coscienze mostrando in questo assunto una conoscenza degli uomini e del secolo e un'arte di governo che li resero degni continuatori della politica medicea. Persuasi che governa il mondo chi più sa coltivarono gli studi e si sforzarono di mantenere il primato del clero nella coltura. Non potendo estirpare in tutto il nuovo accettarono la superficie e vestirono la società a nuovo per meglio conservare il vecchio. Presero dunque aria di uomini colti e liberali scossero da sè la polvere scolastica e per meglio vincere il laicato presero ne' modi e ne' tratti apparenze più laicali che fratesche confidandosi di abbatterlo con le sue armi. Divenuti amici e protettori de' letterati e fautori della coltura apersero scuole e convitti e presero nelle loro mani l'istruzione e l'educazione pubblica. Non mancarono i teatrini le commedie le accademie altre imitazioni degli usi laicali. La superficie era la stessa lo spirito era diverso. Perchè dove gli uomini nuovi miravano a tirare l'attenzione dal di fuori al di dentro dagli accidenti e dagli accessorii al sostanziale dalle forme allo spirito essi miravano a coltivare la memoria ad allettare i sensi e l'immaginazione più che l'intelletto a trattenere l'attenzione sulla superficie sì che l'intelligenza fra tante cognizioni empiriche rimaneva passiva e vuota: onde usciva una coltura mezzana e superficiale più simile ad erudizione che a scienza. Al che si accomodava facilmente la tempra fiacca de' più contenti di quello spolvero che dava loro un'aria di nuovo l'aria del secolo e così a buon mercato. I gesuiti vennero in moda sfogandosi i mali umori del secolo sopra gli altri ordini religiosi come restii ad ogni novità. Il loro successo fu grande perchè in luogo di alzare gli uomini alla scienza abbassarono la scienza agli uomini lasciando le plebi nell'ignoranza e le altre classi in quella mezza istruzione che è peggiore dell'ignoranza. Parimente non potendo alzare gli uomini alla purità del Vangelo abbassarono il Vangelo alla fiacchezza degli uomini e costruirono una morale a uso del secolo piena di scappatoie di casi di distinzioni un compromesso tra la coscienza e il vizio o come si disse una doppia coscienza. E nacque la dottrina del “probabilismo” secondo la quale un “doctor gravis” rende probabile un'opinione e l'opinione probabile basta alla giustificazione di qualsiasi azione nè può un confessore ricusarsi di assolvere chi abbia operato secondo un'opinione probabile. Un giudice dice un dottore può decidere la causa a favore dell'amico seguendo un'opinione probabile ancorchè contraria alla sua coscienza. Un medico dice un altro dottore può con lo stesso criterio dare una medicina ancorchè egli opini che farà danno. Richiedono sola cautela che non ci sia scandalo e non già perchè la cosa sia in sè cattiva ma per il pregiudizio che ne può venire.

Questa morale rilassata era favorita da un'altra teoria “directio intentionis” formulata a questo modo che un'azione cattiva sia lecita quando il fine sia lecito. È la massima che il fine giustifica i mezzi applicata non solo alle azioni politiche ma alla vita privata. Non è peccato annegare in un fiume un fanciullo eretico per battezzarlo. Uccidi il corpo ma salvi l'anima. Non è peccato uccidere la donna che ti ha venduto l'onore quando puoi temere che svelando il fatto noccia alla tua riputazione.

E all'ultimo viene la dottrina “reservatio et restrictio mentalis”. Il giuramento non ti lega se tu usi parole a doppio senso rimanendo a te l'interpretazione o se aggiungi a bassa voce qualche parola che ne muti il senso. Non è bugia dice un dottore usare parole doppie che tu prendi in un senso ancorchè gli altri le prendano in un senso opposto. E non è bugia dire una cosa falsa quando nel tuo pensiero intendi altro. Hai ammazzato il padre; pure puoi dire francamente: - Non l'ho ammazzato - quando dentro di te pensi a un altro che realmente non hai ammazzato o ci aggiungi qualche riserva mentale come: - Prima ch'egli nascesse non l'ammazzai di certo. - Questa scaltrezza aggiunge il dottore è di grande utilità porgendoti modo di nascondere senza bugia quello che hai a nascondere.

Vedi quante scappatoie! E ce n'era per tutt'i casi. In quell'arsenale trovi come puoi senza peccato non andare talora a messa o spendervi poco tempo o durante la messa conversare o andando a messa guardare le donne con desidèri amorosi. Se vuoi rimanere in buon concetto presso il tuo confessore scegli un altro quando abbi commesso qualche peccato grave. E se ti pesa il dirlo usa parole doppie o fa una confessione generale per gittarlo così alla rinfusa nella moltitudine de' peccati vecchi.

Ciascuno immagina con quella facile scienza con quella più facile morale che seguito e che favore dovettero avere i gesuiti maestri confessori predicatori missionari scrittori uomini di mondo e di chiesa. Seppero conoscere il secolo e lo dominarono. E mantennero il dominio con l'energia e la logica della loro volontà. Salirono a tanta potenza che ingelosirono i principi e posero talora in sospetto anche i papi. Prendendo a base l'ubbidienza passiva di modo che l'uomo dirimpetto al suo superiore fosse “perinde ac cadaver” stabilirono la monarchia assoluta. Ma volevano che il papa dominasse i principi e volevano loro dominare il papa.

I principi si difendevano offendendo e cercando fino un sostegno nelle idee nuove. Così Paolo Sarpi difendeva la libertà di Venezia. La lotta era disuguale perchè alle armi spirituali era scemata la riputazione e i principi avevano guadagnata tutta quella forza ch'era mancata a' feudi ed a' comuni. I gesuiti allora non trasandando le armi puramente ecclesiastiche operarono principalmente come un corpo politico e seppero maneggiare le armi mondane con una tenacità uguale alla destrezza. Presero aria di democratici e cercarono forza ne' popoli contro i principi. Fin dal 1562 Lainez il secondo generale de' gesuiti sosteneva nel Concilio di Trento che la Chiesa ha le sue leggi da Dio ma la società ha il dritto di scegliersi essa il suo governo. Il cardinale Bellarmino sostiene che il potere politico è da Dio; ma il dritto divino è non ne' singoli uomini ma nella intera società non ci essendo nessuna buona ragione che uno o molti debbano comandare agli altri; che monarchia aristocrazia repubblica sono forme che derivano dalla natura dell'uomo; e che perciò quando ci è alcuna legittima ragione può il popolo mutare la sua forma di governo come fecero i romani. Ecco già spuntare la “sovranità del popolo” e il “dritto dell'insurrezione”. Mariana vuole la monarchia ma a patto che ubbidisca al consiglio de' migliori cittadini raccolti in senato. Era spagnuolo e scriveva sotto Filippo terzo che tenea Campanella nelle prigioni di Napoli. Non ammette il dritto ereditario “nato dalla troppa possanza de' re e dalla servilità de' popoli” e causa di tanti mali non ci essendo niente più mostruoso che “commettere le sorti di un popolo a fanciulli ancora in culla e al capriccio di una donna”. Re che offende i dritti de' popoli e disprezza la religione è come una bestia feroce e “ciascuno gli può metter le mani addosso”. I dritti di successione non possono esser mutati che col consenso del popolo; perchè “dal popolo viene il dritto della signoria”. Il re ha il suo potere dal popolo; perciò “non è signore dello Stato o de' singoli individui ma un primo magistrato pagato da' cittadini”. Il re non può da solo porre le tasse fare leggi scegliersi il successore; perchè “le son cose che interessano non solo il re ma anche il popolo”. Il re è sottoposto alle leggi e quando le viola il popolo ha il dritto “di deporlo e punirlo con la morte”. Queste erano le risposte che davano a' principi i gesuiti. Ma erano armi a doppio taglio. Perchè si potea loro rispondere che se il dritto di signoria è non ne' singoli individui ma nella universalità de' cittadini quel dritto nelle faccende ecclesiastiche è non nel papa ma nella Chiesa o universalità de' fedeli e per essa nel concilio che può perciò deporre e anche punire il papa. Che cosa diveniva allora il loro papa il vicario di Dio? Essi erano repubblicani dirimpetto allo Stato ed assolutisti dirimpetto alla Chiesa. E per dire la verità si mostravano repubblicani per meglio dominare i principi ed erano assolutisti per avere tutto il potere nelle loro mani. Nè voglio dir già che i loro scrittori erano di mala fede anzi moltissimi erano sinceri credenti e patrioti primo fra tutti Mariana. Parlo de' capi più uomini politici che uomini di fede.

Dicono che corruppero e infiacchirono i popoli. Il che è così poco giusto come dire che Marino corruppe il gusto. Furono effetto e causa. Furono il cattolicismo rammodernato accomodato possibilmente a' nuovi tempi per meglio conservarlo nella sua sostanza; furono l'intelletto che succede alla fede e all'immaginazione e si affida più nell'arte del governo che nelle passioni e nella violenza l'intelletto spinto sino alla sua ultima depravazione sofistico e seicentistico; nacquero da quello stesso spirito che portò sulla scena del mondo Machiavelli. Perciò furono un progresso un naturale portato della storia. La loro responsabilità è questa che trovando nel secolo fiacchezza e ignoranza non lavorarono a combatterla per migliorare l'uomo anzi la favorirono e se ne fecero piedistallo. Torto di tutte le reazioni. Vollero una coltura con licenza de' superiori e stretta in pochi. E quando la coltura rotte le dighe si diffuse finì il loro regno.

La diffusione della coltura era visibile in Italia. E non parlo solo delle scienze esatte e naturali dove i gesuiti si mostrarono valentissimi seguendo anche loro la via aperta da Galileo ma pur delle scienze storiche e sociali. L'abbondanza dell'oro per la scoperta dell'America e la crisi monetaria die' occasione a' primi scritti di economia il Discorso sopra le monete e la vera proporzione fra l'oro e l'argento di Gaspare Scaruffi che propugnava come Campanella l'uniformità monetaria; e il trattato sulle Cause che possono fare abbondare i regni di oro e d'argento di Antonio Serra di Cosenza scritto alla Vicaria dove l'autore come complice di Campanella era tenuto prigione. Moltiplicarono i trattati di giurisprudenza massime nella seconda metà del secolo. Alberico Centile nel suo libro De iure belli fa già presentire Grozio e gli è vicino per forza speculativa Alessandro Turamini che scrisse De Pandectis. Tra gl'interpreti del dritto romano sono degni di nota l'Alciato l'Averani il Farinaccio il Fabro. Fondatori della storia del dritto furono il “gran” Carlo Sigonio come lo chiama Vico e il Panciroli maestro del Tasso.

Pubblicarono lavori non dispregevoli di cronologia l'Allacci il Riccioli il Vecchietti. Comparivano storie venete napolitane piemontesi pisane il Nani il Garzoni il Summonte il Capecelatro il Tesauro il Roncioni: cronache più che storie volgari di sentimento e di stile. In Roma naturalmente si sviluppava l'archeologia. Il Fabretti di Urbino scrivea degli Acquidotti romani e della Colonna traiana e pubblicava in otto serie quattrocentotrenta iscrizioni dottamente illustrate. Moltiplicavano le compilazioni le raccolte come sussidio agli studiosi. Il Zilioli scrisse l'Indice di tutt'i libri di dritto pontificio e cesareo e il Ziletti in ventotto volumi il trattato Iuris universi. Avevi già annali giornali biblioteche cataloghi e simili mezzi di diffusione. Vittorio Siri aveva pubblicato il Mercurio politico e le Memorie recondite l'Avogadro il Mercurio veridico. Il Nazzari cominciò a Roma nel 1668 il Giornale de' letterati e il Cinelli pubblicava la Biblioteca volante una specie di storia letteraria. Comparivano gli Annali del Baronio le Vite de' pàpi e cardinali del Ciacconio la Storia generale de' concili di monsignor Battaglini la Storia delle eresie del Bernini la Napoli sacra di Cesare Caracciolo e la Sicilia sacra del Pirro liste e notizie di vescovi la Miscellanea italica erudita del padre Roberti la Bibliotheca selecta e l'Apparatus sacer del gesuita Possevino il Mappamondo storico del padre Foresti continuato da Apostolo Zeno un primo tentativo di storia universale. Aggiungi relazioni come la Descrizione della Moscovia del Possevino i viaggi del Carreri napolitano che nel 1698 compì a piedi il giro del mondo la Relazione dello Zani bolognese che fu in Moscovia le Lettere del Negri da Ravenna che giunse fino al capo Nord la descrizione delle Indie del fiorentino Sassetti che primo die' notizia della lingua sanscrita. Si conoscea meglio il mondo e meglio i popoli stranieri. Pietro Maffei da Bergamo scrivea in elegante latino delle Indie orientali il Falletti ferrarese della Lega di Smalcalda il Bentivoglio in lingua artificiata e falsamente elegante delle Guerre di Fiandra il Davila con semplicità trascurata delle Guerre civili di Francia il padre Strada prolissamente delle cose belgiche. A questa coltura empirica e di mera erudizione partecipavano tutti laici e chierici uomini nuovi e uomini vecchi e i gesuiti vi si mostravano operosissimi: si pensava poco ma s'imparava molto e da molti. La coltura guadagnava di estensione ma perdeva di profondità. Chi avesse allora guardata l'Italia con occhio plebeo potea dirla una terra felice. Rivoluzione e guerra aveano abbandonato le sue contrade: piena pace tranquilli gli spiriti in riposo il cervello. Le piccole cose vi erano avvenimenti: l'Inghilterra aveva Cromwell ella avea Masaniello. L'Europa camminava senza di lei e fuori di lei tra guerre e rivoluzioni nelle quali si elaborava e si accelerava la nuova civiltà. Lei giaceva beata in quel dolce ozio idillico che era il sospiro e la musa de' suoi poeti. Dalle guerre di Alemagna usciva la libertà di coscienza dalle rivoluzioni inglesi usciva la libertà politica dalle guerre civili di Francia usciva la potente unità francese e il secolo d'oro la monarchia di Carlo quinto e di Filippo secondo si andava ad infrangere contro la piccola nazionalità olandese. L'Italia assisteva a questi grandi avvenimenti senza comprenderli. Davila e Bentivoglio ci pescavano intrighi e fattarelli curiosi la parte teatrale. E sì che tra quegli avvenimenti ci erano pure grandi attori italiani Caterina de' Medici Mazzarino Eugenio di Savoia Montecuccoli il cui trattato della guerra è una delle opere più serie scritte a quel tempo. Si combatteva non solo con la spada ma con la penna: le quistioni più astratte interessavano ed infiammavano le moltitudini; dall'attrito scintillavano nuovi problemi e nuove soluzioni; era una generale fermentazione d'idee e di cose. Ciò che fermentava nel cervello solitario di Bruno e di Campanella fluttuante contraddittorio lì era pensiero stimolato dalla passione affinato dalla lotta pronto all'applicazione in un gran teatro fra tanta eco con una chiarezza e precisione di contorni come fosse già cosa. Questa chiarezza è già intera in Bacone e in Cartesio dove il mondo moderno si scioglie da tutti gli elementi scolastici e mistici da tutti i preconcetti e si afferma in forme nette e recise. Perciò Galileo Bacone Cartesio sono i veri padri del mondo moderno la coscienza della nuova scienza. Il metodo che Galileo applicava alle scienze naturali diviene nelle mani di Bacone il metodo universale e assoluto la via della verità in tutte le sue applicazioni: l'induzione caccia via il sillogismo e l'esperienza mette in fuga il soprannaturale. Cartesio col suo “de omnibus dubitandum” riassume il lato negativo del nuovo movimento togliendo ogni valore all'autorità e alla tradizione - e col suo “cogito ergo sum” pone la prima pietra alla costruzione dell'edificio inizia l'affermazione. Come la Riforma così Cartesio pone a fondamento della coscienza il senso individuale; e come Galileo stabilisce il mondo naturale su' fatti così egli stabilisce il mondo metafisico su di un fatto “io penso”. All'esperienza esterna si aggiunge l'esperienza interna l'analisi psicologica. L'ente ch'era il primo filosofico qui è un prodotto della coscienza un “ergo”. L'evidenza innanzi a' sensi e innanzi alla coscienza il senso interno è il criterio della verità. Cartesio che era un matematico introduce nella filosofia la forma geometrica credendo che in virtù della forma entrasse nel mondo metafisico quella evidenza ch'era nel mondo matematico. Era un'illusione il cui benefizio fu di cacciar via definitivamente le forme scolastiche e aprire la strada a quella forma naturale di discorso di cui Machiavelli avea dato esempio ed egli medesimo nel suo ammirabile Metodo. Queste idee non erano nuove in Italia anzi erano volgari a tutti gli uomini nuovi; ma naufragate in vaste sintesi immature e senza eco rimanevano sterili. Qui le vedi a posto staccate rilevate formulate con chiarezza ed energia e parvero una rivelazione. D'altra parte Cartesio ebbe cura di non rompere con la fede e di accentuare la natura spirituale dell'anima e la sua distinzione dal corpo base della dottrina cristiana sì che dicea parergli meno sicura l'esistenza del corpo che quella dello spirito; oltre a ciò con le sue idee innate lasciava aperto un varco alla teologia e al soprannaturale. Così egli ti dava la prima filosofia nuova che sembrasse conciliabile con la religione in un tempo che per l'infanzia della critica e della coscienza non era facile pesare tutte le sue conseguenze. Perciò come la Riforma religiosa la sua riforma filosofica ebbe un gran successo; perchè le riforme efficaci son quelle che prendono una forma meno lontana dal passato e dallo stato reale degli spiriti. Aggiungi la sua superficialità l'estrema chiarezza la forma accessibile quel presentar poche idee e nette innanzi alle moltitudini: si rivelava già lo spirito francese volgarizzatore e popolare. La conseguenza naturale della riforma era questa che l'uomo rientrava in grembo della natura diveniva una parte della storia naturale. Posto che la filosofia ha la sua base nella coscienza lo studio della coscienza o de' fatti psicologici diveniva la condizione preliminare di ogni metafisica come lo studio della natura diveniva l'antecedente di ogni cosmologia. Il mondo usciva dalle astrazioni degli universali ed entrava in uno studio serio dell'uomo e della natura nello studio del reale. Per questa via modesta e concludente si era messo Galileo; di là uscivano i grandi progressi delle scienze positive. Cartesio applicava alla metafisica gli stessi procedimenti della filosofia naturale togliendola di mezzo al soprannaturale al fantastico all'ipotetico e dandole una base sicura nell'esperienza e nell'osservazione. Ma i fatti psicologici erano ancora troppo scarsi e superficiali perchè ne potesse uscire una soluzione de' problemi metafisici e l'Europa era ancora troppo giovane troppo impregnata di teologia e di metafisica di misteri e di forze occulte perchè potesse aver la pazienza di studiare i dati de' problemi prima di accingersi a risolverli. Le “idee innate” e i “vortici” di Cartesio la “visione di Dio” di Malebranche la “sostanza unica” di Spinosa l'“armonia prestabilita” di Leibnizio erano teodicee ipotetiche e provvisorie che appagavano il pensiero moderno abbandonato a se stesso e attestavano il suo vigore speculativo. Ma l'impulso era dato e fra quelle immaginazioni progrediva la storia naturale dell'intelletto umano la scienza dell'uomo. Le meditazioni di Cartesio i maravigliosi capitoli di Malebranche sull'immaginazione e sulle passioni i Pensieri di Pascal dove l'uomo in presenza di se stesso si sente ancora un enigma preludevano al Saggio sull'intelletto umano di Giovanni Locke l'erede di Bacone di una grandezza eguale alla sua modestia. Ivi la riforma cartesiana aveva la sua ultima espressione il suo punto di fermata; ivi la filosofia trovava il suo Galileo realizzava l'ideale del suo risorgimento al quale fra molti ostacoli tendevano gli uomini nuovi acquistava la sua base positiva fondata sull'esperienza e sull'osservazione sulla “cosa effettuale” come dicea Machiavelli e col “lume naturale” come dicea Bruno con la scorta dell'occhio del corpo e della mente come dicea Galileo e leggendo nel libro della natura come dicea Campanella. Cadevano insieme forme scolastiche e forme geometriche; la filosofia usciva dal suo tempo eroico ed entrava nella sua età umana; agli oracoli dottrinali succedevano forme popolari e vi si affinavano le moderne lingue. La semplicità la chiarezza l'ordine la naturalezza divenivano le qualità essenziali della forma e n'era un primo e stupendo esempio il Saggio di Locke. Così la filosofia nella sua linea divergente dalla teologia giungeva sino all'opposto dal soprannaturale e dal soprasensibile giungeva al puro naturale ed al puro sensibile giungeva al motto: “Niente è nell'intelletto che non sia stato prima nel senso”. E non era già un concetto astratto e solitario era lo spirito nuovo penetrato in tutto lo scibile e che ora come ultimo risultato faceva la sua apparizione in filosofia. Anche la morale si emancipava dal precetto divino o ecclesiastico e cercava la sua base nella natura dell'uomo e non dell'uomo quale l'avea formato la società ma nell'integrità e verginità del suo essere. Comparve un dritto naturale come era comparsa una filosofia naturale; ed entrano in iscena Grozio Hobbes Puffendorfio. A quel modo che Campanella e Sarpi con tutti i riformati vagheggiavano la Chiesa primitiva nella purità delle sue istituzioni e in nome di quella attaccavano come alterazione e falsificazione l'opera posteriore de' papi i filosofi vagheggiavano l'uomo primitivo nello stato di natura e combattevano tutte le istituzioni sociali che non erano di accordo con quello. Il movimento religioso diveniva anche politico e sociale; l'idea era una che si sentiva ora abbastanza forte per dilatare le sue conseguenze anche negli ordini politici. Sorge uno spirito di critica e d'investigazione che non tien conto di nessun'autorità e tradizione e fa valere il suo scetticismo in tutti i fatti e i princìpi tenuti fino a quel punto indiscutibili come un assioma. Bayle è là con la sua ironia col suo dubbio universale. Come Locke realizzava il “cogito” egli realizzava il “de omnibus dubitandum”. E chi paragoni il suo Dizionario con le Raccolte italiane può vedere dov'era la vita e dov'era la morte.

Che faceva l'Italia innanzi a quel colossale movimento di cose e d'idee? L'Italia creava l'Arcadia. Era il vero prodotto della sua esistenza individuale e morale. I suoi poeti rappresentavano l'età dell'oro e in quella nullità della vita presente fabbricavano temi astratti e insipidi amori tra pastori e pastorelle. I suoi scienziati lasciando correre il mondo per la sua china si occupavano del mondo antico e scrutavano in tutti i versi le reliquie di Roma e di Atene; e poichè le idee erano date e non discutibili si occupavano de' fatti e non potendo essere autori erano interpreti comentatori ed eruditi. Letteratura e scienza erano Arcadia centro Cristina di Svezia povera donna che non comprendendo i grandi avvenimenti de' quali erano stati tanta parte i suoi Gustavo e Carlo si era rifuggita a Roma co' suoi tesori e si sentiva tanto felice tra quegli arcadi ch'ella proteggeva e che con dolce ricambio chiamavano lei “immortale e divina”. Felice Cristina! E felice Italia!

L'inferiorità intellettuale degli italiani era già un fatto noto nella dotta Europa e ne attribuivano la cagione al mal governo papale-spagnuolo. Gli stessi italiani aveano oramai coscienza della loro decadenza e non avvezzi più a pensare col capo proprio attendevano con avidità le idee oltramontane e mendicavano elogi da' forestieri. Giovanni Leclerc scriveva anno per anno la sua Biblioteca una specie d'inventario ragionato delle opere nuove. E come si tenea fortunato quell'italiano che potea averci là dentro un posticino! La lingua francese era divenuta quasi comune e prendeva il posto della latina. Un movimento d'importazione c'era lento e impedito da molti ostacoli e vivamente combattuto nelle accademie e nelle scuole dove regnava Suarez e Alvarez tra interpreti e comentatori. La Fisica di Cartesio penetrò in Napoli settanta anni dopo la sua morte e quando già era dimenticata in Francia e non si aveva ancora notizia del suo Metodo e delle sue Meditazioni. Grozio girava per le mani di pochi. Di Spinosa e di Hobbes il solo nome faceva orrore. Di Giovanni Locke appena qualche sentore. Un movimento si annunziava negli spiriti quel non so che di vago quel bisogno di cose nuove che testimonia il ritorno della vita. Pareva che il cervello dopo lungo sonno si svegliasse. I renatisti penetravano nelle scuole co' loro “metodi strepitosi” come li chiamava Vico promettitori di scienza facile e sicura. Definizioni assiomi problemi teoremi scolii postulati cacciavano di sede sillogismi entimemi e soriti. Il “quod erat demonstrandum” succedeva all'“ergo”. Chiamavano “pedanti” i peripatetici e questi chiamavano loro “ciarlatani”. Sempre così. Il vecchio è detto “pedanteria” ed il nuovo “ciarlataneria”. E qualche cosa di vero c'è. Perchè il vecchio nella sua decrepitezza e stagnazione ha del pedante e il nuovo nella sua giovanile esagerazione ha del ciarlatano. Ciascuno ha il suo lato debole che non può nascondere all'occhio acuto e appassionato dell'avversario.

La riforma cartesiana in Italia non produsse alcun serio progresso scientifico com'è d'ogni scienza importata e non uscita da una lenta elaborazione dello spirito nazionale. Fu utile come mezzo di diffusione delle idee nuove. Le quali cacciate d'Italia co' roghi con gli esili con le torture e coi pugnali vi rientrarono sotto la protezione delle idee cristiane. La riforma era detta il “platonismo cartesiano” ed aveva aria di ribenedire la religione in nome della filosofia. L'Inquisizione in quel movimento rapidissimo d'idee preoccupata di Spinosa aperto nemico lasciava passare il nuovo Platone che almeno non toccava i dogmi. I peripatetici invocarono l'Inquisizione contro i novatori e i novatori rispondevano proclamando Aristotile nemico della religione. Così il movimento ricominciava in Italia col permesso o almeno la tolleranza di Roma. Ed era movimento arcadico confinato nelle astrattezze e rispettoso verso tutte le istituzioni. Il movimento rimaneva superficiale; ma si diffondeva guadagnava gli animi alle novità sopraffaceva i peripatetici s'infiltrava nella nuova generazione la metteva in comunione coll'Europa preparava la trasformazione dello spirito nazionale.

Il serio movimento scientifico usciva di là dove s'era arrestato dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellettuale dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'investigazione di osservazione di comparazione dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spirito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monumenti. Già non erano più semplici eruditi erano critici. In Europa la critica usciva dal libero esame e dalla ribellione: era roba eretica. In Italia era parte di Arcadia un esercizio intellettuale sul passato e li lasciavano fare. Il critico di Europa era Bayle; il critico d'Italia era Muratori. Le sue vaste e diligenti raccolte Rerum italicarum scriptores Antiquitates medii aevi Annali d'Italia Novus thesaurus inscriptionum la Verona illustrata e la Storia diplomatica di Scipione Maffei le Illustrazioni del Fabretti segnano già questo periodo dove la scienza è ancora erudizione e nella erudizione si sviluppa la critica. Non è ancora filosofia ma è già buon senso fortificato dalla diligenza della ricerca e dalla pazienza dell'osservazione. Muratori è assai vicino a Galileo per il suo spirito positivo e modesto e pel giusto criterio. E anche egli osò. Osò combattere il potere temporale osò porre in guardia gl'italiani contro gli errori e le illusioni della fantasia. Se non gliene venne condanna fu tolleranza intelligente di Benedetto decimoquarto il quale disse che “le opere degli uomini grandi non si proibiscono” e che la quistione del potere temporale “era materia non dogmatica nè di disciplina”.

Anche il Maffei parve incredulo al Tartarotti perchè negava la magia e parve eretico al padre Concina perchè scrivea De' teatri antichi e moderni; ma quel buon papa decretò “non doversi abolire i teatri bensì cercare che le rappresentazioni siano al più possibile oneste e probe”. L'Italia papale era più papista del papa.

Un arcade era pure Gian Vincenzo Gravina tutto Grecia e Roma tutto papato e impero fra testi e comenti con le spalle vòlte all'Europa. Dommatico e assoluto sentenzia e poco discute in istile monotono e plumbeo. È ancora il pedante italiano sepolto sotto il peso della sua dottrina senza ispirazione nè originalità e così vuoto di sentimento come d'immaginazione. Pure già senti che siamo verso la fine del secolo. Già non hai più innanzi l'erudito che raccoglie e discute testi ma il critico che si vale della storia e della filosofia per illustrare la giurisprudenza e si alza ad un concetto del dritto e ne cerca il principio generatore. Anche la sua Ragion poetica se non mostra gusto e sentimento dell'arte colpa non sua esce da' limiti empirici della pura erudizione e ti dà riflessioni d'un carattere generale.

Ecco un altro uomo d'ingegno Francesco Bianchini veronese. A che pensa costui? Pensa agli assiri a' medi e a' troiani. Non raccoglie ma pensa cioè a dire scruta paragona giudica congettura arzigogola e costruisce. I monumenti non rimangono più lettera morta: parlano illustrano la cronologia e la storia. Per mezzo di essi si stabiliscono le date le epoche i costumi i pensieri i simboli si rifà il mondo preistorico. In questa geologia della storia i fatti e gli uomini vacillano si assottigliano diventano favole e le favole diventano idee. Comparve la sua Storia nel 1697 Vico aveva ventinove anni.

L'erudizione generava dunque la critica. In Italia si svegliava il senso storico e il senso filosofico. E si svegliava non sul vivo ma sul morto nello studio del passato. Questo era il carattere del suo progresso scientifico. Quelli che si occupavano del presente a loro rischio erano cervelli spostati. E tra questi cervelli balzani c'era il milanese Gregorio Leti che pose in luce la cronaca scandalosa dell'età in uno stile che vuol essere europeo e non è italiano e Ferrante Pallavicino nel suo Corriere svaligiato una specie di satira-omnibus dove ce n'è per tutti. In quel vacuo dell'esistenza sciupavano l'ingegno in argomenti grotteschi e in forme che parevano ingegnose ed erano freddure un seicentismo arcadico. Il canonico Garzoni scrivea il Teatro de' cervelli mondani L'Ospedale de' pazzi incurabili la Sinagoga degl'ignoranti il Serraglio degli stupori del mondo. Sono discorsi accademici infarciti d'erudizione indigesta più curiosa che soda. I quali erano la vera piaga d'Italia e attestavano una coltura verbosa e pedantesca senz'alcuna serietà di scopo e di mezzi. Il più noto di questi dotti e ce n'erano moltissimi è Anton Maria Salvini cervello ingombro cuore fiacco e immaginazione povera vita vuota. E volle tradurre Omero.

Fra tanta erudizione cresceva Vico. Studiò la filosofia in Suarez la grammatica in Alvarez il dritto in Vulteio. Pedagogo in casa della Rocca in Vatolla un paesello nel Cilento si chiuse per nove anni nella biblioteca del convento e vi si formò come Campanella. Quando compiuto il suo ufficio tornò in Napoli era già un uomo dotto come poteva essere un italiano e ce n'erano parecchi anche tra' gesuiti. Era il tempo del Muratori del Fontanini dell'abate Conti del Maffei del Salvini. “dottissimo eruditissimo” era Lionardo da Capua e Tommaso Cornelio “latinissimo”: così li qualifica Vico. Il quale conosceva a fondo il mondo greco e latino Aristotile e Platone con tutta la serie degl'interpreti fino a quel tempo; ammirava nel Cinquecento quello stesso mondo redivivo ne' Ficini ne' Pico ne' Mattei Acquaviva ne' Patrizi ne' Piccolomini ne' Mazzoni; di letteratura di archeologia di giurisprudenza peritissimo; il medio evo gli era giunto con la scolastica e con Aristotile il Cinquecento con Platone e Cicerone; de' fatti europei sapeva quanto era possibile in Italia. Era un dotto del Rinnovamento che scoteva da sè la polvere del medio evo e cercava la vita e la verità nel mondo antico. Il suo sapere era erudizione la forma del suo pensiero era latina e il suo contenuto ordinario era il dritto romano. Avvocato senza clienti fece il letterato e il maestro di scuola. Passati erano i bei tempi di Pietro Aretino. La letteratura senza l'insegnamento era povera e nuda come la filosofia. Andava per le case insegnando facea canzoni dissertazioni orazioni vite a occasione o a richiesta. Lo conobbe don Giuseppe Lucina “uomo di una immensa erudizione greca latina e toscana in tutte le spezie del sapere umano e divino” e lo fe' conoscere a don Niccolò Caravita un avvocato primario e “gran favoreggiatore de' letterati”. Vico parte merito parte protezione fu professore di rettorica all'università. Vita semplice e ordinaria dal 1668 al 1744. Vita accademica tranquilla di erudito italiano formatosi nelle biblioteche e fuori del mondo rimasto abbarbicato al suolo della patria. Il movimento europeo gli giunse a traverso la sua biblioteca e gli giunse nella forma più antipatica a' suoi studi e al suo genio. Gli venne addosso la fisica di Gassendi e poi la fisica di Boyle e poi la fisica di Cartesio. - La gran novità - pensava il nostro erudito. - Ma l'hanno già detto questo Epicuro e Lucrezio. - E per capire Gassendi si pose a studiare Lucrezio. Ma la novità piacque. - Fisica fisica vuol essere - diceva la nuova generazione - macchine; non più logica scolastica ma Euclide; sperimenti matematiche; la metafisica bisogna lasciarla ai frati. - Che diveniva Vico con la sua erudizione e col suo dritto romano? Reagì e cercò la fisica non con le macchine e con gli sperimenti ma ne' suoi studi di erudito. Le scienze positive entravano appena nel gran quadro della sua cultura e di matematiche sapeva non oltre di Euclide stimando “alle menti già dalla metafisica fatte universali non... agevole quello studio proprio degli ingegni minuti”. Cercò dunque la fisica fuori delle matematiche e fuori delle scienze sperimentali la cercò fra i tesori della sua erudizione e la trovò nei “numeri” di Pitagora ne' “punti” di Zenone nelle “idee divine” di Platone nell'antichissima sapienza italica. L'Europa aveva Newton e Leibnizio; e a Napoli si stampava De antiquissima italorum sapientia. Erano due colture due mondi scientifici che si urtavano. Da una parte era il pensiero creatore che faceva la storia moderna dall'altra il pensiero critico che meditava sulla storia passata. Chiuso nella sua erudizione segregato nella sua biblioteca dal mondo de' vivi quando Vico tornò in Napoli trovò nuova cagione di maraviglia. L'aveva lasciata tutto fisica; la trovava tutto metafisica. Le Meditazioni e il Metodo di Cartesio avevano prodotto la nuova mania. Vico sentì disgusto per una città che cangiava opinione da un dì all'altro “come moda di vesti”. E vi si sentì straniero e vi stette per alcun tempo straniero e sconosciuto. Vedeva il movimento attraverso i suoi studi e i suoi preconcetti.

Quelle fisiche atomistiche gli pareva non poter condurre che all'ateismo e alla morale del piacere e le accusava di falsa posizione perchè l'atomo il loro principio era corpo già formato perciò era principiato e non il principio e andava cercando il principio al di là dell'atomo ne' numeri e ne' punti. Soffiava in lui lo stesso spirito di Bruno e di Campanella. Si sentiva concittadino di Pitagora e discepolo dell'antica sapienza italica. Quanto al metodo geometrico rifiutava di ammetterlo come una panacea universale: era buono in certi casi e si potea usarlo senza quel lusso di forme esteriori dove vedea ambizione pretensione e ciarlataneria. Il “cogito”gli pareva così poco serio come l'atomo. Era anch'esso principiato e non principio; dava fenomeni non dava la scienza. Giudicava Cartesio uomo ambiziosissimo ed anche un po' impostore e quel suo “metodo” dove annullando la scienza con la bacchetta magica del suo “cogito” la fa ricomparire a un tratto gli pareva un artificio rettorico. Quel suo de omnibus dubitandum lo scandalizzava. Quella tavola rasa di tutto il passato quel disprezzo di ogni tradizione di ogni autorità di ogni erudizione lo feriva nei suoi studi nella sua credenza e nella sua vita intellettuale e si difendeva con vigore come si difende dal masnadiero la roba e la vita. La diffusione della coltura la moltiplicità dei libri quei metodi strepitosi abbreviativi quella superficialità di studi con tanta audacia di giudizi fenomeni naturali di ogni transizione quando un mondo se ne va e un altro viene movevano la sua collera. Avvezzo ai severi e profondi studi a pensare co' sapienti ed a scrivere pei sapienti gli spiacea quella tendenza a vulgarizzare la scienza quella rapida propagazione d'idee superficiali e cattive. E se la pigliava con la stampa. Si gloriava di non appartenere a nessuna setta. E lì era il suo punto debole. Posto tra due secoli in quel conflitto di due mondi che si davano le ultime battaglie non era nè con gli uni nè con gli altri e le cantava a tutti e due. Era troppo innanzi pe' peripatetici pe' gesuiti e per gli eruditi; era troppo indietro per gli altri. Questi trovavano ridicoli i suoi “punti metafisici”; quelli trovavano avventate le sue etimologie e sospetta la sua erudizione. Era da solo un terzo partito come si direbbe oggi la ragione serena e superiore che nota le lacune le contraddizioni e le esagerazioni ma ragione ancora disarmata solitaria senza seguaci fuori degl'interessi e delle passioni perciò in quel fervore della lotta appena avvertita e di nessuna efficacia. Se dietro al critico ci fosse stato l'uomo un po' di quello spirito propagatore e apostolico di Bruno e Campanella sarebbe stato vittima degli uni e degli altri. Ma era un filosofo inoffensivo tutto cattedra casa e studio e guerreggiava contro i libri rispettosissimo verso gli uomini. Oltrechè le sue ubbie rimanevano nelle altissime regioni della filosofia e della erudizione dove pochi potevano seguirlo e fu lasciato vivere fra le nubi stimato per la sua dottrina venerato per la sua pietà e bontà. Conscio e scontento della sua solitudine vi si ostinò benedicendo “non aver lui avuto maestro nelle cui parole avesse giurato” e ringraziando “quelle selve fra le quali dal suo buon genio guidato aveva fatto il maggior corso de' suoi studi”. Il latino veniva in fastidio ed egli pose da canto greco e toscano e fu tutto latino. Veniva in moda il francese: e' non volle apprendere il francese. La letteratura tendeva al nuovo ed egli accusava questa letteratura “non... animata dalla sapienza greca... o invigorita dalla grandezza romana”. Nella medicina era con Galeno contro i moderni divenuti scettici “per le spesse mutazioni de' sistemi di fisica”. Nel dritto biasimava gli eruditi moderni e se ne stava con gli antichi interpreti. Vantavano l'evidenza delle matematiche; ed egli se ne stava tra' misteri della metafisica. Predicavano la ragione individuale ed egli le opponeva la tradizione la voce del genere umano. Gli uomini popolari i progressisti di quel tempo erano Lionardo di Capua Cornelio Doria Calopreso che stavano con le idee nuove con lo spirito del secolo. Lui era un retrivo con tanto di coda come si direbbe oggi. La coltura europea e la coltura italiana s'incontravano per la prima volta l'una maestra l'altra ancella. Vico resisteva. Era vanità di pedante? era fierezza di grande uomo? Resisteva a Cartesio a Malebranche a Pascal i cui Pensieri erano “lumi sparsi” a Grozio a Puffendorfio a Locke il cui Saggio era la “metafisica del senso”. Resisteva ma li studiava più che non facessero i novatori. Resisteva come chi sente la sua forza e non si lascia sopraffare. Accettava i problemi combattea le soluzioni e le cercava per le vie sue co' suoi metodi e coi suoi studi. Era la resistenza della coltura italiana che non si lasciava assorbire e stava chiusa nel suo passato ma resistenza del genio che cercando nel passato trovava il mondo moderno. Era il retrivo che guardando indietro e andando per la sua via si trova da ultimo in prima fila innanzi a tutti quelli che lo precedevano. Questa era la resistenza di Vico. Era un moderno e si sentiva e si credeva antico e resistendo allo spirito nuovo riceveva quello entro di sè.

Bacone gli aveva fatta una grande impressione. Era il suo uomo dopo Platone e Tacito. Quel suo libro De augumentis scientiarum gli faceva dire: - Roma e Grecia non hanno avuto un Bacone. - Trovava in lui congiunto il senso ideale di Platone il senso pratico di Tacito la “sapienza riposta” dell'uno la sapienza volgare dell'altro. E poi gli apriva nuovi orizzonti. Avea studiato tanto e la sua scienza non era più un libro chiuso ci era tanto da aggiungere tanto da riformare. Voleva egli pure conferire del suo “nella somma che costituisce l'universal repubblica delle lettere”. Non è più un erudito immobilizzato nel passato è un riformatore un investigante. Critica dubita esamina approfondisce. Sente il morso dello spirito nuovo. Ne' suoi studi dell'antica sapienza italica vedi già il disdegno delle “etimologie grammaticali” il dispregio dell'erudizione volgare l'uomo che tenta nuove vie intravvede nuovi orizzonti cerca tra i particolari le alte generalità.

Più tardi gli capitò Grozio. E divenne il suo “quarto autore”. Grozio gli completa Bacone. Costui vide “tutto il saper umano e divino doversi supplire in ciò che non ha ed emendare in ciò che ha; ma intorno alle leggi... non s'innalzò troppo all'universo delle città ed alla scorsa di tutt'i tempi nè alla distesa di tutte le nazioni”. Grozio gli dà un dritto universale in cui “è sistemata tutta la filosofia e teologia”. Il comentatore del dritto romano si sente alzare a filosofo. Cerca una filosofia del dritto con Grozio e si fa il suo annotatore: poi riflette che è un eretico e lascia stare.

La materia della sua coltura è sempre quella dritto romano storia romana antichità. La sua fisica è pitagorica la sua metafisica è platonica conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia e l'ente l'uno Dio. Tutto viene da Dio tutto torna a Dio l'“unum simplicissimum” di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre i suoi fenomeni. La scienza è conoscere Dio “perdere se stesso” in Dio. E vien su il Dio di Campanella l'eterno lume il senno eterno con le sue primalità “nosse velle posse”. Fin qui Vico è un luogo comune. La sua erudizione e la sua filosofia camminano in linea parallela e non s'incontrano. Manca l'attrito. Ci è l'ascetico il teologo il platonico l'erudito ci è l'italiano di quel tempo nello stato ordinario delle sue credenze e della sua cultura.

Dentro a questa cultura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. - La cultura non ha valore; del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la coscienza ed il senso. - Cosa diveniva l'erudizione di Vico la fisica di Vico la metafisica di Vico? Cosa divenivano le “idee divine” di Platone? E il “simplicissimum” di Ficino cosa diveniva? E il dritto romano la storia la tradizione la filologia la poesia la rettorica non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppò le sue forze. Uscì del vago e del comune trovò un terreno un problema un avversario. La sua erudizione si spiritualizzava. La sua filosofia si concretava. E si compivano l'una nell'altra.

Già non si perde negli accessorii; vede e investe subito la dottrina avversaria nella sua base. Vuole atterrare Cartesio e con lo stesso colpo atterra tutta la nuova scienza e non andando indietro ma andando più avanti. La sua confutazione di Cartesio è completa è l'ultima parola della critica. Ma la sua critica non è solo negativa: è creatrice; la negazione si risolve in un'affermazione più vasta che tirasi appresso come frammenti di verità le nuove dottrine e le alloga le mette a posto. La nuova scienza la scienza degli uomini nuovi trova nella Scienza nuova il suo limite e perciò la sua verità.

La nuova scienza uscita da lotta religiosa e politica è in uno stato di guerra contro il passato e lo combatte sotto tutte le sue forme. La tradizione l'autorità la fede è il suo nemico e cerca riparo nella forza e nell'indipendenza della ragione individuale; gli “universali” gli “enti” le “quiddità” lo infastidiscono della metafisica e cerca la sua base nella psicologia nella coscienza; il soprannaturale il sopramondano offende il suo intelletto adulto e vi oppone lo studio diretto della natura la fisica nel suo senso più generale le scienze positive; al gergo scolastico cerca un antidoto nella precisione delle matematiche nel metodo geometrico; ai misteri alle cabale alle scienze occulte alle astrazioni oppone l'esperienza rischiarata dall'osservazione la percezione chiara e distinta l'evidenza della coscienza e del senso; alla società in quello stato di corruzione oppone l'uomo integro e primitivo la natura dell'uomo dalla quale cava i princìpi della morale e del dritto. Questo è lo spirito della nuova scienza: naturalismo e umanismo fisica e psicologia. Cartesio in maschera di Platone porta la bandiera.

Ma non inganna Vico che gli strappa la maschera. - Tu non sei che un epicureo. La tua fisica è atomistica la tua metafisica è sensista il tuo trattato Delle passioni par fatto più per i medici che per i filosofi; segui la morale del piacere. - Combattendo Cartesio la quistione gli si allarga attinge nella sua essenza tutto il nuovo movimento. Anch'esso è un'astrazione. È un'ideologia empirica idea vuota e vuoto fatto. L'importante non è di dire “io penso” (la grande novità!) ma è di spiegare come il pensiero si fa. L'importante non è di osservare il fatto ma di esaminare come il fatto si fa. Il vero non è nella sua immobilità ma nel suo divenire nel suo “farsi”. L'idea è vera colta nel suo farsi. Il pensiero è moto che va da un termine all'altro è idea che si fa si realizza come natura e ritorna idea si ripensa si riconosce nel fatto. Perciò “verum et factum” vero e fatto sono convertibili nel fatto vive il vero il fatto è pensiero è scienza; la storia è una scienza e come ci è una logica per il moto delle idee ci è anche una logica per il moto de' fatti una “storia ideale eterna sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni”.

Ecco ribenedetta tradizione autorità e fede; ecco filologia storia poesia mitologia tutta l'erudizione rientrata in grembo della scienza. La storia è fatta dall'uomo come le matematiche e perciò è scienza non meno di quelle. È il pensiero che fa quello che pensa è la “metafisica della mente umana” la sua “costanza” il suo processo di formazione secondo le leggi fisse del pensiero umano. Perciò la sua base non è nella coscienza individuale ma nella coscienza del genere umano nella ragione universale. I nuovi filosofi vogliono rifare il mondo coi loro princìpi assoluti co' loro dritti universali. Ma non sono i filosofi che fanno la storia e il mondo non si rifà con le astrazioni. Per rifare la società non basta condannarla: bisogna studiarla e comprenderla. E questo fa la “Scienza nuova”.

A Vico non basta porre le basi; mette mano alla costruzione. Se la storia ha la sua costanza scientifica se è fatta dal pensiero com'e fatta? Qual è il suo processo di formazione? Che la storia sia una scienza non era cosa nuova nella filosofia italiana. Alla storia formata dall'arbitrio divino e dal caso Machiavelli avea già contrapposta la “forza delle cose” lo spirito della storia eterno e immutabile. L'“intelletto universale” di Bruno la “ragione che governa il mondo” di Campanella rientrano nella stessa idea. Platone con le sue “idee divine” porgeva già il filo a Vico. L'importante era di eseguire il problema il cui dato era già posto era il trovar le leggi di questo spirito della storia era il “probare per causas” il generare la storia come l'uomo genera le matematiche il fare la storia della storia ciò che era fare una scienza nuova. Di questa storia ideale egli “ritrova le guise dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana” cerca la base nella natura dell'uomo doppio com'è spirito e corpo. È una psicologia applicata alla storia. Stabilisce alcuni canoni psicologici ch'egli chiama “degnità” o “princìpi”. Il concetto è questo: che l'uomo come essere naturale opera per istinti sotto la pressura dei suoi bisogni interessi e passioni; ma ivi appunto si sviluppa come essere pensante come Mente sì che nelle sue opere più grossolane e corpulente ce n'è come un'immagine velata il sentore. La quale immagine si fa più chiara secondo che “la mente più si spiega” insino a che il pensiero si manifesta nella sua propria forma opera come riflessione o filosofia. Questo che è il corso naturale della vita individuale è anche il corso naturale e la storia di tutte le nazioni quando non ci sia interruzione o deviazione per violenza di casi estrinseca come fu per Numanzia oppressa nel suo fiorire da' romani. Perciò nelle nazioni ci è tre età la divina l'eroica e la umana. Precede lo stato selvaggio o di mera barbarie dove l'uomo è servo del corpo e come una “fiera vagante nella gran selva della terra”. La libertà è il “tenere in freno i moti della concupiscenza che viene dal corpo e dar loro altra direzione che viene dalla mente ed è propria dell'uomo”. Secondo che la mente si spiega o si fa più intelligente si sviluppa la libertà prevale la ragione o l'“umanità”. La prima età ragionevole o socievole l'età divina sorse co' matrimoni e l'agricoltura quando “a' primi fulmini dopo l'universal diluvio” gli uomini “si umiliarono ad una forza superiore che immaginarono essere Giove e tutte le umane utilità e tutti gli aiuti porti nelle loro necessità immaginarono essere dei”. Allora rinunziando alla vaga venere ebbero certe mogli certi figli e certe dimore sorsero le famiglie governate da' padri con “famigliari imperii ciclopici”. In questi regni famigliari divenuti sicuro asilo contro i selvaggi o vaganti riparavano i deboli e gli oppressi che furono ricevuti in protezione come clienti o famoli. Così si ampliarono i regni famigliari e si spiegarono le “repubbliche erculee” sopra ordini naturalmente migliori per virtù eroiche la pietà verso gl'iddii la prudenza o il consigliarsi co' divini auspìci la temperanza onde i concubiti umani e pudichi co' divini auspìci la fortezza uccider fiere domar terreni la magnanimità il soccorrere a' deboli e a' pericolanti. In questi primi ordini naturali comincia la libertà e il primo spiegarsi della mente. Nacque la corruzione. I padri lasciati grandi per la religione e virtù de' loro maggiori e per le fatiche de' clienti tralignarono uscirono dall'ordine naturale che è quello della giustizia abusarono delle leggi di protezione e di tutela tiranneggiarono: indi la ribellione de' clienti. Allora padri delle famiglie si unirono con le loro attinenze in ordini contro di quelli e per pacificarli con la prima legge agraria concessero il “dominio bonitario” ritenendosi essi il “dominio ottimo” o “sovrano famigliare”: onde nacquero le prime città sopra “ordini regnanti di nobili” e l'“ordine civile”. Finirono i regni divini: cominciarono gli eroici. La religione fu custodita negli ordini eroici e perciò gli auspìci e i matrimoni e per essa religione furono de' soli eroi tutt'i diritti e tutte le ragioni civili. Ma “spiegandosi le umane menti” i plebei intesero essere di egual natura umana co' nobili e vollero entrare anch'essi negli ordini civili delle città essere sovrani nelle città. Finisce l'età eroica comincia l'età umana l'età della eguaglianza la “repubblica popolare” dove comandano gli ottimi non per nascita ma per virtù. In questo stato della mente agli uomini non è più necessario fare le azioni virtuose per “sensi di religione” perchè la filosofia fa intendere le “virtù nella loro idea”; in forza della quale riflessione quando anche gli uomini non abbiano virtù almeno si vergognano de' vizi. Nasce la filosofia e l'eloquenza insino a che l'una è corrotta dagli scettici l'altra da' sofisti. Allora corrompendosi gli stati popolari viene l'anarchia il totale disordine la peggiore delle tirannidi che è la sfrenata libertà de' popoli liberi. I quali o cadono in servitù di un monarca che rechi in sua mano tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza delle armi; o diventano schiavi per “diritto natural delle genti” conquistati con armi da nazioni migliori essendo giusto che chi non sa governarsi da sè si lasci governare da altri che il possa e che nel mondo governino sempre i migliori; o abbandonati a sè in quella folla di corpi vivendo in una solitudine d'animi e di voleri seguendo ognuno il suo piacere e capriccio con disperate guerre civili vanno a fare selve delle città e delle selve covili d'uomini e in lunghi secoli di barbarie vanno ad “irrugginire le malnate sottigliezze degl'ingegni maliziosi”. Con questa “barbarie della riflessione” si ritorna allo stato selvaggio alla “barbarie del senso” e ricomincia con lo stess'ordine una nuova storia si rifà lo stesso corso.

Questa è la “storia ideale eterna” la logica della storia applicabile a tutte le storie particolari. È in fondo la storia della mente nel suo spiegarsi come dice Vico dallo stato di senso in cui è come dispersa sino allo stato di riflessione in cui si riconosce e si afferma. L'operazione con la quale l'intelletto giunge alla verità è la stessa operazione con la quale l'intelletto fa la storia. Locke aveva il suo complemento in Vico. La teoria della conoscenza aveva il suo riscontro nella teoria della storia. Era una nuova applicazione della psicologia. Gli uomini operano secondo i loro impulsi e fini particolari; ma “i risultati sono superiori a' loro fini” sono risultati mentali il successivo progredire della mente nel suo spiegarsi. Perciò le passioni gl'interessi gli accidenti i fini particolari sono non la storia ma le occasioni e gl'istrumenti della storia; perciò una scienza della storia è possibile. Machiavelli e Hobbes ti dànno la storia occasionale non la storia finale e sostanziale. La loro storia è vera ma non è intera è frammento di verità. La verità è nella totalità nel vedere “cuncta ea quae in re insunt ad rem sunt affecta” l'idea nella pienezza del suo contenuto e delle sue attinenze. Machiavelli è non meno di Vico un profondo osservatore de' fatti psicologici è un ritrattista ma non è un metafisico. La psicologia di Vico entra già nelle regioni della metafisica ti dà le prime linee della nuova metafisica fondata non sull'immobilità dell'ente guardato nei suoi attributi ma sul suo moto o divenire; perciò non descrizione o dimostrazione come te la dava Aristotile e Platone ma vero dramma la storia dello spirito nel mondo. In questo dramma tutto ha la sua spiegazione tutto è allogato la guerra la conquista la rivoluzione la tirannide l'errore la passione il male il dolore fatti necessari e strumenti del progresso. Ciascuna età storica ha la sua guisa di nascere e di vivere la sua natura onde procede la forza delle cose la sapienza volgare del genere umano il senso comune delle genti la forza collettiva. Non è l'individuo è questa forza collettiva che fa la storia; e spesso i più celebrati individui non sono che simboli e immagini “caratteri poetici” di quella forza come Zoroastro Ercole Omero Solone. Cerchi un individuo e trovi un popolo; cerchi un fatto e trovi un'idea. Fabbro della storia è “l'umano arbitrio regolato con la sapienza volgare”.

Rimaneva a dare la dimostrazione di questa storia ideale: dimostrare cioè che tutte le storie particolari sono secondo quella regolate da uno stesso corso d'idee ubbidienti a un solo tipo. La prova poteva cercarla a priori nella logica stessa dello spirito nel suo spiegarsi. Lo spirito si estrinseca in conformità della sua natura in che è la sua logica la legge del suo divenire e quel divenire è appunto la storia. Ma Vico appena adombrate le prime linee della nuova metafisica si arresta sulla soglia e ritorna erudito e cerca la prova a posteriori consultando tutte le storie e cercando in tutte il suo corso il suo sistema e non solo nelle grandi linee ma ne' più minuti accidenti. Impresa titanica di erudizione e critica italiana. E s'immerge tra' “rottami dell'antichità” e raccoglie i minimi frammenti e li anima: “intus legit” li fa corpi interi ricostituisce la storia reale a immagine della sua storia ideale. È il mondo guardato da un nuovo orizzonte ricreato dalla critica e dalla filosofia e con la sua originalità scolpita in quella potente forma lapidaria e metaforica come una legge delle dodici tavole. Cerca tra quei rottami la prova della “scienza nuova” e scopre per via nuove scienze. Lingua mitologia poesia giurisprudenza religioni culti arti costumi industrie commercio non sono fatti arbitrari sono fatti dello spirito le scienze della sua Scienza. Cronologia geografia fisica cosmografia astronomia tutto si rinnova sotto questa nuova critica. Ad ogni passo senti il grido trionfale del gran creatore: - Ecco una nuova scoperta! - Alla metafisica della mente umana filosofia dell'umanità o delle idee umane onde scaturisce una giurisprudenza una morale e una politica del genere umano corrisponde la logica “fas gentium” una scienza dell'espressione di esse idee la filologia. Ecco dunque una scienza delle lingue e de' miti e delle forme poetiche una lingua del genere umano una teoria dell'espressione ne' miti ne' versi nel canto nelle arti. E come teoria e scienza non è che “natura delle cose” e la natura delle cose è nelle “guise di lor nascimenti”; l'uomo ardito sgombro lo spirito d'ogni idea anticipata e fidato al solo suo intendere; si addentra nelle origini dell'umanità guaste dalla doppia “boria” “delle nazioni e de' dotti” e tu assisti alla prima formazione delle società de' governi delle leggi de' costumi delle lingue vedi nascere la storia di entro la mente umana e svilupparsi logicamente da' suoi elementi o princìpi “religione nozze sepolture” svilupparsi sotto tutte le forme come governo come legge come costume come religione come arte come scienza come fatto come parola. La sua grande erudizione gli porge infiniti materiali che interpreta spiega alloga dispone secondo i bisogni della sua costruzione audace nelle etimologie acuto nelle interpretazioni e ne' confronti sicurissimo ne' suoi procedimenti e nelle sue conclusioni e con l'aria di chi scopre ad ogni tratto nuovi mondi tenendo sotto i piedi le tradizioni e le storie volgari. Così è nata questa prima storia dell'umanità una specie di Divina Commedia che dalla “gran selva della terra” per l'inferno del puro sensibile si va realizzando tra via sino all'età umana della riflessione o della filosofia; irta di forme di miti di etimologie di simboli di allegorie e non meno grande che quella; pregna di presentimenti di divinazioni d'idee scientifiche di veri e di scoperte: opera di una fantasia concitata dall'ingegno filosofico e fortificata dall'erudizione che ha tutta l'aria di una grande rivelazione.

È la Divina Commedia della scienza la vasta sintesi che riassume il passato e apre l'avvenire tutta ancora ingombra di vecchi frantumi dominati da uno spirito nuovo. Platonico e cristiano continuatore di Ficino e di Pico uno di spirito con Torquato Tasso Vico non comprende la Riforma e non i tempi nuovi e vuol concordare la sua filosofia con la teologia e la sua erudizione con la filosofia costruire un'armonia sociale come un'armonia provvidenziale. La sua metafisica ha sotto i pie il globo e gli occhi estatici in su verso l'occhio della provvidenza onde le piovono i raggi delle divine idee. Vuole la ragione ma vuole anche l'autorità e non certo degli “addottrinati” ma del genere umano; vuole la fede e la tradizione; anzi fede e tradizione non sono che essa medesima la ragione “sapienza volgare”. Tale era l'uomo formato nella biblioteca di un convento; ma entrando nel mondo de' viventi lo spirito nuovo l'incalza e combattendo Cartesio subisce l'influenza di Cartesio. Era impossibile che un uomo d'ingegno non dovesse sentirsi trasformare al contatto dell'ingegno. Tutto dietro a costruir la sua scienza gli si affaccia il “de omnibus dubitandum” ed il “cogito”:

“... in meditando i princìpi di questa Scienza dobbiamo... ridurci in uno stato di una somma ignoranza di tutta l'umana e divina erudizione come se per questa ricerca non vi fussero mai stati per noi nè filosofi nè filologi e chi si vuol profittare egli in tale stato si dee ridurre perché nel meditarvi non ne sia egli turbato e distolto dalle comuni invecchiate anticipazioni.”

Parole auree che sembrano tolte da una pagina del Metodo. E in questa ignoranza cartesiana qual è l'“unica verità” che fra tante dubbiezze non si può mettere in dubbio ed è perciò la “prima di siffatta Scienza”? È il “cogito” è la mente umana.

“Poiché... il mondo delle gentili nazioni... è stato... fatto dagli uomini i di lui princìpi si debbono ritruovare dentro la natura della nostra mente umana e nella forza del nostro intendere.”

La provvidenza e la metafisica che guarda in lei sono nel gran quadro un semplice antecedente o com'egli dice un'“anticipazione” un convenuto e non dimostrato: il quadro è la mente umana nella natura e nell'ordine della sua esplicazione la mente umana delle nazioni la storia delle umane idee. La provvidenza regola il mondo assistendo il libero arbitrio con la sua grazia ed oltrepassando ne' suoi risultati i fini particolari degli uomini; ma questi risultati provvidenziali non sono più miracolo sono scienza umana sono lo “schiarire delle idee” lo “spiegarsi della mente”. Come Bruno Vico canta la provvidenza e narra l'uomo: non è più teologia è psicologia. Provvidenza e metafisica sono di lontano come sole o cielo nello sfondo del quadro: il quadro è l'uomo e la sua luce la sua scienza è in lui stesso nella sua mente. La base di questa scienza è moderna ci è Cartesio col suo scetticismo e col suo “cogito”. Ben talora portato dall'alto ingegno speculativo spicca il volo verso la teologia e la metafisica ma Cartesio è là che lo richiama e lo tiene stretto ne' fatti psicologici. Nel quale studio del processo della mente negl'individui e ne' popoli fa osservazioni così profonde e insieme così giuste che ben si sente il contemporaneo di Malebranche di Pascal di Locke di Leibnizio il più affine al suo spirito e ch'egli chiama “il primo ingegno del secolo”. Nè solo è moderno nella base ma nelle conclusioni mostrando nell'ultimo spiegarsi della mente vittoriosi i princìpi de' nuovi filosofi. Perchè corona della sua epopea storica è lo spiritualizzarsi delle forme il trionfo della filosofia o della mente nella sua “riflessione” la fine delle aristocrazie e perciò de' feudi e della servitù la libertà e l'uguaglianza di tutte le classi come stato delle società “ingentilite e umane” come ultimo risultato della coltura. È la teocrazia e l'aristocrazia conquise dalla democrazia per il naturale spiegarsi della mente è l'affermazione e la glorificazione dello spirito nuovo. Ma qui appunto Vico se ne spicca e rimane solo in mezzo al suo secolo. Posto tra il mondo della sua biblioteca biblico-teologico-platonico e il mondo naturale di Cartesio e di Grozio due assoluti e impenetrabili come due solidi e che si scomunicavano l'un l'altro cerca la conciliazione in un mondo superiore l'idea mobilizzata o storica e in una scienza superiore la critica l'idea analizzata e giustificata ne' momenti della sua esistenza la scienza uscita dall'assolutezza e rigidità del suo dommatismo e mobilizzata come il suo contenuto. La critica è rifare con la riflessione quello che la mente ha fatto nella sua spontaneità. È la mente “spiegata e schiarita” che si riflette sulla sua opera e vi trova se stessa nella sua identità e nella sua continuità; è la coscienza dell'umanità. In questo mondo superiore tutto si move e tutto si riconcilia e si giustifica; i princìpi che i nuovi filosofi predicavano assoluti e perciò applicabili in ogni tempo e in ogni luogo e co' quali dannavano tutto il passato si riferiscono a stati sociali di certe epoche e di certi luoghi; ed i princìpi contrari appunto perchè in certi tempi hanno governato il mondo e sono stati “comportevoli” sono veri anch'essi come anticipazioni e vestigi de' princìpi nuovi. Perciò il criterio della verità non è l'idea in sè ma l'idea come si fa o si manifesta nella storia della mente il senso comune del genere umano ciò ch'egli chiama la “filosofia dell'autorità”. Qui Vico avea contro di sè Platone e Grozio il passato e il presente. La malattia del secolo era appunto la condanna del passato in nome di princìpi astratti come il passato condannava esso in nome di altri princìpi astratti. Vico era come chi vivuto solitario nel suo gabinetto scenda in piazza d'improvviso e vegga gli uomini concitati co' pugni tesi pronti a venire alle mani. A lui quegli uomini debbono sembrare de' pazzi da catena. - A che tanto furore contro il passato? Il quale appunto perchè è stato ha avuto la sua ragion d'essere. E poniamo pure sia tutto cattivo credete di poter distruggere con la forza l'opera di molti secoli? I vostri princìpi! Ma credete voi che la storia si fa da' filosofi e co' princìpi? La vostra ragione! Ma ci è anche la ragione degli altri uomini come voi e che sanno ragionare al pari di voi. E poi un po' di rispetto io credo si dee pure all'autorità. E non parlo di tanti dottori ne' quali non avete fede: parlo dell'autorità del genere umano al quale se uomini siete non potete negar fede. Un po' meno di ragione e un po' più di senso comune. - Un discorso simile sarebbe parsa una stranezza a quegli uomini pieni di odio e di fede. E qualcuno poteva rispondergli: - Fàtti in là e sta' fra le tue nuvole e non venire fra gli uomini chè non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su' libri: è la tua erudizione. Ma il passato è per noi cosa reale di cui sentiamo le punture ad ogni nostro passo. Il fuoco ci scotta e tu ci vuoi provare che perchè è ha la sua ragion di essere. Lascia prima che noi lo spengiamo e poi ci parla della sua natura. Quando ci avremo tolto di dosso codesto passato nostro martirio e de' padri nostri forse allora potremo essere giusti anche noi e gustar la tua critica. - Vico rimase solo nel secolo battagliero; e quando la lotta ebbe fine si alzò come iride di pace la sua immagine su' combattenti e comunicò la parola del nuovo secolo: “critica”. Non più dommatismo non più scetticismo: critica. Nè altro è la storia di Vico che una critica dell'umanità: l'idea vivente fatta storia e nel suo eterno peregrinaggio seguita compresa giustificata in tutt'i momenti della sua vita. I princìpi come gl'individui e come la società nascono crescono e muoiono o piuttosto poichè niente muore si trasformano pigliando forme sempre più ragionevoli più conformi alla mente più ideali. Indi la necessità del progresso insita nella stessa natura della mente la sua fatalità. La teoria del progresso è per Vico come la terra promessa. La vede la formula stabilisce la sua base traccia il suo cammino diresti che l'indica col dito e quando non gli resta a fare che un passo per giungervi la gli fugge dinanzi e riman chiuso nel suo cerchio e non sa uscirne. Poneva le premesse e gli fuggiva la conseguenza. Gli è perchè profondo conoscitore del mondo greco-romano non seppe spiegarsi il medio evo e non comprese i tempi suoi parendogli indizio di decadenza e di dissoluzione quella vasta agitazione religiosa e politica in cui era la crisi e la salute. D'altra parte lui che negava l'esistenza di Omero non osò sottoporre alla sua critica il mito di Adamo e le tradizioni bibliche e il dogma della provvidenza e la missione del cristianesimo lasciando grandi ombre nelle sue pitture. Vedi la coscienza moderna rilucere nel mondo pagano ardita nelle sue negazioni e nelle sue spiegazioni e quando sta per entrare nel mondo inquieto e appassionato de' vivi chiudere gli occhi per non vedere. Ciò che è proprio de' grandi pensatori; aprire le grandi vie stabilire le grandi premesse e lasciare a' discepoli le facili conseguenze. Come Cartesio Vico non indovinò i formidabili effetti che doveano uscire dalle sue speculazioni. Cartesio avrebbe rinnegati per suoi Spinosa e Locke e Vico Condorcet Herder ed Hegel. Poichè si occupa più degli antichi che de' moderni più de' morti che de' vivi i vivi lo dimenticarono. La sua Scienza parve più una curiosa stranezza di erudito che una profonda meditazione di filosofo e non fu presa sul serio.

 

Intanto il secolo camminava con passo sempre più celere tirando le conseguenze dalle premesse poste nel secolo decimosettimo. La scienza si faceva pratica e scendeva in mezzo al popolo. Non s'investigava più: si applicava e si divulgava. La forma usciva dalla calma scientifica e diveniva letteraria; le lingue volgari cacciavano via gli ultimi avanzi del latino. Il trattato e la dissertazione divenivano memorie lettere racconti articoli dialoghi aneddoti; forme scolastiche e forme geometriche davano luogo al discorso naturale imitatore del linguaggio parlato. La scienza prendeva aria di conversazione anche negli scrittori più solenni come Buffon e Montesquieu conversazione di uomini colti in sale eleganti. Per dirla con Vico la “sapienza riposta” diveniva “sapienza volgare” e scendendo nella vita prendeva le passioni e gli abiti della vita: ora amabile e spiritosa come in Fontenelle ora limpida scorrevole facile come in Condillac e in Elvezio; ora rettorica e sentimentale come in Diderot. Il “dritto naturale” di Grozio generava il Contratto sociale la società era dannata in nome della natura e l'erudita dissertazione di Grozio ruggiva nella forma ardente e appassionata di Rousseau. Lo scetticismo un po' impacciato di Bayle velato fra tante cautele oratorie si apriva alla schietta e gioiosa malizia di Voltaire. L'erudizione e la dimostrazione gittavano le loro armi pesanti e divenivano un amabile senso comune. La scienza diveniva letteratura e la letteratura a sua volta non era più serena contemplazione era un'arma puntata contro il passato. Tragedie commedie romanzi storie dialoghi tutto era pensiero militante che dalle alte cime della speculazione scendeva in piazza tra gli uomini e si propagava a tutte le classi e si applicava a tutte le quistioni. Le sue forme filosofia arte critica filologia erano macchine di guerra e la macchina più formidabile fu l'Enciclopedia. Condorcet proclamava il progresso. Diderot proclamava l'ideale. Elvezio proclamava la natura. Rousseau proclamava i dritti dell'uomo. Voltaire proclamava il regno del senso comune. Vattel proclamava il dritto di resistenza. Smith glorificava il lavoro libero. Blackstone rivelava la Carta inglese. Franklin annunziava la nuova “carta” all'Europa. La società sembrava un caos dove la filosofia dovea portare l'ordine e la luce. Una nuova coscienza si formava negli uomini una nuova fede. Riformare secondo la scienza istituzioni governi leggi e costumi era l'ideale di tutti era la missione della filosofia. I filosofi acquistarono quella importanza che ebbero al secolo decimosesto i letterati. Maggiore era la fede in questo avvenire filosofico e più viva era la passione contro il presente. Tutto era male e il male era stato tutto opera maliziosa di preti e di re nell'ignoranza de' popoli. “Superstizione” “pregiudizio” “oppressione” erano le parole che riassumevano innanzi alle moltitudini tutto il passato. “Libertà uguaglianza fraternità umana” erano il verbo che riassumeva l'avvenire. Tutto il moto scientifico dal secolo decimosesto in qua aveva acquistata la semplicità di un catechismo. La rivoluzione era già nella mente.

Che cosa era la rivoluzione? Era il Rinnovamento che si scioglieva da ogni involucro classico e teologico e acquistava coscienza di sè si sentiva tempo moderno. Era il libero pensiero che si ribellava alla teologia. Era la natura che si ribellava alla forza occulta e cercava ne' fatti la sua base. Era l'uomo che cercava nella sua natura i suoi dritti e il suo avvenire. Era una nuova forza il popolo che sorgeva sulle rovine del papato e dell'impero. Era una nuova classe la borghesia che cercava il suo posto nella società sulle rovine del clero e dell'aristocrazia. Era la nuova “carta” non venuta da concessioni divine o umane ma trovata dall'uomo nel fondo della sua coscienza e proclamata in quella immortale Dichiarazione de' dritti dell'uomo. Era la libertà del pensiero della parola della proprietà e del lavoro l'eguaglianza de' dritti e de' doveri. Era la fine de' tempi divini ed eroici e feudali il rivelarsi di quella “età umana” così ammirabilmente descritta da Vico. Il medio evo finiva: cominciava l'evo moderno.

E che cosa era questa vecchia società soprapposta a tutto il resto? Ci era alla cima il papato assoluto e la monarchia assoluta che si pretendevano amendue di dritto divino ed erano stampati sullo stesso modello. Il papato pretendea ancora al dominio universale ma in parola e conscio della scemata possanza. Pur si facea valere mediante i gesuiti e mantenea vigorosamente la sua influenza e la sua giurisdizione in tutti gli Stati. Come re il papa governava in modi così assoluti come tutti i monarchi. L'assolutismo dominava in tutta Europa. Quello che era la corte romana al Cinquecento erano allora tutte le corti: scostumatezza dissipazione ignoranza. I conventi screditati chiamati “covi del vizio” “asilo dell'ozio e dell'ignoranza”. Il clero scemato di coltura e di riputazione aumentato di numero e di ricchezza. I vescovi adulatori in corte tiranni nelle diocesi signori feudali. I nobili a' piedi del trono e co' piedi sopra i vassalli. Altare e trono appoggiati sul clero e sulla nobiltà: lì era la libertà lì era il dritto; tutto il resto era poco o meno che cosa e valeva assai poco. La fonte del dritto era nella concessione papale o sovrana: era investitura privilegio immunità esenzione. Le leggi erano un caos. Leggi romane longobarde canoniche feudali usi costumanze. Un altro caos erano le imposte. Ce n'erano del papa del clero de' baroni del re sotto molti nomi e molte forme. Che cosa era il popolo? Materia “taillable et corvèable a merci”. Nessuna sicurezza per le proprietà e le persone nessuna protezione nelle leggi nessuna guarentigia nei giudizi secrete le procedure sproporzionate e arbitrarie le pene. Si può dire di quella vecchia società quello che allora già si diceva della proprietà feudale. Era manomorta l'uomo così immobilizzato come la terra. La palude non era solo nel territorio era nel cervello.

Dirimpetto a queste classi privilegiate cristallizzate dal dommatismo cioè a dire da un complesso d'idee ammesse per tradizione e fuori di ogni discussione sorgeva lo scetticismo della borghesia che tutto ponea in dubbio di tutto facea discussione. La borghesia faceva in grandi proporzioni quello che prima compirono i comuni italiani. Era il “medio ceto” avvocati medici architetti letterati artisti scienziati professori prevalenti già di coltura che non si contentavano più di rappresentanze nominali e volevano il loro posto nella società. Non è già che si affermassero anch'essi come classe e volessero privilegi. Volevano libertà per tutti uguaglianza di dritti e doveri parlavano in nome di tutto il popolo. Qui era il progresso. Ma nel fatto erano essi la classe predestinata e in buona fede parlando per tutti lavoravano per sè. La loro arma di guerra era lo scetticismo. Alla fede e all'autorità opponevano il dubbio e l'esame. Oggi è moda declamare contro lo scetticismo. Pure non dobbiamo dimenticare che di là uscì l'emancipazione del pensiero umano. Esso cancellò l'intolleranza religiosa la credulità scientifica e la servilità politica.

Il movimento che usciva dalle fila della borghesia non era solo popolare cioè nelle sue idee e nelle sue tendenze comune a tutte le classi ma era ancora cosmopolitico o come si dice oggi “internazionale”. L'accento era umano più che nazionale. L'America e l'Europa si abbracciavano in un linguaggio che esprimeva idee e speranze comuni; lo svizzero l'olandese il francese il tedesco l'inglese parevano nati nello stesso paese educati alle stesse idee. Il movimento era universale nel suo obbiettivo e nel suo contenuto. L'obbiettivo erano tutte le classi e tutte le nazioni. Il contenuto era non solo una riforma religiosa politica morale e civile ma un radicale mutamento nelle stesse condizioni economiche della società ciò che oggi direbbesi “riforma sociale” correndo nel suo lirismo sino alla comunione de' beni. Nato dal costante lavoro di tre secoli il movimento per la sua universalità contenea in idea o in germe tutta la storia futura del mondo pel corso di molti secoli. Pure ciò che era appena un principio sembrava esser la fine: tanto parea cosa facile effettuare di un colpo tutto il programma.

Dove il movimento si mostrava più energico e concentrato e di natura assolutamente cosmopolitica era in Francia. Ed essendo la lingua francese già molto divulgata la propaganda era irresistibile. Nelle altre nazioni appariva appena e nelle sue forme più modeste.

La forma più temperata di questo movimento era l'antica lotta tra papato e impero divenuta lotta giurisdizionale tra la corte romana e le monarchie. In questo terreno i novatori avevano per sè i principi e all'ombra loro spandevano le nuove idee. I giureconsulti stavano per antica tradizione coi principi e difendevano i loro dritti contro la Chiesa con una dottrina ed un acume non scevro di sottigliezza sofistica: erano i liberali di quel tempo e fu loro opera che le nuove idee si dilatassero nella classe colta. Nel campo avverso erano i gesuiti inframmettenti intolleranti che invelenivano la lotta e ne allargavano le proporzioni. Erano essi lo sprone che stuzzicava l'ingegno. In quel contrasto si formò Paolo Sarpi; da quel contrasto uscirono le Provinciali di Pascal e il giansenismo e la scuola di Portoreale e le libertà gallicane preludi di quel movimento che prendeva allora in Francia proporzioni così vaste. Ma in Italia il movimento iniziato con tanta larghezza e ardire nel Cinquecento arrestato e snaturato dalla reazione trentina si manteneva ancora in quella forma era lotta giurisdizionale tra papa e principi. Il pensiero era ito molto innanzi ma in pochi o tra pochi: ci erano fantasie solitarie; mancava l'eco non ci era ancora la moltitudine. Ma il movimento in quella forma così circoscritta guadagnava terreno e costituiva un vero partito politico intorno al quale stava schierata tutta la borghesia. Era un liberalismo a buon mercato via a fortuna e favori principeschi quando rimaneva in quei limiti e attaccando curia e gesuiti si mostrava riverente al papa e alla Chiesa. In Napoli la coltura avea preso questo aspetto e mentre il buon Vico fantasticava una storia dell'umanità e andava col pensiero così lungi fervea la lotta giurisdizionale dov'erano principali attori giureconsulti eminenti Capasso D'Andrea D'Aulisio Argento Pietro Giannone. I gesuiti cercavano appoggio nell'ignoranza popolare e li predicavano empi e nemici del papa. L'avevano principalmente contro il Giannone e tanto gli aizzarono contro il minuto popolo che fu più volte a rischio della vita. Scomunicato dall'arcivescovo per aver lasciato stampar la sua Storia senza il suo permesso riparò a Vienna nè osò più tornare a Napoli ancorchè l'arcivescovo ci avesse avuto torto e fosse stata ritrattata la scomunica. I giureconsulti sostenevano bastare per la stampa la licenza regia non avere alcun valore la proibizione ecclesiastica ed essere invalide le scomuniche senza fondamento di ragione. Era il libero esame applicato alla giurisdizione e agli atti ecclesiastici. E ci era sotto altro lo spirito laico che si ridestava e lo spirito borghese che si annunziava il medio ceto che all'ombra del principe interessato anche lui nella lotta si facea valere così contro la nobiltà come e più contro il clero.

Da questa lotta uscì la Storia civile del regno di Napoli e più tardi il Triregno di Pietro Giannone. La Storia per la sua universalità fu tradotta in molte lingue riguardando principalmente la quistione giurisdizionale ardente in tutti gli Stati cattolici. Giannone lasciò gli argomenti e venne a' fatti prendendo il potere temporale fino nelle origini e seguendolo ne' suoi ingrandimenti e nelle sue usurpazioni. È una requisitoria tanto più formidabile quanto maggiore è la calma dell'esposizione istorica e l'imparzialità continuamente ostentata dell'erudizione e della dottrina. Non mancano sarcasmi e punture ma protesta sempre che è contro gli abusi e le esorbitanze e affetta il maggior rispetto verso le istituzioni. Vedi prominente l'universalità della Chiesa tutta la comunione dei fedeli insino a che sorge usurpatore l'episcopato assorbito a sua volta dal papato. Il concetto è questo che il dritto è nella universalità de' fedeli: è la democrazia applicata alla Chiesa. Ma il concetto democratico è annacquato in quest'altro che i principi come capi della società laica hanno ereditato i suoi dritti. Il popolo sparisce ed entra in iscena Cesare con quel famoso motto: “Date a Cesare quel che è di Cesare”. I gesuiti ritorcevano l'argomento sostenendo che la fonte del dritto non è ne' principi ma ne' popoli. Così democratizzavano i gesuiti per difendere il papato e democratizzavano i giannonisti per combattere il papato. Erano inconseguenti gli uni e gli altri e la vera conseguenza doveva tirarla il popolo contro il papato e la monarchia assoluta. S'immagini quale propaganda inconscia facevano. Era facile conchiudere che se la fonte del dritto è nel popolo sovrana legittima è la democrazia l'universalità de' fedeli e l'universalità de' cittadini. Il vero padrone mettea il capo fuori salutando gesuiti e giannonisti come suoi precursori benemeriti tutti e due perchè lavoravano gli uni a scalzare il principato assoluto gli altri a scalzare il papato assoluto. Erano “istrumenti della provvidenza” avrebbe dettoVico la quale tirava dall'opera loro risultati superiori a' loro fini.

Si era sempre parlato dell'età primitiva della Chiesa. Una immagine confusa ne rimanea alle moltitudini come dell'età dell'oro Dante Machiavelli Sarpi Campanella richiamavano la Chiesa a quei tempi evangelici più conformi alla purità del Vangelo. Quello era anche il cavallo di battaglia per gli eretici. Ecco quella età divenuta storia particolareggiata accertata e in buono e chiaro volgare nelle pagine del Giannone. I primi tre secoli della Chiesa sono descritti coll'immaginazione vòlta alla Chiesa di quel tempo. Scrittore e lettore facevano il paragone. Di mezzo alla narrazione germogliava l'allusione la confutazione l'epigramma. Allora la gerarchia era molto semplice e non ci erano che vescovi preti e diaconi e i preti non erano soggetti a' vescovi ma erano il loro senato i loro consiglieri e alla cima non ci era nessuno che comandasse: comandava il sinodo l'assemblea de' vescovi. La legge era la sacra Scrittura; i provvedimenti presi nei sinodi erano semplici regolamenti per l'amministrazione delle chiese e non ci era la ragion canonica

 “la quale col lungo correr degli anni emula della ragion civile maneggiata da' romani pontefici ardì non pur pareggiare ma interamente sottomettersi le leggi civili”.

 

La Chiesa non avea alcuna giurisdizione: la sua giustizia era chiamata “notio” “iudicium” “audientia” non “iurisdictio”; ed era censura di costumi e arbitrato volontario. Clero e popolo eleggevano i vescovi e anche nell'elezione de' preti e de' diaconi clero e popolo vi avevano lor parte. La Chiesa vivea di offerte volontarie non avea stabili e non decime Ciò che soverchiava si dava a' poveri. Tale era la Chiesa primitiva:

“ma assai mostruosa e con più strane forme sarà mirata nell'età meno a noi lontane quando non bastandole d'avere in tante guise trasformato lo stato civile e temporale de' principi tentò anche di sottoporre interamente l'imperio al sacerdozio.”

 

I monaci erano pochi solitari e religiosi ma la corruzione venne subito e

“ non senza stupore scorgerassi come in queste nostre provincie abbiano potuto germogliar tanti e sì vari ordini fondandovi sì numerosi e magnifici monasteri che ormai occupano la maggior parte della repubblica e de' nostri averi formando un corpo tanto considerabile che ha potuto mutar lo stato civile e temporale di questo nostro reame.”

 

Come non avea la Chiesa giustizia contenziosa nè giurisdizione così non avea foro nè territorio; perchè ciò “non dipende dalle chiavi nè è di diritto divino ma più tosto di diritto umano e positivo procedendo dalla concessione o permissione de' principi temporali ai quali solamente “Dio ha dato in mano la giustizia” come dice il Salmista: “Deus iudicium suum regi dedit”. Nè avea potere d'imponer pene afflittive di corpo d'esilio e molto meno di mutilazione di membra o di morte; e ne' delitti più gravi di eresia toccava a' principi di punire con temporali pene i delinquenti. Degli abusi della Chiesa spettava il rimedio a' principi che facevano leggi per porvi un freno specialmente per gli acquisti de' beni temporali; e “i padri della Chiesa” come sant'Ambrogio e san Girolamo “non si dolevano di tali leggi nè che i principi non potessero stabilirle nè lor passò mai per pensiero che per ciò si fosse offesa l'immunità o libertà della Chiesa”. Federico secondo proibì l'acquisto de' beni stabili alle chiese monasteri templari ed altri luoghi religiosi.

“Ma essendosi nel tempo degli Angioini introdotte presso di noi altre massime che persuasero non potere il principe rimediare a questi abusi e riputata perciò la costituzione di Federico empia ed ingiuriosa all'immunità delle chiese si ritornò a' disordini di prima. E se la cosa fosse stata ristretta a que' termini sarebbe stata comportabile; ma da poi si videro le chiese e i monasteri abbondare di tanti stati e ricchezze ed in tanto numero che piccola fatica resta loro d'assorbire quel poco ch'è rimaso in potere de' secolari.”

 

Il potere temporale “appartiene allo Stato in corpo”; ma i principi hanno guadagnata e ottenuta la signoria in tutt'i paesi del mondo. E se il romano pontefice e i prelati della Chiesa hanno “potere temporale” non è già

“perchè fosse stato prodotto dalla sovranità spirituale e fosse una delle sue appartenenze necessarie ma si è da loro acquistato di volta in volta per titoli umani per concessioni di principi o per prescrizioni legittime non già apostolico iure come dice san Bernardo: “Nec enim ille tibi dare quod non habebat potuit”.

 

Questo quadro della Chiesa primitiva accompagnato con tali riscontri ti dà come in iscorcio tutto il processo della storia. La lotta tra le leggi canoniche e le civili è come il centro di un vasto ordito che abbraccia tutta la storia della legislazione illuminata dalla storia de' governi e delle mutazioni politiche. Vico e Giannone erano contemporanei. Giannone era di otto anni più giovane. Ma non parlano l'uno dell'altro come non si conoscessero. Pure lavoravano su di un fondo comune le leggi e riuscivano per diversa via alle stesse conclusioni. L'uno era il filosofo l'altro lo storico del mondo civile. Tutti e due avvocati mediocri profondi giureconsulti. Vico si tenea alto nelle sue speculazioni filosofiche e nelle sue origini e non scendeva in mezzo agl'interessi e alle passioni e passò inosservato. Ma grandissima fu la fama e l'influenza dell'altro perchè scende nelle quistioni più delicate di quel tempo ed è scrittore militante animato dallo stesso spirito de' combattenti. Parla ardito e già con quel motteggio che era proprio del secolo: sente dietro di sè tutta la sua classe e tutti gli uomini colti. La persecuzione fece di lui un eroe lo confermò nella sua via lo spinse fino al Triregno la più radicale negazione del papato e dello spiritualismo religioso a volerne giudicare da' sunti. Il manoscritto fu seppellito negli archivi dell'Inquisizione. Il suo motto era: - Bisogna demolire il regno celeste -. Non gli basta più la polizia ecclesiastica: vuole colpire il papato nella sua radice rompendo il legame che stringe gli uomini al cielo. Fa perciò una storia del regno celeste come prima avea fatto una storia delle leggi ecclesiastiche; e come questa è il centro di un quadro più vasto quella è il centro di un quadro che abbraccia tutta l'umanità. Mostrare i dogmi nella loro origine nelle loro alterazioni nella loro negazione scuotere la fede nel dogma della risurrezione degli uomini: questo fa con grande erudizione e con sottili considerazioni. Ma l'ambiente in Italia non era ancora tale che vi potessero trovar favore idee così radicali elaborate a Vienna e a Ginevra. La coltura avea sviluppato l'ingegno ma non avea ancora formato il carattere. In Giannone stesso l'uomo era inferiore allo scrittore. Nè i tempi erano così feroci nella persecuzione e così assoluti nella proibizione che rendessero possibili le disperate resistenze sino al martirio. Ci era una mezza libertà e perciò una mezza opposizione. Ci era il liberalismo del medio ceto rivolto contro i baroni e i chierici favorito dal sovrano e perciò in certi limiti cortigiano ipocrita e come si dice oggi in guanti gialli. Un saggio delle idee di quel tempo e di questo modo di opposizione ce lo dà il seguente brano di uno scrittore napolitano di quella età:

“La giusta idea che fossero i chierici ministri del regno del cielo gli aveva esentati da tutt'i pesi del regno della terra; e la cura destinata loro delle anime e del culto divino gli ha oltre misura arricchiti di beni e privilegi in questo mondo. Non è già nostra intenzione di diminuire in nulla la vantaggiosa opinione del clero presso il popolo: quEi ministri della religione li rispettiamo nel fondo del cuore. La religione è una delle prime leggi fondamentali dello Stato; e il senso di tali leggi non deve mai formare l'oggetto della discussione del semplice cittadino. Al consiglio del sovrano appartiene il decidere delle loro inutilità e vantaggi; siccome la sua suprema potestà ne crea o depone i ministri ne fissa o sospende l'esercizio i riti le funzioni ne spiega o vela le dottrine o le vendica altera ed abroga conformemente a' lumi che su di ciò la divinità di cui è il rappresentante gl'ispira. Dico la “divinità” perchè altrimenti che significherebbe quel “Dei gratia rex”? Ascoltare e ubbidire ecco in questo caso il dovere del suddito. Ma la religione e soprattutto la vera religione ordina agli uomini di amarsi vuole che ciaschedun popolo abbia le migliori leggi politiche le migliori leggi civili. Ella impone a' suoi ministri l'osservanza di queste leggi. Essi devono dare l'esempio: la loro condotta è la base della purità delle coscienze de' popoli. Ma parlando a cuore aperto hanno eglino da più secoli mai dato o danno tuttora un tale esempio? Le loro immunità personali l'esenzione de' loro beni da' tributi le giurisdizioni usurpate gl'immensi acquisti sorpresi la maniera rigogliosa con la quale hanno sempre sostenuto tali giurisdizioni ed acquisti le dottrine bizzarre da loro insegnate a tal fine e tanti altri loro pretesi privilegi dritti e riguardi non sono nel fondo tante manifeste infrazioni delle leggi politiche e civili? Essi sono troppo ragionevoli onde volere sottrarsi all'evidenza di questo argomento. Noi non parliamo a' sacerdoti di Cibele o di Bacco e molto meno ai preti di Hume e di Rousseau: noi ci lusinghiamo di ragionare co' ministri della vera religione e fra questi soprattutto con quei d'Italia li quali si son quasi sempre distinti per l'affabilità e dolcezza del loro carattere non meno che per l'aborrimento pel bigottismo e l'intolleranza. Non vi ha una contea baronia o altro simile feudo non vi ha una rendita stabile e fissa un'abitazione comoda e decorosa destinata a compensare i sudori di un ministro di Stato di un presidente di un consigliere o di un generale; dove tanti guardiani priori vescovi ed abati possedono sotto questo titolo de' pingui feudi e rendite fisse intatte da' pesi de' sovrani ed intangibili e le loro abitazioni fanno scorno a quelle de' principi. I frati comechè giurino solennemente di osservare una maggior povertà del clero secolare sono andati più oltre nell'accumulare e han tolto a' poveri secolari i mezzi da potere sussistere. In coscienza potrebbono essi occupare nell'università le cattedre nella Corte le cariche nelle parrocchie i pulpiti e fino nelle case l'intendenza degli affari domestici? Potrebbero senz'arrossire far da speziale da mercante e da banchiere? In quanto al loro numero è divenuto così eccessivo che se i principi non vi mettono presto rimedio il loro vortice inghiottirà l'intiero Stato. Onde viene che il minimo villaggio d'Italia debba esser retto da cinquanta o sessanta preti senza contare gl'iniziati di altro rango. Le città vi pullulano di campanili e i conventi fanno ombra al sole. Vi ha in qualcheduna di esse venticinque conventi di frati o suore di san Domenico sette collegi di gesuiti altrettante case di teatini una ventina o trentina di monasteri di frati francescani forse cinquanta altri di diversi ordini religiosi di ambi i sessi e più di quattro o cinquecento altre chiese e cappelle di minor conto; ma non vi sono all'incontro che trentasei smilze parrocchie verun osservatorio astronomico verun'accademia di pittura di scoltura di architettura di chirurgia di agricoltura e di altre arti e scienze veruna buona fabbrica di panni o di tele veruna buona manifattura di seta o di cotone veruna biblioteca appartenente al pubblico verun orto botanico o gabinetto di curiosità naturali o teatro anatomico veruna cura per rendere i porti netti le strade comode ed agiate gli alberghi propri e le città illuminate il commercio più vivo. Pensano i chierici di dover sempre sentire i comodi della società senza mai sentirne alcun peso? che la bilancia penderà sempre a lor favore? che non vi sarà mai da sperar l'equilibrio?”

Pittura viva di quel tempo nelle sue idee e nel suo linguaggio Si sente a mille miglia il laico il borghese e l'avvocato. Il sovrano è per lui l'infallibile. Dovere del suddito è “ascoltare” e “ubbidire”. Rispetta la religione; ha il maggiore ossequio verso i suoi ministri; li accarezza anche; e fra tante dolcezze che botte da orbo! Il suo dispetto è che quelli sieno così ricchi; e lui cioè loro fra tante strettezze. Se anche loro avessero un feudo passi. Ci si vede l'effetto della coltura. Il confronto fra tante chiese e conventi e tanta negligenza di scienze arti industrie e commerci è eloquente. Si sente il progresso dello spirito con un carattere ancora volgare. L'animo è ancora servile lo spirito si è emancipato. Tali erano i giureconsulti da' quali usciva il movimento liberale in quella forma un po' grottesca tra l'insolenza verso il prete e la servilità verso il sovrano. Pure teneri com'erano delle leggi doveano essere portati naturalmente per necessità della loro professione a combattere l'arbitrio non solo ne' chierici ma anche ne' laici e a promovere una monarchia non più assoluta ma legale se non liberale. Questa tendenza è già manifesta in Giannone. Adora le leggi romane ma adora innanzi tutto la legge ed è inesorabile verso l'arbitrio:

“Fin da' primi tempi - egli dice - della repubblica niente altro bramavasi dalla licenziosa gioventù romana salvo che non esser governati dalle leggi ma che dovesse al re ogni cosa rimettersi ed al suo arbitrio Né ciò per altra ragione se non per quella che... vien rapportata da Livio: “Regem hominem esse a quo impetres ubi ius ubi iniuria opus sit. Leges rem surdam inexorabilem esse”. Sentimenti pur troppo licenziosi e dannevoli. Meglio sarà che nella repubblica abbondino le leggi che rimetter tutto all'arbitrio de' magistrati.”

Così la quistione ecclesiastica si allargava e diveniva quistione legale combattere l'arbitrio sotto ogni forma. Le usurpazioni de' nobili e de' chierici erano contrastate come illegittime contrarie alle leggi politiche e civili. E del pari erano biasimati gli atti arbitrari nelle autorità secolari e anche nel monarca. In questo pendio si andava molto innanzi. Arbitrio erano non solo gli atti fuori delle leggi ma le leggi stesse non conformi a giustizia ed equità. Gli scrittori cominciarono a notare tutt'i disordini e abusi nelle leggi civili e criminali e i principi lasciavano dire perchè non si toccava della forma de' governi nè era messa in dubbio la loro potestà anzi si facea loro appello per isradicare gli abusi. Il moto liberale in Italia non veniva dalla filosofia o da “ragioni metafisiche” come dicea Giannone ma da un intimo sentimento di legalità e di giustizia. Al Cinquecento il motto de' riformatori era la “corruttela de' costumi”. Allora fu l'“ingiustizia delle leggi”. Quel moto era religioso ed etico questo era politico quello stesso moto sviluppato nelle sue premesse e allargato nelle sue conseguenze.

Il movimento rimasto in gran parte speculativo e senza immediate applicazioni in Bruno in Campanella in Vico quasi ancora un'utopia allargandosi nella classe colta si concretava nello scopo e ne' mezzi per opera principalmente de' giureconsulti. Scopo era combattere i privilegi ecclesiastici e feudali in nome dell'eguaglianza combattere l'arbitrio in nome della legge e riformare la legge in nome della giustizia e dell'equità. La leva era il principato civile elemento laico legale e riformatore sul quale si appoggiavano le speranze de' novatori. Le idee erano sviluppate con grande erudizione con molta sottigliezza d'interpretazioni e di argomentazioni come di gente avvezzata alle dispute forensi. In Germania il movimento era appena spuntato rimasto nelle alte regioni della speculazione. Il sensismo di Locke avea generato lo scetticismo di Hume e n'era nata una nuova speculazione sull'intelletto umano una filosofia o una critica dell'intelletto del quale Locke avea scritta la storia. Kant e poi Fichte concentravano lo spirito in quegli ardui problemi e attendevano a gittare profonde le radici prima di alzare l'albero; pensavano alla base sulla quale dovea sorgere la civiltà nazionale. Di questi filosofi in Italia era appena penetrato Locke e in una traduzione mutilata dalla censura. Il movimento come si andava sviluppando nell'Inghilterra e in Germania aveva appena qualche eco in Italia anzi anche colà penava a farsi via dominato dagl'influssi francesi. La Francia era la grande volgarizzatrice delle idee dal secolo anteriore elaborate: era non la dimostrazione ma l'epilogo; non la ricerca ma la formola; non la speculazione ma l'applicazione; la scienza già assodata ne' suoi princìpi e divenuta catechismo in una forma letteraria e popolare che rendeva la propaganda irresistibile. La negazione giungeva all'ultima sua efficacia nell'ironia bonaria di Voltaire con tanto buon senso sotto tanta malizia. L'affermazione giungeva alla precisione di un catechismo in Rousseau che combatteva quella società convenzionale in nome della società naturale dalla quale scaturivano i dritti dell'uomo il suffragio universale e la sovranità del popolo. Già la sua non era quasi più una speculazione filosofica: era una bibbia filosofia divenuta sentimento e calata nell'immaginazione. Montesquieu sollevava i più ardui problemi di politica e di legislazione in una forma incisiva la quale più che scienza era sapienza condensata e formolata. Intorno a questi centri si aggruppavano gli enciclopedisti e una moltitudine di scrittori diversi d'ingegno e di coltura ma tenuti tutti a quel tempo grandi uomini. Ben presto non ci fu più uomo colto in Italia che non li leggesse avidamente.

Abbondarono i “filosofi” i “filantropi” e gli “spiriti forti” i nuovi nomi de' liberali o degli uomini nuovi o novatori. I filosofi erano filantropi o amici dell'uomo o umanitari e insieme spiriti forti o liberi pensatori che in nome della ragione o della scienza condannavano tutto ciò che nelle idee o ne' fatti se ne allontanava. La loro azione pubblica era avvalorata dalle associazioni secrete de' franchi muratori mossi dagli stessi fini e dagli stessi sentimenti. Emancipare il pensiero e l'azione da ogni ostacolo esteriore religioso o sociale uguagliare giuridicamente le classi provvedere all'istruzione e al benessere delle classi inferiori queste erano le basi del nuovo edificio che si voleva costruire. Credevasi che tutto questo si potesse ottenere con articoli di leggi a quel modo che avevano fatto Solone Licurgo Numa. E blandivano i sovrani e li predicavano istrumenti provvidenziali per il rinnovamento del mondo. Si formò una pubblica opinione il cui centro era Parigi la cui voce erano i filosofi. Seguire la pubblica opinione fare alcune riforme secondo i dettami de' filosofi era un mezzo di governo un modo di acquistarsi fama e popolarità a buon mercato come era nel secolo decimosesto il proteggere letterati e artisti. Il gran delitto del secolo il violento attentato alla nazionalità polacca rimase seppellito sotto quel nembo di fiori che i filosofi sparsero sulla memoria di Elisabetta e Caterina seconda di Maria Teresa e Giuseppe secondo e di Federico secondo i cortigiani e i corteggiati di Voltaire di D'Alembert di Raynal e degli enciclopedisti. Nè voglio già dire che fossero riformatori solo per calcolo: chè sarebbe calunniare la natura umana. Riforme benefiche e non pericolose alla loro autorità anzi buone a rafforzarla le facevano volentieri cospirando insieme l'utile proprio e l'interesse pubblico: il calcolo si accompagnava col desiderio del bene col piacere delle lodi e con l'intima persuasione imbevuti com'erano delle stesse idee. Il simile avveniva in Italia. I principi gareggiarono nelle riforme Carlo terzo e Ferdinando quarto Maria Teresa e Giuseppe secondo Leopoldo Carlo Emmanuele e fino papa Ganganelli che alla pubblica opinione offerse in olocausto i gesuiti. I filosofi domandando in nome della libertà e della uguaglianza l'abolizione di tutt'i privilegi feudali ecclesiastici comunali provinciali e di ogni distinzione di classi o di ordini sociali avevano seco i principi che lottavano appunto da gran tempo per conseguire questo scopo fondando il loro potere assoluto sulla soppressione di ogni libertà o privilegio locale. Fin qui filosofia e monarchia assoluta andavano di conserva. Lo stesso accordo era per le riforme economiche amministrative e giuridiche come semplicizzare le imposte unificare le leggi svincolare la proprietà promovere l'industria e il commercio e l'agricoltura assicurare contro l'arbitrio la vita e le sostanze de' cittadini. I principi ci stavano e qual più qual meno erano innanzi in quella via. Pensavano che fiaccato il clero e la nobiltà sciolte le maestranze rimosse tutte le resistenze locali sarebbe rimasta nelle loro mani la signoria assoluta assicurata da' due nuovi ordigni che succedevano a quella compagine disfatta del medio evo la burocrazia e l'esercito. E non pensavano che i princìpi da cui movevano quelle riforme e che costituivano la pubblica opinione menavano a conseguenze più lontane essendo impossibile che abolendo i privilegi rimanesse salvo il privilegio più mostruoso ch'era la monarchia assoluta e di dritto divino e che frenando l'arbitrio ne' preti ne' baroni e ne' magistrati potessero essi governare a lungo co' biglietti regi e i motupropri. Erano conseguenze inevitabili che presto o tardi avrebbero condotta la rivoluzione anche se la Francia non ne avesse dato l'esempio. Ma per allora nessuno ci badava e si procedeva allegramente nelle riforme persuasi tutti che bastassero ministri “illuminati” e principi “paterni” per potere pacificamente e per gradi rinnovare la società. Gli scrittori non impediti anzi incoraggiati e protetti lasciavano le speculazioni astratte e trattavano i problemi più delicati e di applicazione immediata con quella sicurezza che veniva e dall'applauso pubblico e dalla benevolenza de' principi “direttori della pubblica felicità”. Beccaria dice:

“I grandi monarchi i benefattori dell'umanità che ci reggono amano le verità esposte dall'oscuro filosofo ... e i disordini presenti... sono la satira e il rimprovero delle passate età non già di questo secolo e de' suoi legislatori.”

E Filangieri con entusiasmo meridionale così conchiude il libro secondo della sua Scienza della legislazione:

“Il filosofo dee essere l'apostolo della verità e non l'inventore de' sistemi. Il dire che “tutto si è detto” è il linguaggio di coloro che non sanno cosa alcuna produrre o che non hanno il coraggio di farlo. Finchè i mali che opprimono l'umanità non saranno guariti; finchè gli errori e i pregiudizi che li perpetuano troveranno de' partigiani; finchè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati sarà nascosta alla maggior parte del genere umano; finchè apparirà lontana da' troni; il dovere del filosofo è di predicarla di sostenerla di promuoverla d'illustrarla. Se i lumi ch'egli sparge non sono utili pel suo secolo e per la sua patria lo saranno sicuramente per un altro paese. Cittadino di tutti i luoghi contemporaneo di tutte le età l'universo è la sua patria la terra è la sua scuola i suoi contemporanei e i suoi posteri sono i suoi discepoli.”

La filosofia è già oltrepassata. Non la si dimostra più è un antecedente generalmente ammesso. Lo scopo non è fare una filosofia inventare un sistema. Lo scopo è un apostolato propagare e illustrare la filosofia cioè la verità conosciuta da pochi uomini privilegiati. È la verità annunziata con tuono di oracolo col calore della fede come facevano gli apostoli. È una nuova religione. Ritorna Dio tra gli uomini. Si rifà la coscienza. Rinasce l'uomo interiore. E rinasce la letteratura. La nuova scienza già non è più scienza: è letteratura.


 

 

XX

LA NUOVA LETTERATURA

L' uomo che rappresenta lo stato di transizione tra la vecchia e la nuova letteratura è Metastasio. L'antica letteratura non essendo oramai più che forma cantabile e musicabile ha come ultima espressione il dramma in musica dove non è più fine ma mezzo: è melodia e serve alla musica. Ma non vi si rassegna e vuol conservare la sua importanza rimanere letteratura. Quest'ultima forma della vecchia letteratura è Metastasio.

La sua vita si stende dal 1698 al 1782. Vincenzo Gravina che l'educò a quel modo che richiamava lo studio delle leggi alle fonti romane illustrandole e tentando una prima filosofia del dritto voleva ritirare l'arte alla greca semplicità purgandola della corruzione seicentistica e scrisse tragedie a modo di Sofocle e tentò una teoria dell'arte che chiamò Ragion poetica. Il buon uomo vedea il male ma non le sue cause e non i suoi rimedi. La semplicità è la forma della vera grandezza di una grandezza inconscia e divenuta natura. Niente era più contrario al secolo manierato e pretensioso al di fuori vacuo al di dentro. Per combattere il manierismo Gravina soppresse il colorito e vi supplì con la copia delle sentenze morali e filosofiche. L'intenzione era buona; parea volesse dire: - Cose e non parole -. Nè altra è la tendenza della sua Ragion poetica dove il vero è rappresentato come sostanza dell'arte e il vero ignudo non “condito in molli versi”. Così volendo esser semplice riuscì arido. La teoria non era nuova anzi era la vecchia teoria di Dante ringiovanita dal Tasso; ma parve nuova in un tempo che lo sforzo dell'ingegno era tutto intorno alla frase. Metastasio fu educato secondo queste idee. Il severo pedagogo gli proibì la lettura del Tasso e de' poeti posteriori lo ammaestrò di buon'ora nel greco e nel latino e lo volse allo studio delle leggi vagheggiando se stesso redivivo in un Metastasio giureconsulto e letterato. Ma il giovine era poeta nato. E morto il Gravina si gettò avidamente sul frutto proibito e la Gerusalemme Liberata l'Aminta il Pastorfido soprattutto l'Adone furono il suo cibo. Quella prima educazione classica non gli fu inutile perchè lo avvezzò alla naturalezza e alla semplicità e lo nutrì di buoni esempi e di solida dottrina. Ma lasciato a sè medesimo si sviluppò in lui come in tutti quelli che hanno ingegno il senso della vita contemporanea. Il maestro volea farne un tragico a uso greco o piuttosto a uso suo. Ma la tragedia non era la sua vocazione e l'autore del Giustino preferì Ovidio a Sofocle e come era moda fece la sua comparsa trionfale in Arcadia con sonetti canzonette idilli i cui eroi d'obbligo erano Cloe Nice Fille Tirsi Irene e Titiro. Il Sogno della gloria è l'ultimo lavoro a uso Gravina ammassato di sentenze che sono luoghi comuni e pieno di reminiscenze classiche e dantesche. Il Ritorno della primavera scritto l'anno appresso 1719 ti mostra già i vestigi dell'Aminta e dell'Adone facilmente impressi in quell'anima ricca di armonie e d'immagini. L'ideale del tempo era l'idillio il riposo e l'innocenza della vita campestre in antitesi alla vita sociale così come l'avevano sviluppato il Tasso il Guarini e il Marino. L'idillio era un certo equilibrio interiore uno stato di pace e di soddisfazione a cui il dolore serviva come di salsa. L'Arcadia volendo riformare il gusto avea tolto all'idillio quella tensione intellettuale che si chiamava il “seicentismo” sì che la forma era rimasta una pura effusione musicale dell'anima beatamente oziosa cullata da molli cadenze tra l'elegiaco e il voluttuoso: ciò che dicevasi “melodia”. La musica penetrava già in questa forma così apparecchiata a riceverla e la canzone diveniva la canzonetta la cantata e l'arietta e il dramma pastorale diveniva il dramma in musica. Le canzonette del Rolli erano in molta voga ma già si disputava quale ne facesse di migliori o il Metastasio o il Rolli. Sciupata l'eredità del Gravina il nostro Metastasio visto che l'Arcadia non gli dava pane ricordò i consigli del maestro e andò a Napoli col proposito di far l'avvocato. Ma Napoli era già il paese della musica e del canto. E le sue arringhe furono cantate ed epitalami. In occasione di nozze prima si scrivevano sonetti e canzoni:  allora erano in voga epitalami cantate e feste teatrali. Il Metastasio fu poeta di nozze e restano di lui tre epitalami storie mitologiche e idilliche dove è visibile l'imitazione del Tasso e del Marino. Canta le nozze di Antonio Pignatelli e Anna de' Sangro evocando gli amori di Venere e Marte a' quali intreccia gli amori degli sposi e naturalmente Anna è Venere e Antonio è Marte. Vi trovi il monte dell'Amore che ricorda il giardino di Armida e tutto il vecchio repertorio mitologico immagini e concetti. Ecco come descrive Anna:

Sono ottave mediocrissime e poco limate ma dove già trovi facilità di verso e di rima e molta chiarezza. Un'ottava dove descrive Anna che canta rivela nell'evidenza e nel brio del colorito una certa genialità:

Qui lascia le solite generalità entra nel vivo de' particolari e vi mostra la forza di chi sa già tutto dire e nel modo più felice. Gli epitalami non sono in fondo che idilli col solito macchinismo Amore Venere Marte Diana Minerva Vulcano. Nè altro sono le prime sue azioni teatrali rappresentate in Napoli come la Galatea l'Endimione gli Orti Esperidi l'Angelica. Diamo un'occhiata all'Angelica. Di rincontro a' protagonisti Angelica e Orlando stanno Licori e Tirsi. C'è il solito antagonismo tra la città e la campagna la scaltrezza di Angelica e l'ingenuità di Licori: onde nasce un intrighetto che riesce nel più schietto comico. Le furie di Orlando non possono turbare la pace idillica diffusa su tutto il quadro e lo stesso Orlando finisce idillicamente:

Angelica lascia per sempre quegli ameni soggiorni con quest'arietta:

La canzonetta di Licori penetrata di una malinconia dolce e molle è già canto e musica una pura esalazione melodica una espressione sentimentale rigirata in se stessa come un ritornello:

Concetti e immagini oramai comunissime senza più alcun valore letterario e rimaste interessanti solo come combinazioni melodiche. L'effetto non è nelle idee ma in quel canto di due amanti a una certa lontananza e nascosti tra le fronde; perchè mentre Licori cerca Tirsi Tirsi cerca Licori con la stessa melodia:

pastorella

È notabile che in questa cheta atmosfera idillica penetra una cert'aria di buffo un certo movimento vivace e allegro come è la dichiarazione amorosa di Licori a Orlando ascoltatore non visto Tirsi.

La Bulgarelli celebre cantante che negli Orti Esperidi rappresentava la parte di Venere prese interesse al giovane autore e lo addestrò in tutt'i misteri del teatro. Il maestro Porpora gl'insegnò la musica. Questa fu la seconda educazione di Metastasio corrispondente alla sua vocazione. Roma ne avea fatto un arcade. Napoli ne fece un poeta. La Didone abbandonata scritta sotto l'ispirazione e la guida della Bulgarelli fissò l'opinione e Metastasio prese posto d'un tratto accanto ad Apostolo Zeno che tenea il primato poeta cesareo alla corte di Vienna. Più tardi a proposta dello stesso Zeno occupò egli quell'ufficio e menò a Vienna vita pacifica e agiata universalmente stimato e tenuto senza contrasto principe della poesia melodrammatica. La sua vita fu un idillio e se questo è felicità visse felicissimo sino alla tarda età di ottantaquattro anni. Vivo ancora fu divinizzato. Lo chiamarono il “divino Metastasio”.

Se guardiamo al meccanismo il suo dramma è congegnato a quel modo che avea già mostrato Apostolo Zeno. Ma il meccanismo non è che la semplice ossatura. Metastasio spirò in quello scheletro le grazie e le veneri di una vita lieta e armoniosa. E fu il poeta del melodramma di cui lo Zeno era stato l'architetto.

La sua idea fissa fu di costruire il melodramma come una tragedia tale cioè che anche senz'accompagnamento musicale avesse il suo effetto. E la sua ambizione fu di lasciare le basse regioni dell'idillio e del buffo e tentare i più alti e nobili argomenti del “genere tragico” come se la nobiltà fosse nell'argomento. Questo si vede già nella Didone e nel Catone in Utica. Più tardi volle gareggiare co' grandi poeti francesi e il Cinna di Corneille ebbe il suo riscontro nella Clemenza di Tito e l'Atalia di Racine nel Gioas. Su questa via porse il fianco alla critica e sorsero dispute se e fino a qual punto i suoi drammi fossero tragedie. Ed ecco in mezzo l'inevitabile Aristotele e le famose quistioni delle unità drammatiche. Metastasio si mescolò nella contesa e nell'Estratto dell'“Arte poetica” di Aristotile addusse indirettamente argomenti in suo favore. La critica era ancora così impastoiata nell'esterno meccanismo che molti seriamente domandarono come potesse esser tragedia un dramma che aveva soli tre atti. A Metastasio pareva quasi una degradazione scendere dall'alto seggio di poeta tragico ed essere rilegato fra' melodrammatici. Pregiudizio instillatogli dal Gravina che non vedea di là dalla tragedia classica. La Merope del Maffei che allora levava molto rumore l'offuscava e nol lasciava dormire la gloria di Corneille e di Racine. Ranieri de' Calsabigi celebre per la polemica ch'ebbe poi con Alfieri intorno al Filippo sosteneva che quei drammi fossero proprie e vere tragedie. E nella medaglia che dopo la sua morte i Martinez fecero incidere in suo onore si leggeva questo motto: “Sophocli Italo”. Ma il pubblico che lo idolatrava si ostinò a chiamare le sue opere teatrali non tragedie e neppur melodrammi ma drammi come quelli che avevano un valore in sè anche fuori della musica. E il pubblico avea ragione. Sono una poesia già penetrata e trasformata dalla musica ma che si fa ancora valere come poesia. Stato di transizione che dà una fisonomia al nostro “Sofocle”. Più tardi quei drammi come letteratura paiono troppo musicali e ne nasce la reazione di Alfieri; come musica paiono troppo letterari e ne nasce la reazione del melodramma in due atti. Si potrebbe conchiudere che perciò appunto quei drammi sono cosa imperfetta troppo musicali come poesia e troppo poetici come musica: perciò abbandonati dalla musica e offuscati dalla nuova letteratura. Il che avviene facilmente a chi sta tra due e non ha chiara coscienza di quello che vuol fare.

Pure è certo che quei drammi ebbero al lor tempo un successo maraviglioso e che anche oggi in una società così profondamente mutata producono il loro effetto. È noto l'entusiasmo di Rousseau e l'ammirazione di Voltaire per questo poeta. In Italia i critici dopo un breve armeggiare gli s'inchinarono tratti dall'onda popolare. Certi luoghi che fanno sorridere il critico movono oggi ancora il popolo gli tirano applausi. Nessun poeta è stato così popolare come il Metastasio nessuno è penetrato così intimamente nello spirito delle moltitudini. Ci è dunque ne' suoi drammi un valore assoluto superiore alle occasioni resistente alla stessa critica dissolvente del secolo decimonono.

Gli è che quella sua oscura coscienza quel distacco tra quello che vuol fare e quello che fa quella poesia che non è ancora musica e non è più poesia è non capriccio pregiudizio o pedanteria individuale ma la forma stessa del suo genio e del suo tempo. Perciò non è costruzione artificiosa come la tragedia del Gravina o il poema del Trissino ma è composizione piena di vita che nella sua spontaneità produce risultati superiori alle intenzioni del compositore. Ciò ch'egli vi mette con intenzione e con coscienza non è il pregio ma il difetto del lavoro. E intorno a questo difetto arzigogolavano lui e i critici.

Se vogliamo gustarlo facciamo come il popolo. Non domandiamo cosa ha voluto fare ma cosa ha fatto e abbandoniamoci alla schiettezza delle nostre impressioni. Anche il critico se vuol ben giudicare dee abbandonarsi alla sua spontaneità come l'artista.

Prendiamo il primo suo dramma la Didone. Volea fare una tragedia. Studiò l'argomento in Virgilio e più in Ovidio. Ma andate a fare una tragedia con quell'uomo e con quella società. Non capiva che a quella società e a lui stesso mancava la stoffa da cui può uscire una tragedia. Fare una tragedia con la Bulgarelli consigliera con maestro Porpora direttore con quel Sarro compositore e col pubblico dell'Angelica e degli Orti Esperidi e in presenza della sua anima elegiaca idillica melodica impressionabile e superficiale come il suo pubblico! Ne uscì non una tragedia che sarebbe stata una pedanteria nata morta ma un capolavoro tutto caldo della vita che era in lui e intorno a lui e che anche oggi si legge con avidità da un capo all'altro. La Didone virgiliana è sfumata. Le reminiscenze classiche sono soverchiate da impressioni fresche e contemporanee. Sotto nome di “Didone” qui vedi l'Armida del Tasso messa in musica. La donna olimpica o paradisiaca cede il posto alla donna terrena come l'ha abbozzata il Tasso in questa tra le sue creature la più popolare dalla quale scappan fuori i più vari e concitati moti della passione femminile le sue smanie e le sue furie. Ma è un'Armida col comento della Bulgarelli alla cui ispirazione appartengono i movimenti comici penetrati in questa natura appassionata com'è nella scena della gelosia applauditissima alla rappresentazione. Una Didone così fatta non ha niente di classico qui non ci è Virgilio e non Sofocle: tutto è vivo tutto è contemporaneo. La passione non ha semplicità e non ha misura e nella sua violenza rompe ogni freno perde ogni decoro. Se in Didone fosse eminente il patriottismo il pudore la dignità di regina l'amore de' suoi la pietà verso gl'iddii se in lei fosse più accentuata l'eroina il contrasto sarebbe drammatico altamente tragico. Ma l'eroina c'è a parole e la donna è tutto: la passione unica dominatrice diviene come una pazzia del cuore cinica e sfrontata sino al grottesco e scende dritta la scala della vita sino alle più basse regioni della commedia. Al buon Pindemonte danno fastidio alcuni tratti comici e non vede che sotto forme tragiche la situazione è sostanzialmente comica sicchè se in ultimo Enea si potesse rappattumare con l'amata sarebbe il dramma con lievi mutazioni una vera commedia. E non già una commedia costruita artificialmente ma colta dal vero perchè è la donna come poteva essere concepita in quel tempo ispirata dalla Bulgarelli e da quel pubblico nell'anima conforme del poeta e contro le sue intenzioni e senza sua coscienza.

A Metastasio che voleva fare una tragedia dire che aveva partorito una commedia in forma tragica sarebbe stato come dire una bestemmia. Il comico è in quei sì e no della passione in quei movimenti subitanei irrefrenabili che scoppiano improvvisi e contro l'aspettazione nell'irragionevole spinto sino all'assurdo negl'intrighi e nelle scaltrezze di bassa lega più da donnetta che da regina e tutto così a proposito così naturale con tanta vivacità che il pubblico ride e applaude come volesse dire: - È vero. - Fu per il poeta un trionfo. Alcuni motti rimasero proverbiali come:

Quando allora allora avea detto:

O come:

La sua sortita contro Arbace quasi nello stesso punto che gli aveva promessa la sua mano quel cacciar via da sè Osmida e Selene nella cecità del suo furore le sue credulità le sue dissimulazioni le sue astuzie tutto ciò è tanto più comico quanto è meno intenzionale contemperato co' moti più variati di un'anima impressionabile e subitanea: sdegni che son tenerezze e minacce che sono carezze. C'è della Lisetta e della Colombina sotto quel regio manto. E tutto il quadro è conforme. Iarba con le sue vanterie e le sue pose rasenta il bravo della commedia popolare; Selene ch'è l'“Anna soror mea” rappresenta la parte della “patita” con molta insipidezza; e il pio Enea nella sua parte di amoroso attinge il più alto comico massime quando Didone lo costringe a tenerle la candela. Il nodo stesso dell'azione ha l'aria di un intrigo di bassa commedia co' suoi equivoci e i suoi incontri fortuiti.

La Didone fece il giro de' teatri italiani. E dappertutto piacque. Metastasio indovinava il suo pubblico e trovava se stesso. Quel suo dramma a superficie tragica a fondo comico coglieva la vita italiana nel più intimo quel suo contrasto tra il grandioso del di fuori e la vacuità del di dentro. Il tragico non era elevazione dell'anima ma una semplice fonte del maraviglioso così piacevole alla plebe come incendii duelli suicidii. Il comico riconduceva quelle magnifiche apparenze di una vita fantastica nella prosaica e volgare realtà piccoli intrighi amori pettegoli stizze braverie. Concordare elementi così disparati fondere insieme fantastico e reale tragico e comico sembra poco meno che impossibile: pure qui è fatto con una facilità piena di brio e senz'alcuna coscienza com'è la vita nella sua spontaneità. L'illusione è perfetta. Una vita così fatta pare un'assurdità: pure è là fresca giovane vivace armonica e t'investe e ti trascina. Il povero Metastasio inconscio del grande miracolo si difendeva con Aristotile e con Orazio; alle vecchie critiche si aggiunsero le nuove. Oggi la ragione e l'estetica condannano quella vita come convenzionale e incoerente. Ma essa è là nella sua giovanezza immortale e le basta rispondere: - Io vivo. - E se l'estetica non l'intende tanto peggio per l'estetica.

Metastasio aveva tutte le qualità per produrre quella vita. Brav'uomo buon cristiano nel suo mondo interiore ci erano tutte le virtù ma in quel modo tradizionale e abituale ch'era possibile allora senza fede senza energia senza elevatezza d'animo perciò senza musica e senza poesia. Così erano Vico e Muratori bonissima gente ma senza quella fiamma interiore dove si scalda il genio del filosofo e del poeta. Erano personaggi idillici veneranda immagine di una società tranquilla e prosaica. Vico agitava i più grandi problemi sociali con la calma di un erudito. E si comprende come la poesia si cercasse in quel tempo fuori della società nell'età dell'oro e nella vita pastorale. Ma nessuno può fuggire alla vita che lo circonda. Patria religione onore amore libertà operavano in quella vita posticcia come in quella pacifica società con perfetto riposo ed equilibrio dell'anima. Metastasio che cercava la tragedia con la testa era per il carattere un arcade tutto Nice e Tirsi tutto sospiri e tenerezze. Da questa natura idillica poteva uscire l'elegia non la tragedia. Aveva come il Tasso grande sensibilità molta facilità di lacrime ma superficiale sensibilità che poteva increspare non turbare il suo mondo sereno. Non si può dir che la sua sensibilità fosse malinconia la quale richiede una certa durata e consistenza: era emozione nata da subitanei moti interni e che passava con quella stessa facilità che veniva. Questo difetto di analisi e di profondità nel sentimento manteneva al suo mondo il carattere idillico non lo trasformava ma lo accentuava e lo coloriva nel suo movimento; perchè l'idillio senza elegia è insipido. Una immaginazione non penetrata dalla serietà di un mondo interiore appena ventilata dal sentimento scorre leggiera su questo mondo idillico e vi annoda e snoda una folla di accidenti che gli danno varietà e vivacità. Sembrano sogni che svaniscono appena formati ma con tale chiarezza plastica ne' sentimenti e nelle immagini che vi prendi la più viva partecipazione. Il poeta vi s'intenerisce vi si trastulla vi si dimentica:

Di sogni e favole ce n'era tutto un arsenale nelle nostre infinite commedie e novelle dove attingevano anche i forestieri e dove attinge Metastasio. Ciò a cui mira è sorprendere fare un colpo di scena guidato dalla sua grand'esperienza del teatro e del pubblico. Ingegno svegliato e rapido non perde mai di vista lo scopo non s'indugia per via divora lo spazio sopprime aggruppa combina producendo effetti subitanei e perciò irresistibili. Combinazioni drammatiche che appunto perchè mirano a uno scopo meramente teatrale mancano di serietà interiore e spesso hanno aria d'intrighi comici con que' viluppi con quegli equivoci con quei parallelismi. Nè solo il comico è nella logica stessa di quelle combinazioni ma nella natura de' fatti che spesso sono episodi della vita comune nella sua forma più pettegola e civettuola. Così un eroico puramente idillico andava a finire ne' bassi fondi della commedia. Cesare sonava il violino e faceva all'amore. Tale era Metastasio e tale era il suo tempo idillico elegiaco e comico vita volgare in abito eroico vellicata dalle emozioni dell'elegia e idealizzata nell'idillio.

Si può ora comprendere il meccanismo del dramma metastasiano. Sta in cima l'eroe o l'eroina Zenobia o Issipile Temistocle o Tito. L'eroe ha tutte le perfezioni che la poesia ha collocate nell'età dell'oro e sveglia l'eroismo intorno a sè rende eroici anche i personaggi secondari. Più l'età è prosaica più esagerato è l'eroismo abbandonato a una immaginazione libera che ingrandisce le proporzioni a arbitrio con non altro scopo che di eccitare la maraviglia. Il maraviglioso è in questo che l'eroe è un'antitesi accentuata e romorosa alla vita comune offrendo in olocausto alla virtù tutt'i sentimenti umani come Abramo pronto a uccidere il figlio. Così Enea abbandona Didone per seguire la gloria Temistocle e Regolo vanno incontro a morte per amor della patria Catone si uccide per la libertà Megacle offre la vita per l'amico e Argene per l'amato. Questa forza di soffocare i sentimenti umani e naturali che regolano la vita comune era detta “generosità” o “magnanimità” “forza” o “grandezza di animo” com'è il perdono delle offese il sacrificio dell'amore o della vita. Situazione tragica se mai ce ne fu anzi il fondamento della tragedia. Ma qui rimane per lo più elegiaca feconda di emozioni superficiali momentanee e variate che in ultimo sgombrano a un tratto e lasciano il cielo sereno. La generosità degli uni provoca la generosità degli altri l'eroismo opera come corrente elettrica guadagna tutt'i personaggi e tutto si accomoda come nel migliore de' mondi tutti eroi e tutti contenti. Di questa superficialità che resta ne' confini dell'idillio e dell'elegia e di rado si alza alla commozione tragica la ragione è questa che la virtù vi è rappresentata non come il sentimento di un dovere preciso e obbligatorio per tutti corrispondente alla vita pratica ma come un fatto maraviglioso che per la sua straordinarietà tolga il pubblico alla contemplazione della vita comune. Perciò è una virtù da teatro un eroismo da scena. Più le combinazioni sono straordinarie più le proporzioni sono ingrandite e più cresce l'effetto. I personaggi posano si mettono in vista sentenziano si atteggiano come volessero dire: - Attenti! Ora viene il miracolo. - Temistocle dice:

In questo meccanismo trovi sempre la collisione il contrasto tra l'eroismo e la natura. L'eroismo ha la sua sublimità nello splendore delle sentenze. La natura ha il suo patetico nelle tenere effusioni dei sentimenti. Ne nasce un urto vivace di sentimenti e di sentenze con alterna vittoria e con crescente sospensione come nel soliloquio di Tito; insino a che natura ed eroismo fanno la loro riconciliazione in un modo così inaspettato e straordinario com'è tutto l'intrigo. Tito fa condurre Sesto all'arena deliberato già di perdonargli: non basta la virtù vuole lo spettacolo e la sorpresa. Questa che a noi pare una moralità da scena era a quel tempo una moralità convenuta ammessa in teoria ammirata applaudita a quel modo che le romane battevano le mani ai gladiatori che morivano per i loro begli occhi. Si direbbe che Tito facesse il possibile per meritarsi gli applausi del pubblico. Appunto perchè questo eroismo non aveva una vera serietà di motivi interni e non veniva dalla coscienza quel mondo atteggiato all'eroica aveva del comico ed era possibile che vi penetrasse senza stonatura la società contemporanea nelle sue parti anche buffe e volgari. Prendiamo l'Adriano. Vincitore de' Parti proclamato imperatore Adriano si trova in una delle situazioni più strazianti promesso sposo di Sabina amante di Emirena figlia del suo nemico e rivale di Farnaspe l'amato di Emirena. Situazione molto avviluppata e che diviene intricatissima per opera di un quarto personaggio Aquilio confidente di Adriano amante secreto di Sabina e che perciò fomenta la passione del suo padrone. Emirena per salvare il padre offre la mano ad Adriano. La generosità di Emirena eccita la generosità di Sabina che scioglie Adriano dalla data fede. La generosità di Sabina eccita la generosità di Adriano che libera il padre di Emirena rende costei al suo amato e sposa Sabina. E tutti felici e il coro intuona le lodi di Adriano. Ma guardiamo in fondo a questi personaggi eroici. Adriano è una buona natura d'uomo tutt'altro che eroica voltato in qua e in là dalle impressioni mobile superficiale credulo in somma un buon uomo che rasenta l'imbecille. Non è lui che opera: egli è il paziente anzi che l'agente del melodramma e come colui che dà ragione a chi ultimo parla dà sempre ragione all'ultima impressione. Si trova eroe per occasione un eroe così equivoco che impedisce ad Emirena di baciargli la mano tremando di una nuova impressione. Maggiori pretensioni all'eroismo ha Osroa il re de' Parti reminiscenza di Iarba. Un patriota che appicca l'incendio alla reggia che uccide un creduto Adriano che è condannato a morte che supplica la figlia di ucciderlo sarebbe un carattere interessantissimo se nel pubblico e nel poeta ci fosse il senso del patriottismo. Ma Osroa ha più dell'avventuriere che dell'eroe e di un avventuriere sciocco e avventato che non sa proporzionare i mezzi allo scopo e nelle situazioni più appassionate della vita discute sentenzia. A Emirena la sua figlia che ricusa di ucciderlo risponde:

È una caricatura di Iago un basso e sciocco intrigante da commedia. Sabina Emirena Farnaspe sono nature superficialissime incalzate dagli avvenimenti senza intima energia negli affetti e tratte ad atti generosi per impeti subitanei. Se dunque ci approfondiamo in questo mondo eroico vediamo con quanta facilità si sdrucciola nel comico e come sotto un contrasto apparente in verità questa vita eroica è in se stessa di quella mezzanità che può accogliere nel suo seno il volgare e il buffo della società contemporanea. Di tal natura è la scena in cui Emirena finge di non riconoscere il suo innamorato che rimane lì stupido e col naso allungato; o l'altra in cui Aquilio insegna ad Emirena l'arte della cortigiana ed Emirena botta e risposta gli fa il ritratto del cortigiano; o quando Adriano si fa menare pel naso da Osroa o l'arrivo improvviso di Sabina da Roma e l'imbarazzo di Adriano o quando Adriano giura di non vedere più Emirena e gli si annunzia: - Vieni Emirena. - Tutto questo che in fondo è comico non è sviluppato comicamente nè c'è l'intenzione comica; perciò non c'è stonatura: è la società contemporanea nel suo spirito nella sua volgarità e mezzanità vestita di apparenze eroiche. Se Metastasio avesse il senso dell'eroico e lo rappresentasse seriamente e profondamente la mescolanza sarebbe insopportabile anzi mescolanza non ci sarebbe; ma concepisce l'eroico come era concepito e sentito in quella volgarità contemporanea. Il poeta è in perfetta buona fede; non sente ciò che di basso e di triviale è sotto quell'apparato eroico uno di spirito e di carattere col suo pubblico. Ben ne ha una coscienza confusa e non è proprio contento e tenta talora alcun che di più elevato come nel Regolo e nel Gioas senza riuscirvi: si scopre l'antico Adamo. E fu ventura perchè così non ci die' costruzioni artificiose e imitazioni aliene dalla sua natura ma riuscì artista originale e geniale l'artista indimenticabile di quella società.

Questa vita così assurda nella sua profondità ha tutta l'illusione del vero nella sua superficie. Approfondire i sentimenti sviluppare i caratteri graduare le situazioni sarebbe una falsificazione. La superficialità è la sua condizione di esistenza. È una vita di cui vedi le punte e ignori tutto il processo di formazione una specie di vita a vapore che nella rapida corsa divora spazi infiniti e non ti mostra che i punti di arrivo. Sbucciano sentimenti e situazioni così di un tratto e spesso ti trovi di un balzo da un estremo all'altro. Sei in un continuo flutto d'impressioni variatissime di poca durata e consistenza libate appena con sentimenti vivacissimi penetranti gli uni negli altri come onde tempestose. Scusano questa superficialità con la musica quasi che la musica potesse o compiere o sviluppare o approfondire i sentimenti; ma la musica metastasiana non era se non il prolungamento e l'eco del sentimento il semplice trillo della poesia il suo accompagnamento perchè quella poesia è già in sè musica e canto. Una vita così superficiale non può essere che esteriore. È vita per lo più descritta come già si vede nel Guarini e nel Marino. I personaggi nella maggior violenza de' loro sentimenti si descrivono si analizzano com'è proprio di una società adulta in cui la riflessione e la critica ti segue nel momento stesso dell'azione. Ti trovi nel più acuto della concitazione; e quando alla fine ti aspetti quasi un delirio ti sopraggiunge un'analisi una sentenza un paragone una descrizione psicologica. Licida snuda il brando; vuole uccidere il suo offensore; poi lo volge in sè e si arresta e fa la sua analisi:

Il drammatico va a riuscire in un sonetto petrarchesco. Aristea così si descrive a Megacle:

E Megacle seguendo l'amico Licida nella sua sventura esce in questo bel paragone:

Questi riposi musicali sono come l'arpa di David che calmava le furie di Saul: rinfrescano l'anima e la tengono in equilibrio fra passioni così concitate. E sono sopportabili appunto perchè mescolati co' moti più vivaci con la più impetuosa spontaneità del sentimento offrendoti lo spettacolo della vita nelle sue più varie apparenze. Argene che sfida la morte per salvare l'amato e si sente alzare su di sè come invasata da un iddio è sublime:

Commovente è la gioia quasi delirante di Aristea nel rivedere l'amato. Di un elegiaco ineffabile è il cànto di Timante quando la madre gli presenta il suo bambino:

Alcuni motti tenerissimi sono rimasti proverbiali come:

Questa vita nei suoi moti alterni di spontaneità e di riflessione così equilibrata essendo superficiale ed esteriore ha per suo carattere la chiarezza è visibile e plastica. Le gradazioni più fine i concetti più difficili sono resi con una estrema precisione di contorni e perciò non hanno riverbero: appagano e saziano lo sguardo lo tengono sulla superficie non lo gittano nel profondo. Questa chiarezza metastasiana tanto vantata e così popolare perchè il popolo è tutto superficie è la forma nell'ultimo stadio della sua vita quando a forza di precisione diviene massiccia e densa come il marmo. La vecchia letteratura vi raggiunge l'ultima perfezione; l'espressione perde ogni trasparenza e non è che se stessa e sola e vi si appaga come un infinito. Stato di petrificazione che oggi dicesi “letteratura popolare” come se la letteratura debba scendere al popolo e non il popolo debba salire a lei. Metastasio vi spiega un talento miracoloso. Quella vecchia forma prima di morire manda gli ultimi splendori. La chiarezza non è in lui superficie morta ma è la vita nella sua superficie paga e contenta della sua esteriorità con una facilità e una rapidità con un giuoco pieno di grazia e di brio. Il periodo perde i suoi giri la parola perde le sue sinuosità liscia scorrevole misurata come una danza accentuata come un canto melodiosa come una musica. Le impressioni che te ne vengono sono vivaci ma labili e ti lasciano contento ma vuoto come dopo una festa brillante che ti ha divertito e a cui non pensi più.

Il mondo metastasiano può parere assurdo innanzi alla filosofia come innanzi alla filosofia pareva assurda la società ch'esso rappresentava. Come arte niente è più vero per coerenza per armonia per interna vivacità. È il ritratto più finito di una società vicina a sciogliersi le cui istituzioni erano ancora eroiche e feudali materia vuota dello spirito che un tempo l'animò e che sotto quelle apparenze eroiche era assonnata spensierata infemminita idillica elegiaca e plebea. Guardatela. Essa è tutta profumata incipriata col suo codino col suo spadino cascante vezzosa sensitiva come una donna tutta “idolo mio” “mio bene” e “vita mia”. La poesia di Metastasio l'accompagna con la sua declamazione con la sua cantilena; la parola non ha più niente a dirle; essa è il luogo comune che acquista valore trasformata in trillo con le sue fughe e le sue volate co' suoi bassi e i suoi acuti; non è più un'idea è un suono raddolcito dagli accenti dondolato dalle rime attenuato in quei versetti ridotto un sospiro. Una poesia che cerca i suoi mezzi fuori di sè che cerca i motivi e i suoi pensieri nella musica abdica già pronunzia la sua morte. Ben presto Metastasio sembra troppo poeta al maestro di musica nè il pubblico sa più che farsi della parola e non domanda cosa dice ma come suona. La parola dopo di avere tanto abusato di sè non val più nulla e la stessa parola metastasiana così leggiera così rapida non può essere sopportata. La parola è la nota e i nuovi poeti si chiamano Pergolese Cimarosa Paisiello. Così terminava il periodo musicale della vecchia letteratura iniziato nel Tasso sviluppato nel Guarini e nel Marino giunto alla sua crisi in Pietro Metastasio. Oramai si viene a questo che prima si fa la musica e poi Giuseppe secondo dice al suo nuovo poeta cesareo all'abate Casti: - Ora fatemi le parole. -

In seno a questa società in dissoluzione si formava laboriosamente la nuova società. E che ce ne fosse la forza si vedeva da questo: che non teneva più gran conto della forma letteraria stata suo idolo e che cercava nuove impressioni nel canto e nella musica. Il letterato che aveva rappresentata una parte così importante cade in discredito. I nuovi astri sono Farinello e Caffarello Piccinni Leo Iommelli. La musica ha un'azione benefica sulla forma letteraria costringendola ad abbreviare i suoi periodi a sopprimere il suo cerimoniale e la sua solennità i suoi aggettivi i suoi ripieni le sue perifrasi i suoi sinonimi i suoi parallelismi le sue trasposizioni tutte le sue dotte inutilità e a prendere un'aria più spedita e andante. Gli orecchi avvezzi alla rapidità musicale non possono più sopportare i periodi accademici e le tirate rettoriche. E se Metastasio è chiamato “divino” è per la musicalità della sua poesia per la chiarezza il brio e la rapidità dell'espressione. Il pubblico abbandonando la letteratura la letteratura è costretta a seguire il pubblico. E il pubblico non è più l'accademia ancorchè di accademie fosse ancora grande il numero prima l'Arcadia. E non è più la corte ancorchè i principi avessero ancora intorno istrioni e giullari sotto nome di “poeti”. La coltura si è distesa i godimenti dello spirito sono più variati: i periodi e le frasi non bastano più. Compariscono sulla scena filosofi e filantropi giureconsulti avvocati e scienziati musici e cantanti. La parola acquista valore nell'ugola e nella nota ed è più interessante nelle pagine di Beccaria o di Galiani che ne' libri letterari. Oramai non si dice più “letterato” si dice “bell'ingegno” o “bello spirito”. Il “letterato” diviene sinonimo di parolaio e la parola come parola è merce scadente. La parola non può ricuperare la sua importanza se non rifacendosi il sangue ricostituendo in sè l'idea la serietà di un contenuto. E questo volea dire il motto che era già in tutte le labbra: “Cose e non parole”.

Già nella critica vedi i segni di questa grande rigenerazione. Rimasta fino allora nel vuoto meccanismo e tra regole convenzionali la critica si mette in istato di ribellione spezza audacemente i suoi idoli. Mentre ferveva la lotta giurisdizionale tra papa e principi e i filosofi combattevano il passato nelle sue idee e nelle sue istituzioni essa apre il fuoco contro la vecchia letteratura battezzandola senz'altro “pedanteria”. L'obbiettivo de' filosofi e de' critici era comune. Combattevano entrambi la forma vacua gli uni nelle istituzioni gli altri nell'espressione letteraria ancorchè senza intesa.

E come i filosofi così i critici erano avvalorati e riscaldati nella loro lotta dagli esempi francesi e inglesi. Il Baretti veniva da Londra tutto Shakespeare; l'Algarotti il Bettinelli il Cesarotti il Beccaria il Verri erano in comunione intima con Voltaire e con gli enciclopedisti. Locke Condillac Dumarsais avevano allargate le idee e introdotto il gusto delle grammatiche ragionate e delle rettoriche filosofiche. Si vede la loro influenza nella Filosofia delle lingue del Cesarotti e nello Stile del Beccaria. Cosa dovea parere il Crescimbeni o il Mazzuchelli o il Quadrio cosa lo stesso Tiraboschi il Muratori della nostra letteratura dirimpetto a questi uomini che pretendevano ridurre a scienza ciò che fino allora era sembrato non altro che uso e regola? E non si contentarono i critici de' trattati e de' ragionamenti ma vollero accostarsi un po' più al pubblico usando forme spigliate e correnti che preludevano ai nostri giornali. Tali erano le Lettere virgiliane del Bettinelli la Difesa del Gozzi la Frusta letteraria il Caffè l'Osservatore. Così la nuova critica dava a un tempo l'esempio di una nuova letteratura gittando in circolazione molte idee nuove in una forma rapida nutrita spiritosa vicina alla conversazione in una forma che prendea dalla logica il suo organismo e dal popolo il suo tuono. Certo questi critici non si accordavano fra loro anzi si combattevano come facevano anche i filosofi; ma erano tutti animati dalla stessa tendenza uno era lo spirito. E lo spirito era l'emancipazione dalle regole o dall'autorità la reazione contro il grammaticale il rettorico l'arcadico e l'accademico e come in tutte le altre cose così anche qui non ammettere altro giudice che la logica e la natura. Secondo il solito la critica passò il segno e nella sua foga contro le superstizioni letterarie toccò anche il sacro Dante: onde venne la bella Difesa che ne scrisse Gaspare Gozzi. Ma la critica veniva dalla testa e non aveva radice nell'educazione letteraria ch'era stata anzi tutto l'opposto. Il che spiega come i critici giudici ingegnosi de' vivi e de' morti volendo essere scrittori facevano mala prova dando un po' di ragione a' retori e a' grammatici i quali chiamati da loro “pedanti” chiamavano loro “barbari”. Posti tra il vecchio che censuravano ed un nuovo modo di scrivere chiaro nella loro testa ma affatto personale estraneo allo spirito nazionale e non preparato anzi contraddetto nella loro istruzione si gittarono alla maniera francese sconvolsero frasi costrutti vocaboli e come fu detto poi “imbarbarirono la lingua”. Gaspare Gozzi tenne una via mezzana e facendo buona accoglienza in gran parte alle nuove idee non accettò sotto nome di libertà la licenza e si studiò di tenersi in bilico tra quella pedanteria e quella barbarie usando un modo di scrivere corretto puro classico e insieme disinvolto. Ma il buon Gozzi misurato elegante savio rimase solo come avviene a' troppo savi nel fervore della lotta quando la via di mezzo non è ancora possibile standosi di fronte avversari appassionati confidenti nella loro forza e disposti a nessuna concessione. Stavano nell'un campo i puristi che non potendo invocare l'uso toscano intorbidato anch'esso dall'imitazione straniera invocavano la Crusca e i classici e come non era potuta più tollerare la prolissità vacua del Cinquecento rimettevano in moda il Trecento quale esempio di scrivere semplice conciso e succoso; onde venne quel motto felice: “Il Trecento diceva il Cinquecento chiacchierava”. Costoro erano il maggior numero cruscanti arcadi accademici puri letterati tutti brava gente che avevano in sospetto ogni novità e non volevano essere turbati nelle loro abitudini. Nell'altro campo erano i filosofi che non riconoscevano autorità di sorta e tanto meno quella della Crusca; che invocavano la loro ragione e vagheggiavano una nuova Italia così in letteratura come nelle istituzioni e in tutti gli ordini sociali. I critici rappresentavano la parte della filosofia nelle lettere senza occuparsi di politica; anzi spesso la loro insolenza letteraria era mantello alla loro servilità politica come fu del gesuita Bettinelli e del Cesarotti. In prima fila tra' contendenti erano l'abate Cesari e l'abate Cesarotti. Il Cesari nella sua superstizione verso i classici cancellò in sè ogni vestigio dell'uomo moderno. Il Cesarotti di molto più spirito e coltura nella sua irreligione verso gli antichi andò così oltre che volle fare il pedagogo a Omero e Demostene e andò in cerca di una nuova mitologia nelle selve calidonie. Quando comparve l'Ossian girò la testa a tutti: tanto eran sazii di classicismo. Il bardo scozzese fu per qualche tempo in moda e Omero stesso si vide minacciato nel suo trono. Si sentiva che il vecchio contenuto se ne andava insieme con la vecchia società e in quel vuoto ogni novità era la benvenuta. Quei versi armoniosi e liquidi in tanto cozzo di spade scintillanti tra le nebbie fecero dimenticare i Frugoni gli Algarotti e i Bettinelli. Cominciava una reazione contro l'idillio espressione di una società sonnolenta e annoiata in grembo a Galatea e a Clori e piacevano quei figli della spada quelle nebbie e quelle selve e quei signori de' brandi e quelle vergini della neve. Gli arcadi si scandalizzavano; ma il pubblico applaudiva. Per vincere Cesarotti non bastava gridargli la croce: bisognava fare e piacere al pubblico. Ora l'attività intellettuale era tutta dal canto de' novatori: chi aveva un po' d'ingegno “si gittava al moderno” come si diceva nelle dottrine e nel modo di scrivere e si acquistava nome di “bello spirito” dispregiando i classici come di “spirito forte” dispregiando le credenze. La vecchia letteratura come la vecchia credenza era detta pregiudizio e combattere il pregiudizio era la divisa del secolo illuminato del secolo della filosofia e della coltura. Chi ricorda l'entusiasmo letterario del Rinascimento può avere un giusto concetto di questo entusiasmo filosofico del secolo decimottavo. I fenomeni erano i medesimi. Allora si chiamava “barbarie” il medio evo; ora si chiama “barbarie” medio evo e Rinascimento. Lo stesso impeto negativo e polemico è ne' due movimenti foriero di guerre e di rivoluzioni. E ci erano le stesse idee maturate e sviluppate oltralpe strozzate presso di noi e rivenuteci dal di fuori. Anzi il movimento non è che un solo prolungatosi per due secoli con diverse vicissitudini nelle varie nazioni procedente sempre attraverso alle più sanguinose resistenze e ora accentrato e condensato sotto nome di “filosofia” fatto della letteratura suo istrumento. Questo volea dire il motto: “Cose e non parole”. Volea dire che la letteratura stata trastullo d'immaginazione senza alcuna serietà di contenuto e divenuta perfino un semplice giuoco di frasi dovea acquistare un contenuto essere l'espressione diretta e naturale del pensiero e del sentimento della mente e del cuore: onde nacque più tardi il barbaro vocabolo “cormentalismo”. Messa la sostanza nel contenuto quell'ideale della forma perfetta gloria del Rinascimento e rimasto visibile nelle stesse opere della decadenza come nel Pastor fido nell'Adone nel dramma di Metastasio cesse il posto alla forma naturale non convenzionale non manifatturata non tradizionale non classica ma nata col pensiero e sua espressione immediata. Perciò il Cesarotti rispondendo al libro del conte Napione Sull'uso e su' pregi della lingua italiana sostenea nel suo Saggio sulla filosofia delle lingue che la lingua non è un fatto arbitrario e regolato unicamente dall'uso e dall'autorità ma che ha in sè la sua ragion d'essere; che la sua ragion d'essere è nel pensiero e quella parola è migliore che meglio renda il pensiero ancorchè non sia toscana e non classica e sia del dialetto o addirittura forestiera con inflessione italiana. Cosa era quel Saggio? Era l'emancipazione della lingua dall'autorità e dall'uso in nome della filosofia e della ragione come si volea in tutte le istituzioni sociali; era la ragione il senso logico che penetrava nella grammatica e nel vocabolario; era lo spirito moderno che violava quelle forme consacrate e fossili logore per lungo uso e dava loro un'aria cosmopolitica l'aria filosofica a scapito del colore locale e nazionale. Aggiungendo l'esempio al precetto il Cesarotti pigliò tutte le parole che gli venivano innanzi senza domandar loro onde venivano e come era uomo d'ingegno e avea mente chiara e spirito vivace formò di tutti gli elementi stranieri e indigeni della conversazione italiana una lingua animata armonica vicina al linguaggio parlato intelligibile dall'un capo all'altro d'Italia. Gli scrittori intenti più alle cose che alle parole e stufi di quella forma in gran parte latina che si chiamava “letteraria” screditata per la sua vacuità e insipidezza si attennero senza più all'italiano corrente e locale così com'era mescolato di dialetto e avvivato da vocaboli e frasi e costruzioni francesi: lingua corrispondente allo stato della coltura. Così si scriveva nelle parti settentrionali e meridionali d'Italia a Venezia a Padova a Milano a Torino a Napoli: così scrivevano Baretti Beccaria Verri Gioia Galiani Galanti Filangieri Delfico Mario Pagano. Resistenza ci era massime a Firenze patria della Crusca e a Roma patria dell'Arcadia: schiamazzi di letterati e di accademici abbandonati dal pubblico. Lo stesso era per lo stile. Si cercavano le qualità opposte a quelle che costituivano la forma letteraria. Si voleva rapidità naturalezza e brio. Tutto ciò che era finimento ornamento riempitura eleganza fu tagliato via come un ingombro. Non si mirò più ad una perfezione ideale della forma ma all'effetto a produrre impressioni sul lettore tenendo deste e in moto le sue facoltà intellettive. I secreti dello stile furono chiesti alla psicologia a uno studio de' sentimenti e delle impressioni base del Trattato dello stile del Beccaria. Al vuoto meccanismo dottamente artificioso solletico dell'orecchio detto “stile classico” e ridotto oramai un frasario pesante e noioso succedeva un modo di scrivere alla buona e al naturale vispo rotto ineguale pieno di movimenti imitazione del linguaggio parlato. Tipo dell'uno era il trattato; tipo dell'altro era la gazzetta. Il principio da cui derivava quella rivoluzione letteraria era l'imitazione della natura o come si direbbe il realismo nella sua verità e nella sua semplicità reazione alla declamazione e alla rettorica a quella maniera convenzionale che si decorava col nome d'“ideale” o di “forma perfetta”. La vecchia letteratura era assalita non solo nella sua lingua e nel suo stile ma ancora nel suo contenuto. L'eroico l'idillico l'elegiaco che ancora animava quelle liriche quelle prediche quelle orazioni quelle tragedie non attecchiva più se n'era sazii sino al disgusto. L'eroico era esagerazione; l'idillio era noia; l'elegia era insipidezza; pastori e pastorelle eroi romani e greci erano giudicati un mondo convenzionale già consumato come letteratura buono al più a esser messo in musica come facea Metastasio. Si volea rinnovare l'aria rinfrescare le impressioni si cercava un nuovo contenuto un'altra società un altro uomo altri costumi. Vennero in moda i turchi i cinesi i persiani. Si divoravano le Lettere persiane di Montesquieu. L'Ossian era preferito all'Iliade. Comparve l'uomo naturale l'uomo selvaggio l'uomo di Hobbes e di Grozio l'uomo che fa da sè Robinson Crusoè. Il cavaliere errante divenne il borghese avventuriere tipo Gil Blas. E ci fu anche la donna errante la filosofessa la “lionne” di oggi che stimava pregiudizio ogni costume e decoro femminile. Ci fu l'uomo collocato in società in lotta con essa in nome delle leggi naturali e spesso sua vittima come donne maritate o monacate a forza o sedotte figli naturali calpestati da' legittimi poveri oppressi dai ricchi scienza soverchiata da ciarlatani le Clarisse le Pamele gli Emilii i Chatterton. Questo nuovo contenuto conforme al pensiero filosofico che allora investiva la vecchia società in tutte le sue direzioni veniva fuori in romanzi novelle lettere tragedie commedie una specie di repertorio francese che faceva il giro d'Italia. Il concetto fondamentale era la legge di natura in contrasto con la legge scritta la proclamazione sotto tutte le forme de' dritti dell'uomo dirimpetto la società che li violava. I capiscuola erano Rousseau Voltaire Diderot. Seguiva la turba. Tra questi Mercier ebbe molto séguito in Italia e vi furono rappresentati i suoi drammi: il Disertore l'Amor Familiare il Jevenal l'Indigente. Nel Disertore hai un giovine virtuoso e amabile che per soccorrere il padre e per amore lascia il suo reggimento ed è dannato a morte: è il grido della natura contro la legge scritta. Nell'Amor familiare è descritta con vivi colori l'oppressione degli eretici ne' paesi cattolici. Jeneval è il contrario della Clarissa: è un don Giovanni femmina una Rosalia che seduce il giovine e inesperto Jeneval fino al delitto. Nell'Indigente è vivo il contrasto tra il ricco ozioso libidinoso corteggiato e potente che fa mercato di tutto anche del matrimonio; e il povero operoso e virtuoso disprezzato e oppresso. A contenuto nuovo nomi nuovi. Commedia e tragedia parve l'uomo mutilato e ingrandito veduto da un punto solo ed oltre il naturale. La critica da' bassi fondi della lingua e dello stile si alzava al concetto dell'arte alla sua materia e alla sua forma al suo scopo e a' suoi mezzi. Iniziatore di quest'alta critica che fu detta “estetica” era Diderot. Da lui usciva l'affermazione dell'ideale nella piena realtà della natura che è il concetto fondamentale della filosofia dell'arte. L'ideale scendeva dal suo piedistallo olimpico e non era più un di là si mescolava tra gli uomini partecipava alle grandezze e alle miserie della vita; non era un iddio sotto nome di uomo era l'uomo; non era tragedia e non commedia era il dramma. La poesia era storia come la storia era poesia. L'ideale era la stessa realtà non mutilata non ingrandita non trasformata non scelta; ma piena concreta naturale in tutte le sue varietà la realtà vivente. La tragedia ammetteva il riso e la commedia ammetteva la lacrima; s'inventò la “commedia lacrimosa” e la “tragedia borghese”. Il nuovo ideale non era l'idillio o l'eroe de' tempi feudali: era il semplice borghese in lotta con la vita e con la società e che sente della lotta tutt'i dolori e le passioni. Come il bambino entra nel mondo tra le lacrime così l'ideale uscendo dalla sua astrazione serena entrava nella vita lacrimoso era patetico e sentimentale. Le Notti di Young ispiravano ad Alessandro Verri le Notti romane. Rousseau col suo sentimentalismo rettorico faceva una impressione così profonda come col suo naturalismo filosofico. Questi concetti e questi lavori frutto di una lunga elaborazione presso i francesi giungevano a noi tutt'in una volta come una inondazione destando l'entusiasmo degli uni le collere degli altri. Le quistioni di lingua e di stile si elevavano divenivano quistioni intorno allo stesso contenuto dell'arte: in breve tempo la critica meccanica diveniva psicologica e la critica psicologica si alzava all'estetica. La vecchia letteratura combattuta ne' suoi mezzi tecnici era ancora contraddetta nella sua sostanza nel suo contenuto. Ritrarre dal vero era la demolizione dell'eroico com'era concepito e praticato fra noi: cosa divenivano gli eroi di Metastasio? Il patetico e il sentimentale era la condanna di quegl'ideali oziosi sereni noiosi che costituivano l'idillio: cosa diveniva l'Arcadia? Il teatro si diceva non è un passatempo è una scuola di nobili sentimenti e di forti passioni: cosa divenivano le commedie a soggetto? Tutto era riforma. L'abate Genovesi Verri Galiani davano addosso al vecchio sistema economico; la vecchia legislazione era combattuta da Beccaria; tutti gli ordini sociali erano in quistione; Filangieri andando alla base proponeva la riforma dell'istruzione e dell'educazione nazionale; principi e ministri sospinti dalla opinione iniziavano riforme in tutt'i rami dell'azienda pubblica. La vecchia letteratura non poteva durare così: ci voleva anche per lei la riforma. Già non produceva più non destava più l'attenzione: tutto era canto e musica tutto era filosofia. Si concepisce in questo stato degli spiriti il maraviglioso successo de' romanzi e delle commedie dell'abate Chiari che per sostentare la vita adulava il pubblico e gli offriva quell'imbandigione che più desiderava. Sarebbe interessante un'analisi delle infinite opere già tutte dimenticate del Chiari perchè mostrerebbe qual era il genio del tempo. Donne erranti filosofesse gigantesse figli naturali ratti di monache scontri notturni finestre scalate avvenimenti mostruosi caratteri impossibili un eroico patetico e un patetico sdolcinato una filosofia messa in rettorica un impasto di vecchio e di nuovo di ciò che il nuovo avea di più stravagante e di ciò che il vecchio avea di più volgare: questo era il cibo imbandito dal Chiari. Il Martelli aveva inventato il verso alla francese come prima si era inventato il verso alla latina. Parve cosa stupenda al Chiari e ne fece molto uso e fino la Genesi voltò in versi martelliani. Questo impiastricciatore del Chiari è l'immagine di un tempo che la vecchia letteratura se ne andava e la nuova fermentava appena in quella prima confusione delle menti; sicchè egli ha tutt'i difetti del vecchio e tutte le stranezze del nuovo. Ben presto si trovò fra' piedi Carlo Goldoni costretto dalle stesse necessità della vita a servire e compiacere al pubblico. Per qualche tempo si accapigliarono i partigiani del Chiari e del Goldoni. E tra' due contendenti sorse un terzo che die' addosso all'uno e all'altro: dico Carlo Gozzi fratello di Gaspare. Uscì a Parigi la Tartana degl'influssi caricatura di due comici:

Gozzi avea maggior coltura del Chiari e del Goldoni era d'ingegno svegliatissimo avea fatto buoni studi come il fratello apparteneva all'accademia de' Granelleschi che si proponeva di ristaurare la buona lingua della quale quei due si mostravano ignorantissimi. Tutto quel mondo nuovo letterario predicato con tanta iattanza e venuto fuori con tanta stravaganza non gli parea una riforma gli parea una corruzione e non solo letteraria ma religiosa politica e civile:

La sua Marfisa è una caricatura de' nuovi romanzi alla maniera del Chiari. Carlo magno e i paladini diventano oziosi e vagabondi; Bradamante una spigolistra casalinga; Marfisa l'eroina guasta da' libri nuovi vaporosa sentimentale isterica bizzarra e finisce tisica e pinzochera. La mira era alle donne del Chiari e de' romanzi in voga. Gli parea che quel predicar continuo “dritti naturali” “leggi naturali” “religione naturale” “uguaglianza” “fratellanza” dovesse render gli uomini cattivi sudditi ammaestrandoli di troppe cose e avvezzandoli a guardare con invidia al di sopra della loro condizione. Questo pericolo era più grave quando massime tali fossero predicate in teatro che non era una scola ma un passatempo; e invocava contro i predicatori di così nuova morale la severità dei governi. Il povero Chiari non ci capiva nulla. Goldoni che era un puro artista come il Metastasio buon uomo e pacifico e che di tutto quel movimento del secolo non vedeva che la parte letteraria dovea trasecolare a sentirsi dipingere poco meno che un ribelle un nemico della società. Vi si mescolarono gl'interessi delle compagnie comiche che si disputavano furiosamente gli scarsi guadagni. Gozzi difendeva la compagnia Sacchi tornata di Vienna e trovato il suo posto preso dalle compagnie Chiari e Goldoni. Il Sacchi era l'ultimo di quei valenti improvvisatori comici che giravano l'Europa e mantenevano la riputazione della commedia italiana a Vienna a Parigi a Londra. Musici cantanti e improvvisatori erano la merce italiana che ancora avea corso di là dalle Alpi. La commedia a soggetto alzatasi sulle rovine delle commedie letterarie accademiche e noiose era padrona del campo a Roma a Napoli a Bologna a Milano a Venezia. Era della vecchia letteratura il solo genere vivo ancora considerato gloria speciale d'Italia e solo che ricordasse ancora in Europa l'arte italiana. Gli attori venuti in qualche fama andavano a Parigi dov'erano meglio retribuiti. Ma come a Parigi Molière fondava la commedia francese combattendo le commedie a soggetto italiane; così a Venezia Goldoni vagheggiando a sua volta una riforma della commedia l'avea forte con le maschere e con le commedie a soggetto. Questo pareva al Gozzi quasi un delitto di lesa-nazione un attentato ad una gloria italiana. La contesa oggi sembra ridicola e pare che potevano vivere in buon'amicizia l'uno e l'altro genere. Ma ci era la passione e ci era l'interesse e i sangui si scaldarono e molte furono le dispute insino a che Goldoni cedendo il campo andò a Parigi. La sua fama s'ingrandì e impose silenzio al Baretti e rispetto al Gozzi soprattutto quando Voltaire lo ebbe messo accanto a Molière. Da tutto quell'arruffio non uscì alcun progresso notabile di critica essendo i Ragionamenti del Gozzi pieni più di bile che di giudizio e vuote e confuse generalità come di uomo che non conosca con precisione il valore de' vocaboli e delle quistioni. Ma ne uscirono i primi tentativi della nuova letteratura le commedie del Goldoni e le fiabe del Gozzi la commedia borghese e la commedia popolana.

Carlo Goldoni era come Metastasio artista nato. Di tutti e due se ne volea fare degli avvocati. Anzi Goldoni fece l'avvocato con qualche successo. Ma alla prima occasione correva appresso agli attori insino a che il natural genio vinse. Tentò parecchi generi prima di trovare se stesso. Zeno e Metastasio erano le due celebrità del tempo; il dramma in musica era alla moda. Scrisse l'Amalasunta il Gustavo l'Oronte più tardi il Festino e qualche altro melodramma buffo; scrisse anche tragedie la Rosmonda la Griselda l'Enrico e tragicommedie come il Rinaldo. Poeta stipendiato di compagnie comiche costretto in ciascuna stagione teatrale di dare parecchie opere nuove e in una stagione ne die' sedici saccheggiò raffazzonò tolse di qua e di là ne' repertori italiani e francesi e anche ne' romanzi. Non ci era ancora il poeta ci era il mestierante; ci era Chiari non ci era ancora Goldoni. Trattava ogni maniera di argomento secondo il gusto pubblico commedie sentimentali commedie romanzesche come la Pamela Zelinda e Lindoro la Peruviana la Bella selvaggia la Bella georgiana la Dalmatina la Scozzese l'Incognita l'Ircana raffazzonamenti la più parte e imitazioni francesi. Scrisse anche commedie a soggetto come il Figlio di Arlecchino perduto e ritrovato le Trentadue disgrazie di Arlecchino. Si rivelò a se stesso e al pubblico nella Vedova scaltra. Cominciarono le critiche e cominciò lui ad avere una coscienza d'artista. La vecchia letteratura ondeggiava tra il seicentismo e l'arcadico il gonfio e il volgare. Goldoni nelle sue Memorie dice:

“I miei compatriotti erano accostumati da lungo tempo alle farse triviali e agli spettacoli giganteschi. La mia versificazione non è mai stata di stil sublime; ma ecco appunto quel che bisognava per ridurre a poco a poco nella ragione un pubblico accostumato alle iperboli alle antitesi ed al ridicolo del gigantesco e romanzesco.”

Per sua ventura gli capitò una buona compagnia.

“- Ora - diceva io a me medesimo - ora sto bene e posso lasciare il campo libero alla mia fantasia. Ho lavorato quanto basta sopra vecchi soggetti. Avendo presentemente attori che promettono molto convien creare conviene inventare. Ecco forse il momento di tentare quella riforma che ho in vista da così lungo tempo. Convien trattare soggetti di carattere: essi sono la sorgente della buona commedia; ed è appunto con questi che il gran Molière diede principio alla sua carriera e pervenne a quel grado di perfezione che gli antichi ci avevano soltanto indicato e che i moderni non hanno ancor potuto eguagliare. -”

Goldoni conosceva pochissimo Plauto e Terenzio; faceva di cappello a Orazio e Aristotile; rispettava per tradizione le regole; ma dice: “Non ho mai sacrificata una commedia che poteva esser buona ad un pregiudizio che la poteva render cattiva”. Ciò che chiama “pregiudizio” è l'unità di luogo. La sua scarsa coltura classica avea questo di buono: che tenea il suo spirito sgombro da ogni elemento che non fosse moderno e contemporaneo. Ciò ch'egli vagheggia non è la commedia dotta regolata letteraria alla latina o alla toscana di cui ultimo esempio dava il Fagiuoli; ma la buona commedia com'egli la concepiva: “La commedia essendo stata la mia tendenza la buona commedia dee esser la mia meta.” E il suo concetto della buona commedia è questo: “Tutta l'applicazione che ho messa nella costruzione delle mie commedie è stata quella di non guastar la natura”. Carattere idillico superiore a' pettegolezzi e alle invidiuzze provinciali del letterato italiano pigliandosi la buona e la cattiva fortuna con eguaglianza d'animo quest'uomo che visse i suoi bravi ottantasei anni e morì a Parigi pochi anni dopo il Metastasio morto a Vienna dice di sè:

“Il morale da me è analogo al fisico; non temo nè il freddo nè il caldo e non mi lascio infiammar dalla collera nè ubbriacar dalla gioia.”

Con questo temperamento più di spettatore che di attore mentre gli altri operavano Goldoni osservava e li coglieva sul fatto. La natura bene osservata gli pareva più ricca che tutte le combinazioni della fantasia. L'arte per lui era natura era ritrarre dal vero. E riuscì il Galileo della nuova letteratura. Il suo telescopio fu l'intuizione netta e pronta del reale guidata dal buon senso. Come Galileo proscrisse dalla scienza le forze occulte l'ipotetico il congetturale il soprannaturale così egli volea proscrivere dall'arte il fantastico il gigantesco il declamatorio e il rettorico. Ciò che Molière avea fatto in Francia lui voleva tentare in Italia la terra classica dell'accademia e della rettorica. La riforma era più importante che non apparisse; perchè riguardando specialmente la commedia avea a base un principio universale dell'arte cioè il naturale nell'arte in opposizione alla maniera e al convenzionale. Goldoni avea da natura tutte le qualità che si richiedevano al difficile assunto: finezza di osservazione e spirito inventivo misura e giustezza nella concezione calore e brio nella esecuzione. La Mandragola capitatagli ch'era giovanissimo gli avea fatta molta impressione. Il Misantropo l'Avaro il Tartufo le Preziose e simili commedie di Molière compirono la sua educazione. Il fondamento della commedia italiana era l'intreccio; la buona commedia come la concepiva lui dovea avere a fondamento il carattere. - Voi avete la commedia d'intreccio; io voglio darvi la commedia di carattere - diceva Goldoni. E commedia di carattere era tirare l'effetto non dalla moltiplicità di avvenimenti straordinari ma dallo svolgimento di un carattere nelle situazioni anche più ordinarie della vita. Era tutt'un altro sistema e non solo nella commedia ma nello scopo e ne' mezzi dell'arte. Il protagonista nel primo sistema è il caso o l'accidente le cui bizzarre combinazioni generano il maraviglioso. Gli uomini ci stanno come figure o comparse appena schizzati avvolti nel turbine degli avvenimenti. La vita è nella superficie: l'interno è occulto. In questa superficialità ottusa si era consunta la vecchia letteratura ed esaurite tutte le forme del maraviglioso non bastava più a conseguire l'effetto con mezzi propri senza il sussidio del canto della musica del ballo della mimica della declamazione. La parola non era più il principale: era l'accessorio il semplice tema l'occasione. Anche la commedia si credea inetta a conseguire il suo effetto senza il sussidio delle maschere senza quell'improvviso de' lazzi degli Arlecchini de' Truffaldini de' Brighella e de' Pantaloni. Ora l'idea fissa di Goldoni era che la commedia potea per sè sola interessare il pubblico e che non le era necessario a ciò lo spettacoloso il gigantesco il maraviglioso in maschera e senza maschera. La sua riforma era in fondo la restaurazione della parola la restituzione della letteratura nel suo posto e nella sua importanza la nuova letteratura. E vide chiaramente che a ristaurare la parola bisognava non lavorare intorno alla parola ma intorno al suo contenuto rifare il mondo organico o interiore dell'espressione. Questo vide nella commedia e mirò a instaurarvi non gli elementi formali e meccanici ma l'interno organismo sopra questo concetto che la vita non è il gioco del caso o di un potere occulto ma è quale ce la facciamo noi l'opera della nostra mente e della nostra volontà. Concetto del Machiavelli dal quale usciva la Mandragola. Perciò il protagonista è l'uomo con le sue virtù e le sue debolezze che crea o regola gli avvenimenti o cede in balìa di quelli. Manca a Goldoni non la chiarezza ma l'audacia della riforma obbligato spesso a concessioni e a mezzi termini per contentare il pubblico la compagnia e gli avversari. E come era il suo carattere vinse talora più con la pazienza o la destrezza che con la risoluta tenacità de' propositi. Di queste concessioni trovi i vestigi nelle sue migliori commedie dove non rifiuta certi mezzi volgari e grossolani di ottenere gli applausi della platea. E mi spiego come insino all'ultimo continuò nel romanzesco nel sentimentale e nell'arlecchinesco: le necessità del mestiere contrastavano alle aspirazioni dell'artista. D'altra parte intento all'interno organismo della commedia neglesse troppo l'espressione e per volerla naturale la fece volgare sì che le sue concezioni si staccano vigorose da una forma più simile a pietra grezza che a marmo. Ciò che in lui rimane è quel mondo interno della commedia tolto dal vero e perfettamente sviluppato nelle situazioni e nel dialogo. Il centro del suo mondo comico è il carattere. E questo non è concepito da lui come un aggregato di qualità astratte ma è còlto nella pienezza della vita reale con tutti gli accessorii. Base è la società veneziana nella sua mezzanità più vicina al popolo che alle classi elevate: ciò che dà più presa al comico per quei moti improvvisi ineducati indisciplinati che son propri della classe popolana alla quale si accostava molto la borghesia veneta non giunta ancora a quel raffinamento e delicatezza di forme che sono come l'aria della civiltà. I caratteri come il maldicente il bugiardo l'avaro l'adulatore il cavalier servente inviluppati in quest'atmosfera escono fuori vivi coloriti originali nuovi vi contraggono la forma della loro esistenza. Ci è nel loro impasto del grossolano e dell'improvviso; anzi qui è la fonte del comico. Cadendo in nature di uomini non disciplinate dall'educazione paion fuori in modo subitaneo e senza freno o ritegno o riguardo in tutta la loro forza primigenia e producono con quella loro improvvisa grossolanità la più schietta allegria tipo il Burbero benefico. Non essendo concezioni subbiettive e astratte ma studiate dal vero e colte nel movimento della vita il comico non si sviluppa per via di motti riflessioni e descrizioni (ciò che dicesi propriamente “spirito” e appartiene a una società più colta e raffinata) ma erompe nella brusca vivacità delle situazioni e dei contrasti. Il Goldoni è felicissimo a trovare situazioni tali che il carattere vi possa sviluppare tutte le sue forze. La situazione è per lo più unica semplice naturalissima sobriamente variata messa in rilievo da qualche contrasto di rado complicata o inviluppata graduata con un crescendo di movimenti drammatici e ti porta rapidamente alla fine tra la più viva allegria. Indi viene la superiorità del suo dialogo che è azione parlata di rado interrotta o raffreddata per soverchio uso di riflessioni e di sentenze. La situazione non è mai perduta di vista non digressioni non deviazioni rari intermezzi o episodi; nessuna parte troppo accarezzata o rilevata; onde è che l'interesse è nell'insieme e di rado se ne stacca un personaggio una scena un motto. Tutto è collegato saldamente con tutto: la situazione è il carattere stesso in posizione nelle sue determinazioni; l'azione è la stessa situazione nel suo sviluppo; il dialogo è la stessa azione ne' suoi movimenti. Questo mondo poetico ha il difetto delle sue qualità: nella sua grossolanità è superficiale e nella sua naturalezza è volgare. In quel suo correre diritto e rapido il poeta non medita non si raccoglie non approfondisce; sta tutto al di fuori gioioso e spensierato indifferente al suo contenuto e intento a caricarlo quasi per suo passatempo e con l'aria più ingenua senza ombra di malizia e di mordacità: onde la forma del suo comico è caricatura allegra e smaliziata che di rado giunge all'ironia. Nel suo studio del naturale e del vero trascura troppo il rilievo e se ha il brio del linguaggio parlato ne ha pure la negligenza; per fuggire la rettorica casca nel volgare. Gli manca quella divina malinconia che è l'idealità del poeta comico e lo tiene al di sopra del suo mondo come fosse la sua creatura che accarezza con lo sguardo e non la lascia che non le abbia data l'ultima finitezza. Attribuiscono il difetto alla sua ignoranza della lingua ed alla soverchia fretta; il che se vale a scusare le sue scorrezioni non è bastante a spiegare il crudo e lo sciacquo del suo colorito.

La nuova letteratura fa la sua prima apparizione nella commedia del Goldoni annunziandosi come una ristaurazione del vero e del naturale nell'arte. Se la vecchia letteratura cercava ottenere i suoi effetti scostandosi possibilmente dal reale e correndo appresso allo straordinario o al maraviglioso nel contenuto e nella forma la nuova cerca nel reale la sua base e studia dal vero la natura e l'uomo. La maniera il convenzionale il rettorico l'accademico l'arcadico il meccanismo mitologico il meccanismo classico l'imitazione la reminiscenza la citazione tutto ciò che costituiva la forma letteraria è sbandito da questo mondo poetico il cui centro è l'uomo studiato come un fenomeno psicologico ridotto alle sue proporzioni naturali e calato in tutte le particolarità della vita reale. Vero è che la realtà è appena lambita e le sue profondità rimangono occulte. Ma la via era quella e in capo alla via trovi Goldoni.

A Carlo Gozzi parea che quel vero e quel naturale fosse la tomba della poesia; e quando il successo del Goldoni gl'impose rispetto parlando pure con riguardo dell'avversario non potè risolversi ad accettare per buona la sua riforma. Il romanzesco il gigantesco l'arlecchinesco o in altri termini il mirabile e il fantastico gli parevano elementi essenziali della poesia; quel ritrarre dal reale gli pareva una volgarità. D'altra parte non vedea senza rincrescimento assalita da ogni parte la commedia a soggetto che gli sembrava una gloria italiana. Dicevano che l'era oramai un vecchio repertorio che l'era ridotta a mero meccanismo che l'era una scuola d'immoralità di scurrilità roba da trivio “goffe buffonate fracidumi indecenti in un secolo illuminato”. C'era esagerazione nelle accuse ma un fondamento di verità c'era. La commedia improvvisa dell'arte o a soggetto era isterilita come tutt'i generi della vecchia letteratura e tutti quei lazzi che tanto divertivano erano con poca varietà un vecchiume trasmesso da una generazione all'altra: si viveva sul passato i nuovi attori riproducevano gli antichi; la parte improvvisata era così poco nuova e improvvisa come la parte scritta. Piaceva più che la commedia letteraria perchè ci era sempre maggior comunione col pubblico; ma oramai quel Dottor bolognese e Truffaldino stancavano come un professore che ripeta ogni anno lo stesso corso. I letterati e i fautori delle commedie regolate ne pigliavano argomento per dichiarar guerra alle maschere e volevano proscrivere addirittura quel genere di commedia “indecente in un secolo illuminato”. Gozzi che l'avea contro quei lumi e vedea di mal occhio tutte quelle novità che ci venivano d'oltralpe se ne fece paladino e scese in campo co' ragionamenti e coll'esempio scrivendo sotto nome di “fiabe” commedie con le maschere e perciò con una parte improvvisata le quali ebbero successo grandissimo e oggi sono quasi dimenticate. Gozzi parea a quel tempo un retrivo e Goldoni era il riformatore; pure avrei desiderato a Goldoni un po' di quella fibra rivoluzionaria ch'era in quel retrivo: chè così sarebbe proceduto più ardito e conseguente nella sua riforma. Il “taciturno solitario” Gozzi come lo chiamavano era uomo d'ingegno; e perciò penetrato della vita contemporanea e trasformato senza saperlo da quelle stesse idee nuove che gli movevano la bile. Volendo ristaurare il vecchio si chiarì novatore e riformatore e correndo dietro alla commedia a soggetto s'incontrò nella commedia popolana e ne fissò la base. Grande confusione era nella sua testa come si vede da' suoi ragionamenti; indi la sua debolezza. Goldoni sa quello che vuole ha la chiarezza dello scopo e dei mezzi e va diritto e sicuro: perciò la sua influenza rimase grandissima. Ma Gozzi non ha chiaro lo scopo e vuole una cosa e fa un'altra e procede a balzi tirato da varie correnti. Vuole favorire le maschere; vuole parodiare gli avversari; vuole rifare Pulci e Ariosto ristaurando il fantastico; vuole toscaneggiare e vuole insieme essere popolare e corrente; vuol ricostruire il vecchio e comparir nuovo. Fini transitorii i quali poterono interessare i contemporanei dargli vinta la causa nella polemica e nel teatro e che oggi sono la parte morta del suo lavoro. Queste intenzioni penetrano in tutta la composizione come elementi perturbatori e rimasti inconciliati. Ciò che resta di lui è il concetto della commedia popolana in opposizione alla commedia borghese. Le maschere cioè certi caratteri o caricature tipiche del popolo come Tartaglia Pantalone Truffaldino Brighella Smeraldina rimangono nella sua composizione come elementi di obbligo e convenzionali accessorii spesso grotteschi e insipidi per rispetto al contenuto innestati e soprapposti. Il contenuto è il mondo poetico com'è concepito dal popolo avido del maraviglioso e del misterioso impressionabile facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale nelle sue forme miracolo stregoneria magia. Questo mondo dell'immaginazione tanto più vivo quanto meno l'intelletto è sviluppato è la base naturale della poesia popolana sotto le sue diverse forme conti novelle romanzi storie commedie farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita; ma per demolirlo per gittarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità drammatizzare la fiaba o la fola cercare ivi il sangue giovine e nuovo della commedia a soggetto questo osò Gozzi in presenza di una borghesia scettica e nel secolo de' lumi nel secolo degli “spiriti forti” e de' “belli spiriti”. E riuscì a interessarvi il pubblico perchè quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che maneggiate da abile mano d'artista suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo. E poichè il pubblico s'interessava ancora alla commedia del Goldoni se ne doveva conchiudere se le conclusioni ragionevoli fossero possibili in mezzo alla disputa che tutti e due i generi erano conformi al vero l'uno rappresentando la società borghese nella sua mezza coltura e l'altro il popolo nelle sue credulità e ne' suoi stupori. E tutti e due erano una riforma della commedia ne' due suoi aspetti la commedia dotta e la commedia improvvisa: era l'apparizione della nuova letteratura. Ma questo che fece Gozzi non era precisamente quello che credeva di fare. Ci si messe per picca e per occasione disprezzava il pubblico che l'applaudiva non prendeva sul serio la sua opera e perchè Goldoni imitava dal vero s'innamorò lui del romanzesco e del fantastico. Ora l'arte non è un capriccio individuale e perchè Shakespeare ti piace non ne viene che tu possa rifare Shakespeare quando anche avessi forza da ciò. L'arte come religione e filosofia come istituzioni politiche ed amministrative è un fatto sociale un risultato della coltura e della vita nazionale. Gozzi volea rifare un mondo dell'immaginazione quando egli medesimo segnava la dissoluzione di quel mondo nella Marfisa quando la parte colta e intelligente della nazione era mossa da impulsi affatto contrari e quando il popolo ebete nella sua miseria stava come una massa inerte e non dava segno di vita letteraria. Se Gozzi fosse sceso in mezzo al popolo e vi avesse attinte le sue ispirazioni potea forse fare opera viva. Ma Gozzi era aristocratico odiava tutte quelle novità che sentivano troppo di democrazia e viveva co' suoi Granelleschi in un ambiente puramente letterario. Rimase perciò un letterato non divenne un poeta. Oltre a ciò un fatto letterario in quel tempo non potea sorgere di mezzo al popolo divenuto acqua stagnante; un movimento c'era e veniva dalla borghesia e con quelle tendenze si sviluppava la vita nazionale in tutt'i suoi indirizzi. Creare un mondo d'immaginazione quando la guerra era appunto contro l'immaginazione in nome della scienza e della filosofia era un andare a ritroso. Gozzi nacque troppo presto. Venne il tempo che la borghesia spaventata da quelle esagerazioni che stomacavano Gozzi si riafferrò a quel mondo soprannaturale come a tavola di salute. Quello era il tempo di Gozzi; e Gozzi ci fu e si chiamò Manzoni. Al suo tempo Gozzi fu un elemento contraddittorio e perciò inconcludente; e la sua idea altamente estetica in astratto riuscì un fatto letterario e artificiale. Volea ristorare l'antico odiava le novità e senza saperlo le portava nel suo seno: ond'è che tratta quel suo mondo dell'immaginazione a quello stesso modo che il forense Goldoni rappresenta la sua società borghese. Gli manca il chiaroscuro gli manca l'impressione e il sentimento del soprannaturale anzi il suo studio è di rappresentarlo con tutte le apparenze della naturalezza come fosse un fatto vulgare e ordinario a quel modo che andava predicando Goldoni. Perciò il suo stile non ha rilievo il suo colorito non ha trasparenza le sue tinte non sono fuse e volendo esser naturale spesso ti casca nell'insipido e nel volgare. La naturalezza di questo mondo è nella ingenuità delle sue impressioni curiosità maraviglia sospensione terrore collera pianti riso com'è ne' racconti delle società primitive. Questa ingenuità è perduta la naturalezza di Gozzi è negligenza e volgarità.

Quelle apparizioni non hanno per lui serietà sono giochi e passatempi; perciò scherzi abborracciati e senza alcun valore proprio che aiutati dalla mimica da' lazzi dallo scenario potevano produrre effetto nella rappresentazione e alla lettura piacciono senza che ti lascino nell'animo alcun vestigio. Il Baretti predicava in lui un nuovo Shakespeare e quando gli fallì alla prova se la prese con lui furiosamente come l'avesse tradito e dovea prendersela con sè medesimo che andava sognando un Shakespeare nel secolo decimottavo. Che avvenne? La commedia popolana ritornò nel suo pantano con le sue maschere le sue indecenze e le sue volgarità e di Gozzi rimase una bella idea presto dimenticata. La società prendeva altra via e seguiva Goldoni.

 

Il movimento a Venezia rimase puramente letterario. C'era un centro toscaneggiante nell'accademia de' Granelleschi divenuta presto ridicola della quale erano anima i fratelli Gozzi; e c'era dall'altra parte Goldoni con intenzioni più alte che attingevano l'organismo dell'arte. Il solo Carlo Gozzi presentì il significato politico del movimento e sonò la campana a stormo; ma nessuno rispose perchè il nemico non si trovò. Goldoni anche a Parigi non ci capiva nulla in quel vertiginoso rimescolio d'idee e Rousseau non era per lui che un fenomeno curioso un magnifico carattere da commedia qualche cosa come il “burbero benefico”. Questa sua concentrazione in un punto solo e la sua perfetta innocenza in tutto l'altro fu la sua forza e la sua debolezza. La sua idea fissa ch'era rappresentare dal vivo e dal vero e non guastar la natura era il principio rinnovatore della letteratura negazione dell'Arcadia ricostituzione del contenuto e della forma incarnato in alcune commedie di esecuzione più o meno perfetta ma tutte indimenticabili per la chiarezza e la verità della concezione delle situazioni e de' caratteri: qui fu la sua forza. E la sua debolezza fu il carattere meramente letterario della sua riforma che lo tiene nella superficie e gli fa produrre un mondo locale e particolare a cui la sua indifferenza religiosa filosofica politica morale sociale la sua poca coltura la scarsezza de' suoi motivi interni toglie rilievo e vigore toglie quella idealità che viene da un significato generale e permanente. Cosa manca a Goldoni? Non lo spirito non la forza comica non l'abilità tecnica: era nato artista. Mancò a lui quello che a Metastasio: gli mancò un mondo interiore della coscienza operoso espansivo appassionato animato dalla fede e dal sentimento. Mancò a lui quello che mancava da più secoli a tutti gl'italiani e che rendeva insanabile la loro decadenza: la sincerità e la forza delle convinzioni. Ciò che attestava una possibile rigenerazione era la riapparizione di quel mondo interiore negli spiriti più eletti che rimetteva in moto il cervello e svegliava il sentimento. Il maggiore impulso veniva dal di fuori. Ma l'entusiasmo pubblico mostrava che ci era la materia atta a riceverlo e che l'Italia dopo lungo riposo si rimetteva in via. Nel mezzodì l'attività speculativa da Telesio a Coco non mancò mai e vi si era formata una scuola liberale che avea per materia la quistione giurisdizionale e si andava allargando a tutte le utili riforme nell'assetto dello Stato: quando le nuove idee vi si affacciarono trovarono gli spiriti educati e pronti a riceverle e se ne fecero interpreti eloquenti ed efficaci Filangieri Pagano e Galiani. Vi si andava così elaborando un nuovo contenuto in una forma piena di spirito e di movimento spesso ingegnosa e appassionata filosofia volgarizzata col linguaggio vivo e spiritoso della gazzetta. Farse tragedie commedie orazioni dissertazioni prediche trattati sonetti tutt'i generi della vecchia letteratura continuavano la loro vita solita e meccanica senza alcun segno di movimento nel loro interno organismo imitazioni raffazzonamenti contraffazioni un mondo di convenzione accolto con applausi di convenzione. Già Salvator Rosa aveva a suon di tromba mosso guerra alla declamazione e alla rettorica senz'accorgersi che faceva della rettorica anche lui. Un po' di rettorica c'era pure in alcuno di quegli scrittori massime in Filangieri ma vivificata dalla novità e importanza delle cose e da quello spirito moderno e contemporaneo che desta sempre la più viva partecipazione. Il sentimento puramente letterario errante in quelle provincie tra il voluttuoso l'ingegnoso e il sentimentale ciò che vi rendea così popolari il Tasso e il Marino stagnato il movimento letterario s'era trasformato nel sentimento musicale e vi educava Metastasio e vi apparecchiava quella scuola immortale di maestri di musica che furono i veri padri di un'arte serbata a così grandi destini. La musica sorgeva animata da quegli stessi impulsi che non trovavano più soddisfazione nella imputridita forma letteraria sorgeva tutta melodia piena di voluttà di spirito e di sentimento. Mentre l'attività speculativa e il sentimento musicale si andava sviluppando nel mezzogiorno d'Italia e Goldoni tentava a Venezia la sua riforma della commedia Milano diveniva il centro intellettuale e politico della vita nuova principali motori Pietro Verri e Cesare Beccaria. A Venezia c'era l'accademia de' Granelleschi a Milano c'era l'accademia de' Trasformati. Lì si concepiva la riforma come una restaurazione degli studi classici e si combatteva il Goldoni ch'era il vero riformatore. Qui dominava sotto tutti gli aspetti lo spirito nuovo l'Enciclopedia vi era penetrata con tutto il corteggio degli scrittori francesi vi si elaboravano non frasi ma idee e per maggior libertà si usava non di rado il dialetto e non la lingua. Ci erano i due Verri il Beccaria il Baretti il Balestrieri il Passeroni; ci era il fiore dell'intelligenza milanese. Si chiamavano i Trasformati e si può dire che filosofia legislazione economia politica morale tutto lo scibile era già trasformato nelle loro menti con più o meno di chiarezza e di coscienza. La letteratura non potea sfuggire a questa trasformazione e alla solennità classica succedeva una forma svelta e naturale e ne' più briosa e sentimentale alla francese. Si rideva a spese di Alessandro Bandiera che voleva insegnar lingua e stile al padre Segneri da lui tenuto non abbastanza boccaccevole e di padre Branda che levava a cielo l'idioma toscano e scriveva vitupèri del dialetto. Il Passeroni metteva in canzone quella vecchia società nella Vita di Cicerone e nelle Favole esopiane e alla vuota turgidezza del Frugoni ai lambicchi dell'Algarotti a' lezii del Bettinelli che erano i tre poeti alla moda opponeva quel suo scrivere andante alla buona tutto buon senso e naturalezza. Bravissimo uomo senza fiele senza iniziativa rideva saporitamente della società in mezzo alla quale viveva povero e contento. Metastasio Goldoni e Passeroni erano della stessa pasta idillici e puri letterati. Sono i tre poeti della transizione. Vedi in loro già i segni di una nuova letteratura una forma popolare disinvolta rapida liquida chiara disposta più alla negligenza che all'artificio. Ma è sempre un giuoco di forma alla quale manca altezza e serietà di motivi; ci è il letterato manca l'uomo. Senti in questi riformatori il vecchio uomo italiano di cui era espressione letteraria l'arcade e l'accademico. Combattevano l'Arcadia ed erano più o meno arcadi.

In questi tempi di nuove idee e di vecchi uomini nacque Giuseppe Parini il 22 maggio del 1729. Venuto dal contado in Milano cominciò i soliti studi classici sotto i barnabiti e il padre Branda fu suo maestro di rettorica. Il babbo volle farne un prete per nobilitare il casato; ma sul più bello fu costretto per le strettezze domestiche a troncare i suoi studi e a ingegnarsi per trarre innanzi la vita. Fece il copista e il pedagogo e ne' dispregi e nella miseria si temprò il suo carattere. Come Metastasio e come tutt'i poeti di quel tempo cominciò arcade e le sue prime rime le leggi in una raccolta di poesie a cura di quegli accademici. Rivelò la sua personalità combattendo il padre Bandiera e il padre Branda di cui era stato un cattivo scolare. Pare che nella scuola facesse poco profitto impaziente soprattutto di quei giuochi di memoria che erano allora la sostanza degli studi. Padrone di sè ne' ritagli di tempo obbliava la sua miseria conversando con Virgilio Orazio Dante Ariosto e Berni. E che cosa dovea parergli il padre Branda col suo toscano o il padre Bandiera co' suoi periodi? Ma se aveva a dispetto quella pedanteria non gli rincresceva meno quel francesizzare de' più divenuto moda nelle alte e basse classi. Usando per il suo mestiere in case signorili potè studiare dappresso questa strana mescolanza di vecchio e di nuovo che costituiva allora la società italiana. Già questo pigliar subito posizione questo soprastare alla lotta e schivarne tutte le esagerazioni mostra una spiccata personalità. Hai innanzi un carattere.

Parini era uomo più di meditazione che di azione. Non aveva il gusto de' piaceri aveva pochi bisogni e nessuna cupidigia di onori e di ricchezze. La società non avea presa su di lui: rimase indipendente e solitario inaccessibile alle tentazioni e a' compromessi e come Dante fece parte da sè. Quel mondo nuovo che fermentava negli spiriti fondato sulla natura e sulla ragione e in opposizione al fattizio e al convenzionale del secolo giuntogli attraverso Plutarco e Dante più che per influssi francesi rimase in lui inalterato puro di quelle macchie e ombre che vi sovrappongono le vanità e le passioni e gl'interessi mondani perciò puro di esagerazioni e ostentazioni. Era in lui una interna misura quell'equilibrio delle facoltà che è la sanità dell'anima quella compiuta possessione di se stesso che è l'ideale del savio quella mente rettrice che sta sopra alle passioni e alle immaginazioni e le tiene nel giusto limite. La sua forza è più morale che intellettuale; perchè la sua intelligenza si alza poco più su del luogo comune ed è notabile più per giustezza e misura che per novità e profondità di concetti. Lo alza su' contemporanei la sincerità e vivacità del suo senso morale che gli dà un carattere quasi religioso ed è la sua fede e la sua ispirazione. Rinasce in lui quella concordia dell'intendere e dell'atto mediante l'amore che Dante chiamava sapienza: rinasce l'uomo.

E l'uomo educa l'artista. Perchè Parini concepisce l'arte allo stesso modo. Non è il puro letterato chiuso nella forma indifferente al contenuto; anzi la sostanza dell'arte è il contenuto e l'artista è per lui l'uomo nella sua integrità che esprime tutto se stesso il patriota il credente il filosofo l'amante l'amico. La poesia ripiglia il suo antico significato ed è voce del mondo interiore chè non è poesia dove non è coscienza la fede in un mondo religioso politico morale sociale. Perciò base del poeta è l'uomo.

La poesia riacquista la serietà di un contenuto vivente nella coscienza. E la forma si rimpolpa si realizza diviene essa medesima l'idea armonia tra l'idea e l'espressione.

La base del contenuto è morale e politica è la libertà l'uguaglianza la patria la dignità cioè la corrispondenza tra il pensiero e l'azione. È il vecchio programma di Machiavelli divenuto europeo e tornato in Italia. La base della forma è la verità dell'espressione la sua comunione diretta col contenuto risecata ogni mediazione. È la forma di Dante e di Machiavelli riverginata con esso il contenuto.Il contenuto è lirico e satirico. È l'uomo nuovo in vecchia società.

L'uomo nuovo non è un concetto o un tipo d'immaginazione; ha tutte le condizioni della realtà è esso medesimo il poeta. Protagonista di questo mondo lirico è Giuseppe Parini che canta se stesso esprime le sue impressioni si effonde così com'è nella ingenuità della sua natura. Spariscono i temi astratti e fattizi di religione di amore di moralità. Tutto è contemporaneo e vivo e concreto prodotto in mezzo al movimento de' fatti e delle impressioni. Il poeta ritirato nella pace della natura e nella calma della mente sta al di sopra del suo mondo e sente le sue agitazioni i suoi piaceri e le sue punture ma non sì che giungano a turbare l'eguaglianza e la serenità del suo animo. Ci è in questo uomo nuovo una vena d'idillio e di filosofia come di uomo solitario più spettatore che attore avvezzo a vivere tranquillo con sè a conservare l'occhio puro e spassionato nel giudizio delle cose. Ci è nel poeta un po' del pedagogo ammaestrando librando con giusta misura i fatti umani. Ma il pedagogo è trasfigurato nel poeta e vi perde ogni lato pedantesco e pretensioso. Il suo amore per la vita campestre non è misantropia anzi è accompagnato con la più tenera sollecitudine per l'umanità. La sua rigidità pel decoro e l'onestà femminile è raddolcita da un vivo sentimento della bellezza. La sua dignità è scevra di orgoglio la sua severità è amabile la sua virtù è pudica piena di grazia e di modestia. Ne' suoi concetti e ne' suoi sentimenti ci è sempre il limite un'armonica temperanza dov'è la sua perfezione intellettuale e morale di uomo e di poeta. Quando leggi la Vita rustica la Salubrità dell'aria il Pericolo la Musa la Caduta e la sua Nice e la sua Silvia provi una soddisfazione più che estetica senti in te appagate tutte le tue facoltà.

La vecchia società è colta non nelle sue generalità rettoriche come nel Rosa nel Menzini e in altri satirici ma nella forma sostanziale della sua vecchiezza che è la pompa delle forme nella insipidezza del contenuto. Quelle forme così magnifiche alle quali si dà una importanza così capitale sono un'ironia messe allato al contenuto. La Batracomiomachia è l'ironia dell'lliade la Moscheide è l'ironia dell'Orlando: sono forme epiche applicate a un mondo plebeo. L'ironia è la forma delle vecchie società non ancora conscie della loro dissoluzione. È il vecchio che vuol farla da giovine con tanta più ostentazione nelle apparenze quanto più meschina è la sostanza. Questo è il concetto fondamentale del Giorno fondato su di un'ironia che è nelle cose stesse perciò profonda e trista. Parini non vi aggiunge di suo che il rilievo una solennità di esposizione che fa più vivo il contrasto. E perchè sente in quelle mentite forme negato se stesso la sua semplicità la sua serietà il suo senso morale non ha forza di riderne e non gli esce dalla penna uno scherzo o un capriccio. Ride di mala grazia e sotto ci senti il disgusto e il disprezzo. L'Italia avea riso abbastanza e rideva ancora ne' versi di Passeroni e di Goldoni. Qui il riso è alla superficie sotto alla quale giace repressa e contenuta l'indignazione dell'uomo offeso. La sua interna misura e pacatezza la sua mente rettrice gli dà la forza della repressione sì che il sentimento di rado erompe sulla superficie e l'ironia di rado piglia la forma del sarcasmo. L'ironia de' nostri padri del Risorgimento era allegra e scettica come nel Boccaccio e nell'Ariosto perchè era rivendicazione intellettuale dirimpetto alle assurdità teologiche e feudali rivendicazione accompagnata con la dissoluzione morale: era l'ironia della scienza a spese dell'ignoranza e l'ignoranza fa ridere. Ma qui l'ironia è il risveglio della coscienza dirimpetto a una società destituita di ogni vita interiore; lì era l'ironia del buon senso qui è l'ironia del senso morale. Senti che rinasce l'uomo e con esso la vita interiore.

La parola di quella vecchia società era a sua immagine cascante leziosa vuota sonorità travolta e seppellita sotto la musica. Qui risuscita la parola. E vien fuori faticosa martellata ardua pregna di sensi e di sottintesi. La parola scopre l'ironia perchè è in antitesi con quella società molle ed evirata che il poeta finge di celebrare.

Togliete ora l'ironia fate salire sulla superficie in modo scoperto e provocante l'ira il disgusto il disprezzo tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso e avete Vittorio Alfieri. È l'uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo a' contemporanei statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso.

Alfieri si rivelò tardi a se stesso e per proprio impulso e in opposizione alla società. Fino a ventisei anni avea menata la vita solita di un signorotto italiano tra dissipazioni viaggi amori cavalli che non gli empivano però la vita. De' primi studi non gli era rimasto che l'odio allo studio. Ricco nobile non ambiva nè onori nè ricchezze nè uffici: viveva senz'altro scopo che di vivere. Vita vuota de' ricchi signori che se ne contentano e a cui guardano con invidia i men favoriti dalla fortuna. Ma non se ne contentava Alfieri e spesso era tristo e fra tanto inutile affaccendarsi sentiva la noia. Era malattia italiana propria di tutt'i popoli in decadenza l'ozio interno la vacuità di ogni mondo interiore. Alfieri aveva il sentimento di quel vuoto e quella sua vita puramente esteriore era per lui noia mal dissimulata sotto il mondano rumore. Coloro che questa vita esteriore debbono conquistarsela col sudore della fronte possono nel loro travaglio trovare un certo lenitivo di quella noia. Ma natura e fortuna aveano data ad Alfieri tutta fatta quella vita; i suoi padri aveano lavorato per lui. Nato non a lavorare ma a godere le sue forze interne poderosissime soprattutto quella tenace energia di carattere atta a vincere ogni resistenza rimanevano inoperose perchè tutto piegava innanzi a lui tutto gli era facile. Corse parecchie volte tutta Europa; e non vi trovò altro piacere che il correre simulacro dell'interna irrequietezza non soddisfatta. Questo è ciò che dicesi “dissipazione” una vita senza scopo e a caso dove fra tanto moto rimangono immobili le due forze proprie dell'uomo il pensiero e l'affetto. Se Alfieri fosse stato un cavallo quel suo correre l'avrebbe contentato come contenta moltissimi che pur si chiamano uomini. Ma si sentiva uomo e stava tristo e annoiato e non sapeva perchè. Il perchè era questo che nato gagliardissimo di pensiero e di affetto non aveva trovato ancora un centro intorno a cui raccogliere ed esercitare quelle sue facoltà. Una passione si piglia facilmente in quell'ozio e Alfieri ebbe i suoi amori e i suoi disinganni e gli parve allora di vivere. Ne' momenti più feroci della noia si gittò a' libri. Di latino non intendeva più nulla e pochissimo d'italiano; parlava francese da dieci anni. Leggendo per passatempo tutto natura e niente educazione lo stile classico lo annoiava; Racine lo faceva dormire e gittò per la finestra un Galateo del Casa intoppato in quel primo “conciossiachè”. Si die' a' romanzi come i giovanetti alle Mille e una notte. Tutto il suo piacere era di seguire il racconto e vederne la fine e gli dispiacque l'Ariosto per le sue interruzioni e lesse Metastasio saltando le ariette e non potè leggere l'Henriade e l'Emilio per quel rettoricume che gli toglieva la vista del racconto. Aspettando i cavalli in Savona gli capitò un Plutarco. Qui sentì qualche cosa di più che il racconto gli battè il cuore quelle immagini colossali non lo sbigottivano anzi suscitarono la sua emulazione: - Non potrei essere anch'io come loro? - E il potere c'era perchè le sue forze non erano da meno. Una notte assistendo l'amata nella sua infermità sceneggiò una tragedia la quale rappresentata poi a Torino ebbe grandi applausi. - Perchè non potrei io essere scrittore tragico? - Venutogli questo pensiero ci si fermò. Secondo le opinioni di quel tempo l'Italia era innanzi a tutte le nazioni in ogni genere di scrivere; ma le mancava la tragedia. Quest'era l'idea fissa di Gravina e l'ambizione di Metastasio; a questo lavorarono il Trissino il Tasso il Maffei. Ma la tragedia non c'era ancora per sentenza di tutti. E dare all'Italia la tragedia gli pareva il più alto scopo a cui un italiano potesse tendere. Da' suoi viaggi avea portata ingrandita l'immagine dell'Italia non trovato nulla comparabile a Roma a Firenze a Venezia a Genova. Aggiungi la maestà dell'antica Roma le memorie di una grandezza non superata mai. E quantunque l'Italia a quei dì fosse tanto degenere avea fermissima fede in una Italia futura che vagheggiava nel pensiero simile all'antica. Di questa nuova Italia fondamento era il rifarvi la pianta “uomo” e gli parea che la tragedia rappresentazione dell'eroico fosse acconcia a ritrarvi questo nuovo uomo che gli ferveva nella mente ed era lui stesso. Questi concetti erano del secolo penetrati qua e là nelle menti e da lui bevuti insieme con gli altri. Ma divennero in lui passione scopo unico e ultimo della vita e vi pose tutte le sue forze. Volle essere redentore d'Italia il grande precursore di una nuova era e non potendo con l'opera co' versi. Così trovò alla vita un degno scopo che gli prometteva gloria lo ingrandiva nella stima degli uomini e di se stesso. Lo scopo era difficilissimo perchè tutto gli mancava ad ottenerlo. E la difficoltà gli fu sprone e glielo rese più caro. Vi spiegò quella sua energia indomabile esercitata fino allora ne' cavalli e ne' viaggi. Per “disfrancesizzarsi” e “intoscanirsi” visse il più in Toscana ristudiò il latino si pose in capo i trecentisti contento di “spensare per pensare” fece suoi compagni indivisibili Dante Petrarca Ariosto e Tasso. Copiò postillò tradusse “s'inabissò nel vortice grammaticale” e non guasto dalla scuola e tutto lui si fece uno stile suo. Scrisse come viaggiava correndo e in linea retta: stava al principio e l'animo era già alla fine divorando tutto lo spazio di mezzo. La parola gli sembra non via ma impedimento alla corsa e sopprime scorcia traspone abbrevia; una parola di più gli è una scottatura. Fugge le frasi le circonlocuzioni le descrizioni gli ornamenti i trilli e le cantilene: fa antitesi a Metastasio. Tratta la parola come non fosse suono e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani e a quelli che strillano dà la baia:

All'Italia del Frugoni e del Metastasio dice ironicamente:

Ciò che parevano i suoi versi e ciò che ne pare a lui si vede da questo epigramma contro i pedanti:

Pure Alfieri discepolo di sè non era ben sicuro del fatto suo e consultò Cesarotti Parini tutti quelli che andavano per la maggiore. Voleva un modello di verso tragico e un barlume ne vedeva nell'Ossian. Ma voleva l'impossibile e in ultimo prese il miglior partito fece da sè. “Osa contendi” gli diceva in un bel sonetto Parini. E lui a sudare intorno a' suoi versi tormentandoli in mille guise; ma

 

“Gira volta ei son francesi”

 

Gira volta ei son versi di Alfieri energicamente individuali “carme più aguzzo assai che tondo”. Questo ei chiamava “stile tragico”. La forma letteraria era vuota e sonora cantilena. Lui vi oppone questo stile “pensato e non cantato” energico sino alla durezza e pieno di senso. E non gli venne già da un preconcetto filosofico intorno all'arte gli venne dalla sua natura: perciò in quelle sue asprezze è vivo e originale.

I critici biasimavano lo stile e lodavano tutto il resto quasi lo stile fosse un fenomeno arbitrario e isolato. Non vedevano l'intima connessione che è tra quello stile e tutto il congegno della composizione. Perchè Alfieri come sopprime periodi ornamenti e frasi con lo stesso impeto sopprime confidenti personaggi episodi. Nasce una forma nervosa tesa spesso convulsa che risponde al suo modo di concepire e di sentire: perciò non pedantesca anzi viva interessante sincera e calda espressione dell'anima. Se vogliamo conoscere il segreto di questa forma vediamo non com'è fatta ma come è nata.

Alfieri cercò la tragedia non nel mondo vivo ma nelle tragedie apparse. Trovò definizioni e regole e le accettò per buone senza esame. Questo fu non il suo problema ma il dato o l'antecedente. Poste quelle definizioni e quelle regole il suo problema fu di recare a perfezione la tragedia. Conosceva poco la tragedia greca; avea letto Seneca; gli erano familiari le tragedie italiane e francesi. Ma di queste appunto facea poca stima come prolisse e rettoriche e confidava di far meglio. Posto che la tragedia sia rappresentazione dell'eroico la concepì come un conflitto di forze individuali dove l'eroe soggiace alla forza maggiore. In Metastasio la forza maggiore è essa eroica essa clemente e benefattrice: il mondo prodotto dalla sua immaginazione musicale è un riso un canto un inno il mondo della misura e dell'armonia glorificato e divinizzato. Qui la forza maggiore è la tirannide o l'oppressione e la sua vittima è l'eroismo o la libertà; è il mondo della violenza e della barbarie condannato e marchiato a fuoco. Metastasio compiva un ciclo Alfieri ne cominciava un altro. I contemporanei disputavano sullo stile dell'uno e dell'altro e volevano somiglianza di stile in tanta opposizione di concetto.

Ponendo la tragedia come conflitto di forze individuali Alfieri rimaneva nel quadro delle tragedie francesi. Il secolo decimosettimo e decimottavo come reazione al soprannaturale cercavano di spiegare la storia con mezzi umani e naturali e rappresentavano come azione de' caratteri e delle passioni individuali quello che gli antichi chiamavano il “destino” e Dante con tutto il mondo cristiano chiamava “ordine provvidenziale”. Un concetto scientifico della storia era nato in Italia dove il destino e l'“ordine provvidenziale” si era trasformato nella “natura delle cose” di Machiavelli nello “spirito” di Bruno nella “ragione” di Campanella nel “fato” di Vico. Ma il concetto era rimasto nelle alte sfere dell'intelligenza e appena avvertito e fuori dell'arte. Shakespeare con la profonda genialità del suo spirito avea colto queste forze collettive e superiori che sono il fato della storia. Ma lo spirito di Alfieri era superficiale più operativo che meditativo più inteso alla rapidità e al calore del racconto che a scrutarne le profondità. Rimase dunque ne' cancelli del secolo decimottavo. La tragedia fu per lui lotta d'individui e il fato storico fu la forza maggiore o la tirannide e la chiave della storia fu il tiranno. Più tardi ispirato dalla Bibbia gli lampeggiò innanzi il Saul e intravvide un ordine di cose superiore. Ma il suo Dio inesorabile ci sta per figura rettorica ed esiste più nell'opinione e nelle parole degli attori che nel nesso degli avvenimenti tutti spiegati naturalmente. E come un tiranno ci ha da essere Dio è il tiranno e tutto l'interesse è per Saul i cui moti sono inconsci e determinati più dalla malizia di Abner che da malizia sua propria. Il suo Saul è la Bibbia al rovescio la riabilitazione di Saul e i sacerdoti tinti di colore oscuro.

Or questo concetto era la negazione dell'Arcadia anzi la sua aperta ed esagerata contraddizione. Al mondo di Tasso di Guarini di Marino di Metastasio succedeva la tragedia non accademica e letteraria com'erano le tragedie francesi e italiane ma politica e sociale fondata su di una idea maneggiata allora in tutti gli aspetti dagli scrittori; ed era questa che la società apparteneva al più forte e che giustizia virtù verità libertà giacevano sotto l'oppressione di un doppio potere assoluto e irresponsabile la tirannide regia e la tirannide papale il trono e l'altare. Più tardi Alfieri vi aggiunse la tirannide popolare. Or questa era tragedia viva la tragedia del secolo sotto nomi antichi la lotta di un pensiero adulto e civile contro un assetto sociale ancor barbaro fondato sulla forza. Ma è tragedia di puro pensiero rimasta in regioni meramente speculative non divenuta storia. Anzi la società tra quelle agitazioni speculative era ancora idillica e rettorica confidente in un progresso pacifico concordi principi e popoli. A quello stato sociale corrispondea la tragedia filosofica e accademica com'era quella di Voltaire. Alfieri vi aggiunse di suo se stesso. La tragedia è lo sfogo lirico de' suoi furori de' suoi odii della tempesta che gli ruggìa dentro. In mezzo alla società imparruccata e incipriata che gioiosamente declamava tirannide e libertà egli prende sul serio la vita e non si rassegna a vivere senza scopo prende sul serio la morale e vi conforma rigidamente i suoi atti prende sul serio la tirannide e freme e si dibatte sotto alle sue strette imprecando e minacciando prende sul serio l'arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono i suoi sentimenti; i suoi princìpi sono le sue azioni. L'uomo nuovo che sente in sè ha la coscienza orgogliosa della sua solitaria grandezza e della solitudine si fa piedistallo e vi si drizza sopra col petto e colla fronte come statua ideale del futuro italiano come di “liber uomo esempio”.

Ci è dunque nella tragedia alfieriana uno spirito di vita che scolpisce le situazioni infoca i sentimenti fonde le idee empie del suo calore tutto il mondo circostante. Ci è lì dentro l'uomo nuovo solitario sdegnoso verso i contemporanei e che pure s'impone a' contemporanei sveglia l'attenzione e la simpatia. Gli è che se quest'uomo nuovo non era ancora entrato ne' costumi e ne' caratteri informava di sè tutta la cultura era vivo negl'intelletti: una parentela c'era fra lo spirito di Alfieri e lo spirito del secolo. Perchè dunque Alfieri si sente solo? Perchè guarda con occhio di nemico il suo secolo? Gli è per questo che il nuovo uomo era in lui un modello puro concretato nella sua potente individualità divenuto non solo la sua idea ma la sua anima tutta la vita e che lo vede nella pratica manomesso e contraddetto da quelli stessi che pur con le parole lo glorificavano. Perciò sente uno sdegno più vivo forse verso i democratici “facitori di libertà” che verso re e papi e preti e fugge la loro compagnia “vergine di lingua di orecchi e di occhi persino”:

E muore tristo maledicendo il secolo e confidando nella posterità:

Tutta la sua compassione è per Luigi XVI e tutta la sua indegnazione è per l'Assemblea nazionale per quei “profumati barbari” balbettanti “una qualche non lor libera idea” per quei ribaldi fortunati contro i quali gitta l'ultimo strale nel Misogallo:

Eccolo dunque quest'Alfieri solitario che serba in sè inviolato e indiviso il suo modello e se il cielo gli dà torto lui dà torto al cielo. Taciturno e malinconico per natura risospinto dalla società ancora più in se stesso solo col suo modello rimane nel mondo vago e illimitato de' sentimenti e de' fantasmi dove non ci è di concreto e di compiuto che il suo individuo. Perciò i suoi fantasmi sono più simili a concetti logici che a cose effettuali più a generi e specie che ad individui. Non sono astrazioni come le chiamano. Potrebbero vuote astrazioni destare un interesse così vivo? Anzi sono fantasmi appassionati ribollenti sanguigni: non ci è vacuità ci è congestione di un sangue non ingenito e proprio ma trasfuso e comunicato. Senti nella tragedia la solitudine dell'uomo che armeggia con se stesso e produce la sua propria sostanza. Non ama ciò che gli è estrinseco la natura la località la personalità e non l'intende e non la tollera e la stupra lasciandovi le sue orme impresse. Il calore di una potentissima individualità non gli basta a infonder la vita e resta impotente alla generazione perchè gli manca l'amore quel sentirsi due e cercar l'altro e obbliarsi in quello. Impotenza per soverchio di attività che gli toglie la facoltà di ricevere le impressioni e riprodurle. L'occhio torbido della passione non guarda intorno non si assimila gli oggetti esterni. Alfieri è tutto passione diresti quasi che voglia con un solo impeto mandar fuori il vulcano che gli arde nel petto non ha la pazienza e il riposo dell'artista quel divino riso col quale segue in tutti i suoi movimenti la sua creatura. Quel suo furore del quale si vanta è il furore di Oreste che gl'intorbida l'occhio sì che investendo il drudo uccide la madre; e gli fa scambiare i colori abbozzare le immagini appuntare i sentimenti dare al tutto un aspetto teso e nervoso. Indi quella sceneggiatura e quello stile quel sopprimere gradazioni chiaroscuri quel soverchio rilievo quel dir molto in poco come si vanta quella mutilazione e congestione quell'abbreviazione tumultuosa della vita quel fondo oscuro e incolore della natura quelle situazioni strozzate que' personaggi in abbozzo che più fremono e meno li comprendi. Di che aveva Alfieri un sentore confuso quando scriveva:

E così è. La sua tragedia freme ira vendetta libertà amore. Ma non basta fremere o sonare e l'attica dea che gli dice: - O dormi o crea - ha torto: non chi dorme ma chi studia e medita è buono a creare. Non vale cuore pieno e “mente ignuda”. Manca a lui la scienza della vita quello sguardo pacato e profondo che t'inizia nelle sue ombre e ne' suoi misteri e te ne porge tutte le armonie. Perciò dalla concitata immaginazione escon fuori punte arditissime un certo addensamento di cose e d'immagini che par folgore ma in cielo scarno e povero com'è il “Pace” di Nerone il celebre - Scegliesti? - Ho scelto - e il “Vivi Emon tel comando” e il “Fui padre” e il “Ribelli tutti. - E ubbidiran pur tutti”: uno stile a fazione di Tacito e di Machiavelli con una ostentazione che scopre l'artificio una vita a lampi e salti più dialogo che azione e sotto forme brevi spesso prolissa e stagnante. Si succedono sentimenti crudi aguzzi senza riposi o passaggi e accumulati con una tensione intellettuale di poca durata e che finisce nello scarno e nell'insipido. E si comprende perchè fra tanto calore la composizione riesce nel suo insieme fredda e monotona perchè in quell'esaltazione fittizia del discorso ti senti nel vuoto e perchè fra tanti motti e sentenze memorabili non ricordi un solo personaggio uomo o donna che sia. Non uno è rimasto vivo. E il difetto è maggiore negli eroi soprattutto ne' rari casi che la forza è con loro e sono essi i vincitori. Le loro qualità eroiche religione patria libertà amore si esalano in frasi generiche e non puoi mai coglierli nella loro intimità e nella loro attività. Ci è il patriottismo e non la patria; ci è l'amore e non l'amante; ci è la libertà e manca l'uomo: sembrano personificazioni più che persone ne' contrasti nelle gradazioni nella ricchezza della loro natura. Tali sono Carlo e Isabella Davide e Gionata Icilio e Virginio e i Bruti gli Agidi i Timoleoni. Manca alla virtù ogni semplicità e modestia e nella concitata espressione senti la povertà del contenuto. Maggior vita è ne' personaggi tirannici o colpevoli dove Alfieri ha condensata tutta la sua bile e l'odio lo rende profondo. Uno de' personaggi da lui meno stimati e più interessanti per ricchezza e profondità di esecuzione è il suo Egisto nell'Agamennone; e la scena dove l'iniquo con tanta abilità fa sorgere nella mente di Clitennestra l'idea dell'assassinio è degna di Shakespeare.

Alfieri è l'uomo nuovo in veste classica. Il patriottismo la libertà la dignità l'inflessibilità la morale la coscienza del dritto il sentimento del dovere tutto questo mondo interiore oscurato nella vita e nell'arte italiana gli viene non da una viva coscienza del mondo moderno ma dallo studio dell'antico congiunto col suo ferreo carattere personale. La sua Italia futura è l'antica Italia nella sua potenza e nella sua gloria o com'egli dice “il 'sarà' è l''è stato'”. Risvegliare negl'italiani la “virtù prisca” rendere i suoi carmi “sproni acuti” alle nuove generazioni sì che ritornino degne di Roma è il suo motivo lirico che ha comune con Dante e col Petrarca. L'alto motivo che ispirò il patriottismo de' due antichi toscani divenuto a poco a poco un vecchiume rettorico e messo in musica da Metastasio ripiglia la sua serietà nell'uomo nuovo che si andava formando in Italia e di cui Alfieri era l'espressione esagerata a proporzioni epiche. Perchè Alfieri realizzando in sè il tipo di Machiavelli si avea formata un'anima politica: la patria era la sua legge la nazione il suo dio la libertà la sua virtù; ed erano idee povere di contenuto forme libere e illimitate colossali come sono tutte le aspirazioni non ancora determinate e concretate nel loro urto con la vita pratica. Se avesse rappresentato il cozzo fatalmente tragico delle aspirazioni con la realtà ne sarebbe uscito un alto pathos il vero motivo della tragedia moderna. Ma un concetto così elevato del mondo era prematuro e d'accordo col suo secolo Alfieri non vede di tutta quella realtà che il fenomeno più grossolano la forza maggiore o il tiranno; e non lo studia e non lo comprende ma l'odia come la vittima il carnefice; l'odia di quell'odio feroce da giacobino che non potendo spiegarsi e assimilarsi l'ostacolo taglia il nodo con la spada. Alfieri odiava i giacobini; ma egli era un Robespierre poetico e se i giacobini avessero lette le sue tragedie potevano dirgli: - Maestro da voi abbiamo imparato l'arte. - L'uomo che glorificava il primo Bruto uccisore de' figli e l'altro Bruto uccisore di Cesare padre suo l'uomo che non avea che parole di dispregio per Carlo primo vittima de' repubblicani inglesi non aveva nulla a dire a coloro che tagliarono la testa al decimosesto Luigi. Ridotte le forze collettive e sociali a forza e arbitrio di un solo individuo era naturale che l'individuo prendesse grandezza epica e colossale sotto il nome di tiranno e che l'odio contro di quello fosse proporzionato a quella grandezza. Ma in questo caso divenuta la tragedia un gioco di forze individuali eliminato ogni elemento collettivo e superiore essa non può avere per base che la formazione artistica dell'individuo. Se non che il nostro tragico è più preoccupato delle idee che mette in bocca a' suoi eroi che della loro anima e della loro personalità. Il contenuto politico e morale non è qui semplice stimolo e occasione alla formazione artistica ma è la sostanza e invade e guasta il lavoro dell'arte. Il qual fenomeno ho già notato come caratteristico della nuova letteratura. Il contenuto esce dalla sua secolare indifferenza e si pone come esteriore e superiore all'arte maneggiandola quasi suo istrumento un mezzo di divulgarlo e infiammarne la coscienza per modo che i carmi sieno “sproni acuti”. Il sentimento politico è troppo violento e impedisce l'ingenua e serena contemplazione. Più è vivo in Alfieri e meno gli concede il godimento estetico. Perciò le sue concezioni i suoi sentimenti i suoi colori sono crudi e disarmonici e per dar troppo al contenuto toglie troppo alla forma. Egli è la nuova letteratura nella più alta esagerazione delle sue qualità più simile a violenta reazione contro il passato che a quella tranquilla affermazione di sè paga di un'ironia senza fiele così nobile in Parini. Nell'ironia pariniana senti un nuovo mondo affacciarsi nel sicuro possesso di se stesso. Nel sarcasmo alfieriano senti il ruggito di non lontane rivoluzioni. Nè ci volea meno che quella esagerazione e quella violenza per colpire le torpide e vuote immaginazioni.

Gli effetti della tragedia alfieriana furono corrispondenti alle sue intenzioni. Essa infiammò il sentimento politico e patriottico accelerò la formazione di una coscienza nazionale ristabilì la serietà di un mondo interiore nella vita e nell'arte. I suoi epigrammi le sue sentenze i suoi motti le sue tirate divennero proverbiali fecero parte della pubblica educazione. Declamare tirannide e libertà venne in moda spasso innocente allora e più tardi quando i tempi ingrossarono dimostrazione politica piena di allusione a' casi presenti. I contemporanei applaudendo in teatro alle sue tirate non credevano che quelle massime dovessero impegnar la coscienza e trovavano lui che ci credeva selvatico ed eccentrico. Nè si maravigliavano della esagerazione; perchè l'esagerazione era da un pezzo la malattia dello spirito italiano smarrito il senso della realtà e della misura. Ma nelle nuove generazioni travagliate da' disinganni e impedite nella loro espansione quegl'ideali tragici così vaghi e insieme così appassionati rispondevano allo stato della coscienza e quei versi aguzzi e vibrati come un pugnale quei motti condensati come un catechismo ebbero non poca parte a formare la mente ed il carattere. La sua fama andò crescendo con la sua influenza e ben presto parve all'Italia di avere infine il suo gran tragico pari a' sommi. Ci era la tragedia ma non c'era ancora il verso tragico a sentenza de' letterati. Chiedevano qualche cosa di mezzo tra la durezza di Alfieri e la cantilena di Metastasio. E quando fu rappresentato l'Aristodemo il problema parve sciolto. Vedevano in quella tragedia la fierezza dantesca e la dolcezza virgiliana “di Dante il core e del suo duca il canto”. E in verità di Dante e di Virgilio qualche cosa era in Vincenzo Monti. Avea Dante nell'immaginazione e Virgilio nell'orecchio.

L'abate Monti nato fra tanto fermento d'idee ne ricevè l'impressione come tutti gli uomini colti. Ma furono in lui più il portato della moda che il frutto di ardente convinzione. Fu liberale sempre. E come non esser liberale a quel tempo quando anche i retrivi gridavano “libertà” bene inteso la “vera libertà” come la chiamavano? E in nome della libertà glorificò tutt'i governi. Quando era moda innocente declamare contro il tiranno gittò sul teatro l'Aristodemo che fece furore sotto gli occhi del papa. Quando la rivoluzione francese s'insanguinò in nome della libertà combattè la licenza e scrisse la Basvilliana. Ma il canto gli fu troncato nella gola dalle vittorie di Napoleone e allora in nome della libertà cantò Napoleone e in nome anche della libertà cantò poi il governo austriaco. Le massime eran sempre quelle applicate a tutt'i casi dal duttile ingegno. Il poeta faceva quello che i diplomatici. Erano le idee del tempo e si torcevano a tutti gli avvenimenti. I suoi versi suonano sempre “libertà” “giustizia” “patria” “virtù” “Italia”. E non è tutto ipocrisia. Dotato di una ricca immaginazione ivi le idee pigliano calore e forma sì che facciano illusione a lui stesso e simulino realtà. Non aveva l'indipendenza sociale di Alfieri e non la virile moralità di Parini: era un buon uomo che avrebbe voluto conciliare insieme idee vecchie e nuove tutte le opinioni e dovendo pur scegliere si tenea stretto alla maggioranza e non gli piacea di fare il martire. Fu dunque il segretario dell'opinione dominante il poeta del buon successo. Benefico tollerante sincero buono amico cortigiano più per bisogno e per fiacchezza d'animo che per malignità o perversità d'indole se si fosse ritratto nella verità della sua natura potea da lui uscire un poeta. Orazio è interessante perchè si dipinge qual è scettico cinico poltrone patriota senza pericolo epicureo. Monti raffredda perchè sotto la magnificenza di Achille senti la meschinità di Tersite e più alza la voce e più piglia aria dantesca più ti lascia freddo. Ci è quel falso eroico tutto di frase e d'immagine qualità tradizionale della letteratura e caro ad un popolo fiacco e immaginoso che aveva grandi le idee e piccolo il carattere. Monti era la sua personificazione e nessuno fu più applaudito. La natura gli aveva largito le più alte qualità dell'artista forza grazia affetto armonia facilità e brio di produzione. Aggiungi la più consumata abilità tecnica un'assoluta padronanza della lingua e dell'elocuzione poetica. Ma erano forze vuote macchine potenti prive d'impulso. Mancava la serietà di un contenuto profondamente meditato e sentito mancava il carattere che è l'impulso morale. Pure i suoi lavori massime l'Iliade saranno sempre utili a studiarvi i misteri dell'arte e le finezze dell'elocuzione. E la conclusione dello studio sarà che non basta l'artista quando manchi il poeta.

Monti come Metastasio fu divinizzato in vita. Ebbe onori titoli forza molto seguito. Un popolo così artistico come l'italiano ammirava quel suo magistero a freddo quella facilità e quella felicità di armonie. Dopo la sua morte ebbe gli elogi di Alessandro Manzoni e di Pietro Giordani. E l'esagerazione delle accuse rese cari quegli elogi quasi pio ufficio alla memoria di un uomo in cui era più da compatire che da biasimare.

Fondata la repubblica cisalpina in quel primo fervore di libertà Monti fu censurato per la sua Basvilliana con lo stesso furore che l'avevano applaudito.Un giovane scrisse la sua apologia. L'atto ardito piacque. E il giovane entrava nella vita tra la stima e la benevolenza pubblica. Parlo di Ugo Foscolo formatosi alla scuola di Plutarco di Dante e di Alfieri.

L'Italia secondo il solito se la contendevano francesi e tedeschi. Ritornava la storia ma con altri impulsi. Non si trattava più di dritti territoriali. La sete del dominio e dell'influenza era dissimulata da motivi più nobili. Venivano in nome delle idee moderne. Gli uni gridavano “libertà e indipendenza nazionale”: dietro alle loro baionette ci era Voltaire e Rousseau. Gli altri proclamatisi prima difensori del papa e ristoratori del vecchio finivano promettitori di vera libertà e di vera indipendenza. Le idee marciavano appresso a' soldati e penetravano ne' più umili strati della società. Propaganda a suon di cannoni che compì in pochi anni quello che avrebbe chiesto un secolo. Il popolo italiano ne fu agitato ne' suoi più intimi recessi: sorsero nuovi interessi nuovi bisogni altri costumi. E quando dopo il 1815 parve tutto ritornato nel primo assetto sotto a quella vecchia superficie fermentava un popolo profondamente trasformato da uno spirito nuovo che ebbe come il vulcano le sue periodiche eruzioni finchè non fu soddisfatto.

Quei grandi avvenimenti colsero l'Italia immatura e impreparata. Non ancora vi si era formato uno spirito nazionale non aveva ancora una nuova personalità un consapevole possesso di se stessa. Il sole irradiava appena gli alti monti. Nella stessa borghesia ch'era la classe colta trovavi una confusione d'idee vecchie e nuove niente di chiaro e ben definito audacie ed utopie mescolate con pregiudizi e barbarie. Non erano sorti avvenimenti atti a stimolare le passioni a formare i caratteri. Privi d'iniziativa propria aspettavano prima tutto da' principi poi tutto da' forestieri. Fatti liberi e repubblicani senza merito loro rimasero al sèguito de' loro liberatori come clientela messa lì per batter le mani e far la corte al padrone magnanimo. E quando passata la luna di miele il padrone ebbe i suoi capricci e prese aria di conquistatore e d'invasore gittarono le alte grida e cominciò il disinganno.

I centri più attivi di questi avvenimenti furono Napoli e Milano colà dove le idee nuove si erano mostrate più vive. Napoli fatta repubblica e abbandonata poco poi a se stessa ebbe in pochi mesi la sua epopea. Felici voi Pagano Cirillo Conforti Manthoné cui il patibolo cinse d'immortale aureola! La loro morte valse più che i libri e lasciò nel regno memorie e desidèri non potuti più sradicare. Sfuggirono alla strage alcuni patrioti che ripararono a Milano e tra gli altri il Cuoco che narrò gli errori e le glorie della breve repubblica con una sagacia aguzzata dall'esperienza politica. Milano divenne il convegno de' più illustri patrioti. Metastasio e Goldoni Filangieri e Beccaria erano morti da pochi anni. Bettinelli il Nestore sopravviveva a se stesso. Alfieri che ne' primi entusiasmi avea cantata la liberazione dell'America e la presa della Bastiglia vedute le esorbitanze della rivoluzione sdegnoso e vendicativo sfogava nel Misogallo nelle Satire l'acre umore e contraddetto dagli avvenimenti si seppelliva come Parini nel mondo antico e studiando il greco finiva la vita nel riso sarcastico di commedie triste. Cesarotti addormentato sugli allori recitava dalla cattedra lodi ufficiali e scriveva in verso panegirici insipidi. Pietro Verri salito in ufficio maturava con poca speranza progetti e riforme. La vecchia generazione se ne andava al suono dei poemi lirici di Vincenzo Monti professore cavaliere poeta di corte. I repubblicani a Napoli e a Milano venivano gallonati nelle anticamere regie. E non si sentì più una voce fiera che ricordasse i dolori e gli sdegni e le vergogne fra tanta pompa di feste e tanto strepito di armi.

Comparve Iacopo Ortis. Era il primo grido del disinganno uscito dal fondo della laguna veneta come funebre preludio di più vasta tragedia. Il giovane autore aveva cominciato come Alfieri: si era abbandonato al lirismo di una insperata libertà. Ma quasi nel tempo stesso lui cantava l'eroe liberatore di Venezia e l'eroe mutatosi in traditore vendeva Venezia all'Austria. Da un dì all'altro Ugo Foscolo si trovò senza patria senza famiglia senza le sue illusioni ramingo. Sfogò il pieno dell'anima nel suo Iacopo Ortis. La sostanza del libro è il grido di Bruto: “O virtù tu non sei che un nome vano”. Le sue illusioni come foglie di autunno cadono ad una ad una e la loro morte è la sua morte è il suicidio. A breve distanza hai l'ideale illimitato di Alfieri con tanta fede e l'ideale morto di Foscolo con tanta disperazione. Siamo ancora nella gioventù non ci è il limite. Illimitate le speranze illimitate le disperazioni. Patria libertà Italia virtù giustizia gloria scienza amore tutto questo mondo interiore dopo sì lunga e dolorosa gestazione appena è fiorito e già appassisce. La verità è illusione il progresso è menzogna. Al primo riso della fortuna ci era la follia delle speranze al primo disinganno ci è la follia delle disperazioni. Questo subitaneo trapasso di sentimenti illimitati al primo urto della realtà rivela quella agitazione d'idee astratte ch'era in Italia venuta da' libri e rimasta nel cervello scompagnata dall'esperienza e non giunta ancora a temprare i caratteri. Trovi in questo Iacopo un sentimento morboso una esplosione giovanile e superficiale più che l'espressione matura di un mondo lungamente covato e meditato una tendenza più alla riflessione astratta che alla formazione artistica una immaginazione povera e monotona in tanta esagerazione de' sentimenti.

Il grido di Iacopo rimase sperduto fra il rumore degli avvenimenti. Sorsero nuove speranze si fabbricarono nuove illusioni. Il romanzo uscito anonimo mutilato e interpolato pura speculazione libraria destò curiosità fu il libro delle donne e de' giovani che vi pescavano un frasario amoroso. Ma non vi si die' importanza politica nè letteraria anzi molti tratti da somiglianze superficiali lo dissero imitazione del Werther. Il fatto è che non rispondeva allo stato della pubblica opinione distratta da così rapida vicenda di cose e di uomini e quelle disperazioni erano contraddette dalle nuove speranze.

Foscolo si mescolò alla vita italiana e si sentì fiero della sua nuova patria della patria di Dante e di Alfieri. Le necessità della vita lo incalzavano. E ancora più uno spirito guerriero che gli ruggìa dentro e non trovava espansione una forza inquieta in ozio. Giovane pieno d'illusioni appassionato con tanto “furore di gloria” con tanto orgoglio al di dentro con un grande desiderio di fare e di fare grandi cose lui educato da Plutarco stimolato da Alfieri quell'ozio forzato lo gitta violentemente in sè gli rode l'anima. È la malattia ch'egli chiama nel suo Ortis con una energia piena di verità “consunzione dell'anima”. Lo vedi a Milano vagante scontento fremente ora rinselvarsi fantasticare scrivere se stesso in verso ora giocare donneare contendere far baccano. Gli balena innanzi il suicidio ed ha appena venti anni:

In questa malattia di languore s'intenerisce pensa alla madre al fratello alla sua lontana Zacinto non senza certi ribollimenti che annunziano la vigoria di una forza ròsa non doma. Alfieri a venti anni si sfogava correndo Europa Foscolo si sfogava verseggiando. Le sue effusioni liriche sono la sua storia da' sedici a' venti anni. Ricomparisce in quei versi una intimità dolce e malinconica di cui l'Italia avea perduta la memoria. E gli veniva non solo dal Petrarca ma dalla terra materna dal suo sentire greco dalle “corde eolie maritate alla grave itala cetra”. Ecco versi preludio di Giacomo Leopardi:

L'esercizio della vita guarì Foscolo. Soldato della repubblica combattè a Cento alla Trebbia a Novi a Genova. La vita militare gli ritornò il sapore della vita. Nelle odi A Luigia Pallavicini e All 'amica risanata trovi un mondo musicale e voluttuoso dove l'anima guarita e gioiosa si espande nella varietà della vita. La sua fama gli dà il gusto delle lettere e della poesia; traduce la Chioma di Berenice e vi appone un comento dove fa sfoggio di una erudizione peregrina; tenta una traduzione dell'Iliade emulo di Monti; scrive un'orazione pei comizi di Lione con pomposo artificio di stile e con gravità e arditezza d'idee.

I Sepolcri stabilirono la sua riputazione e lo alzarono accanto a' sommi. Fu chiamato per antonomasia “l'autore de' Sepolcri”. E in verità questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura l'affermazione della coscienza rifatta dell'uomo nuovo.

Una legge della repubblica prescriveva l'uguaglianza de' sepolcri l'uguaglianza degli uomini innanzi alla morte. Quel fasto de' sepolcri sembrava privilegio de' nobili e de' ricchi e combattevano il privilegio la distinzione delle classi anche in quella forma. - Parini dunque giacerà nella fossa comune accanto al ladro - pensava Foscolo. Questa logica rivoluzionaria spinta fino agli ultimi corollari gli offuscava la poesia della vita lo riconduceva nel mondo naturale e ferino non ancora abitato dall'uomo. Nè gli entrava quel trattar l'uomo come un puro animale. Sentiva in sè offeso il poeta e l'uomo. Mancava l'idea religiosa che abbellisce la morte e mostra il paradiso sotto le oscure volte dell'obblio. Ma vivo era il senso dell'umanità nel suo progresso e ne' suoi fini collegata con la famiglia con la patria con la libertà con la gloria Di là cava Foscolo le sue armonie una nuova religione de' sepolcri: il sublime di un mondo naturale e ferino della morte è trasformato da' sentimenti più delicati dell'umanità in un pantheon vivente perchè opera ancora su' vivi desta ricordanze e illusioni accende a nobili fatti. Sono illusioni senza dubbio; ma sono le illusioni dell'umanità eterne quanto essa parte della sua storia. Il carme è una storia dell'umanità da un punto di vista nuovo una storia de' vivi costruita da' morti. Senti un'ispirazione vichiana in questo mondo che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de' sepolcri alza a stato umano e civile educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio mondo caro a Foscolo che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce. La storia è antica ma il prospetto è nuovo e ne nasce originalità di forme e di colori. Ci è qui fuso inferno e paradiso la vasta ombra gotica del nulla e dell'infinito e i sentimenti teneri e delicati di un cuore d'uomo il tutto in una forma solenne e quasi religiosa come di un inno alla divinità.

La Rivoluzione sotto l'orrore de' suoi eccessi rifaceva già la sua via. Sopravvenivano idee più temperate; si sentiva il bisogno di una restaurazione religiosa e morale. Il carme di Foscolo facea vibrare queste nuove corde. La Musa non è più Alfieri. Si accostavano i tempi di Vico.

Declamare contro i preti e contro la superstizione era il tono del secolo. Aggiungi i tiranni i nobili i privilegi i monopoli. Si combatteva in nome della filosofia della libertà dell'economia pubblica. Qui il tono è altro.

Non può credere il poeta all'immortalità dell'anima; pure vorrebbe crederci. Sarà una illusione ma è crudeltà togliere illusioni che ci rendono felici che ci abbelliscono la vita. Così la via è aperta ad un ritorno delle idee religiose non in nome della verità ma in nome dell'umanità e della poesia. Senti già Châteaubriand.

Ma se “purtroppo” è vero che il tempo traveste ogni cosa che la materia solo è immortale e le forme periscono non è vero che la morte dell'uomo sia il nulla. Il poeta gli fabbrica una nuova immortalità. Restano di lui gli scritti le idee le geste la memoria; la Musa anima il silenzio delle urne e i viventi vi cercano ispirazioni e conforti. La pietà de' defunti è la religione dell'umanità ove non si voglia che ricaschi nello stato ferino. Non vogliamo credere a un essere superiore dispensatore del premio e della pena: sia pure anzi pur troppo è così: “vero è ben Pindemonte!”. Ma uomini possiamo noi rifiutar fede all'umanità? e vogliamo proprio togliere alla vita tutte le sue illusioni tutta la sua poesia? Foscolo protesta come uomo e come poeta. È in lui sempre il secolo decimottavo ma il secolo andato troppo innanzi nel suo lavoro di demolizione e che si arretra cercando un punto di fermata ne' sentimenti umani via a' sentimenti religiosi.

Queste cose Foscolo non le pensa solo le sente. Ci era già il patriota il liber uomo: qui apparisce l'uomo nella sua intimità ne' delicati sentimenti della sua natura civile. L'uomo nuovo s'integra il mondo interiore della coscienza si aggiunge nuovi elementi. Ed è da questa profondità di sentire che sono uscite le più belle ispirazioni della lirica italiana il lamento di Cassandra le impressioni di Maratona l'apoteosi di Santa Croce. Il punto di vista è così elevato che lo spettacolo d'Italia caduta così giù materia di tanta rettorica lo trova rassegnato e meditativo sulle alterne vicende delle umane sorti. Ci è vista di filosofo cuore d'uomo e ispirazione di poeta.

Quando comparvero i Sepolcri fu come si fosse tócca una corda che vibrava in tutt'i cuori. E non fu minore l'impressione su' letterati.

La nuova letteratura si era annunziata con la soppressione della rima. Alla terzina e all'ottava succedeva il verso sciolto. Era una reazione contro la cadenza e la cantilena. La nuova parola confidente nella serietà del suo contenuto non pur sopprimeva la musica ma la rima: bastava ella sola a se stessa. Foscolo qui sopprime anche la strofa e non era già una tragedia o un poema era una composizione lirica alla quale egli osa togliere tutt'i mezzi cantabili e musicali della metrica. Qui è pensiero nudo acceso nella immaginazione e prorompente caldo di se stesso con le sue consonanze e le sue armonie interne. Il verso domato da tenace lavoro rotte le forme tradizionali e meccaniche vien fuori spezzato in sè con nuove tessiture e nuovi suoni e non è artificio è voce di dentro è la musica delle cose la grande maniera di Dante. Anche il genere parve nuovo. Al sonetto e alla canzone succedeva il carme forma libera di ogni esterno meccanismo. Era il poema lirico del mondo morale e religioso l'elevazione dell'anima nelle alte sfere dell'umanità e della storia una ricostruzione della coscienza o dell'uomo interiore al di sopra delle passioni contemporanee era l'uomo intero nella esteriorità della sua vita di patriota e di cittadino e nella intimità de' suoi affetti privati era l'aurora di un nuovo secolo. Il carme preludeva all'inno. Foscolo batteva alle porte del secolo decimonono.

Entrato in questa via mette mano ad altri carmi l'Alceo la Sventura l'Oceano. Ma non trova più la prima ispirazione: compone a freddo letterariamente gli escono frammenti niente giunge a maturità. Comparvero ultime le Grazie. Lavoro finissimo di artista ma il poeta quasi non ci è più.

Rimane un Foscolo in prosa. Hai innanzi la sua Prolusione le sue lezioni i suoi scritti critici. Non è prosa francese e non toscana voglio dire che vi desideri la grazia e la vivezza toscana e la logica e il brio francese. È una prosa personale ancora in formazione piena di reminiscenze latine e oratorie con una tendenza alla maestà e alla forza. Mostra più calore d'immaginazione che vigore d'intelletto.

Il concetto dominante di questa prosa è l'uomo soprapposto al letterato. Foscolo ti dà la formola della nuova letteratura. La sua forza non è al di fuori ma al di dentro nella coscienza dello scrittore nel suo mondo interiore. Dante e Petrarca visti da questo aspetto risplendono di nuova luce. Lo stile si scioglie dall'elocuzione e da ogni artificio tecnico e s'interna nel pensiero e nel sentimento. Lo stesso Beccaria è oltrepassato. Ci avviciniamo all'estetica. Non ci è ancora la scienza ma ce n'è il gusto e la tendenza.

E ci è ancora di più. Vi rinasce il gusto delle investigazioni filologiche e storiche tenute in tanto disprezzo da un secolo che faceva tavola di tutto il passato. L'Italia vi ripiglia le sue tradizioni e si ricongiunge a Vico e Muratori.

Foscolo apriva la via al nuovo secolo. E non è dubbio che se il progresso umano avvenisse non in modo tumultuario ma in modo logico e pacifico l'ultimo scrittore del secolo decimottavo sarebbe stato anche il primo scrittore del secolo decimonono il capo della nuova scuola. Ma quel progresso vestiva aspetto di reazione e in quella sua forma negativa e violenta offendeva le idee e le forme di un secolo del quale Foscolo si sentiva complice. Gli spiaceva soprattutto la guerra mossa alle forme mitologiche. Sentiva in quelle negazioni negato se stesso. E quando avea già moderate molte sue opinioni religiose e politiche e s'era fatto della vita un concetto più reale e s'era spogliata gran parte delle sue illusioni quando stava già con l'un piè nel nuovo secolo; calunniato disconosciuto dimenticato nel continuo flutto delle sue contraddizioni finì tristo lanciando al nuovo secolo come una sfida le sue Grazie l'ultimo fiore del classicismo italiano.

Foscolo morì nel 1827. E già si erano levati sull'orizzonte Pellico Manzoni Grossi Berchet. Comparsa era la scuola romantica l'audace scuola boreale.

Il 1815 è una data memorabile come quella del Concilio di Trento. Segna la manifestazione officiale di una reazione non solo politica ma filosofica e letteraria iniziata già negli spiriti come se ne veggono le orme anche ne' Sepolcri e consacrata nel 18 brumaio. La reazione fu così rapida e violenta come la rivoluzione. Invano Bonaparte tentò di arrestarla facendo delle concessioni e cercando nelle idee medie una conciliazione. Il movimento impresso giunse a tale che tutti gli attori della rivoluzione furono mescolati in una comune condanna giacobini e girondini Robespierre e Danton Marat e Napoleone. Il “terrore bianco” successe al “rosso”.

Venne in moda un nuovo vocabolario filosofico letterario politico. I due nemici erano il materialismo e lo scetticismo e vi sorse contro lo spiritualismo portato sino all'idealismo e al misticismo. Al dritto di natura si oppose il dritto divino alla sovranità popolare la legittimità a' dritti individuali lo Stato alla libertà l'autorità o l'ordine. Il medio evo ritornò a galla glorificato come la culla dello spirito moderno e fu corso e ricorso dal pensiero in tutt'i suoi indirizzi. Il cristianesimo bersaglio fino a quel punto di tutti gli strali divenne il centro di ogni investigazione filosofica e la bandiera di ogni progresso sociale e civile; i classici furono per istrazio chiamati “pagani” e le dottrine liberali furono qualificate senz'altro pretto paganesimo; gli ordini monastici furono dichiarati benefattori della civiltà e il papato potente fattore di libertà e di progresso. Mutarono i criteri dell'arte. Ci fu un'arte pagana e un'arte cristiana di cui fu cercata la più alta espressione nel gotico nelle ombre ne' misteri nel vago e nell'indefinito in un di là che fu chiamato “l'ideale” in un'aspirazione all'infinito non capace di soddisfazione perciò malinconica: la malinconia fu battezzata e detta qualità “cristiana” il sensualismo il materialismo il plastico divenne il carattere dell'arte “pagana”: sorse il genere cristiano “romantico” in opposizione al genere “classico”. “Religione” “fede” “cristianesimo” “l'ideale” “l'infinito” lo “spirito” “il trono e l'altare” “la pace e l'ordine” furono le prime parole del nuovo secolo. La contraddizione era spiccata. A Voltaire e Rousseau succedeva Châteaubriand Staël Lamartine Victor Hugo Lamennais. E proprio nel 1815 uscivano in luce gl'Inni sacri del giovane Manzoni. Storia letteratura filosofia critica arte giurisprudenza medicina tutto prese quel colore. Avevamo un neoguelfismo il medio evo si drizzava minaccioso e vendicativo contro tutto il Rinascimento.

Il movimento non era già fittizio e artificiale sostenuto da penne salariate promosso dalle polizie suscitato da passioni e interessi temporanei. Era un serio movimento dello spirito secondo le eterne leggi della storia al quale partecipavano gl'ingegni più eminenti e liberi del nuovo secolo. Movimento esagerato senza dubbio ne' suoi inizi perchè mirava non solo a spiegare ma a glorificare il passato a cancellare dalla storia i secoli a proporre come modello il medio evo. Ma l'una esagerazione chiamava l'altra. La dea Ragione e la comunione de' beni avea per risposta l'apoteosi del carnefice e la legittimità dell'Inquisizione.

Ma l'esagerazione fu di corta durata e la reazione fallì ne' suoi tentativi di ricomposizione radicale alla medio evo. Avea contro di sè infiniti nuovi interessi venuti su con la Rivoluzione interessi materiali morali intellettuali. D'altra parte il nuovo ordine di cose favoriva in gran parte la monarchia che avea pure contribuito a promuoverlo. Non era interesse de' principi restaurare le maestranze le libertà municipali le classi privilegiate tutte quelle forze collettive sparite nella valanga rivoluzionaria nelle quali essi vedevano un freno al loro potere assoluto. Rimase dunque in piedi quasi dappertutto e quasi intero l'assetto economico-sociale consacrato da' nuovi codici e la monarchia assoluta uscì più forte dalla burrasca. Perchè il clero e la nobiltà un giorno suoi rivali divennero i suoi protetti e i suoi servitori sotto titoli pomposi e scomparse le forze collettive naturali potè con facilità riordinare la società sopra aggregazioni artificiali necessariamente sottomesse alla volontà sovrana burocrazia esercito e clero. La burocrazia interessava alla conservazione dello Stato la borghesia che si dava alla caccia degl'impieghi e centralizzando gli affari sopprimeva ogni libertà e movimento locale e teneva nella sua dipendenza provincie e comuni. Una moltitudine d'impiegati invasero lo Stato come cavallette ciascuno esercitando per suo conto una parte del potere assoluto di cui era istrumento. L'esercito divenuto permanente anzi una istituzione dello Stato fu ordinato a modo di casta contrapposto ai cittadini evirato dall'ubbidienza passiva e avvezzo a ufficio più di gendarme che di soldato. Il clero stretta l'alleanza fra il trono e l'altare si recò in mano l'educazione pubblica vigilò scuole libri teatri accademie osteggiò tutte le idee nuove mantenne l'ignoranza nelle moltitudini trattò la coltura come sua nemica. Motrice della gran mole era la polizia penetrata in tutte queste aggregazioni governative divenuto spia l'impiegato il soldato e il prete. Ne uscì una corruzione organizzata chiamata “governo” o in forma assoluta o in maschera costituzionale.

Una reazione così fatta era in una contraddizione violenta con tutte le idee moderne e non potea durare. Sopravvennero i moti di Spagna di Napoli di Torino di Parigi delle Romagne; Grecia e Belgio conquistavano la loro autonomia. Il sentimento nazionale si svegliava insieme col sentimento liberale. E il secolo decimottavo ripigliava il suo cammino co' suoi dritti individuali co' suoi princìpi d'eguaglianza con la sua “carta” dell'Ottantanove. I principi legittimi caddero. La monarchia per vivere si trasformò si ammodernò prese abiti borghesi divise il suo potere con le classi colte. E soddisfatta la borghesia soddisfatti tutti. Il terzo stato era niente; il terzo stato fu tutto.

Su questo compromesso visse l'Europa lunghi anni. Le istituzioni costituzionali si allargarono. Il censo e la capacità apersero la via a' più alti uffici rotte tutte le barriere artificiali. Continuò la guerra più aspra al feudalismo alla manomorta a' privilegi. La borghesia trovò largo pascolo alla sua attività e alla sua ambizione ne' parlamenti ne' consigli comunali e provinciali nella guardia nazionale nel giurì nelle accademie nelle scuole sottratte al clero. Le industrie e i commerci si svilupparono; si apersero altre fonti alla ricchezza. Un nuovo nome segnava la nuova potenza venuta su. Non si diceva più “aristocrazia” si diceva “bancocrazia” alimentata dalla libera concorrenza. Chi aveva più forza vinceva e dominava forza di censo d'ingegno e di lavoro. L'attività intellettuale stimolata in tutti i versi fra tanta pubblica prosperità faceva miracoli. All'ombra della pace e della libertà fiorivano le scienze e le lettere. Anche dove gli ordini costituzionali non poterono vincere come in Italia la reazione allentò i suoi freni la borghesia ebbe una parte più larga alle pubbliche faccende e vi s'introdusse un modo di vivere meno incivile. A poco a poco il vecchio si accostumava a vivere accanto al nuovo; il dritto divino e la volontà del popolo si associavano nelle leggi e negli scritti formola del compromesso sul quale riposava il nuovo edificio; e venne tempo che una conciliazione parve possibile non solo fra il monarcato e il popolo ma fra il papato e la libertà.

Adunque sedati i primi bollori quel movimento che aveva aria di reazione era in fondo la stessa Rivoluzione che ammaestrata dalla esperienza moderava e disciplinava se stessa. I disinganni le rovine tanti eccessi un ideale così puro così lusinghiero profanato al suo primo contatto col reale tutto questo dovea fare una grande impressione sugli spiriti e renderli meditativi. La reazione era il passato ancora vivo nelle moltitudini assalito con una violenza che tirava in suo favore anche gl'indifferenti e che ora rialzava il capo con superbia di vincitore. L'esperienza ammaestrò che il passato non si distrugge con un decreto e che si richiedono secoli per cancellare dalla storia l'opera de' secoli. E ammaestrò pure che la forza allora edifica solidamente quando sia preceduta dalla persuasione secondo quel motto di Campanella che “le lingue precedono le spade”. Evidentemente la Rivoluzione aveva errato esagerato le sue idee e le sue forze ed ora si rimetteva in via con minor passione ma con maggior senso del reale confidando più nella scienza che nell'entusiasmo. Che cosa fu dunque il movimento del secolo decimonono sbolliti i primi furori di reazione? Fu lo stesso spirito del secolo decimottavo che dallo stato spontaneo e istintivo passava nello stadio della riflessione e rettificava le posizioni riduceva le esagerazioni acquistava il senso della misura e della realtà creava la scienza della rivoluzione. Fu lo spirito nuovo che giungeva alla coscienza di sè e prendeva il suo posto nella storia. Châteaubriand Lamartine Victor Hugo Lamennais Manzoni Grossi Pellico erano liberali non meno di Voltaire e Rousseau di Alfieri e Foscolo. Sono anch'essi figli del secolo decimosettimo e decimottavo il loro programma è sempre la “carta” dell'Ottantanove il “credo” è sempre “libertà patria uguaglianza dritti dell'uomo”. Il sentimento religioso troppo offeso si vendica offende a sua volta; pure non può sottrarsi alle strette della Rivoluzione. Risorge ma impressionato dello spirito nuovo col programma del secolo decimottavo. Ciò a cui mirano i neo-cattolici non è di negare quel programma come fanno i puri reazionari co' gesuiti in testa ma è di conciliarlo col sentimento religioso di dimostrare anzi che quello è appunto il programma del cristianesimo nella purezza delle sue origini. È la vecchia tesi di Paolo Sarpi ripigliata e sostenuta con maggior splendore di parola e di scienza. La Rivoluzione è costretta a rispettare il sentimento religioso a discutere il cristianesimo a riconoscere la sua importanza e la sua missione nella storia; ma d'altra parte il cristianesimo ha bisogno per suo passaporto del secolo decimottavo e prende quel linguaggio e quelle idee e odi parlare di una “democrazia cristiana” e di un “Cristo democratico” a quel modo che i liberali trasferiscono a significato politico parole scritturali come l'“apostolato delle idee” il “martirio patriottico” la “missione sociale” la “religione del dovere”. La rivoluzione scettica e materialista prende per sua bandiera: “Dio e popolo” e la religione dommatica e ascetica si fa valere come poesia e come morale e lascia le altezze del soprannaturale e s'impregna di umanismo e di naturalismo si avvicina alla scienza prende una forma filosofica. Lo spirito nuovo raccoglie in sè gli elementi vecchi ma trasformandoli assimilandoli a sè e in quel lavoro trasforma anche se stesso si realizza ancora più. Questo è il senso del gran movimento uscito dalla reazione del secolo decimonono di una reazione mutata subito in conciliazione. E la sua forma politica è la monarchia per la grazia di Dio e per la volontà del popolo.

La base teorica di questa conciliazione è un nuovo concetto della verità rappresentata non come un assoluto immobile a priori ma come un divenire ideale cioè a dire secondo le leggi dell'intelligenza e dello spirito. Onde nasceva l'identità dell'ideale e del reale dello spirito e della natura o come disse Vico la “conversione del vero col certo”. Il qual concetto da una parte ridonava ai fatti una importanza che era contrastata da Cartesio in qua li allogava li legittimava li spiritualizzava dava a quelli un significato e uno scopo creava la filosofia della storia; d'altra parte realizzava il divino togliendolo alle strettezze mistiche e ascetiche del soprannaturale e umanizzandolo. Il concetto adunque era in fondo radicalmente rivoluzionario in opposizione ricisa col medio evo e con lo scolasticismo quantunque apparisca una reazione a tutto ciò che di troppo esclusivo e assoluto era nel secolo decimottavo. Sicchè quel movimento in apparenza reazionario dovea condurre a un nuovo sviluppo della Rivoluzione su di una base più solida e razionale.

Il primo periodo del movimento fu detto “romantico” in opposizione al classicismo. Ebbe per contenuto il cristianesimo e il medio evo come le vere fonti della vita moderna il suo tempo eroico mitico e poetico. Il Rinascimento fu chiamato “paganesimo” e quell'età che il Rinascimento chiamava “barbarie” risorse cinta di nuova aureola. Parve agli uomini rivedere dopo lunga assenza Dio e i santi e la Vergine e quei cavalieri vestiti di ferro e i tempi e le torri e i crociati. Le forme bibliche oscurarono i colori classici: il gotico il vaporoso l'indefinito il sentimentale liquefecero le immagini riempirono di ombre e di visioni le fantasie. Ne uscì nuovo contenuto e nuova forma. Il papato divenne centro di questo antico poema ringiovanito il cui storico era Carlo Troya e l'artista Luigi Tosti: Bonifacio ottavo e Gregorio settimo ebbero ragione contro Dante e Federico secondo. Cronisti e trovatori furono disseppelliti; l'Europa ricostruiva pietosamente le sue memorie e vi s'internava vi s'immedesimava ricreava quelle immagini e quei sentimenti. Ciascun popolo si riannodava alle sue tradizioni vi cercava i titoli della sua esistenza e del suo posto nel mondo la legittimità delle sue aspirazioni. Alle antichità greche e romane successero le antichità nazionali penetrate e collegate da uno spirito superiore e unificatore dallo spirito cattolico. Si svegliava l'immaginazione animata dall'orgoglio nazionale e da un entusiasmo religioso spinto sino al misticismo; e dal lungo torpore usciva più vivace il senso metafisico e il senso poetico. Risorge l'alta filosofia e l'alta poesia. Lirica e musica poemi filosofici e storici sono le voci di questo ricorso.

Ma il romanticismo come il classicismo erano forme sotto alle quali si manifestava lo spirito moderno. Foscolo e Parini nel loro classicismo erano moderni e moderni erano nel loro romanticismo Manzoni e Pellico. Invano cerchi il candore e la semplicità dello spirito religioso: è un passato rifatto e trasformato da immaginazione moderna nella quale ha lasciato i suoi vestigi il secolo decimottavo. Non ci sono più le passioni ardenti e astiose di quel secolo ma ci sono le sue idee la tolleranza la libertà la fraternità umana consacrata da una religione di pace e di amore purificata e restituita nella sua verginità nella purezza delle sue origini e de' suoi motivi. Una reazione così fatta già non è più reazione è conciliazione è la rivoluzione stessa vinta che non minaccia più e lascia il sarcasmo l'ironia l'ingiuria e trasformatasi in apostolato evangelico prende abito umile e supplichevole dirimpetto agli oppressori e fa suo il pergamo fa suo Dio e Cristo e la Bibbia diviene l'“ultima parola di un credente”. Lo spirito non rimane nelle vette del soprannaturale e nelle generalità del dogma. Oramai conscio di sè plasma il divino a sua immagine lo colloca e lo accompagna nella storia. La “divina Commedia” è capovolta: non è l'umano che s'india è il divino che si umanizza. Il divino rinasce ma senti che già innanzi è nato Bruno Campanella e Vico.

La stella di Monti scintillava ancora cinta di astri minori; Foscolo solitario meditava le Grazie; Romagnosi tramandava alla nuova generazione il pensiero del gran secolo vinto. E proprio nel 1815 tra il rumore de' grandi avvenimenti usciva in luce un libriccino intitolato Inni al quale nessuno badò. Foscolo chiudeva il suo secolo co' Carmi; Manzoni apriva il suo con gl'Inni. Il Natale la Passione la Risurrezione la Pentecoste erano le prime voci del secolo decimonono. Natali Marie e Gesù ce n'erano infiniti nella vecchia letteratura materia insipida di canzoni e sonetti tutti dimenticati. Mancata era l'ispirazione da cui uscirono gl'inni de' santi padri e i canti religiosi di Dante e del Petrarca e i quadri e le statue e i templi de' nostri antichi artisti. Su quella sacra materia era passato il Seicento e l'Arcadia insino a che disparve sotto il riso motteggiatore del secolo decimottavo. Ora la poesia faceva anche lei il suo “concordato”. Ricompariva quella vecchia materia ringiovanita da una nuova ispirazione.

Ciò che move il poeta non è la santità e il misterioso del dogma. Non riceve il soprannaturale con raccoglimento con semplicità di credente. Mira a trasportarlo nell'immaginazione e se posso dir così a naturalizzarlo. Non è più un “credo” è un motivo artistico. Diresti che innanzi al giovine poeta ci sia il ghigno di Alfieri e di Foscolo e che non si attenti di presentare a' contemporanei le disusate immagini se non pomposamente decorate. Non gli basta che sieno sante; vuole che sieno belle. L'idea cristiana ritorna innanzi tutto come arte anzi come la sostanza dell'arte moderna chiamata “romantica”. La critica entrava già per questa via e fin d'allora sentivi parlare di “classico” e di “romantico” di “plastico” e di “sentimentale” di “finito” e d'“infinito”. L'inno era poesia essenzialmente religiosa la poesia dell'infinito e del soprannaturale. Sorgea come sfida a' classici per la materia e per la forma. Pure il poeta volendo esser romantico rimane classico. Invano si arrampica tra le nubi del Sinai; non ci regge ha bisogno di toccar terra; il suo spirito non riceve se non ciò che è chiaro plastico determinato armonioso; le sue forme sono descrittive rettoriche e letterarie pur vigorose e piene di effetto perchè animate da immaginazione fresca in materia nuova. Vi senti lo spirito nuovo che in quel ritorno delle idee religiose non abdica e penetra in quelle idee e se le assimila e vi cerca e vi trova se stesso. Perchè la base ideale di quegl'Inni è sostanzialmente democratica è l'idea del secolo battezzata e consacrata sotto il nome d'“idea cristiana” l'eguaglianza degli uomini tutti fratelli in Cristo la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli oppressi; è la famosa triade “libertà uguaglianza fratellanza” vangelizzata; è il cristianesimo ricondotto alla sua idealità e penetrato dallo spirito moderno. Onde nasce una rappresentazione pacata e soddisfatta pittoresca nelle sue visioni semplice e commovente ne' suoi sentimenti come di un mondo ideale riconciliato e concorde ove si armonizzano e si acquietano le dissonanze del reale e i dolori della terra. Ivi è il Signore che nel suo dolore pensò a tutt'i figli d'Eva; ivi è Maria nel cui seno regale la femminetta depone la sua spregiata lacrima; ivi è lo Spirito che scende aura consolatrice ne' languidi pensieri dell'infelice; ivi è il regno della pace che il mondo irride ma che non può rapire; il povero sollevando le ciglia al cielo “che è suo” volge i lamenti in giubilo pensando a cui somiglia.

In questa ricostruzione di un mondo celeste accanto a una lirica di pace e di perdono alta sulle collere e sulle cupidigie mondane si sviluppa l'epica quel veder le cose umane dal di sopra con l'occhio dell'altro mondo. Questa novità di contenuto di forma e di sentimento rende altamente originale il Cinque maggio composizione epica in forme liriche. L'individuo grande ch'ei sia non è che un'“orma del Creatore” un istrumento “fatale”. La gloria terrena posto pure che sia vera gloria non è in cielo che “silenzio e tenebre”. Sul mondano rumore sta la pace di Dio. È lui che atterra e suscita che affanna e consola. La sua mano toglie l'uomo alla disperazione e lo avvia pe' floridi sentieri della speranza. Risorge il “Deus ex machina” il concetto biblico dell'uomo e dell'umanità. La storia è la volontà imperscrutabile di Dio. Così vuole. A noi non resta che adorare il mistero o il miracolo “chinar la fronte”. Meno comprendiamo gli avvenimenti e più siamo percossi di maraviglia più sentiamo Dio l'incomprensibile. La storia anche di ieri si muta in leggenda diviene poesia epica. Napoleone è un gran miracolo un'orma più vasta di Dio. A che fine? Per quale missione? L'ignoriamo. È il secreto di Dio. Così volle. Rimane della storia la parte popolare o leggendaria quella che più colpisce le immaginazioni; le battaglie le vicende assidue gli avvenimenti straordinari le grandi catastrofi le miracolose conversioni. Il motivo epico nasce non dall'altezza e moralità de' fini ma dalla grandezza e potenza del genio dallo sviluppo di una forza che arieggia il soprannaturale. Sono nove strofe di cui ciascuna per la vastità della prospettiva è quasi un piccolo mondo e te ne viene una impressione come da una piramide. A ciascuna strofa la statua muta di prospetto ed è sempre colossale. L'occhio profondo e rapido dell'ispirazione divora gli spazi aggruppa gli anni fonde gli avvenimenti ti dà l'illusione dell'infinito. Le proporzioni sono ingrandite da un lavoro tutto di prospettiva nella maggior chiarezza e semplicità dell'espressione. Le immagini le impressioni i sentimenti le forme tra quella vastità di orizzonti ingrandiscono anche loro acquistano audacia di colori e di dimensioni. Trovi condensata la vita del grande uomo nelle sue geste nella sua intimità nella sua azione storica ne' suoi effetti su' contemporanei nella sua solitudine pensosa: immensa sintesi dove precipitano gli avvenimenti e i secoli come incalzati e attratti da una forza superiore in quegli sdruccioli accavallantisi appena frenati dalle rime.

Questo è il primo movimento epico-lirico del secolo decimonono. Al macchinismo classico succede il macchinismo teologico. Ma non è mero macchinismo semplice colorito o abbellimento. È un contenuto redivivo nell'immaginazione che ricostruisce a sua immagine la storia dell'umanità e il cuore dell'uomo. È Cristo smarrito e ritrovato al di dentro di noi. Ritorna la provvidenza nel mondo ricomparisce il miracolo nella storia rifioriscono la speranza e la preghiera il cuore si raddolcisce si apre a sentimenti miti: su' disinganni e sulle discordie mondane spira un alito di perdono e di pace. Ciò che intravedeva Foscolo disegnò Manzoni con un entusiasmo giovanile riflesso di quell'entusiasmo religioso che accompagnava a Roma il papa reduce ispirava ad Alessandro la federazione cristiana prometteva agli uomini stanchi un'era novella di pace e riposo. La nuova generazione sorgeva tra queste illusioni e mentre il vecchio Foscolo fantasticava un paradiso delle Grazie allegorizzando con colori antichi cose moderne Manzoni ricostruiva l'ideale del paradiso cristiano e lo riconciliava con lo spirito moderno. La mitologia se ne va e resta il classicismo; il secolo decimottavo è rinnegato e restano le sue idee. Mutata è la cornice il quadro è lo stesso. Guardate il Cinque maggio. La cornice è una illuminazione artistica una bell'opera d'immaginazione da cui non esce alcuna seria impressione religiosa. Il quadro è la storia di un genio rifatta dal genio. L'interesse non è nella cornice è nel quadro.

Ben presto il movimento teologico diviene prettamente filosofico. Dio è l'assoluto l'idea; Cristo è l'idea in quanto è realizzata l'idea naturalizzata; lo Spirito è l'idea riflessa e consapevole il Verbo; la trinità teologica diviene la base di una trinità filosofica. Il Dio teologico è l'essere nel suo immediato il nulla un Dio astratto e formale vuoto di contenuto. Dio nella sua verità è lo spirito che riconosce se stesso nella natura. Logica natura spirito sono i tre momenti della sua esistenza la sua storia una storia dove niente è incomprensibile e arbitrario tutto è ragionevole e fatale. Ciò che è stato dovea essere. La schiavitù la guerra la conquista le rivoluzioni i colpi di Stato non sono fatti arbitrari sono fenomeni necessari dello spirito nella sua esplicazione. Lo spirito ha le sue leggi come la natura; la storia del mondo è la sua storia è logica viva e si può determinare a priori. Religione arte filosofia dritto sono manifestazioni dello spirito momenti della sua esplicazione. Niente si ripete niente muore: tutto si trasforma in un progresso assiduo che è lo spiritualizzarsi dell'idea una coscienza sempre più chiara di sè una maggiore realtà.

In queste idee codificate da Hegel ricordi Machiavelli Bruno Campanella soprattutto Vico. Ma è un Vico a priori. Quelle leggi che egli traeva da' fatti sociali ora si cercano a priori nella natura stessa dello spirito. Nasce un'appendice della Scienza nuova la sua metafisica sotto nome di “logica” compariscono vere teogonie o epopee filosofiche con le loro ramificazioni. Hai la filosofia delle religioni la storia della filosofia la filosofia dell'arte la filosofia del dritto la filosofia della storia illuminate dall'astro maggiore la logica o come dice Vico la “metafisica”. Tutto il contenuto scientifico è rinnovato. E non solo nell'ordine morale ma nell'ordine fisico. Hai una filosofia della natura come una filosofia dello spirito. Anzi non sono che una sola e medesima filosofia momenti dell'Idea nella sua manifestazione.

Il misticismo fondato sull'imperscrutabile arbitrio di Dio e alimentato dal sentimento dà luogo a questo idealismo panteistico. Il sistema piace alla colta borghesia perchè da una parte rigettando il misticismo prende un aspetto laicale e scientifico e dall'altra rigettando il materialismo condanna i moti rivoluzionari come esplosioni plebee di forze brute. Piace il concetto di un progresso inoppugnabile fondato sullo sviluppo pacifico della coltura: alla parola “rivoluzione” succede la parola “evoluzione”. Non si dice più “libertà” si dice “civiltà” “progresso” “coltura”. Sembra trovato oramai il punto ove s'accordano autorità e libertà Stato e individuo religione e filosofia passato e avvenire. Anche le idee fanno la loro pace come le nazioni. E il sistema diviene ufficiale sotto nome di “ecletismo”. La rivoluzione gitta via il suo abito rosso e si fa cristiana e moderata sotto il vessillo tricolore vagheggiando come ultimo punto di fermata le forme costituzionali e tenendo a pari distanza i clericali col loro misticismo e i rivoluzionari col loro materialismo. Queste idee facevano il giro di Europa e divennero il “credo” delle classi colte. La parte liberale si costituì come un centro tra una dritta clericale e una sinistra rivoluzionaria che essa chiamava i “partiti estremi”. Luigi Filippo realizzò questo ideale della borghesia e l'ecletismo lo consacrò. Sembrò dopo lunga gestazione creato il mondo. Il problema era sciolto il bandolo era trovato. Dio si poteva riposare. Chiusa oramai era la porta alla reazione e alla rivoluzione. Regnava il progresso pacifico e legale governava la borghesia sotto nome di “partito liberale-moderato”. Teneva in iscacco la dritta perchè se combatteva i gesuiti e gli oltramontani onorava il cristianesimo divenuto nel nuovo sistema l'idea rifiessa e consapevole lo spirito che riconosce se stesso. Non credeva al soprannaturale ma lo spiegava e lo rispettava; non credeva a un Cristo divino ma alzava alle stelle il Cristo umano; e della religione parlava con unzione e con riverenza de' ministri di Dio. Così tirava dalla sua i cristiani liberali e patrioti e non urtava le plebi. E teneva a un tempo in iscacco la sinistra rivoluzionaria perchè se respingeva i suoi metodi se condannava le sue impazienze e le sue violenze accettava in astratto le sue idee confidando più nell'opera lenta ma sicura dell'istruzione e dell'educazione che nella forza brutale. Per queste vie la rivoluzione sotto aspetto di conciliazione si rendeva accettabile a' più e si rimetteva in cammino.

Tra queste idee si formò la nuova critica letteraria. Rimasta fra le vuote forme rettoriche empirica e tradizionale anch'ella gridò “libertà” nel secolo scorso e perduto il rispetto alle regole e all'autorità acquistò una certa indipendenza di giudizio illuminata ne' migliori dal buon senso e dal buon gusto. L'attenzione dall'esterno meccanismo si volse alla forza produttiva cercando i motivi e il significato della composizione nelle qualità dello scrittore; l'arte ebbe il suo “cogito” e trovò la sua formola nel motto: “Lo stile è l'uomo”. Ma era una critica d'impressioni più che di giudizi di osservazioni più che di princìpi. Con la nuova filosofia il bello prese posto accanto al vero e al buono acquistò una base scientifica nella logica divenne una manifestazione dell'idea come la religione il dritto la storia: avemmo una filosofia dell'arte l'estetica. Stabilito un corso ideale della umanità l'arte entrò nel sistema allo stesso modo che tutte le altre manifestazioni dello spirito e prese dalla qualità dell'idea la sua essenza e il suo carattere. Materia principale della critica fu l'idea col suo contenuto: le qualità formali ebbero il secondo luogo. Avemmo l'idea “orientale” l'idea “pagana” o “classica” l'idea “cristiana” o “romantica” nella religione nella filosofia nello Stato nell'arte in tutte le forme dell'attività sociale uno sviluppo storico a priori secondo la logica o le leggi dello spirito. La filosofia dell'idea divenne un antecedente obbligato di ogni trattato di estetica come di ogni ramo dello scibile; e il problema fondamentale dell'arte fu cercare l'idea in ogni lavoro dell'immaginazione e misurarlo secondo quella. Rivenne su il concetto cristiano-platonico dell'arte espresso da Dante ristaurato dal Tasso. La poesia fu il vero “sotto il velo della favola ascoso” o il “vero condito in molli versi”. Divenuta la favola un velo dell'idea ritornavano in onore le forme mitiche e allegoriche e le concezioni artistiche si trasformavano in costruzioni ideali: la Divina Commedia materia d'infiniti comenti filosofici aveva il suo riscontro nel Faust. Venne in moda un certo filosofismo nell'arte anche presso i migliori anche presso Schiller. E non solo la filosofia ma anche la storia divenne il frontispizio obbligato della critica trattandosi di coglier l'idea non nella sua astrattezza ma nel suo contenuto nelle sue apparizioni storiche. Sorsero investigazioni accuratissime sulle idee sulle istituzioni su' costumi sulle tendenze dei secoli a cui si riferivano le opere d'arte sulla formazione successiva della materia artistica; al motto antico: “Lo stile è l'uomo” successe quest'altro: “La letteratura è l'espressione della società”. Ne uscì un doppio impulso: sintetico e analitico. Posto che la storia non sia una successione empirica e arbitraria di fatti ma la manifestazione progressiva e razionale dell'idea una dialettica vivente gli spiriti si affrettarono alla sintesi e costruirono vere epopee storiche secondo una logica preordinata. La storia del mondo fu rifatta la via aperta da Vico fu corsa e ricorsa dal genio metafisico e in tutte le direzioni: religioni arti filosofie istituzioni politiche leggi la vita intellettuale morale e materiale de' popoli. Questo fu il momento epico di tutte le scienze; nessuna potè sottrarsi al bagliore dell'idea; il mondo naturale fu costruito allo stesso modo che il mondo morale. Ma queste sintesi frettolose queste soluzioni spesso arrischiate de' problemi più delicati urtavano alcuna volta co' dati positivi della storia e delle singole scienze ed erano troppo visibili le lacune i raccozzamenti disparati le interpretazioni forzate gli artifici involontari. Accanto a quelle vaste costruzioni ideali sorse la paziente analisi; il metodo di Vico parve più lungo e più arduo ma più sicuro e si ricominciò il lavoro a posteriori ingolfandosi lo spirito nelle più minute ricerche in tutt'i rami dello scibile. Il movimento di erudizione e d'investigazione interrotto in Italia dalla invasione delle teorie cartesiane e da' sistemi assoluti del secolo decimottavo tutti di un pezzo tutti ragionamento con superbo disdegno di citazioni di esempli di ogni autorità dottrinale quasi avanzo della scolastica ora ripigliava con maggior forza in tutta la colta Europa massime in Germania: ritornavano i Galilei i Muratori e i Vico si sviluppava lo spirito di osservazione e il senso storico si aggrandiva il campo delle scienze e dal gran tronco del sapere uscivano nuovi rami soprattutto nelle scienze naturali nelle scienze sociali e nelle discipline filologiche. La materia della coltura stata prima poco più che greco-romana guadagnò di estensione e di profondità. Abbracciò l'Oriente il medio evo il Rinascimento. È con tale attività di ricerca e di scoperta che lo scibile ne fu rinnovato.

Stavano dunque di fronte due tendenze: l'una ideale l'altra storica. Gli uni procedevano per via di categorie e di costruzioni; gli altri per via di osservazioni e d'induzioni. E spesso s'incontravano. La scuola ontologica teneva molto conto dei fatti e proclamava che il vero ideale è storia è l'idea realizzata. Non rimaneva perciò al di sopra della storia nel regno de' princìpi assoluti e immobili; anzi la sua metafisica non è altro che un progressivo divenire la storia. Parimente la scuola storica era tutt'altro che empirica ed usciva dalla cerchia de' fatti ed aveva anch'essa i suoi preconcetti e le sue conietture. La più audace speculazione si maritava con la più paziente investigazione. Le due forze unite ora parallele ora in urto ora di conserva posero in moto tutte le facoltà dello spirito e produssero miracoli nelle teorie e nelle applicazioni. Al secolo de' lumi succedette il secolo del progresso. Il genio di Vico fu il genio del secolo. E accanto a lui risorsero con fama europea Bruno e Campanella. Il secolo riverì ne' tre grandi italiani i suoi padri il suo presentimento. E la Scienza nuova fu la sua Bibbia la sua leva intellettuale e morale. Ivi trovavano condensate tutte le forze del secolo: la speculazione l'immaginazione l'erudizione. Di là partiva quell'alta imparzialità di filosofo e di storico quella giustizia distributiva ne' giudizi che fu la virtù del secolo. Passato e presente si riconciliarono pigliando ciascuno il suo posto nel corso fatale della storia. E contro al fato non val collera non giova dar di cozzo. Il dommatismo con la sua infallibilità e lo scetticismo con la sua ironia cessero il posto alla critica quella vista superiore dello spirito consapevole che riconosce se stesso nel mondo e non si adira contro se stesso.

La letteratura non potea sottrarsi a questo movimento. Filosofia e storia diventano l'antecedente della critica letteraria. L'opera d'arte non è considerata più come il prodotto arbitrario e subiettivo dell'ingegno nell'immutabilità delle regole e degli esempi ma come un prodotto più o meno inconscio dello spirito del mondo in un dato momento della sua esistenza. L'ingegno è l'espressione condensata e sublimata delle forze collettive il cui complesso costituisce l'individualità di una società o di un secolo. L'idea gli è data con esso il contenuto; la trova intorno a sè nella società dove è nato dove ha ricevuto la sua istruzione e la sua educazione. Vive della vita comune contemporanea salvo che di quella è in lui più sviluppata l'intelligenza e il sentimento. La sua forza è di unirvisi in ispirito e questa unione spirituale dello scrittore e della sua materia è lo stile. La materia o il contenuto non gli può dunque essere indifferente; anzi è ivi che dee cercare le sue ispirazioni e le sue regole. Mutato il punto di vista mutati i criteri. La letteratura del Rinascimento fu condannata come classica e convenzionale e l'uso della mitologia fu messo in ridicolo. Quegl'ideali tutti di un pezzo ch'erano decorati col nome di “classici” furono giudicati una contraffazione dell'ideale l'idea nella sua vuota astrazione non nelle sue condizioni storiche non nella varietà della sua esistenza. Cadde la rettorica con le sue vuote forme cadde la poetica con le sue regole meccaniche e arbitrarie rivenne su il vecchio motto di Goldoni: “Ritrarre dal vero non guastar la natura.” Il più vivo sentimento dell'ideale si accompagnò con la più paziente sollecitudine della verità storica. L'epopea cesse il luogo al romanzo la tragedia al dramma. E nella lirica brillarono in nuovi metri le ballate le romanze le fantasie e gl'inni. La naturalezza la semplicità la forza la profondità l'affetto furono qualità stimate assai più che ogni dignità ed eleganza come quelle che sono intimamente connesse col contenuto. Dante Shakespeare Calderon Ariosto reputati i più lontani dal classicismo divennero gli astri maggiori. Omero e la Bibbia i poemi primitivi e spontanei teologici o nazionali furono i prediletti. E spesso il rozzo cronista fu preferito all'elegante storico e il canto popolare alla poesia solenne. Il contenuto nella sua nativa integrità valse più che ogni artificiosa trasformazione di tempi posteriori. Furono sbanditi dalla storia tutti gli elementi fantastici e poetici tutte quelle pompe fattizie che l'imitazione classica vi aveva introdotto. E la poesia si accostò alla prosa imitò il linguaggio parlato e le forme popolari.

“Tutto questo fu detto “romanticismo” “letteratura de' popoli moderni”. La nuova parola fece fortuna. La reazione ci vedeva un ritorno del medio evo e delle idee religiose una condanna dell'aborrito Rinascimento soprattutto del più aborrito secolo decimottavo. I liberali non potendo pigliarsela co' governi se la pigliavano con Aristotele e co' classici e con la mitologia: piaceva essere almeno in letteratura rivoluzionario e ribelle alle regole. Il sistema era così vasto e vi si mescolavano idee e tendenze così diverse che ciascuno potea vederlo con la sua lente e pigliarvi ciò che gli era più comodo. I governi lasciavan fare contenti che le guerricciuole letterarie distraessero le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitù: battaglie in favore e contro la Crusca quistioni di lingua diverbii letterari che finivano talora in denunzie politiche. La Proposta e il Sermone all'Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo. L'Italia risonò di puristi e lassisti di classici e romantici. Il giornalismo mancata la materia politica vi cercò il suo alimento. Il centro più vivace di quei moti letterari era sempre Milano dove erano più vicini e più potenti gl'influssi francesi e germanici. Là s'inaugurava nel Caffè il secolo decimottavo. E là s'inaugurava ora nel Conciliatore il secolo decimonono. Manzoni ricordava Beccaria e i Verri e i Baretti del nuovo secolo si chiamavano Silvio Pellico Giovanni Berchet e gli ospiti di casa Manzoni Tommaso Grossi e Massimo d'Azeglio divenuto sposo di Giulia Manzoni e anello fra la Lombardia e il Piemonte dove sorgevano nello stesso giro d'idee Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti. La vecchia generazione s'intrecciava con la nuova. Vivevano ancora memorie del regno d'Italia Foscolo Monti Giovanni e Ippolito Pindemonte Pietro Giordani. Dirimpetto a Melchiorre Gioia vedevi Sismondi italiano di mente e di cuore; e mentre il vecchio Romagnosi scrivea la Scienza della Costituzione il giovane Antonio Rosmini pubblicava il trattato Della origine delle idee. Spuntavano Camillo Ugoni Felice Bellotti Andrea Maffei il traduttore di Klopstock e di Schiller. Dirimpetto a' poeti vedevi i critici dilettanti pure di poesia Giovanni Torti Ermes Visconti Giovanni De Cristoforis Samuele Biava. Nelle stesse file militavano Carlo Porta Niccolò Tommaseo i fratelli Cesare e Ignazio Cantù e Maroncelli e Confalonieri e altri minori.

Cosa volevano i romantici che levavano così alto la voce nel Conciliatore? Parlavano con audacia giovanile della vecchia generazione s'inchinavano appena al gran padre Alighieri vantavano gli scrittori stranieri soprattutto inglesi e tedeschi non volevano mitologia si beffavano delle tre unità e delle regole si curavano poco e non curvavano il capo che innanzi alla ragione. Era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura da uomini che in religione predicavano fede e autorità. I classici al contrario miscredenti e scettici nelle cose della religione erano qualificati superstiziosi in fatto di letteratura. Nè parea ragionevole che Aristotele detronizzato in filosofia dovesse in letteratura rimanere sul suo trono. La lotta fu viva tra il Conciliatore e la Biblioteca italiana a cui tenea bordone la Gazzetta di Milano. Vi si mescolavano ingenui e furfanti scrittori coscienziosi e mestieranti. E dopo molto contendere fra tante esagerazioni di offese e di difese si venne in tale confusione di giudizi che oggi stesso non si sa cosa era il romanticismo e in che si distingueva sostanzialmente dal classicismo. Molti sostenevano che il Monti era un ingegno romantico sotto apparenze classiche e altri che Manzoni con pretensioni romantiche era in verità un classico. Si cominciò a vedere chiaro quando fu posta da parte la parola “romanticismo” materia del litigio e si badò alla qualità della merce e non al suo nome. Al romanticismo importazione tedesca si sostituì a poco a poco un altro nome letteratura nazionale e moderna. E su questo convennero tutti romantici e classici. Il romanticismo rimase in Italia legato con le idee della prima origine germanica diffuse dagli Schlegel e da' Tieck in quella forma esagerata che prese in Francia capo Victor Hugo. Respingevano il paganesimo e riabilitavano il medio evo. Rifiutavano la mitologia classica e preconizzavano una mitologia nordica. Volevano la libertà dell'arte e negavano la libertà di coscienza. Rigettavano il plastico e il semplice dell'ideale classico e vi sostituivano il gotico il fantastico l'indefinito e il lugubre. Surrogavano il fattizio e il convenzionale dell'imitazione classica con imitazioni fattizie e convenzionali di peggior gusto. E per fastidio del bello classico idolatravano il brutto. Una superstizione cacciava l'altra. Ciò che era legittimo e naturale in Shakespeare e in Calderon diveniva strano grossolano artificiale in tanta distanza di tempi in tanta differenza di concepire e di sentire. Il romanticismo in questa sua esagerazione tedesca e francese non attecchì in Italia e giunse appena a scalfire la superficie. I pochi tentativi non valsero che a meglio accentuare la ripugnanza del genio italiano. E i romantici furono lieti quando poterono gittar via quel nome d'imprestito fonte di tanti equivoci e litigi e prendere un nome accettato da tutti. Anche in Germania il romanticismo fu presto attirato nelle alte regioni della filosofia e spogliatosi quelle forme fantastiche e quel contenuto reazionario riuscì sotto nome di “letteratura moderna” nell'ecletismo nella conciliazione di tutti gli elementi e di tutte le forme sotto i princìpi superiori dell'estetica o della filosofia dell'arte.

Pigliando il romanticismo in quel suo primo stadio quando si affermava come distinto anzi in contraddizione col secolo scorso e movea guerra ad Alfieri e proclamava una nuova riforma letteraria il suo torto fu di non accorgersi che esso era in sostanza non la contraddizione ma la conseguenza di quel secolo appunto contro il quale armeggiava. In Germania l'idea romantica sorse in opposizione all'imitazione francese così alla moda sotto il gran Federico. Era una esagerazione ma in quell'esagerazione si costituivano le prime basi di una letteratura nazionale dalla quale uscivano Schiller e Goethe. E fu lavoro del secolo decimottavo. Schiller fu contemporaneo di Alfieri. Quando l'idea romantica s'affacciò in Italia già in Germania era scaduta trasformatasi in un concetto dell'arte filosofico e universale. Goethe era già alla sua terza maniera a quel suo spiritualismo panteistico che produceva il Faust. Il romanticismo veniva dunque in Italia troppo tardi come fu poi dell'eghelismo. parve a noi un progresso ciò che in Germania la coltura aveva già oltrepassato e assorbito. La riforma letteraria in Italia tanto strombazzata non cominciava ma continuava. Essa era cominciata nel secolo scorso. Era appunto la nuova letteratura inaugurata da Goldoni e Parini al tempo stesso che in Germania si gittavano le fondamenta della coltura tedesca. La differenza era questa che la Germania reagiva contro l'imitazione francese e acquistava coscienza della sua autonomia intellettuale; dove l'Italia associandosi alla coltura europea reagiva contro la sua solitudine e la sua stagnazione intellettuale. L'Italia entrava nel grembo della coltura europea e vi prendea il suo posto cacciando via da sè una parte di sè il seicentismo l'Arcadia e l'accademia; la Germania al contrario iniziava la sua riforma intellettuale rimovendo da sè la coltura francese e riannodandosi alle sue tradizioni. L'influenza francese non fu che una breve deviazione nel movimento di continuità della vita tedesca movimento fortificato nella lotta d'indipendenza e che portò quel popolo nel secolo decimonono ad una chiara coscienza della sua autonomia nazionale e della sua superiorità intellettuale. Perciò la riforma tedesca procedette armonica e pacata con passaggi chiari con progresso rapido con intima consonanza in tutt'i rami dello scibile non ricevendo ma dando l'impulso alla coltura europea. Esclusiva ed esagerata nel principio sotto nome di “romanticismo” la sua coltura in breve tempo abbracciò tutti gli orizzonti e conciliò tutti gli elementi della storia in una vasta unità della quale rimane monumento colossale la Divina Commedia della coltura moderna il Faust. Ivi tutte le religioni e tutte le colture tutti gli elementi e tutte le forme si danno la mano e si riconoscono partecipi del redivivo Pane sottoposte alle stesse leggi spirito o natura espressioni di una sola idea già inconsapevoli e nemiche ora unificate dall'occhio ironico della coscienza. Indi quella suprema indifferenza verso le forme che fu detto lo “scetticismo” di Goethe ed era la serenità olimpica di una intelligenza superiore la tolleranza di tutte le differenze riconciliate e armonizzate nel mondo superiore della filosofia e dell'arte. Così il misticismo romantico si trasformava nell'idealismo panteistico l'idea cristiana nell'idea filosofica il Cristo del Vangelo nel Cristo di Strauss la teologia s'inabissava nella filosofia il domma e il dubbio si fondevano nella critica e il famoso “cogito” trovava il suo punto di arrivo e di fermata nella coscienza di sè come spirito del mondo morale e naturale: punto d'arrivo divenuto stagnante nel superficiale ecletismo francese.

Quando Manzoni tutto ancora pieno di Alfieri fu a Parigi ebbe le sue prime impressioni da quei circoli letterari che facevano opposizione all'Impero e dove abitava lo spirito di Châteaubriand e madama di Staël. Di là gli venne un riflesso della Germania e si diede alla storia di quella letteratura. Strinse relazioni con uomini illustri delle due grandi nazioni; Cousin lo chiamava il suo “amico” Fauriel e Goethe mettevano su il giovine poeta. Il suo orizzonte si allargò vide nuovi mondi e reagì contro la sua educazione letteraria contro le sue adorazioni giovanili contro Alfieri e Monti. A Milano caduto il regno d'Italia le nuove idee raccolsero intorno a sè i giovani e Manzoni divenne il capo della scuola romantica. Così mentre la Germania percorso il ciclo filosofico e ideale della sua coltura si travagliava intorno all'applicazione in tutte le sue scienze sociali o naturali in Italia si disputava ancora de' princìpi. Naturalmente nè Manzoni nè altri poteva assimilarsi tutto il movimento germanico lavoro di un secolo e non lo vedevano che nella sua parte iniziale e superficiale. Ammiravano Schiller Goethe Herder Kant Fichte Schelling ma conoscevano assai meglio i nostri filosofi e letterati e di quelli veniva loro come un'eco spesso per studi e giudizi di seconda mano spesso per intramessa di scrittori francesi. Rimasero essi dunque nella loro spontaneità ponendo le quistioni come le si ponevano in Italia con argomenti e metodi propri; e ne uscì un romanticismo locale puro di stravaganze ed esagerazioni forestiere accomodato allo stato della coltura timido nelle innovazioni e tenuto in freno dalle tradizioni letterarie e dal carattere nazionale. Un romanticismo così fatto non era che lo sviluppo della nuova letteratura sorta col Parini e rimaneva nelle sue forme e ne' suoi colori prettamente italiano.

In effetti i punti sostanziali di questo romanticismo concordano col movimento iniziato nel secolo scorso e non è maraviglia che la lotta continuata con tanto furore e con tanta confusione finì nella piena indifferenza del popolo italiano che riconosceva se stesso nelle due schiere. Volevano i romantici che l'Italia lasciasse i temi classici? E già n'era venuto il fastidio e avevi l'Ossian il Saul la Ricciarda il Bardo della selva nera. Volevano che i personaggi fossero presi dal vero? E che le forme fossero semplici e naturali? Ed ecco là Goldoni che predicava il medesimo. Spregiavano la vuota forma? E sotto questa bandiera avevano militato Parini Alfieri e Foscolo e appunto la risurrezione del contenuto la ristorazione della coscienza era il carattere della nuova letteratura. Cosa erano le tre unità e la mitologia pomo della discordia se non quistioni accessorie nella stessa famiglia? Fino un concetto del mondo meno assoluto e rigido umano e anco religioso intravedevi ne' Sepolcri di Foscolo e d'Ippolito Pindemonte. Adunque la scuola romantica se per il suo nome per le sue relazioni pe' suoi studi e per le sue impressioni si legava a tradizioni tedesche e a mode francesi rimase nel fondo scuola italiana per il suo accento le sue aspirazioni le sue forme i suoi motivi; anzi fu la stessa scuola del secolo andato che dopo le grandi illusioni e i grandi disinganni ritornava a' suoi princìpi alla naturalezza di Goldoni e alla temperanza di Parini. Erano di quella scuola più i romantici i quali avevano aria di combatterla che i classici suoi eredi di nome ma eredi degeneri appo i quali la sua vitalità si mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani. La scuola andava visibilmente declinando sotto il regno d'Italia e non avendo più novità di contenuto si girava in se stessa divenuta sotto nome di “purismo” un gioco di frasi intenta alla purità del Trecento e all'eleganza del Cinquecento. Ritornavano in voga i grammatici i linguisti e i retori; ripullulava sotto altro nome l'Arcadia e l'accademia. Così fu possibile la Storia americana di Carlo Botta uscita a Parigi quando appunto uscirono gl'Inni; e fu tal cosa che gli stessi accademici della Crusca si sentirono oltrepassati e domandavano che lingua era quella. Furono i romantici che insorgendo contro la scuola la rinsanguarono e in aria di nemici furono i suoi veri eredi. Essi le apersero nuovo contenuto e nuovo ideale le spogliarono la sua vernice classica e mitologica l'accostarono a forme semplici naturali popolari sincere libere da ogni involucro artificiale e convenzionale dalle esagerazioni rettoriche e accademiche dalle vecchie abitudini letterarie non ancor dome di cui vedi le orme anche tra gli sdegni di Alfieri e di Foscolo. Come sotto forma di reazione essi erano la stessa rivoluzione che moderandosi e disciplinandosi ripigliava le sue forze tirando anche Dio al progresso e alla democrazia; così sotto forma di opposizione essi erano la nuova letteratura di Goldoni e di Parini che si spogliava gli ultimi avanzi del vecchio acquistava una coscienza più chiara delle sue tendenze e lasciando gl'ideali rigidi e assoluti prendeva terra si accostava al reale.

Questo sentimento più vivo del reale era anche penetrato nel popolo italiano. Non era più il popolo accademico che batteva le mani in teatro alla Virginia e all'Aristodemo e applaudiva all'Italia ne' sonetti e nelle canzoni. Vide la libertà sotto tutte le sue forme nelle sue illusioni nelle sue promesse ne' suoi disinganni nelle sue esagerazioni. Il regno d'Italia la spedizione di Murat le promesse degli alleati la lotta d'indipendenza della Spagna e della Germania l'insorgere della Grecia e del Belgio aguzzavano il sentimento nazionale: l'unità d'Italia non era più un tema rettorico era uno scopo serio a cui si drizzavano le menti e le volontà. I più arditi e impazienti cospiravano nelle società secrete contro le quali si ordinavano anche secretamente i sanfedisti. Fatto vecchio era questo. Ma il fatto nuovo era che nella grande maggioranza della gente istrutta si andava formando una coscienza politica il senso del limite e del possibile: la rettorica e la declamazione non avea più presa sugli animi. La grandezza degli ostacoli rendea modesti i desidèri e tirava gli spiriti dalle astrazioni alla misura dello scopo e alla convenienza de' mezzi. La libertà trovava il suo limite nelle forme costituzionali e il sentimento nazionale nel concetto di una maggiore indipendenza verso gli stranieri. Una nuova parola venne su: non si disse più rivoluzione si disse “progresso”. E fu il maestoso cammino dell'idea nello spazio e nel tempo verso un miglioramento indefinito della specie morale e naturale. Il progresso divenne la fede la religione del secolo. Ed avea il suo lasciapassare perchè cacciava quella maledetta parola che era la “rivoluzione” e significava la naturale evoluzione della storia e condannava le violente mutazioni. Il progresso raccomandava pazienza a' popoli dimostrava compatibile ogni miglioramento con ogni forma di governo e si accordava con la filosofia cristiana che predicava fiducia in Dio preghiera e rassegnazione. Oltre a ciò “libertà” “rivoluzione” indicavano scopi immediati e non tollerabili ai governi dove progresso nel suo senso vago abbracciava ogni miglioramento e dava agio a' principi di acquistarsi lode a buon mercato promovendo non fosse altro miglioramenti speciali che parevano innocui com'erano le strade ferrate l'illuminazione a gas i telegrafi la libertà del commercio gli asili d'infanzia i congressi scientifici i comizi agrarii. A poco a poco i liberali tornarono là ond'erano partiti e non potendo vincere i governi li lusingarono sperarono riforme di principi anche del papa rifacevano i tempi di Tanucci di Leopoldo di Giuseppe e rifacevano anche un po' quell'arcadia. Certo una teoria del progresso che se ne rimetteva a Dio e all'Idea dovea condurre a un fatalismo musulmano e rendendo i popoli troppo facilmente appagabili potea sfibrare i caratteri trasformare il liberalismo in una nuova arcadia come temea Giuseppe Mazzini che vi contrapponeva la Giovine Italia. Pure i moti repressi del Ventuno e del Trentuno i vari tentativi mazziniani mal riusciti la politica del non intervento delle nazioni liberali la potenza riputata insuperabile dell'Austria la forza e la severità de' governi le fila spesso riannodate e spesso rotte disponevano gli animi ad uno studio più attento de' mezzi li piegavano a' compromessi fortificavano il senso politico rendevano impopolare la dottrina del “tutto o niente”. Lo stesso Mazzini ch'era all'avanguardia avea nel suo linguaggio e nelle sue formole quell'accento di misticismo e di vaporoso idealismo che era penetrato nella filosofia e nelle lettere e che lo chiariva uomo del secolo e mostravasi anche lui disposto a tener conto delle condizioni reali della pubblica opinione e a sacrificarvi una parte del suo ideale. Così rammorbidite le passioni confidenti nel progresso naturale delle cose e persuasi che anche sotto i cattivi governi si può promuovere la coltura e la pubblica educazione i più smessero l'azione diretta e si diedero agli studi: fiorirono le scienze si sviluppò il senso artistico e il genio della musica e del canto; la Taglioni e la Malibran la Rachel e la Ristori Rossini e Bellini le dispute scientifiche e letterarie i romanzi francesi e italiani occupavano nella vita quel posto che la politica lasciava vuoto. In breve spazio uscivano in luce il Carmagnola l'Adelchi e i Promessi sposi la Pia del Sestini; la Fuggitiva l'Ildegonda i Crociati e il Marco Visconti del Grossi la Francesca da Rimini del Pellico la Margherita Pusterla del Cantù l'Ettore Fieramosca e più tardi il Niccolò de' Lapi di Massimo d'Azeglio. Ultime venivano con più solenne impressione le Mie prigioni. Ciclo letterario che fu detto romantico un romanticismo italiano che facea vibrare le corde più soavi dell'uomo e del patriota con quella misura con quell'ideale internato nella storia con quella storia fremente d'intenzioni patriottiche con quella intimità malinconica di sentimento con quella finezza di analisi nella maggiore semplicità de' motivi che rivelava uno spirito venuto a maturità e ne' suoi ideali studioso del reale. Con tinte più crude e con intenzioni più ardite comparivano l'Arnaldo da Brescia e l'Assedio di Firenze.

Ciascuno sentiva sotto la scorza del medio evo palpitare le nostre aspirazioni: le minime allusioni le più lontane somiglianze erano còlte a volo da un pubblico che si sentiva uno con gli scrittori. Il romanticismo perdette la serietà del suo contenuto; la parola stessa usciva di moda. Il medio evo non fu più materia trattata con intenzioni storiche e positive. Fu l'involucro de' nostri ideali l'espressione abbastanza trasparente delle nostre speranze. Si sceglievano argomenti che meglio rappresentassero il pensiero o il sentimento pubblico come era la Lega lombarda trasformata in lotta italiana contro la Germania. Massimo d'Azeglio che segna il passaggio dalla maniera principalmente artistica de' romantici ad una rappresentazione più svelatamente politica volgeva in mente un terzo romanzo che dovea avere per materia la Lega lombarda. Il pittore arieggiava allo scrittore. Uscivano dal suo pennello la Sfida di Barletta il Brindisi di Francesco Ferruccio la Battaglia di Gavinana la Difesa di Nizza la Battaglia di Torino. Il medesimo era del misticismo. L'ispirazione artistica da cui erano usciti gl'Inni e il Cinque maggio e l'Ermengarda non fu più il quadro fu l'accessorio un semplice colore attaccaticcio sopra un fondo estraneo filosofico e politico. Vennero gl'inni alle scienze alle arti gl'inni di guerra. Rimasero madonne angioli santi e paradiso a quel medesimo modo che prima Pallade Venere e Cupido semplici ornamenti e macchine poetiche estranee all'intimo spirito della composizione o puramente arcadiche. Dove la poesia gitta via ogni involucro romantico e classico è ne' versi del Berchet. E non poco vi contribuì lord Byron vivuto lungo tempo in Venezia di cui si sentono i fieri accenti nell'Esule di Parga. Se Giovanni Berchet fosse rimasto in Italia probabilmente il suo genio sarebbe rimasto inviluppato nelle allusioni e nelle ombre del romanticismo. Ma esule portava a Londra i dolori e i furori della patria tradita e vinta. Fu l'accento della collera nazionale in una lirica che lasciate le generalità de' sonetti e delle canzoni s'innestò al dramma e colse la vita nelle più patetiche situazioni.

FINE

  1. CLASSIC LITERATURE
    EDMONDO DE AMICIS - Londra
  2. GRAZIA DELEDDA - Canne al vento
  3. FRANCESCO DE SANCTIS - Storia della letteratura italiana
    CLASSIC REFERENCE IN ENGLISH
  4. ELWES - Italian Grammar
  5. FERDINANDO ALTIERI - A New Italian Grammar (1736)
  6. J. MARCONI - A Key to the Italian Language and Conversation (1826)
  7. VERGANI - A New and Complete Italian Grammar (1828)
  8. JOSEPH BARETTI - English and Italian Dictionary (1832)
  9. GRAGLIA/OUISEAU - Pocket Italian Dictionary (1833)
  10. PIETRO BACHI - A Grammar of the Italian Language (1838)
  11. E. LEMMI - Key to Italian Grammar (1865)
    CLASSIC REFERENCE IN ITALIAN
  12. EGIDIO MENAGIO - Le origini della lingua italiana (1670)
  13. G.F. GALEANI NAPIONE - Dell'uso e dei pregi della lingua italiana (1791-1830)
  14. FRANCESCO CARDINALI - Dizionario portatile della lingua italiana - Tomo 2° (1828)
  15. NICOLÒ TOMMASEO - Nuovo dizionario de' sinonimi della lingua italiana (1830)
  16. ANGELO CERUTTI - Grammatica filosofica della lingua italiana (1831)
  17. OTTAVIO MAZZONI TOSELLI - Origine della lingua italiana (1831)
  18. GIUSEPPE GRASSI - Saggio intorno ai sinonimi della lingua italiana (1832)
  19. G.T. - Primi principii di grammatica italiana ad uso dei piccoli fanciulli (1833)
  20. CARLO ANT. VANZON - Grammatica ragionata della lingua italiana (1834)
  21. CARLO ANT. VANZON - Dizionario universale della lingua italiana - Tomo 5° P-Q - (1838)
  22. NICOLÒ TOMMASEO - Nuovo dizionario dei sinonimi della lingua italiana (1838)
  23. GIUSEPPE MANUZZI - Vocabolario della lingua italiana - Tomo secondo - Parte prima (1838)
  24. ALESSANDRO MANZONI - Sulla lingua italiana (1868)

 

 

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